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L’australiano

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Dal romanzo The Shout (L’urlo) di Robert Graves trasposto in italiano come L’australiano, Jerzy Skolimowski, il più inglese dei registi polacchi trae nel 1978 un film fedele eppur al tempo stesso distante dal romanzo originale.
Un film straordinario, in cui si fondono mirabilmente tutte le suggestioni di Graves attraverso un linguaggio meta cinematografico fatto di sogno e realtà, di incubo e straordinari paesaggi assolutamente solitari; questo e naturalmente molto altro è L’australiano, un’opera indimenticabile premiata giustamente con il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 1978.
Una storia dal fascino ambiguo a lungo in bilico tra il presente e il passato, con brevi incursioni proprio del presente, che assume contorni indefiniti sottolineato dalle avvolgenti musiche di Anthony Banks e Michael Rutherford come temi del film e dalla splendida musica elettronica di Rupert Hine, un dualismo anche musicale tra sogno e reale, rappresentato proprio dall’uso dell’elettronica, che è poi l’hobby ma anche la professione di uno dei protagonisti del film Anthony.

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Film che inizia con una sequenza di cui si capirà il senso solo dopo la conclusione del film stesso; una donna corre per un corridoio (quello dell’obitorio) e raggiunge una stanza nella quale ci sono tre cadaveri allineati.La donna scopre il volto dell’uomo del terzo letto mentre il titolo del film dissolve la scena introducendo il film.
Nella campagna inglese sorge una clinica psichiatrica;al suo interno è in svolgimento una gara di cricket tra i ricoverati nell’istituto e il personale dello stesso.
Qui uno dei ricoverati, considerato dal direttore uomo di grande intelligenza e capacità, racconta a Robert, segnapunti della partita una storia che ha come protagonista un altro paziente dell’istituto, Anthony, musicista di professione finito nella clinica dopo la fine del suo legame d’amore con la moglie.
Cambio di scena:
una coppia è contemporaneamente vittima di uno strano sogno, nel quale vedono un uomo correre fra le dune mentre loro sono stesi tranquilli in riva ad un lago.
Un giorno, mentre è appena uscito dalla chiesa, Anthony viene avvicinato da uno strano tipo, che dice di chiamarsi Crossley;l ‘uomo in qualche modo riesce a farsi invitare a pranzo da Anthony, che soggiogato dalla strana personalità di Crossley lo porta a casa facendogli conoscere la moglie Rachel.
La donna all’inizio sembra molto contrariata dalla presenza dell’ospite, ma ben presto anch’essa subisce la forte personalità di Crossley che durante il pranzo racconta frammenti della sua vita prima dell’arrivo nella cittadina.

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Ha vissuto per ben 18 anni tra gli aborigeni australiani, imparando da loro arti magiche ancestrali e sopratutto la capacità di emettere un urlo in grado di arrivare ad uccidere un essere umano.Racconta ai suoi sconcertati anfitrioni di essersi allontanato dalla comunità aborigena dopo aver ucciso i suoi figli, come previsto dalle leggi ancestrali aborigene.La misteriosa aura che avvolge l’uomo,il suo fascino esotico non mancano di sortire un effetto inaspettato su Rachel, che dapprima diffidente alla fine subisce il potente magnetismo che l’uomo emana.
Con atteggiamenti espliciti,la donna tenta di sedurre “l’australiano”, riuscendoci, ma mantenendo contemporaneamente un atteggiamento affettuoso verso il marito.Nel frattempo Crossley,che sembra aver preso il controllo della donna, mostra a Anthony le sue capacità straordinarie, portandolo in una zona desertica e mostrandogli tutta la potenza terrificante del suo urlo. Anthony resterebbe ucciso se prima prudentemente Crossley non gli avesse fatto mettere dei tappi a protezione delle orecchie.
La relazione tra Anthony e Rachel entra i crisi quando Crossley annuncia all’uomo che intende andare a letto con Rachel;esterrefatto chiede spiegazioni alla moglie che però si limita a confermare la cosa.
Sotto la minaccia di Crossley di ucciderlo con un urlo, Anthony fugge dalla casa.
Guidato dal sogno fatto con la moglie sulla spiaggia si reca nel deserto e disseppellisce una pietra con strani simboli ;in quel preciso istante Crossley, che era a letto con Rachel e che si era alzato sentendosi in pericolo, scopre di essere circondato dalla polizia, venuta ad arrestarlo per l’omicidio di un prete.
E’ in trappola e sta per emettere il suo urlo assassino ma proprio in quel momento Anthony spezza in due la pietra e Crossley si accascia al suolo.

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La scena ritorna al presente; l’uomo che sta narrando la storia a Robert, il giovane segnapunti altri non è che Crossley,ricoverato nella struttura.
Si scatena un temporale sul campo da cricket e…
Lascio volutamente in sospeso il finale per non rovinare la scoperta dello spettatore di cosa accade nei minuti finali.
Enigmatico e magico, l’Australiano è un film che richiede almeno due visioni per poter apprezzare certi passaggi della storia, alcuni dettagli che ad una prima visione frettolosa si trascurano per ovvi motivi.
Eppure anche un’altra visione lascia irrisolti alcuni aspetti del film, che vaga come una fiaba oscura tra magia, riti ancestrali e realtà, quella realtà che Crossley stravolge insinuandosi nella tranquilla vita borghese di Anthony e Rachel.
Questa è già una prima chiave di lettura del film, una delle tante; l’irruzione di Crossley, uomo misterioso e a contatto con gli intimi segreti della natura e in definitiva della vita simboleggia la dissoluzione dell’ordine borghese, quello su cui si fonda il matrimonio di Rachel ed Anthony, travolto dalla presenza fuori dagli schemi di un essere umano vissuto viceversa a intimo contatto con la natura, dalla quale ha carpito segreti e armonia, restandone però evidentemente sconvolto.
Un’altra chiave di lettura è intimamente legata alla professione di Anthony e alla caratteristica peculiare di Crossley, l’urlo capace di uccidere.

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Mentre Anthony passa il suo tempo a comporre musica elettronica, cercando di carpire i suoni all’ambiente che lo circonda, arrivando per esempio a mettere un’ape in un bicchiere per registrarne il ronzio, Crossley appare quasi padrone del suono, intimamente connesso alla sua natura.
Lo dimostra quando a tavola riesce a rompere un bicchiere solo facendolo vibrare.
Un suono “prodotto” quindi e un suono istintivo, naturale.
Ancora una contrapposizione frontale fra due modi di essere antitetici.
L’analisi dei significati del film potrebbe continuare per ore, perchè Jerzy Skolimowski si diverte a legare intimamente molti argomenti senza però estrinsecarli in maniera visibile e sopratutto comprensibile.
Ragion per cui buona parte del film risulta di difficile lettura, magicamente sospeso nel tempo, quasi una favola crudele sospesa all’interno di una favola nera in cui i personaggi appaiono guidati dall’istinto e dalla magia che sembra governare le loro vite.

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Il finale è in linea con il racconto, una chiusura circolare che riprende l’inizio esatto del film, quasi volesse eternare il momento, ripetendo sempre la stessa storia e non aggiungendo il benchè minimo indizio sulla sorte dei due coniugi, a cui crossley sconvolge la vita, determinando un loro distacco che assomiglia sinistramente al dissolversi di uno dei valori pregnanti della vita sociale, il matrimonio.
Grazie a location assolutamente selvagge e estraneanti,ai riferimenti oscuri all’arte e al suo potere distruttivo (cos’è il suono se non musica?), all’andare a ritroso e in avanti nel tempo del racconto con incursioni nell’onirico (i deserti, le selvagge bellezze naturali dell’Australia) il film resta sospeso in un limbo dal quale è tratto solo per la rappresentazione della commedia umana che i protagonisti vivono interamente, senza mediazioni.
Davvero in stato di grazia gli attori,con particolare menzione per Alan Bates e Susannah York, che sprizza una sensualità talmente fisica da rasentare l’oltraggio al pudore, pur non mostrando (il film) alcuna inclinazione all’erotismo.

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Uno splendido esempio di cinema, quindi.
Chiunque voglia visionarlo può seguire il link http://www.nazioneindiana.com/2014/11/23/cinedimanche-06-jerzy-skolimowski-l-australiano/, qui troverà una splendida riduzione in divx con colori naturali, che restituisce appieno la magia del film stesso.
Ricordo che con l’apposita estensione di Chrome è possibile fare il download del film stesso, che suggerisco caldamente per poter risentire alcuni dialoghi del film stesso.

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Un film di Jerzy Skolimowski. Con Susannah York, John Hurt, Tim Curry, Alan Bates, Robert Stephens, John Rees, Carol Drinkwater, Julian Hough, Nick Stringer Titolo originale The Shout. Drammatico, durata 87 min. – Gran Bretagna 1978.

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Regia Jerzy Skolimowski
Soggetto Robert Graves (racconto)
Sceneggiatura Michael Austin, Jerzy Skolimowski
Produttore Jeremy Thomas, Michael Austin (produttore associato)
Fotografia Mike Molloy
Montaggio Barrie Vince
Musiche Anthony Banks e Michael Rutherford, Rupert Hine
Scenografia Simon Holland
Trucco Wally Schneiderman

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Alan Bates: Charles Crossley
Susannah York: Rachel Fielding
John Hurt: Anthony Fielding
Robert Stephens: Direttore della clinica
Tim Curry: Robert Graves

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“La tua musica è nulla” Crossley a Anthony
“Riesce ad ascoltare e a tenere il conteggio allo stesso tempo?” Crossley a Robert
“Ho sempre trovato diffiicle immaginare che l’anima sia legata al corpo finchè non giunge la morte a liberarla.Lei non crede che in tempi di carestia spirutale l’anima possa trovare rifugio in un albero o in un sasso?” Crossley a Anthony
“L’uccisione dei propri figli nella società aborigena è l’unica morte naturale.Per loro ogni altra morte è il risultato di una violenza” Crossley

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L’opinione di Emanuele Sacchi dal sito http://www.mymovies.it
(…) Scrigno di significati quasi inespugnabile nel suo ermetismo, The Shout di Jerzy Skolimowski, noto in Italia come L’australiano, è uno dei capitoli più potenti della filmografia del regista polacco. Basato sul testo di Robert Graves, L’australiano è un’indagine nella natura primordiale dell’istinto, nel potere misterioso della carnalità più ancestrale; un regno dimenticato in cui la magia, oscura e terribile, esiste e in cui le posticce convenzioni sociali non hanno alcun significato. Come nel successivo L’ultima onda di Weir l’entroterra australiano è l’habitat ideale perché l’insondabile e l’inesprimibile abbiano luogo; per concretizzarsi nella potenza dell’Urlo, capace di trarre alimento da abissi di disperazione per vomitare la propria furia sulla natura circostante, annientando qualunque forma di vita. Dalla contrapposizione tra l’urlo dello sciamano Crossley e la ricerca sul suono, figlia di esperimenti e studi, effettuata da Anthony prende spunto la lettura più comune di un film chiuso a (facili) interpretazioni: la purezza dell’arte, libera dalle tagliole della società, che sovrasta con la sua potenza la ricerca della creatività attraverso test scientifici. L’artista-mostro, nella sua forma più incontaminata, è terrificante e onnipotente, tale da soggiogare le creature – Susannah York che diviene oggetto sessuale del dominus Crossley – piegandone le volontà. Ciò di cui è capace è qualcosa che non si cela in alcun libro, ma solo nei misteri del creato.
Nemmeno l’amore ha più significato, se non come unica forma di risposta possibile dell’uomo comune a una comunicazione che proviene da un altro livello di percezione rispetto a quello consueto. I colpi di scena e la vendetta di Anthony sono giocati attraverso meccanismi narrativi che possono apparire confusi, ma che rispecchiano la libertà di un linguaggio, assai vicino al free cinema inglese, legato alla sua epoca ma di indubbio fascino. Una visione impressionante e suggestiva, quella de L’australiano, a prescindere dagli anni trascorsi.

L’opinione di pzuzu dal sito http://www.filmtv.it

(…) Tutto ruota attorno a due individui palesemente antitetici, entrambi attratti dalle illimitate potenzialità del Suono, dalla sua origine e dai suoi effetti, ma spinti da interessi e scopi quantomai distanti tra loro: Charles ha messo a punto il suo urlo tonante ed assassino apprendendo una tecnica che gli permette di trasformare la rabbia e le pulsioni più recondite e violente in un estremo atto di furia animalesca, mentre Anthony genera musica campionando i rumori più disparati (il battito d’ali di un’ape chiusa in un barattolo di vetro, un contenitore di latta rotto strofinato dall’archetto di un violino) ed utilizzando un metronomo per dargli un ritmo, disciplinarli, normalizzarli.
Fantasia contro razionalità, istinto contro ragione, sono le architravi su cui monta la guerra psicologica che Charles Crossley muove al suo negativo, e trovano sublimazione nella scelta dell’autore di accogliere per sé la medesima sfida (e la medesima follia), producendo un crescendo di situazioni assurde ed affidando al piglio evocativo e delirante delle immagini fotografate da Mike Molloy, al gran lavoro sul sonoro di Alan Bell (unito al commento musicale atmosferico e spettrale di Anthony Banks e Michael Rutherford, rispettivamente organista e chitarrista dei Genesis), e ai sapienti incastri del montaggio di Barrie Vince, il compito di mescolare indizi e depistaggi oltre che di imporre un costante senso di minaccia incombente, creando un’opera sinceramente anarchica e orgogliosamente imperfetta, un’opera urgente ed eccessiva, che suggerisce metafore e pulsa cinema, un’opera irruenta passionale ed ambigua che sfida la logica, che al calcolo preferisce l’azzardo, e alle certezze l’immaginazione.

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Opinioni dal sito http://www.davinotti.com

Caesars

Bel film, sorretto da una sceneggiatura intelligente e da una buona prova di tutti gli interpreti. Jerzy Skolimowski è regista non molto conosciuto ma sicuramente di un certo valore. Girato con un ritmo molto lento il film ci porta, creando la giusta atmosfera di attesa, verso un finale creato con grande intelligenza. Una pellicola di difficile reperibilità che merita almeno una visione in quanto sicuramente mai banale.

Rebis

Oggetto ibrido e misterioso, il film di Skolimowski potrebbe trovare adozione nelle schiere del cinema surrealista così come tra le sperimentazioni più ardite del free cinema inglese, senza poi disdegnare la menzione nei più speciosi annali horror. Al suo centro, lo spalancarsi delle forze occulte – dette irrazionali – in un monotono menage di coppia, inseguendo un’idea del suono che trova nel mito omerico delle sirene la sua più ampia ed esatta esplicazione. L’innovazione stilistica è perlopiù affidata alla rappresentazione dei presagi. Non tanto coinvolgente quanto evocativo. Straniante.

Daniela

Uno straniero si introduce nella casa di un musicista, lo plagia, me seduce la moglie. Dice di essere vissuto per molti anni fra gli aborigeni australiani e di averne appreso le arti magiche, compresa la capacità di emettere un urlo dagli effetti letali… Racconto in flashback di un folle, lascia perplessi per certi ellissi narrative poco comprensibili, che ne fanno più un film-abbozzo che un’opera compiuta, ma riesce comunque ad affascinare per la suggestione panica dei paesaggi sabbiosi ed il magnetismo di Alan Bates, seducente come un cobra

Pigro

L’irruzione del sacro nella razionale routine quotidiana ha la forma di uno straniero che può uccidere con un urlo e che si insinua in un modesto ménage famigliare, travolgendolo. Viene da un luogo “mitico” e approda a un luogo-soglia: un villaggio sperduto affacciato su un deserto, in cui un uomo cataloga suoni. Strano film, visionario non nelle immagini (pure ricercate) ma nello spirito che lo anima e che inietta inquietudini paniche per un’altra realtà. Polanskiano senza ritmo: magico e folle, come la cornice manicomiale suggerisce.

Cotola

Interessante film che colpisce soprattutto per lo stile libero e imprevedibile, tipico del cinema degli anni Settanta. Skolimowski mostra, ancora una volta, di avere un talento visivo (si pensi alla splendida messa in scena della partita di cricket) e narrativo non comune, riuscendo a costruire una storia dai ritmi un po’ dilatati che, sebbene non perfettamente sorretta dalla sceneggiatura, avvince e affascina non poco lo spettatore.

L’opinione di Numenoreano dal sito http://www.filmscoop.it

Sullo sfondo di una partita di cricket giocata all’interno di un manicomio, un misterioso paziente racconta ad un ragazzo, ospite dell’istituto, una storia apparentemente inverosimile. Narra di Anthony, un topo da laboratorio che passa intere giornate a studiare-registrare-copiare qualsiasi tipo di suono, e di come si imbatta per caso in un misterioso viandante il quale ha appreso una singolare conoscenza dagli aborigeni dell’Australia. La conoscenza di un suono, più precisamente un urlo, che l’uomo comune non può sopportare. Pena la morte.
Il concetto di base è chiaro: la natura delle cose è inespugnabile per l’uomo comune. Le sue limitate capacità gli consentono solo di provare a studiare “scientificamente” gli echi di verità che gli arrivano un pò per intuito un pò per casualità, ma egli non può sopportare la reale grandezza degli elementi naturali. Può solo morire o diventare pazzo nel tentativo di sfidarli.
In questo modo “l’urlo terrifico”, magico potere di morte del viandante Crowsley, dà corpo all’inespugnabile, alla verità. Al concetto romantico del sublime. Secondo cui la natura, nei suoi aspetti più terrificanti, produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire, ma anche la consapevolezza della distanza insuperabile che separa il soggetto dall’oggetto. La curiosità unitamente all’arroganza possono portare un uomo come Anthony a pensare, per esperienza presunta, di conoscere la natura delle cose (in questo caso il suono). Ma, a quanto pare, solo chi ha un rapporto più diretto con la natura (gli aborigeni, e Crowsley) può aspirare ad afferrarne i suoi segreti.
Il racconto prende vita come un vortice di suoni atti a scandire e spesso enfatizzare degli episodi raccontati con un vago piglio ermetico, magico, nero. Jerzy Skolimowski non segue uno schema fisso nella narrazione, non offre nessun appiglio sicuro allo spettatore. E lo fa per trasmettergli quello stesso senso di impotenza che è proprio del malcapitato Anthony, solo ed inerme davanti all’ignoto.
Un film potente e coraggioso in tutte le sue parti: storia, colonna sonora, fotografia.

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gennaio 16, 2015 Pubblicato da: | Drammatico | , , , , | 2 commenti

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I grandi successi di cassetta ( e di critica) di Mash (1970) e di I compari (1971) permettono a Robert Altman nel 1972 di dirigere Images, film assolutamente anticonvenzionale e decisamente poco appetibile dal grande pubblico ma fortemente voluto dal regista di Kansas City, da sempre interessato a viaggi introspettivi bei meandri della psiche umana.
Images è infatti questo, una lunga ed affascinante esplorazione della mente umana, simbolicamente rappresentata da quella di Cathryn, protagonista del film stesso.
Un viaggio attraverso il delirio di una mente che sembra un labirinto inesplorato di emozioni e passioni, di sensi di colpa e frustrazioni, votata all’autodistruzione perchè malata nelle sue più intime fibre.

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Altman mette in scena la malattia ma anche l’intimo; il tentativo, difficilissimo, perchè alterati e alteranti sono gli stati d’animo e mentali della protagonista, è quello di sondare l’insondabile, la psiche umana, giungla inesplorata di passioni torbide e primitive, spesso contraddittorie e inesplicabili.
L’esplorazione di Altman ci conduce attraverso la schizofrenica esistenza di Cathryn, bella e giovane donna che decide di trasferirsi con suo marito in un posto meno ossessionante della città per cercare di porre un freno alle continue visioni e agli incubi che sembrano essere diventati la parte predominante della sua esistenza.
Cathryn è convinta di alcune cose, che in realtà esistono solo ad un livello inconscio ma che alla donna appaiono terribilmente reali e cioè che il marito la tradisca, che una donna misteriosa la perseguiti attraverso telefonate che le rivelano le (presunte) scappatelle del marito.

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Nella casa di campagna in cui va a vivere con Hugh, suo marito, l’illusione di essersi lasciata alle spalle i problemi è effimera, perchè la mente e l’animo malati di Cathryn devono fare i conti con un oscuro passato, con tutte le frustrazioni che la donna ha accumulato e che appaiono a tratti non solo inspiegabili, ma anche inesistenti.
Il labirintico mondo in cui la mente di Cathryn si dibatte, alla ricerca di un impossibile equilibrio finisce per dissociare completamente la donna, che crede di essere visitata da due uomini e da una ragazzina che dovrebbe essere la figlia di uno dei due.
Una pia illusione o se vogliamo un sogno che confina sinistramente con un incubo, dalla quale la donna uscirà distrutta e con la psiche a pezzi, perchè l’irreale, l’onirico e le proiezioni mentali finiscono inesorabilmente per sostituirsi alla realtà, distruggendo la sua identità.

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Altman segue questo percorso illustrandolo come un incubo reale, attraverso immagini frammentate come una miriade di pezzi di vetro sparsi su un pavimento immaginario.
I prismi di vetro infatti riflettono miriadi di pensieri e la mente dissociata di Cathryn diventa assolutamente impenetrabile e incomprensibile: qua e la affiorano pezzi che sembrano rivelatori ma la verità alla fine qual’è?
Il viaggio in soggettiva in cui lo spettatore viene immerso porta lo stesso ad un’esplorazione fantastica e allo stesso tempo orrorifica dei pensieri diseguali e distorti della protagonista, lasciandogli ampia libertà di scelta sulle motivazioni o sulle spiegazioni dei gesti e dei pensieri frammentati della donna.E’ lo spettatore a scegliere l’immagine che più lo disturba o semplicemente che più lo affascina di quel mondo spaventoso in cui vive Cathryn.
Altman è stato, nel corso della sua carriera, il meno hollywoodiano e al tempo stesso il più europeo dei cineasti degli states; forse un paragone lato puà essere tentato con l’opera di Bergman, che però è meno frammentaria e più rigorosa.

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Tuttavia questo Images è opera profonda e enigmatica, un’opera per immagini, come del resto dice esplicitamente il titolo.
Susannah York, bellissima e inquietante, interpreta praticamente da sola tutto il film, lasciando ampio spazio alla visionarietà del suo personaggio, conducendo per mano lo spettatore attraverso la sua follia sinistra e assoluta con una rigorosità di espressione assolutamente spettacolare.
Non a caso il Festival di Cannes apprezzò a tal punto la sua interpretazione da dargli la palma d’oro come miglior interprete femminile.

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Il resto dello scarno cast fa assolutamente da contorno e serve solo come proiezione visiva di quelli che sono i fantasmi della mente di Cathryn; è proprio Susanna h York a fornire il soggetto al film con il suo In Search of Unicorns.
Un film affascinante, come del resto gran parte delle opere del compianto Altman, che purtroppo è di difficilissima reperibilità in lingua italiana e che praticamente non passa mai in tv.

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Un film di Robert Altman. Con Susannah York, Marcel Bozzuffi, René Auberjonois, Hugh Millais Drammatico, durata 101′ min. – USA, Gran Bretagna 1972

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Susannah York: Cathryn
Rene Auberjonois: Bob
Marcel Bozzuffi: René
Hugh Millais: Marcel
Cathryn Harrison: Susannah
John Morley: Vecchio

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Regia Robert Altman
Soggetto In Search of Unicorns di Susannah York
Sceneggiatura Robert Altman
Fotografia Vilmos Zsigmond
Montaggio Graeme Clifford
Musiche John Williams
Scenografia Leon Ericksen

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Rita Savagnone: Cathryn
Pino Locchi: Bob
Ferruccio Amendola: Marcel
Gianni Marzocchi: René
Emanuela Rossi: Susannah

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L’opinione di fabio 1971 dal sito http://www.filmtv.it

Cathryn (Susannah York), bella, giovane e benestante, è sposata con Hugh (Rene Auberjonois, che il doppiaggio italiano trasforma inspiegabilmente in Bob): esaurita e schizofrenica, è convinta di essere perseguitata dalle telefonate di una donna (inesistente) che le rivela le infedeltà, anch’esse immaginarie, di Hugh. Afflitta da continui incubi e visioni, si trasferisce insieme al marito nella casa di famiglia in campagna per cercare un’oasi di pace in cui provare a rilassarsi. Tentativo vano, perchè anche nella quiete del cottage i fantasmi del passato (e del presente), frutto delle sue frustrazioni e dei suoi sensi di colpa, continuano a tormentarla. Una delle opere più sperimentali e atipiche nella filmografia di Robert Altman, claustrofobico ritratto del lento ed inesorabile disfacimento di una mente malata, acuto ed incisivo (pur negli eccessi di un’impostazione magari troppo schematica) nel tradurre visivamente gli umori più dolenti di cui quella stessa mente si nutre e da cui è, allo stesso tempo, divorata. Images coincide con la “quest” della mitologia anglosassone, in questo caso la ricerca, disperata, di una purificazione interiore che liberi l’esistenza umana dalle scorie di ogni pulsione autodistruttiva: non a caso Susannah York legge (e scrive: il libro verrà pubblicato nel 1973, l’anno successivo all’uscita di Images) sin dall’incipit del film le pagine del suo romanzo per bambini In Search of Unicorns: la sua voce fuori campo ne proseguirà la lettura/scrittura durante il film, scandendo le evoluzioni del racconto in uno straniante e fiabesco contrappasso drammaturgico. La narrazione si snoda onirica e sinuosa tra simbolismi ed atmosfere angoscianti: la mente di Cathryn è un prisma luccicante e malsano da cui si riflettono/rifraggono immagini che di volta in volta (ci) appaiono come realtà, sogni, incubi, visioni, fantasmi. Altman gioca con la verità e la finzione del mezzo cinematografico partendo dall’assunto che l’immagine mente perchè è un’immagine della mente (“Ma guarda, ma guarda, ma guarda… il fantasma sanguina”…), rinforzando il concetto con una regia stilisticamente rigorosa, dalla presenza quasi impercettibile proprio per non appesantire la virulenza affabulatoria del testo. La raffinatezza della scrittura è, quindi, lo strumento con cui Altman sceglie di tradurre sullo schermo le sue riflessioni sulla natura delle immagini (e sulla loro manipolazione) e medita sul ruolo dell’obiettivo della macchina da presa nel cinema del suo tempo evidenziandone la complicità quasi criminale con quella mente umana che gli ordina dove guardare (le immagini ossessivamente riflesse da vetri e specchi). Images è un mistero, quindi un gioco, si diceva, sviluppato nelle forme coinvolgenti del thriller psicologico e con una struttura narrativa interamente risucchiata nei vortici della visionarietà della vicenda e nella traduzione in immagini dell’analisi psicologica: per la sua complessa scansione e decifrabilità del racconto è un film affascinante e ispirato nel suo flemmatico incedere tra le ragnatele di deliri di una mente malata, tasselli di un gelido mosaico sinaptico ricomposto con drammatica evidenza solo nelle ultime, chiarificatrici sequenze. Cast impeccabile, con in testa una straordinaria Susannah York (premiata come miglior attrice al Festival di Cannes), ambientazione suggestiva (con gli esterni girati in Irlanda), splendida colonna sonora di John Williams (a cui si affiancano le magie del percussionista Stomu Yamashta), fotografia da urlo (Vilmos Zsigmond), montaggio del futuro regista Graeme Clifford (Frances).

L’opinione di caesars dal sito http://www.davinotti. com

Chi conosce i film di Robert Altman fatti di situazione corali, con tanti personaggi che interagiscono tra loro, rimmarrà sicuramente spiazzato da questo “Images”. Tratto da un racconto della stessa Susannah York, è ambientato in una villa di campagna dove la protagonista, che ha trascorso lì parte dell’infanzia, torna col marito; si scontrerà con i fantasmi del suo passato. Ritmo lentissimo che potrebbe scontentare molti, ma che non inficia assolutamente la riuscita del film, anzi! Bellissimo.

L’opinione di Buiomega dal sito http://www.davinotti.com

Capolavoro assoluto nella filmografia dell’immenso Altman e secondo di una trilogia “psicologica femminile” aperta con Quel freddo giorno nel parco e chiusa con Tre donne. La York è straordinaria nel calarsi nella psicologia di una donna mentalmente instabile, che confonde realtà con l’immaginazione, sprofondando sempre più nel baratro della schizofrenia. Grande atmosfera data dall’opprimente campagna inglese, da oscar la fotografia di Vilmos Zsigmond e un senso di disagio che rimane anche dopo la visione. Capolavoro!
L’opinione di kowalski dal sito http://www.filmscoop.it

Può essere credibile Altman alle prese con temi prettamente Bergmaniani?
“Images”, quasi un’excursus horror nella filmografia del regista, non è certo un film completamente riuscito, a tratti è schematico, frammentario, pretenzioso ma riveste una certa importanza: è difatti il primo segno rivelatore di quella breve e controversa svolta psicanalitica che porterà alla maturità degli intenti con “tre donne”, uno dei migliori del regista.
La trama, che sembra uscita da un romanzo di Amado, in realtà è compressa tutta nel personaggio di Cathryin, e dalla splendida prestazione di Susannah York, un’attrice che ho davvero molto amato (stendiamo un velo sulle sue apparizioni più recenti).
Un film inedito per l’Altman di allora (non lo erano forse, a modo loro, anche “Quel freddo giorno nel parco” e “Anche gli uccelli uccidono”, in qualche modo combinati con i temi della psicanalisi?) ma interessante per comprendere i diversi percorsi della sua carriera.
Sono altrettanto d’accordo che questo tipo di film ambissero a una dimensione “europea” sia nei riconoscimenti di un pubblico meno tradizionalista sia nell’approccio stilistico: una deriva non indolore, credo, ma non per nulla il nome di Bergman e delle sue tematiche ha in qualche modo affascinato tanti altri cineasti americani

l’opinione del sito slowfilm.wordpress.com

In Images, come per 3 Women, la protagonista è una donna, in un film angosciante nella sua descrizione della follia, espressionista nelle sue rappresentazioni distorte, portandoci nelle visioni ambigue ed incerte di Susannah York. L’Altman di Images è un Hitchcock sotto mescalina, quindi anche Polanski in forma o un Lynch al suo stato naturale, fresco di meditazione trascendentale. Insomma un Altman cattivo, che utilizza tutti i suoi trucchi per rendere il film costantemente disturbante.
Entriamo immediatamente nelle turbe psichiche della protagonista, immersa in toni gialli o seppia, ripresa in inquadrature sbilenche. La York corre verso la follia in un crescendo lungo quanto il film; riesce, all’interno di uno stesso pianosequenza, a cambiare più volte espressione e volto, mettendo realmente a disagio lo spettatore. Oltre alla bravura dell’attrice, il regista non lesina coi colpi al limite del legale, e così ci perdiamo negli specchi, in una colonna sonora che integra effetti vocali, in isolate case hopperiane al contempo protette e minacciate dalla natura. Ogni personaggio ha una definizione incerta, così come ogni inquadratura, dove valore e contenuto vengono continuamente rovesciati (…)

 

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marzo 16, 2014 Pubblicato da: | Drammatico | , | Lascia un commento

L’assassinio di Sister George

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Sister George è un volto popolare della televisione: è un’infermiera bonaria e amorosa verso i suoi pazienti, a tal punto da essere uno dei personaggi più amati del serial tv in cui appare.
Ad interpretare il personaggio è June Buckridge, una donna ormai in la con gli anni, che al contrario del personaggio interpretato ha un carattere difficile.
E’ ormai un’alcolizzata, una donna nevrotica che ha anche una sessualità poco ortodossa; ha infatti come amante la bella Childie, una ragazza dal carattere docile e remissivo, che colleziona bambole e che vive con lei.
Le frustrazioni che la donna ha nella vita e in parte sullo schermo June le trasmette alla giovane amante, che subisce tutto forse per amore o forse perchè il legame simbiotico con June è ormai così forte da averne annullato la personalità.
June però inizia a rendersi conto che la produzione dello sceneggiato le riserva ruoli sempre più risicati, probabilmente perchè ha un carattere che ormai crea problemi e imbarazzi alla troupe, un po anche per quel suo essere scandalosamente, sessualmente lesbica.

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I problemi di June si moltiplicano e quando la donna mette in palese imbarazzo due suore e di conseguenza lo staff della produzione, la vicenda personale di June degenera.
Mercy Croft,inviata dalla produzione, sembra essere interessata alla vicenda personale di June; è solo apparenza, perchè Mercy deve annunciare alla donna la decisione presa dalla produzione stessa, ovvero l’eliminazione del personaggio di Sister George dallo sceneggiato.
Non solo: Mercy tenta di sedurre, con successo, la debole Childie.
Il personaggio di george muore definitivamente e per June si prospetta un fturo desolante, prestare la propria voce al doppiaggio di Clarabella, la mucca personaggio della Disney.
Cattivo, pessimista e al tempo stesso spietato atto d’accusa dei meccanismi della tv,L’assassinio di Sister George (The killing of Sister George) è un film diretto nel 1968 da Robert Aldrich, l’anno dopo il bellico Quella sporca dozzina che lo aveva portato a sbancare i botteghini.

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L’assassinio di Sister George gioca le sue carte su un doppio binario, legandosi alla figura di Sister George a doppio filo: il primo è uno sguardo impietoso alle regole della tv, al mondo ipocrita e spietato che si muove dietro le quinte della sorella minore del cinema senza per questo distaccarsi dalle meschinità e dalle invidie che si nascondono dietro la patina di rispettabilità del mondo della celluloide.
L’altro è legato indissolubilmente alla sessualità della protagonista, esplicitamente lesbica in un periodo storico, quello della fine degli anni sessanta nel quale l’omosessualità era ancora un tabù invincibile.
Aldrich caratterizza, volutamente, in maniera eccessiva il personaggio di June:iraconda, alcolizzata, instabile, la donna appare però viva e vitale, pur in tutte le sue debolezze, in aperto e netto distacco con gli altri personaggi, tutti mossi da sentimenti meschini.
L’establishment è quello, immutabile e immutato, tutti sono apparentemente posati e privi di emozioni pulsanti, tutti indistintamente agiscono in base al proprio tornaconto.

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Mercy e Childie, le due protagoniste principali dietro l’irascibile George-June sono mosse da diverse pulsioni: Mercy deve apparentemente recuperare alla produzione il personaggio dell’infermiera tranquilla e rassicurante di George, ma in realtà persegue uno scopo preciso, ovvero la seduzione di Childie.
Che è a sua volta personaggio fragile e privo di identità precisa.
La ragazza alla fine infatti segue la sua nuova amante docilmente, abbandonando quella June che ormai non è più un personaggio di primo piano e che inoltre appare ormai alla deriva, preda dei suoi vizi e delle sue debolezze.
E’ un raffronto impossibile, quello che fa Aldrich: così ricorre a mezzi scorretti e sleali.delineando in bianco e nero le figure dei protagonisti.
Non ci sono buoni, ci sono i cattivi che però sono mimetizzati e celati dietro un manto di rispettabilità, di perbenismo che ce li rende ancor più odiosi.
E’ questo il vero volto dello spettacolo?
Probabilmente si.
Per chi non è addentro alle cose dello show business si tratta solo di prendere o lasciare, accettare la descrizione al vetriolo di Aldrich o al massimo gustarsi il film e accantonarlo pensando alle solite esagerazioni.
Ma il sasso nello stagno Aldrich lo lancia e si può dire che colga nel segno.
Per quanto riguarda il cast, i personaggi più importanti sono esclusivamente femminili e quelli maschili sono essenzialmente di contorno:spazio quindi a tre figure (June Buckridge,Mercy Croft e Childie) perfettamente delineati, in ombre e sfumature.

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Beryl Reid è grandissima nel ruolo di June, donna tormentata, eccessiva ma al tempo stesso vera,reale.
Coral Browne è Mercy Croft viscida quanto serve, donna aggressiva sessualmente, che vuole Childie e la ottiene.
Susannah York è Childie fragile,infantile e sottomessa a June, ma al omento buono la tradisce anche lei.
Tre donne, tre profili completamente diversi: la più collerica però alla fine è anche quella che è più vicina ad un doloroso reale, un’esistenza problematica ma viva.
Bel film davvero, questo L’assassinio di Sister George.
Ed è un vero peccato che sia assolutamente introvabile in una versione decente in italiano.

L’assassinio di Sister George

Un film di Robert Aldrich. Con Susannah York, Beryl Reid, Coral Browne, Patricia Medina Titolo originale The Killing of Sister George. Drammatico, durata 138′ min. – USA 1968.

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The Killing Of Sister George banner protagonisti

Beryl Reid: June ‘George’ Buckridge
Susannah York: Alice ‘Childie’ McNaught
Coral Browne: Mercy Croft
Ronald Fraser: Leo Lockhart
Patricia Medina: Betty Thaxter
Hugh Paddick: Freddie

The Killing Of Sister George banner cast

Regia Robert Aldrich
Soggetto Frank Marcus
Sceneggiatura Lukas Heller
Produttore Robert Aldrich
Walter Blake (associato)
Casa di produzione Palomar Pictures / Associates & Aldrich Company
Fotografia Joseph F. Biroc
Montaggio Michael Luciano
Musiche Gerald Fried
Scenografia William Glasgow,John Brown
Costumi Renié Marie Osborne

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The Killing Of Sister George banner recensioni

L’opinione di Bradipo68 dal sito http://www.filmtv.it

Pur essendo avvezzo allo stile disturbante di Aldrich devo ammettere che questo film mi ha impressionato per la sua cattiveria e sgradevolezza.A me piace definirlo un noir dei sentimenti in cui il vero assassinio non è quello di una figurina televisiva edulcorata per ragioni di audience.Il vero assassinio è quello della persona disturbata e insicura che c’è dietro la Sister George del titolo.In realtà Aldrich parla di omosessualità al femminile senza metafore e lo fa usando il marciume del mondo televisivo come sfondo di una generale ridefinizione di valori.Non importa chi sia omosessuale o chi non lo sia,ma la lente di Aldrich ci inquadra un mondo alla deriva e non è certo per colpa di una coppia di lesbiche.In questo film emerge prepotente la figura della protagonista,che si fa chiamare George anche in privato:una donna un po’in là con gli anni e col vizio di alzare il gomito,gelosa all’eccesso di Childie la sua compagna che più che altro sembra solo sua succube.Il suo mondo crolla quando il suo personaggio è fatto morire per esigenza di scena:la sua psiche ne è sconvolta fatalmente,la sua reazione è scomposta,l’unico lavoro che le viene proposto è quello di fare la voce di un animale in una serie televsiva per bambini e da qui,dopo l’assassinio di Sister George,c’è il collasso totale.Lei che si dimostra l’unica persona vera in un universo dominato da comparse ipocrite e da figurine di cartone finalmente si accorge di aver vissuto per vari anni in un’imitazione di mondo in cui tutto è illusorio,anche la bara utilizzata per il funerale di Sister George.Ma quel poco di concreto che c’è in quell’ambiente(la potente Mercy Croft),le sottrae l’intimità domestica,le sottrae Childie,probabilmente l’unica ragione di proseguire dopo la morte televisiva di Sister George.Morte che arriva per il comportamento non adamantino dell’attrice ma soprattutto per il suo essere lesbica senza alcun bisogno di nascondere la propria sessualità.E per questo viene punita.Aldrich ci regala un ritratto impietoso del glamourama televisivo,culla di immoralità e di sotterfugi.Ma l’unica che viene punita per quello che è e non per come appare è George,l’unica persona vera in un mausoleo di statue di cera.Eccellente la prova di Beryl Reid attrice a me praticamente sconosciuta ma che si produce in una performance entusiasmante.
L’opinione di Maria Silvia Avanzato dal sito http://www.orizzontidigloria.com
(…) Questo è un film di ribaltamento e asfissia. Da un lato c’è la protagonista con i suoi eccessi e l’incapacità di nascondersi, con la scomoda e dichiarata omosessualità, con il sadico ma commovente legame verso una ragazza tanto più giovane. Dall’altro c’è la scintillante indoratura della Tv, dove ognuno colloca in ombra le proprie perversioni, risultando lineare e rispettabile nella vita di tutti i giorni. Gli affetti di June sono sassolini colorati destinati a scivolarle fra le dita: ama una giovane bambola assai meno svampita di quanto sembri, non ha amici eccettuata la prostituta della porta accanto. Tutti, intorno a June, vogliono uccidere Sister George e June stessa, punendola per la sua sfrontata spontaneità, per i suoi vizi, per le sue scelte alla luce del sole. La BBC è il grande maestro di cerimonia, che insabbia colpe e ridimensiona carriere con una netta cesura di forbice, da un giorno all’altro.
C’è poi una sfavillante panoramica sul Gateways Club (locale gay dell’epoca ripreso nella sua realtà, scelta che diede luogo a sfrenate polemiche), sui bar sempre aperti dove è facile trovare quel rinfrancante whisky della sera, sulla televisione come rifugio ultimo per le vecchie glorie del teatro. La sessualità emerge in questo film con un crudo contorno di dettagli, senza mezze misure.
June è rancorosa e maldestra, ribelle, lesbica e incapace di edulcorare la sua natura: per questo viene ingiustamente punita e diventa la trottola senza riposo che vaga sul set della falsità e della finzione altrui.
Dove vanno a morire le stelle?
Per Robert Aldrich, muoiono là dove gli altri decidono di dimenticarle.(…)

L’opinione di Lospaccone dal sito http://www.filmscoop.it
Aldrich già in altri film (“Baby Jane” e “Dolce Carlotta”) aveva dimostrato il suo interesse per storie che esplorassero le zone più oscure dell’universo femminile. In questo caso si spinge ancora oltre portando sul grande schermo un dramma che intreccia il tema dell’omosessualità femminile ad una satira degli ambienti televisivi. E lo fa in un modo terribilmente reale e crudo, brutale per certi versi, non risparmiando momenti di morbosità sorprendenti se si considera l’anno in cui il film uscì. La protagonista è una signora ormai avanti con gli anni che, a dispetto del personaggio gentile e misurato (una suora) che interpreta in una serie tv di successo, nella vita reale è una persona sgradevole, sguaiata, che non evita di spiattellare in faccia a tutti la sua condizione di lesbica alcolizzata. Questo non gli viene perdonato dal mondo in cui lavora (quello televisivo) il quale pur nutrendosi della finzione della recitazione e dello spettacolo, esige, per motivi etici o professionali, il conformismo dei comportamenti e delle idee. L’assassinio di Sister George va interpretato metaforicamente come l’emarginazione di chi osa non nascondere una condizione personale non accettata collettivamente. Gli ultimi minuti del film sono secondo me i migliori.

L’opinione del Morandini

Sister George è un personaggio d’infermiera che un’attrice di mezza età, abbrutita dall’alcol e lesbica, interpreta da anni in un serial TV della BBC, ma i dirigenti pensano di “eliminarlo”: l’assassinio è metaforico. Forse il film più sgradevole di Aldrich, un’altra impietosa variazione sul mondo dello spettacolo, rappresentato come una realtà corrotta e squallida, con risvolti espliciti nella patetica e grottesca descrizione dei rapporti tra B. Reid e S. York, sua succuba. “Mai rivolta contro l’establishment era stata più angosciosa e impotente, sterile nella sua inerzia” (C. Salizzato). Un finale tremendo nella sua regressione allo stato animale. Girato in Inghilterra.

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gennaio 30, 2014 Pubblicato da: | Drammatico | , , | 5 commenti