Virilità
Vito La Casella, maturo industriale siciliano ha sposato in seconde nozze la sua bella e giovane segretaria Cettina; dal suo primo matrimonio, finito con un divorzio, Don Vito ha avuto un figlio, Roberto, che per tre anni ha studiato a Londra.
Il giovane torna in paese con due amici, accolto con soddisfazione da suo padre, che però ben presto dovrà fare i conti con le voci che vogliono suo figlio gay.
A causare il tutto è proprio Don Vito, che tenta inutilmente di combinare un matrimonio tra Roberto e Lucia, figlia del farmacista del paese; al rifuto del ragazzo di convolare a nozze con la ragazza, la stessa si vendica mettendo in giro voci sulla virilità di Roberto.
Agostina Belli
Nel frattempo però è nato un tenero sentimento d’amore tra Cettina e Roberto; i due conducono la loro relazione in maniera clandestina ma alla fine Don Vito scopre i due.
Se da un lato l’uomo si sente tradito dalla moglie, dall’altro è felice di aver scoperto che Roberto non è gay; ed è questo sentimento a predominare.
Così la relazione dei due diventa pubblica con buona pace di Don Vito, che vede ristabilito l’onore del suo nome.
Da un soggetto di Gian Paolo Callegari il regista bolognese Paolo Cavara sfrutta la sceneggiatura dello stesso Callegari stesa a due mani con Giovanni Simonelli per dirigere un film ben strutturato e lontano dagli stereotipi della commedia sexy.
Virilità è infatti un film inquadrabile principalmente nella commedia all’italiana, con velleità ben riposte di satira di costume; Cavara evita l’effetto macchietta e sopratutto evita di caratterizzare i personaggi in maniera eccessiva, lasciando allo spettatore un prodotto ben calibrato, con un’ironia di fondo che quà e là affiora senza però mai essere sarcastica.
Se è vero che il soggetto del siciliano geloso del suo onore e della sua virilità è uno dei più usati nel cinema del passato, è anche vero che questa volta siamo di fronte ad un film che con leggerezza ma anche con convinzione, mostra come i sentimenti predominanti del protagonista assoluto, il dongiovanni Vito La Casella alla fine vengono messi in un angolo in nome dell’onore.
L’uomo infatti rinuncerà alla sua felicità non tanto per favorire i sentimenti del figlio quanto piuttosto per mostrare alla gente come suo figlio non sia un “Purpo”, il triste aggettivo che indica l’omosessualità maschile ma viceversa un uomo vero, che ama le donne e che insidia addirittura la matrigna.
Siamo a meta quasi degli anni settanta, poco prima del referendum sul divorzio che avrebbe di fatto portato l’Italia nella modernità; nelle parole finali di Vito La Casella c’è anche il rammarico per essersi risposato, non tanto perchè deluso dal comportamento di Cettina, quanto dall’essere diventato un cornuto, altro tabù della società siciliana.
Che viene mostrata in tutti i suoi aspetti grotteschi, attraverso alcune gustose scenette che intervallano il film; una delle più rivelatrici è quella iniziale, quando Roberto arriva con i suoi due amici e induce in inganno Don Vito che scambia i sessi dei due, perchè le ragazze hanno i capelli lunghi e i ragazzi corti mentre nella realtà i due sono esattamente al contrario del canone osservato da Don Vito.
Virilità è quindi un buon film, con momenti comici e spunti di riflessione, molto ben interpretato dal cast di attori chiamato da Cavara; ottimo il solito Turi Ferro, impersonificazione assolutamente perfetta del siciliano arcaico e tradizionalista, la solita bellissima Agostina Belli, moglie infedele del dongiovanni siculo e da Marc Porel, a suo agio nel ruolo del figliol prodigo Roberto, che ha vissuto all’estero e che quindi non ha alcuno dei tabù che invece hanno i suoi ex compaesani.
E’ proprio questo contrasto tra padre e figlio la cosa migliore del film; due generazioni con storie diverse si incontrano e ovviamente si scontrano. Roberto rifiuta il matrimonio combinato e alla fine sceglie come sua compagna proprio la seconda moglie del padre mentre costui, disperatamente prigioniero di secoli di tradizione alla fine sceglierà di salvare il suo onore scegliendo di essere cornuto piuttosto che avere la disgrazia di un figlio “gay”.
Quindi una commedia garbata, Virilità; che ha anche il pregio di mostrare incantevoli località siciliane come le Gole dell’Alcantara e Giardini Naxos.
Il film è stato recentemente rieditato in digitale, il che permette di apprezzare sia il film tout court sia le location in cui venne girato il film nel 1974.
Virilità
Un film di Paolo Cavara. Con Marc Porel, Agostina Belli, Turi Ferro, Tuccio Musumeci, Anna Bonaiuto, Geraldine Hooper Commedia, durata 92 min. – Italia 1974.
Turi Ferro: Vito La Casella
Agostina Belli: Cettina
Marc Porel: Roberto La Casella
Tuccio Musumeci: Avv. Fisichella
Anna Bonaiuto: Lucia
Geraldine Hooper: Pat
Maria Tolu: Illuminata
Regia: Paolo Cavara
Sceneggiatura: Gian Paolo Callegari,Giovanni Simonelli
Produzione: Carlo Ponti
Musiche: Daniele Patucchi
Fotografia: Claudio Cirillo
Montaggio: Mario Morra
Costumi: Danda Ortona
La supplente va in città
L’ex maestra veneta Rubina cala in città alla ricerca del fidanzato Carlo che non ha più rivisto da quando ha finito la leva militare.
Arrivata a Roma Rubina incontra Carlo, che nel frattempo è diventato un fanatico del ballo; delusa dal suo comportamento, la ragazza lo fa arrestare sotto l’accusa di violenza carnale dopo avergli teso una trappola.
Per svangare la giornata, si fa assumere dai coniugi Davide e Adele, proprietari di un negozio di tessuti; i due hanno un maschio, Leo, che si considera un Casanova mentre in realtà è solo un giovane senza fascino e una femmina, Delia, dalla sessualità ambigua.
Ben presto Rubina si insinua nella famiglia come un parassita, assecondando le segrete voglie dei componenti della stessa; riesce anche a far allontanare da casa lo spasimante di Delia, ben felice della cosa.
Quando Rubina apprende che Carlo è uscito di galera, passa decisamente al contrattacco; si fa sposare da Leo dopo averlo tenuto sulla corda, anche perchè la donna nel frattempo è rimasta incinta proprio dell’ex fidanzato, riesce finalmente a staccare Adele dai suoi adorati programmi tv, trova una fidanzata di colore a Delia e infine provoca una paralisi a Davide, l’unico che nel frattempo ha capito e visto il gioco di Rubina.
La supplente va in città esce nelle sale nel 1979 per la regia di Vittorio De Sisti, che ricicla il titolo di “supplente” richiamando il fortunato film che lanciò la breve carriera cinematografica della cantante Carmen Villani. In realtà nel film non c’è alcuna contiguità con il film precedente e il titolo è solo un mero specchietto per le allodole, visto che il personaggio di Rubina non si muoverà in ambito scolastico ma all’interno di una famiglia di persone deboli che la donna manovrerà a suo piacimento fino a diventare la vera padrona di casa grazie ad astute mosse che metteranno tutti i componenti della famiglia sotto il suo controllo.
Non lasciatevi ingannare dal sunto della trama che ho esposto; il film è debolissimo e malfatto, una commediaccia sexy senza capo ne coda e priva anche di spunti umoristici, tanto che non fosse per la splendida Villani, che non lesina le parti anatomiche, si finirebbe per sbadigliare come ippopotami.
Colpa principalmente della assoluta mancanza di fantasia della trama (quante volte abbiamo visto la subdola cameriera abbindolare i datori di lavoro!), di una recitazione approssimativa che risente ovviamente anche dell’inesistenza di una qualsiasi sceneggiatura accettabile e infine aggiungiamoci la mancanza anche di soldi della produzione, che costringe il regista ad arrangiarsi con quello che ha.
Così per la prima volta troviamo un arresto fatto da un solo agente (non viene inquadrata nemmeno l’auto della polizia), una carcerazione in cui viene mostrata solo una stanza con l’ombra delle sbarre e via dicendo in un continuo tentativo di De Sisti di far galleggiare la barca che però, malinconicamente sprofonda man mano che lo spettatore si rende conto dell’assoluta povertà del tutto.
La supplente va in città è l’ultimo film “italiano” di Carmen Villani, prima del periodo spagnolo che la portò a girare altri 4 film e a chiudere malinconicamente la carriera cinematografica nel 1984, con soli 17 film all’attivo (quasi tutti appartenenti al genere sexy) e all’età di 40 anni.
Va da se che il film di De Sisti è girato con la chiara intenzione di sfruttare le doti fisiche di Carmen Villani, reduce da La signora ha fatto il pieno e da L’anello matrimoniale, film che avevano avuto qualche noia con la censura e che quindi avevano avuto una certa fama proprio in virtù delle loro vicissitudini, più che per meriti intrinseci delle pellicole stesse.
Questo film va ricordato principalmente per essere stato l’ultimo in cui compare un bravo caratterista della commedia all’italiana, Francesco Mulè; dopo oltre 80 film, si chiude la carriera del bravo attore romano, che sarebbe scomparso 5 anni più tardi.
Il resto del cast va segnalato solo per la firma, perchè la recitazione di tutti, inclusa quella del compianto Vincenzo Crocitti, è da dimenticare, così come da dimenticare è anche la colonna sonora di Stelvio Cipriani.
Desolante davvero, questo film.
Siamo al tramonto di un genere e il film di De Sisti conferma come alla fine degli anni settanta fossero ormai finite le idee e la capacità di dirigere opere che non usassero i soliti stereotipi e le solite trame che avevano caratterizzato gli ultimi tre anni del decennio.
Una fine davvero ingloriosa e malinconica per un genere, quello della commedia sexy, che se pur non particolarmente interessante di per se aveva comunque espresso alcuni buoni prodotti.
La supplente va in città
Un film di Vittorio De Sisti. Con Francesco Mulè, Vincenzo Crocitti, Carmen Villani, Mario Frittella, Alberto Squillante Erotico, durata 98′ min. – Italia 1979.
Carmen Villani: Rubina
Vincenzo Crocitti: Leo Romiti
Mauro Frittella: Carlo Pasquini
Josele Román: Delia Romiti, la figlia
Francisco Cecilio: Giovanni
María Luisa Ponte: Adele Romiti
Sandra Cardini: Margherita
Alberto Squillante: negoziante
Francesco Mulè: Davide Romiti, Davide
Regia Vittorio De Sisti
Soggetto Roberto Natale, Domenico Calandruccio
Sceneggiatura Vittorio De Sisti, Roberto Natale, Franco Mercuri, Comas, Domenico Calandruccio
Casa di produzione T.R.A.C.
Distribuzione (Italia) Martino
Fotografia Raúl Pérez Cubero
Montaggio Anita Cacciolati, Vittorio De Sisti
Musiche Stelvio Cipriani
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Il sorriso della iena
Lui, lei, l’altra; lui è Marco, cacciatore di dote sposato con la barbosissima Dorothy. L’altra è l’amante di Marco, la bellissima Gianna.
Il triangolo si interrompe il giorno in cui Gianna uccide Dorothy; ad ereditare il patrimonio della vittima dovrebbe essere la figlia di primo letto di quest’ultima, Nancy, che però non ha ancora 21 anni.
Così il neo vedovo Marco decide di prendersi una lunga vacanza con Gianna, andando a vivere in una splendida villa su un lago di proprietà della defunta Dorothy.
Le foto scattate da Gianna
La seduttrice tende la rete
Ma a rompere le uova nel paniere dei due amanti ecco arrivare Nancy, la bella erede.
La ragazza porta lo scompiglio nella coppia, tanto che Gianna cerca inutilmente di convincere l’amante a liberarsi di lei; Marco subisce il fascino sottilmente erotico e proibito della figliastra, ma anche Gianna alla fine resta colpita da lei.
Così si ricostruisce un impossibile triangolo, in cui Nancy sembra a suo agio in maniera sospetta; la ragazza subdolamente avverte Gianna che Magda, la cameriera di Dorothy ha una lettera in cui Marco è indicato come autore dell’omicidio di Dorothy.
Silvano Tranquilli
Jenny Tamburi
Rosalba Neri
A questo punto gli eventi precipitano; succube di Gianna, Marco si libera di Magda, ma rischia contemporaneamente di essere eliminato dall’amante.
Nancy si rivela per quello che è: un’astuta ricattatrice che ha preso il posto di Nancy, sobillata e istruita dal suo fidanzato.
I due hanno le prove degli omicidi perpetrati da Marco e Gianna e riescono a portar via loro con il ricatto una grossa somma di denaro.
Ma la giustizia è dietro l’angolo; all’uscita dalla villa di Marco, la finta Nancy e il fidanzato, che viaggiano su una moto con sidecar, si scontrano con un auto rimanendo entrambi uccisi sul colpo.
Il registratore a nastro sul quale i due complici avevano inciso le voci degli amanti e la loro confessione si mette in funzione proprio mentre….
Il sorriso della iena è uno dei tantissimi thriller degli inizi del decennio settanta; è datato 1972, quindi è uno dei primi a sfruttare il grande successo di L’uccello dalle piume di cristallo, come del resto indicato dal titolo stesso.
Diretto da Silvio Amadio, è un prodotto nemmeno mal congegnato, ma troppo statico e giocato tutto sul rapporto morboso che si sviluppa tra Marco, Gianna e la finta Nancy.
Estenunanti sono i dialoghi tra i tre, con la ninfetta Nancy occupata a tessere la sua tela attorno ai due deboli amanti, che uno dopo l’altro finiranno per cedere alle grazie e alla freschezza della ragazza.
Altrettanto lunghe sono le scene in cui Gianna riprende con la macchina fotografica Nancy, che occupano una parte considerevole di film; scene che mostrano la bella e sfortunata Jenny Tamburi in frequenti sequenze di nudo.
La seduzione è completa
Jenny Tamburi
Abbottonatissima invece l’altra protagonista, la sfinge italiana Rosalba Neri, insolitamente monocorde e svogliata nella recitazione. L’ultimo lato del triangolo è costituito da Silvano Tranquilli, attore sobrio ed elegante che fa il suo con la consueta professionalità.
Ma è il film nel suo complesso a non convincere e una volta tanto la colpa non è della sceneggiatura, che tutto sommato è equilibrata e interessante..
Sono troppe le pause, troppi i dialoghi e per lunghe parti del film si assiste ad un gioco di seduzione da parte di Nancy dall’esito ampiamente scontato. Forse meno scontato è il finale alla delitto e castigo, ma a quel punto le cose contano davvero poco.
Non è un film palloso, intendiamoci, di thriller malfatti ne abbiamo visti a bizzeffe nel decennio d’oro del cinema italiano.
Ma è anche vero che le pause, gli sguardi, le foto non possono da soli tenere in piedi la barracca.
I ricattatori
Per i curiosi che non abbiano visto questo film, anticipo subito che è operazione praticamente impossibile quella di trovare una copia decente della pellicola. Il film non è mai stato editato in digitale (almeno non che io sappia) e le uniche versioni esistenti risalgono a vecchi riversaggi da VHS che lasciano il tempo che trovano. Per cui se decidete di vederlo dovrete sudare le proverbiali sette camicie e non è detto che ne valga la pena.
Il sorriso della jena
Un film di Silvio Amadio. Con Jenny Tamburi,Silvano Tranquilli, Rosalba Neri, Hiram Keller, Dana Ghia, Fabio Garriba Giallo, durata 94 min. – Italia 1972.
(titolo internazionale Smile before death)
Amanti ormai in disaccordo
L’arrivo della vera Nancy
Morte di una ricattatrice
L’incidente mortale
Jenny Tamburi ..Nancy Thompson (come Luciana Della Robbia)
Silvano Tranquilli … Marco
Rosalba Neri … Gianna
Dana Ghia … Magda
Zora Gheorgieva … Dorothy Emerson
Luigi Antonio Guerra … Domestico
Regia: Silvio Amadio
Sceneggiatura: Silvio Amadio,Francesco Villa
Musiche: Roberto Pregadio
Fotografia: Silvano Ippoliti
Montaggio: Francesco Bertuccioli
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Non aver paura della zia Marta
Richard Hamilton, sua moglie Nora e i due figli Giorgia e Maurice partono per la residenza di campagna di proprietà della zia di Richard, Marta.
E’ un fine settimana speciale, per Richard; lui, sua zia Marta, non la vede da tantissimi anni, in quanto la donna è stata rinchiusa in un ospedale psichiatrico.
All’arrivo nella casa di campagna la famiglia Hamilton è accolta dal custode della stessa, che non nasconde la sua ostilità verso gli Hamilton.
Mentre in un clima poco idilliaco, in contrasto con la bellezza del posto, gli Hamilton sono in attesa di ricevere la visita di zia Marta, un misterioso assassino inizia a massacrare i componenti della famiglia.
Vengono uccisi in sequenza Maurice, Nora e Giorgia, quest’ultima accoltellata brutalmente mentre fa la doccia.
L’assassino arriva anche a mettere a tavola tutta la famiglia sterminata, mentre Richard apprende finalmente la verità su sua zia e sull’identità dell’assassino.
Quest’ultimo altro non è che il custode, che ha ucciso tutta la famiglia di Richard per vendicare Marta che venne rinchiusa dalla mamma di Richard in un manicomio da sua sorella, che voleva impadronirsi dell’eredità di Marta stessa per se e per suo figlio Richard.
Dopo aver scoperto che il custode della casa conserva il corpo mummificato di Marta, Richard ingaggia una lotta mortale con il custode, che avrebbe la meglio se non avvenisse un colpo di scena: Richard non ha vissuto realmente i fatti descritti, ma ha semplicemente sognato tutto.
In realtà ha avuto un incidente nel quale tutta la sua famiglia è perita, con conseguente vendetta finale di zia Marta.
Mario Bianchi, regista di b movies fino a questo esperimento di thriller/horror peraltro degno del suo passato di regista di film minori, dirige un’opera che definire brutta è solo esercizio di stile.
Mal diretto, con una sceneggiatura elementare in modo allarmante ed un finale assolutamente fuori dalla logica, Non aver paura della zia Marta può essere definito il classico esemplare di cinema trash dei tardi anni 80.
Difficilissimo, se non impossibile, trovare un solo elemento rimarchevole in un film in cui gli unici momenti di tensione (davvero relativa) sono legati alle morti in rapida successione dei vari componenti della famiglia Hamilton.
Le uniche due occasioni riguardano la morte di Nora, decapitata in una soffitta e quella di Giorgia, assassinata mentre fa la doccia con la mdp che indugia sulle prosperose forme di Jessica Moore mentre per il resto del film predomina un senso di involontaria comicità, legata a scenette insulse come il pestifero fratellino Maurice che spaventa sua sorella con una lucertola (sic)
o quella sicuramente di comicità assoluta in cui Richard si ritrova a tavola con tutti i suoi familiari morti e seduti come stessero per mangiare mentre lui si guarda attorno con espressione stupita ma non più di tanto.
Parlavo prima della sceneggiatura, così astrusa e sconclusionata da risultare involontariamente comica; perchè il custode conserva il corpo brulicante di vermi della famigerata zia Marta e lo bacia con passione? Che legame esisteva fra loro due? Come ha fatto zia Marta, folle dopo esser stata rinchiusa ingiustamente in manicomio, ad uscire dallo stesso e perchè non si è ripresa la sua eredità?
Sono domande elementari alle quali però il regista non risponde, preferendo puntare sulla mano misteriosa che massacra la famiglia con efferatezza, su qualche scenetta blandamente erotica (vedere i nudi fugaci della Russo e quelli più corposi della Morre) e su qualche effettaccio horror.
Nel film non c’è nient’altro, se non confusione, noia e banalità.
Il cast è assemblato a basso costo, come del resto il film e mostra la corda con il compianto Gabriele Tinti spaesato come non mai, con una Adriana Russo in evidente imbarazzo e con Jessica Moore che esprime solo un fisico appetitoso e procace.
Null’altro da segnalare in una pellicola davvero scialba e che non vale assolutamente nemmeno una visione di sfuggita.
Non avere paura della zia Marta
Un film di Mario Bianchi. Con Adriana Russo, Gabriele Tinti, Jessica Moore, Maurice Poli Thriller, durata 88 min. – Italia 1989.
Adriana Russo: Nora Hamilton
Gabriele Tinti: Richard Hamilton
Anna Maria Placido: mamma di Richard
Jessica Moore: Georgia Hamilton
Maurice Poli: Thomas
Massimiliano Massimi:
Edoardo Massimi: Maurice Hamilton
Sacha M. Darwin: zia Marta
Regia Mario Bianchi
Soggetto Mario Bianchi
Sceneggiatura Mario Bianchi
Produttore Luigi Nannerini, Antonino Lucidi
Casa di produzione Distribuzione Alpha Cinematografica
Fotografia Silvano Tessicini
Montaggio Vincenzo Tomassi
Musiche Gianni Sposito
Trucco Pino Ferranti
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La notte dei diavoli
Un uomo attraversa in auto una zona sinistra e desolata della ex Jugoslavia; siamo nel 1972, l’uomo si chiama Nicola.
Mentre percorre una strada, Nicola si imbatte improvvisamente in una donna e per evitarla sbanda con il risultato di danneggiare l’auto.
Messosi alla ricerca di aiuto, Nicola incontra un’abitazione in cui vive la famiglia Ciuvelak, che accetta con molta titubanza di prestargli aiuto; è una ben strana famiglia, quella dei Ciuvelak, composta da Gorka, da sua moglie, da Jovan, un uomo con evidenti problemi psicologici, dalla bellissima Sdenka e dalla piccola Irina.
Jovan in qualche modo gli ripara l’auto, ma prima che Nicola possa ripartire assiste ad un omicidio efferato, quello di Gorka, il capofamiglia ad opera di Jovan; il giovane alla fine conficca un paletto acuminato nel petto dell’anziano morto, usando un rituale antico per uccidere i vampiri. E in realtà la famiglia Ciuvelak altro è che un gruppo di Wurdalak, una razza speciale di vampiri, che trasforma coloro che vogliono possedere in uno strano mix che ricorda un pò i vampiri e un pò gli zombie.
Nicola decide di scappare e rivolgersi alla polizia locale,ma questi ultimi rifiutano decisamente di intervenire in quanto a conoscenza del terribile segreto dei Wurdalak.
A Nicola non resta da fare altro che tentare di riprendersi l’auto ma la decisione si rivela fatale; assediato dalla famiglia e inseguito anche da Sdenka, che sembra innamorata di lui Nicola riesce in qualche modo a fuggire ma l’esperienza subita è stata talmente forte da farlo uscire di senno.
Internato in un manicomio italiano, Nicola tenta inutilmente di raccontare la sua tragica odissea ai medici; poi un giorno si vede arrivare in ospedale Sdenka, che sembra assolutamente normale.
Così è, in effetti: la ragazza era tenuta a distanza dalla famiglia Ciuvelak e poichè non era amata dalla stessa era stata messa in disparte dalla famiglia stessa.
Ma questo Nicola non lo sa e …….
Chiunque abbia visto il mitico I tre volti della paura di Mario Bava uscito nel 1963 ricorderà l’episodio I Wurdalak, che vedeva come protagonista Gorca, un anziano capofamiglia uscito di casa per andare a caccia di un vampiro (Gorca era interpretato da Boris Karloff); ebbene La notte dei diavoli, regia di Giorgio Ferroni ricalca in vari punti la storia di Bava, pur staccandosene in vari punti per ovvi motivi.
Non un remake, quindi, ma una storia a se stante, che Ferroni, regista specializzato in peplum e spaghetti western (suoi sono Per pochi dollari ancora,Un dollaro bucato, Il leone di Tebe) dirige con mano ferma e con un buon senso del ritmo e della tensione.
Del resto il regista si era già cimentato con l’horror in Il mulino delle donne di pietra, e con ottimi risultati; in La notte dei diavoli si cimenta con il genere gotico-vampiresco ma deve fare i conti con un budget estremamente limitato riuscendo però alla fine a consegnare un prodotto gradevole e di un certo fascino.
Certo, la narrazione ha tempi morti e qualche lungaggine di troppo; l’idea del flashback alla fine risulta vincente ma la storia rischia più volte di impantanrsi proprio per la mancanza di mezzi.
Non è facile diluire in un’ora e mezza di film una storia con pochi protagonisti e ambientata quasi totalmente in una casa nascosta nella foresta; Ferroni fa i salti mortali, affidando a Gianni Garko il ruolo dell’italiano Nicola che diverrà la vittima designata di una famiglia di Wurdalak, vampiri dalle caratteristiche speciali che vivono nascosti in una casa sinistra, tenuti a debita distanza dalla popolazione ( e dalle forze dell’ordine) locali, che conoscono il terribile segreto dei Ciuvelak.Il ruolo di Sdenka è affidato alla bellissima Agostina Belli, che aveva già interpretato un gotico, ovvero il film di Merino Il castello dalle porte di fuoco.
La Belli è sensuale e affascinante e il ruolo di Sdenka le ritaglia uno spazio di ambigua presenza all’interno della famiglia di vampiri, cosa che aggiunge l’elemento suspence al racconto prima del finale a sorpresa (se vogliamo anche crudele) che chiuderà il film.
Come Bava, Ferroni si basa sul racconto I Wurdalak, di Aleksej Tolstoi ottenendo un film godibile, forse uno dei migliori gotici italiani; è il suo penultimo film ed è un vero peccato, perchè il gotico-horror era sicuramente un genere nelle sue corde.
Il resto del cast si muove con disinvoltura, partendo dal solito Umberto Raho, qui nei panni del direttore del manicomio nel quale viene ricoverato Nicola, passando per la giovanissima Cinzia De Carolis (la piccola Irina) e con la presenza di altri caratteristi di sicuro affidamento comeTeresa Gimpera,Rosita Torosh,Roberto Maldera,Stefano Oppedisano e Maria Monti.
La notte dei diavoli è un film quasi dimenticato, non fosse per la sparuta schiera di amanti del gotico italiano; osteggiato alla sua uscita dalla critica, che ne vide un rifacimento in peggio del film di Bava, peraltro poco amato dalla stessa critica, in realtà è un prodotto molto valido.
Non è da tutti riuscire a ricreare un’atmosfera cupa e sinistra senza utilizzare gli stanchi stereotipi del genere, ovvero gli effetti splatter e il solito immancabile sesso.
Ferroni consegna al pubblico invece un prodotto armonico ed interessante, nei limiti angusti imposti dalla mancanza di soldi e quindi di mezzi; la dove manca la pecunia Ferroni supplisce con la tecnica e un uso sapiente del suo mestiere.
Alla fine il film soddisfa e ad avere torto è quella parte di critica ( e di pubblico) incapace di capire che un film lo si può apprezzare anche per l’atmosfera, per il senso di opprimente e latente paura che può generare. In questo Ferroni ottiene pienamente quanto cercato.
Un film da recuperare che è stato rieditato in digitale ma che purtroppo non ha circolazione sul piccolo schermo.
La notte dei diavoli
Un film di Giorgio Ferroni. Con Agostina Belli, Cinzia Carolis, Gianni Garko, Mark Roberts, Umberto Raho, Stefano Oppedisano, Teresa Gimpera, Maria Monti, Roberto Maldera Horror, durata 91 min. – Italia 1972.
Gianni Garko: Nicola
Agostina Belli: Sdenka
Roberto Maldera: Jovan
Bill Vanders: Gorka Ciuvelak
Cinzia De Carolis: Irina
Maria Monti: la strega
Teresa Gimpera: Elena
Umberto Raho: dr. Tosi
Sabrina Tamborra: Mira
Rosita Torosh: infermiera
Luis Suarez: Vlado
Tom Felleghi: sig. Robinson
Renato Turi: brigadiere Kovacic
Regia Giorgio Ferroni
Soggetto Aleksei Konstantinovich Tolstoi
Sceneggiatura Eduardo Manzanos Brochero, Romano Migliorini, Gianbattista Mussetto
Produttore Luigi Mariani
Casa di produzione Filmes, Due Erre Cin.ca (Roma)
Distribuzione (Italia) Produzioni Atlas Consorziate
Fotografia Manuel Berenguer
Montaggio Gianmaria Messeri
Effetti speciali Carlo Rambaldi
Musiche Giorgio Gaslini
Scenografia Eugenio Liverani, Jaime Perez Cubero, Josè Luis Galicia
Costumi Elio Micheli
Trucco Massimo Giustini
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Un sussurro nel buio
Martino è un bambino tranquillo, che vive in una splendida villa veneta con i genitori Alex e Camilla e con le due sorelline Matilde e Milena, sotto lo sguardo severo e protettivo della governante Francoise.
Un quadro idilliaco, tuttavia turbato da quella che sembra essere una innoqua mania del ragazzino, ovvero il sostenere che accanto a lui, invisibile presenza, ci sia un altro bambino, Luca.
Nonostante tutto Alex e Camilla evitano di dar peso a quelle che considerano fantasie del bambino; tuttavia ben presto dovranno ricredersi, alla luce di strani fenomeni che avvengono nella villa.
John Philipp Law
Alessandro Poggi con Nathalie Delon
Decisi a risolvere il problema, i due coniugi si recano a Venezia per consultare un famoso psichiatra, ma durante il viaggio è proprio Alex a rischiare di morire allorchè, in un diverbio con Martino, nega decisamente l’esistenza dell’amico considerato immaginario del figlio. Spinto da una forza sconosciuta, Alex cade in acqua e miracolosamente evita di finire tra le pale del vaporetto che li doveva trasportare.
Scosso dall’episodio, Alex non rinuncia a contattare il luminare, che accetta l’incarico e si trasferisce nella villa di Alex e Camilla.
Scettico, il professore mostra però pericolose tendenze pedofile verso il piccolo Martino e il risultato è la sua morte nella vasca da bagno della dimora.
Grazie alla complicità di Francoise e nonostante l’opposizione della nonna, che accusa Martino di essere un omicida, l’accaduto viene presentato come una semplice disgrazia agli inquirenti accorsi nella villa, che mostrano di credere alla versione dell’incidente.
Alessandro Poggi
Olga Bisera
Intanto Camilla si convince sempre più che accanto a suo figlio ci sia davvero un’entità invisibile; lei, in passato, aveva perso a sei mesi un bambino, che avrebbe dovuto chiamarsi Luca. Ma c’è davvero una presenza invisibile accanto a Martino, esiste davvero il misterioso Luca? O tutto è semplicemente un’allucinazione collettiva?
Film metafisico definito oltraggiosamente horror da critici della domenica, Un sussurro nel buio (A whisper in the dark) diretto da Marcello Aliprandi nel 1976 è un ottimo prodotto snobbato vergognosamente dalla critica e purtroppo anche da parte del pubblico, evidentemente abituato a film in cui l’elemento slasher è quello predominante.
Invece in questo film di Aliprandi non accade praticamente nulla; il film è psicologico e d’atmosfera, privilegiando la tensione e i dialoghi inespressi, le mezze frasi, la paura dei protagonisti per tutto quello che accade intorno a loro.
Stretti fra la fredda razionalità e l’indiscutibile presenza di fenomeni paranormali legati all’invisibile figura di Luca, che sembra agire come un angelo protettivo nei confronti di Martino, tutti i componenti della famiglia iniziano lentamente a prendere coscienza di quello che in realtà la loro mente non può spiegare.
Lucretia Love
Ci vorrebbe un atto di fede per credere davvero che Martino giochi con l’invisibile Luca, ma Alex e Camilla sono genitori razionali; tuttavia arriverà anche per loro il momento di ricredersi, perchè quello che accade nella villa non può essere solo effetto di pure combinazioni.
Aliprandi crea un film molto equilibrato, un film di rara tensione, involuto psicologicamente e dalla trama lineare. Non ci sono colpi di scena, l’unica morte è quella del professore che avviene lontano dalla macchina da presa, tant’è che ci viene mostrata solo la sua figura esanime nella vasca da bagno.
L’uscita di questo film di Aliprandi, reduce dal buon risultato di Corruzione al palazzo di giustizia girato nel 1975, venne accolta con indifferenza sia dalla critica che dal pubblico. Il che lascia davvero esterrefatti, alla luce della presenza, nelle sale, di centinaia di prodotti di bassa lega, spesso mal recitati e girati in un’economia francescana.
Il regista romano crea un prodotto equilibrato e armonico, riuscendo a realizzare un’ atmosfera cupa e claustrofobica senza mai ricorrere a scene violente e senza usare sangue; tutto è lasciato all’immaginazione dello spettatore, mentre scorrono le immagini idilliache della splendida villa sospesa in un paesaggio sognante che fa da netto contrasto con il cupo senso di oppressione che l’invisibile presenza di Luca crea.
Questo equilibrio è la cosa fondamentale del film, tanto che Aliprandi rinuncia ad approfondire i legami interni alla famiglia stessa, come quello fra Alex e Francoise o quello saffico suggerito fra Camilla e la cameriera di casa. Tutto resta indefinito, quasi i personaggi debbano muoversi e vivere le loro esistenze in funzione di quella di Martino e di Luca, alla quale esistenza nessuno crede.
Tutti dovranno alla fine fare i conti proprio con l’amico immaginario, sopratutto dopo la morte del professore; tutti diverranno complici a quel punto della mano misteriosa che ha dato la morte al pervertito professore.
Aliprandi mette su un cast che fa dignitosamente il suo lavoro; Law e Nathalie Delon sono impeccabili, mentre la vera sorpresa del film è il piccolo Alessandro Poggi, che rivedremo sugli schermi nel 1982 in Morte in Vaticano che sarà il suo quarto ed ultimo film.
Un vero peccato, perchè Poggi interpreta alla perfezione il piccolo Martino.
Bene anche i personaggi che ruotano attorno alla famiglia, ovvero la governante Francoise, interpretata da una severa e sempre affascinante Olga Bisera e dalla solita sicurezza rappresentata da Lucretia Love.
Un film ingiustamente dimenticato e osteggiato; se andate a leggere la recensione del solito Morandini, troverete ancora una volta la conferma della malafede dei critici che stendevano le critiche per quella che è considerata la Bibbia dei cinefili e che, alla luce dei fatti, ha la stessa attendibilità di un rotocalco di pettegolezzi.
Se riuscite a reperire il film e non è cosa difficile, passerete due ore piacevoli in compagnia di un prodotto che quanto meno ha una grande eleganza formale; chi ha visto The others di Alejandro Amenábar troverà le stesse atmosfere del film di Aliprandi.
Un sussurro nel buio
Un film di Marcello Aliprandi. Con Nathalie Delon,John Philipp Law, Joseph Cotten, Olga Bisera, Lucretia Love, Alessandro Poggi,Adriana Russo, Margherita Sala, Susanna Melandri Fantastico, durata 100 min. – Italia 1976.
John Phillip Law … Alex
Nathalie Delon … Camilla
Olga Bisera … Françoise
Alessandro Poggi … Martino
Joseph Cotten … Il professore
Lucretia Love … Susan
Adriana Russo … Clara
Regia: Marcello Aliprandi
Sceneggiatura: Maria Teresa Rienzi, Nicolò Rienzi
Produzione: Enzo Gallo
Musiche: Pino Donaggio
Montaggio: Gianmaria Messeri
Fotografia: Claudio Cirillo
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