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Ciao a tutti.

Da oggi anche Filmscoop ha una pagina su Facebook, con la quale sarà finalmente possibile interagire con voi, vista la scarsa e inspiegabile voglia di usare lo spazio commenti disponibile su WordPress. a questo indirizzo:

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sarà possibile scrivere tutto ciò che volete sul cinema di genere, richiedere informazioni o semplicemente proporre dei film da recensire, proporre collaborazioni ecc. Chiunque voglia diventare mio amico mi mandi una richiesta di amicizia via Facebook tramite i messaggi privati. E’ tutto, vi aspetto sul social network, buon week end bollente con Caronte 🙂

giugno 30, 2012 Posted by | Senza Categoria | Lascia un commento

La tua presenza nuda

Denise ha sposato in seconde nozze Paul, vedovo con un figlio, Marcus; la prima moglie di Paul è morta per un incidente provocato ad arte mentre faceva il bagno in una vasca.
Gli ottimi rapporti di Denise con il coniuge iniziano a deteriorarsi per colpa di Marcus; il ragazzo è intelligente ma anche perfido e sadico e nasconde dietro il volto angelico una personalità contorta.
Chiamata dal preside della scuola che frequenta il ragazzino, Denise apprende che il figliastro è stato espulso dal college per alcune avance erotiche nei confronti di ragazzine. Da Sophie, amica di vecchia data della prima moglie di Paul, Sara, apprende alcuni particolari preoccupanti sulla morte della stessa (la donna che si vede morire in apertura del film).


Ben presto Denise ha la certezza che la morte di Sara è opera del diabolico ragazzino; in cambio di uno strip integrale (di qui il titolo del film) Denise otterrà la confessione del ragazzo e prenderà provvedimenti, non prima però…..
Un film che non ti aspetti, La tua presenza nuda (Night child), che deve il suo titolo italiano ad una frase che pronuncia il diabolico e malato Marcus alla matrigna, quando costei chiede al ragazzino cosa vuole in cambio della confessione su quello che è veramente accaduto a Sara.
Dicevo, un film inaspettatamente bello e affascinante, in primis perchè è l’opera d’esordio di Andrea Bianchi, un regista che da allora in poi non mostrerà più la freschezza e l’inventiva mostrata in questo film, poi perchè si tratta di un film che si avvale di una buona sceneggiatura, di una storia che tiene e intriga immersa com’è in un’atmosfera malsana e ambigua.
Il film è per lunghissimi tratti un duello a due fra i due protagonisti principali, la dolce e innamorata Denise e il diabolico e sadico figliastro Marcus;

sono proprio le scene in cui il terribile dodicenne porta avanti con ostinata pervicacia il suo complotto personale per attirare l’incolpevole matrigna nella sua ragnatela quelle più intriganti e che danno un’aria di suspence che per tutto il film non mancherà mai.
Il film è principalmente una partita a scacchi tra personalità differenti, fra le quali spicca quella disturbata di Marcus, il ragazzo che ha ucciso sua madre e che ama infierire su animali e amiche di college.
Sarà proprio Denise a scoprire con orrore la verità sulla morte di Sara, incontrando nel corso di un drammatico colloquio con il marito l’ostilità e l’incredulità di quest’ultimo, nonostante Denise mostri a Paul il punto da cui il ragazzino spia le effusioni amorose della coppia e nonostante la stessa Denise riveli l’accaduto nel college dal quale è stato espulso Marcus.


Per tutto il film la cosa più intrigante è l’atmosfera del film; anche se non accade praticamente nulla, il regista riesce a tener desta l’attenzione immergendo la storia in una palude nella quale Denise finisce per sprofondare, stretta da un lato dal figliastro sadico e dall’altro dall’incredulità del marito.
Va detto, per onor di cronaca, che James Kelley (co regista del film) probabilmente mise ben più di una mano nel film stesso, e che la produzione ebbe la fulminante idea di chiamare per la parte di Denise l’attrice britannica Britt Ekland, grande professionista che in questo film recita in maniera impeccabile, grazie alla sua aria ingenua e candida; la ex signora Sellers si conferma attrice di razza cosi come molto bravo è Mark Lester che tre anni dopo avrebbe girato La prima volta sull’erba; l’attore inglese all’epoca in cui venne girato il film aveva 14 anni e interpretò in modo impeccabile il ruolo del dodicenne perfido e malsano.


Per quanto riguarda la versione italiana del film, è mutila della scena in cui Denise si spoglia davanti a Markus, presente invece nella versione internazionale, un episodio che ricorda l’odissea del film Non si sevizia un paperino, sequestrato proprio per la presenza di quello che si credeva un minore davanti allo splendido corpo nudo di Barbara Bouchet. Un film davvero interessante, ma molto difficile da reperire che vale sicuramente una visione.

La tua presenza nuda
Un film di James Kelly, Andrea Bianchi. Con Britt Ekland, Lilli Palmer, Hardy Krüger, Mark Lester, Harry Andrews Drammatico, durata 95 min. – Italia 1972.

Mark Lester … Marcus
Britt Ekland … Denise
Hardy Krüger …Paul
Lilli Palmer …Dottoressa Viorne
Harry Andrews …Il preside
Conchita Montes …Sophie
Colette Giacobine … Sara

Regia: James Kelley, Andrea Bianchi
Sceneggiatura: Andrea Bianchi,Erich Kröhnke,Bautista Lacasa,Trevor Preston
Produzione: Andrés Vicente Gómez,Graham Harris
Musiche: Stelvio Cipriani
Fotografia: Luis Cuadrado,Harry Waxman
Montaggio: Nicholas Wentworth

giugno 27, 2012 Posted by | Drammatico | , | 7 commenti

La casa della paura

La casa della paura locandina

Una ragazza scende le scale in penombra di una casa; appena varcato il portone della stessa, mentre sta incamminandosi lungo un marciapiede, viene aggredita e trascinata a bordo di un auto, nella quale viene drogata.
Cambio di scena: Margaret Bradley sta varcando anch’essa una soglia, quella della prigione dov’è stata rinchiusa per qualche tempo sotto l’accusa di aver detenuto droga. Nonostante la ragazza si sia professata innocente, è stata rinchiusa nel carcere dal quale finalmente sta per uscire.
Grazie all’interessamento di Alicia Songbird, assistente sociale che ha preso a cuore la sua odissea, Margaret trova alloggio presso la casa della signora Grant.
Qui Margaret si trova ben presto a fare i conti con l’aria minacciosa che la casa stessa possiede; nella camera nella quale alloggia la ragazza scopre una misteriosa macchia rossa semi nascosta da un tappeto. Ma non è l’unico fatto inquietante che accade, perchè Margaret avverte distintamente dei passi misteriosi che provengono dalla parte esterna della casa.
Uscita per prendere aria e sopratutto per calmarsi, la ragazza viene avvicinata dal figlio della signora Grant, che le propone un sonnifero per prendere sonno.

La casa della paura 4

Daniela Giordano

La casa della paura 10

Karin Schubert

Ma durante la notte arriva anche una strana visione a perseguitare Margaret, quella di una minacciosa figura con un cappuccio e un mantello rosso che sembra volerla aggredire; è un incubo o qualcosa di strano sta accadendo nella casa?
Un altro cambio di scena ci porta presso un gruppo di persone, fra cui ci sono la signora Grant e suo figlio intente a sacrificare una ragazza, la stessa che abbiamo visto aggredire all’inizio del film. La ragazza viene uccisa e il suo corpo scaraventato giù per un dirupo.
Cosa accade in quella casa? A scoprirlo saranno proprio Margaret e il fratello della ragazza uccisa, che giungeranno a smascherare il diabolico gruppo e sopratutto il vero capo dello stesso, la misteriosa figura ammantata di rosso.

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La casa della paura 1

La casa della paura (The girl in room 2 A) è un fiacco e inoffensivo thriller-horror diretto nel 1974 da William Rose, regista assolutamente sconosciuto da noi qui alla sua quinta e ultima prova come regista.
E verrebbe da dire per fortuna, vista l’approssimazione grossolana che coinvolge tutte le componenti del film, dalla sceneggiatura alla direzione tecnica, con l’unica nota di merito rappresentata dalla presenza di Daniela Giordano, che fa quello che può pur in presenza di un copione di serie z e delle parimenti belle Rosalba Neri e Karin Schubert che però hanno delle parti limitatissime e che quindi restano in scena davvero poco.
Cosa non funziona nel film?

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Praticamente tutto.
Dopo un promettente inizio, con la ragazza rapita e uccisa, il film va gradatamente ammosciandosi con conseguente trascinamento stanchissimo verso la parte finale, quando qualche scena di sevizie e sopratutto la scoperta del misterioso capo della combriccola riporta la pellicola ad un minimo sindacale di interesse per la stessa.
Il cast, a parte le citate attrici, presenta attori di qualche richiamo che però alla fine si segnalano soltanto per la prova incolore offerta.

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Si parte con Raf Vallone che sembra interessato più a rimpinguare il proprio conto in banca che a mostrare un minimo di decoro recitativo per passare ad Angelo Infanti, anche lui molto al di sotto del suo standard recitativo. Da dimenticare anche Richard Harris, adattissimo ai peplum ma assolutamente privo di espressività il che conferisce ad una sceneggiatura penosa un’aria da film parrocchiale che marchia indelebilmente la pellicola.
Girato don due lire, quasi tutte assorbite dal cachet degli attori, La casa della paura va consegnato agli archivi del cinema ( e possibilmente anche sepolto) come un prodotto povero e brutto.

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Più che un film, sembra una trasposizione del celebre Killing, un fumetto fotoromanzo che ebbe un certo seguito negli anni sessanta; a favore di quest’ultimo gioca la staticità delle immagini, che nel film sono in movimento ma che provocano il mal di mare vista l’assolta imperizia del regista.
Fotogrammi sovra e sotto esposti, ondeggiamenti della macchina da presa e altro costituiscono il biglietto da visita di un film da dimenticare in cui si può salvare solo il finale, con la soluzione e la scoperta del misterioso incappucciato, prevedibile ma non in maniera lampante.
Il film è stato proposto, raramente, nella vecchia versione ricavata dalle VHS con la fatale conseguenza di sembrare ancora più brutto di quello che è in realtà; per gli amanti del genere segnalo la versione digitalizzata, che quantomeno restituisce un minimo di decoro ad una pellicola altrimenti degna di essere sepolta negli archivi.

Il film è ora disponibile in streaming, in un’ottima versione all’indirizzo http://www.nowvideo.sx/video/b21a80e2e5b3e

La casa della paura (The girl in room 2 A),

di William Rose, con Daniela Giordano, Rosalba Neri, Raf Vallone, Karin Schubert, Angelo Infanti, Brad Harris, Frank Latimore, Giovanna Galletti, Nuccia Cardinali, Dada Gallotti, Marian Fulop, Annamaria Liberati, James Saturno, Salvatore Billa, Carla Mancini- Thriller-Horror Italia 1974

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La casa della paura banner personaggi

Daniela Giordano … Margaret Bradley
Raf Vallone … Dreese
John Scanlon … Jack Whitman
Angelo Infanti … Frank Grant
Karin Schubert … Maria
Rosalba Neri … Alicia Songbird
Brad Harris … Charlie
Giovanna Galletti … Mrs. Grant
Nuccia Cardinali … La signora Craig
Dada Gallotti … Claire

La casa della paura banner cast

Regia: William Rose
Sceneggiatura: William Rose e Gianfranco Baldanello
Produzione: William Rose e Dick Randall
Musiche: Berto Pisano
Fotografia: Mario Mancini
Montaggio:Piera Bruni,Gianfranco Simoncelli

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giugno 25, 2012 Posted by | Horror | , , , , , | 1 commento

La preda

Drammone a quattro ambientato in Sud America, per l’esattezza in Colombia.
Daniel vive alla giornata, senza il becco di un quattrino e con un matrimonio che fa acqua; sua moglie Betsy infatti è ormai irrimediabilmente un’alcolista persa.
Casualmente Daniel incontra una splendida ragazza di colore, Nagaina; deciso a piantare sua moglie e a dare alla bella ragazza una vita migliore, l’uomo organizza una rapina ai danni di un usuraio.
Il colpo riesce, ma Daniel non riesce a nascondere la refurtiva perchè viene arrestato e imprigionato.
In prigione Daniel conosce un detenuto, Francis, che lo aiuta ad evadere; i due fuggono assieme e ben presto Daniel decide di ritrovare la sua giovane compagna.

Zeudi Araya e Franco Gasparri

E’ proprio Francis a mettersi sulle tracce di Nagaina e a rintracciarla in una piantagione di cotone.
Ma galeotto fu l’amore; i due si innamorano perdutamente e…
Estremamente sintetica la trama di La preda, film girato nel 1974 da Domenico Paolella.
Non è che ci sia molto da raccontare, perchè il film non ha una linea di sceneggiatura univoca; anzi, ondeggia indecisa tra il giallo, il sentimentale e a sprazzi sfora nell’erotico molto blando.
Girato a tempo di record per sfruttare lo straordinario successo ottenuto dalla futura signora Cristaldi, Zeudi Araya, con il film di Scattini La ragazza dalla pelle di luna, La preda è un dramma abbastanza prevedibile in cui quello che conta è un epidermico interesse per le vicende sentimentali dei due protagonisti maschili, che ruotano attorno alla figura della bellissima e volubile Nagaina, che indecisa tra i due uomini alla fine sceglie la via più semplice ( e naturalmente prevedibile)


Zeudy Araya, bellissima e sensuale,subito dopo il grande successo del film di Scattini aveva lavorato in La ragazza fuoristrada, ancora una volta con il compianto regista di origini piemontesi; in quel film, datato 1973, aveva avuto modo di mostrare una certa predisposizione alla recitazione drammatica così Paolella unisce l’utile al dilettevole e le affianca la star dei fotoromanzi Franco Gasparri, popolarissimo sopratutto fra il pubblico femminile per le sue partecipazioni alle edizioni Lancio e Renzo Montagnani, non ancora coinvolto nei numerosi e ripetitivi ruoli della commedia sexy che avrebbe interpretato in seguito.
A ben guardare la cosa migliore sono proprio loro tre, i protagonisti di un dramma con molti coni d’ombra e poco incisivo sopratutto perchè estremamente superficiale nel descrivere le emozioni e i sentimenti dei protagonisti in gioco.
Così se si escludono alcune sequenze e se si esclude la bellissima Araya, del film non resta traccia nè ricordo anche perchè nello stesso anno l’attrice eritrea girerà un film in carta carbone, quel Il corpo (ancora una volta con il suo mentore Scattini) ben più interessante e incisivo.


Il tandem Gasparri-Araya si ricostituirà poi nel 1975 in La peccatrice, diretto da Pier Ludovico Pavoni, un film drammatico di un certo spessore e valore.
La preda invece resta abbastanza anonimo, anche se va detto che Renzo Montagnani, gran talento sacrificato poi in dozzine di film di dubbio livello, mostra una decisa attitudine e physique du role nel ruolo a lui assegnato.
Non resta davvero molto altro da dire, se non elogiare la discreta fotografia di Armando Nannuzzi e le musiche passabili di Franco Bixio e Fabio Frizzi ; il doppiaggio di Zeudi Araya è opera della bravissima Micaela Esdra. Film trasmesso più volte in tv, in orari però assolutamente da dimenticare per colpa delle sequenze di nudo della Araya che in verità sono una delle rare cose apprezzabili di un film molto, molto modesto.


La preda
Un film di Domenico Paolella. Con Micheline Presle, Renzo Montagnani, Zeudi Araya, Franco Gasparri,Carla Mancini Giallo-drammatico, durata 95′ min. – Italia 1974.

Zeudi Araya: Nagaina
Franco Gasparri: Francis
Renzo Montagnani: Daniel
Micheline Presle: Betsy

Regia: Domenico Paolella
Sceneggiatura: Mario Bregni,Remigio Del Grosso,Domenico Paolella
Musiche: Franco Bixio e Fabio Frizzi
Fotografia: Armando Nannuzzi
Montaggio:Amedeo Giomini
Art direction: Oscar Capponi

Doppiatori:
Micaela Esdra: Nagaina
Roberto Chevalier: Daniel

giugno 23, 2012 Posted by | Drammatico, Erotico | , , , | Lascia un commento

Violentata davanti al marito

Willy Harris è un piccolo delinquente comune, uno spacciatore di droga che, arrestato, si vede rifilare una condanna a 6 mesi di galera da scontare presso un bagno penale in Georgia, ai lavori forzati.
Nel campo vige la legge dei secondini e ben presto Willy deve fare i conti con l’arroganza degli stessi; così quando Mike Wedd, che è nel campo a scontare una condanna all’ergastolo per omicidio organizza un’evasione di massa, Willy evade con lui pur dovendo scontare una pena mite.
Purtroppo per lui quando è stato portato nel bagno penale è stato legato a Mike così è gioco forza dover fuggire con lui.
Willy decide quindi di rifugiarsi dalla sua donna, Ann, che ovviamente lo accoglie; quello che Willy non sa è che il violento Mike, che li ha spiati mentre facevano l’amore, approfitta della ragazza.


I due quindi decidono di cambiare nascondiglio, portando con loro Ann.
Il rifugio ideale per loro si presenta all’improvviso; una vecchia fattoria isolata, dove abitano un fattore (Tom) avanti negli anni con la sua giovane e bella moglie.
Willy prudentemente rimanda indietro Ann e in compagnia di Mike prendono in ostaggio la coppia.
La giovane moglie, che mal sopporta l’anziano marito, si lega immediatamente a Willy, ma deve subire le avance di Mike che alla fine la violenta su un divano davanti all’anziano fattore legato ad una poltrona e quindi impotente ad agire.
E’ arrivato il momento di riprendere la fuga, così i due evasi decidono di portare con loro la moglie del fattore.
Ma lungo la strada finiscono per incappare in un posto di blocco della polizia che non ha mai smesso di braccarli.
Dopo una rocambolesca fuga, il terzetto ritorna sui propri passi alla fattoria della donna.


Qui però avranno una brutta sorpresa: Tom si è liberato delle funi che lo tenevano legato e …..
Lee Frost, onesto mestierante specializzato in film con abbondanti sfumature erotiche innestate su trame che spaziano tra i nazisploitation, i thriller e le spy story dirige questo Violentata davanti al marito nel 1971.
Un film che mescola con astuzia elementi classici del cinema di avventura (la fuga dei galeotti legati, le condizioni disumane del bagno penale), del thriller (l’arrivo nella fattoria isolata), del rape and revenge classico (lo stupro della moglie del fattore) il tutto condito con qualche inserto blandamente erotico, quel tanto da evitare il famigerato X rated che destinava il film al solo pubblico adulto e ai circuiti secondari.
Il tutto ha una sua dignità, la storia anche se già vista altre volte regge il confronto almeno dal punto di vista della tensione con film più famosi con una trama del tutto simile a questa.


Classico prodotto b movie a bassissimo costo, Chain Gang Women tradotto in italiano con il titolo molto furbo di Violentata davanti al marito può valere una visione nell’ottica del puro passatempo senza impegno.
Del resto Frost si arrangia con quello che ha, ovvero con pochi dollari che utilizza esclusivamente per assemblare un cast di comprimari; i ruoli principali sono affidati ad autentici caratteristi come Michael Stearns, William B. Martin e le due bellezze inevitabilmente inserite non solo per ragioni di sceneggiatura, ma per meri motivi fisici.
Barbara Mills, attrice dalle alterne fortune specializzatasi prima e dopo in B movies è la bella moglie del fattore mentre Linda York (da noi pressochè sconosciuta) è Ann, la fidanzata di Willy.


Il cast lavora con decoro guadagnandosi la sufficienza aiutato anche dal clima nettamente da B movies che il film emana dopo pochi minuti dal suo inizio.
Tuttavia, come dicevo prima, può valere una visione non fosse altro che per respirare l’aria campagnola dell’America primi anni settanta, in un trionfo di oggetti vintage, auto d’epoca e vestiti di serie come poi ne abbiamo visti a bizzeffe in altre produzioni clone.

Violentata davanti al marito
Un film di Lee Frost. Con Michael Stern, Robert Lott, Barbara Mills, Linda York Titolo originale Chain Gang Women. Erotico, durata 90 min. – USA 1971.

Michael Stearns .. Mike
Barbara Mills ..La moglie del fattore.
Linda York … Ann
Ralph Campbell …Tom il fattore
Wes Bishop … Coleman
William B. Martin … Willy
Bruce Kimball … Sam
Phil Hoover … Gentry
Chuck Wells … Jones
Duke Wilmoth …Un prigioniero
E. ‘Red’ Schryver … Larson
Colin Male …Un prigioniero
Henry Fusco …Un prigioniero
Jim Stemme …Un prigioniero
James E. McLarty …Sergente di polizia

Regia: Lee Frost
Sceneggiatura: Lee Frost, Wes Bishop
Produzione: Wes Bishop,Jeffrey Kruger
Musiche: Porter Jordan
Montaggio: Lee Frost
Editing: Lee Frost, E. ‘Red’ Schryver

giugno 20, 2012 Posted by | Drammatico | , , | Lascia un commento

5 donne per l’assassino

Giorgio è uno scrittore di successo sposato con Erica, in attesa di partorire.
Al ritorno da un viaggio, l’uomo viene avvisato da una parente che la moglie ha le doglie; ma appena arrivato nella sua villa di Pavia, Giorgio apprende con dolore da Lidia, un’amica di famiglia che è anche la dottoressa che ha assistito Erica durante il travaglio,che la moglie è morta per i postumi del parto.
Il bambino però è nato, e Giorgio, pur affranto, organizza i funerali della moglie.
Lidia informa Giorgio che è sterile, gettando l’uomo nella costernazione; il dubbio sulla fedeltà della moglie inizia a serpeggiare in lui.
Mentre Giorgio è in preda ai suoi dubbi, il bambino appena nato è affidato alle cure di sua zia e del professor Aldo Betti, rinomato pediatra dalla doppia vita ; Betti infatti, pur sposato, non si fa scrupolo nel tradire sua moglie che dal canto suo non sembra essere particolarmente interessata alla vita del marito.


Intanto in città, in curiosa concomitanza con questi avvenimenti, un misterioso serial killer semina il terrore tra le donne in stato di gravidanza, alcune delle quali vengono orrendamente uccise con un taglio che va dal pube all’ombellico.
Lo stesso killer lascia sui corpi delle sventurate vittime un misterioso segno di riconoscimento, un simbolo raffigurante la fertilità.
Una dopo l’altra vengono uccise Tiffany, Oriana e Sofia, tutte in qualche modo legate alla clinica dov’è avvenuta la tragica moglie di Giorgio.
Il quale, dal canto suo, diventa il primo sospettato dei delitti. Ma ben presto si capisce che Giorgio è estraneo alla storia, anche perchè è il primo a soccorrere Lidia, anch’essa vittima di una aggressione.


Ma la vicenda sta per ingarbugliarsi; il commissario che segue le indagini decide di tendere una trappola al killer, usando la collaborazione di Giorgio e scoprendo che Erica non è morta di parto, ma è stata uccisa e che anche sul suo pube il misterioso assassino ha tracciato un rudimentale simbolo di fertilità.
L’assassino sarà scoperto grazie anche a questo particolare, ma le sorprese non sono finite…
Il genere thriller non è nelle corde di Stelvio Massi, uno dei migliori registi di genere del cinema italiano, autore di discreti prodotti riconducibili al poliziesco all’italiana come La legge violenta della squadra anticrimine ,Mark il poliziotto spara per primo,Mark il poliziotto, Un poliziotto scomodo, Poliziotto senza paura,Il commissario di ferro.

Ilona Staller

Pur dotato di una buona sceneggiatura, 5 donne per l’assassino è un thriller modesto penalizzato da un’incredibile mancanza di tensione e da una recitazione estremamente approssimativa, nonostante nel cast figuri nientemeno che Giorgio Albertazzi.
Un vero peccato, perchè in mano ad uno specialista questo film avrebbe potuto avere ben altro risultato e sopratutto ben altro esito ai botteghini.
Siamo nel 1974, e il genere thriller, pur abbondantemente sfruttato continua a tirare anche se di li a poco il filone si sarebbe andato lentamente esaurendo; Massi, reduce dal discreto successo di Squadra volante, allestisce alla bene e meglio un cast fatto essenzialmente di comprimari, in cui l’unico nome di sicuro spicco è proprio quello di Albertazzi .
La miscela scelta da Massi privilegia più la brutalità delle scene, peraltro girate in maniera approssimativa, con abbondanti scene di nudo, facendo spogliare a turno Ilona Staller, che nelle poche sequenze in cui resta in vita il suo personaggio sembra essere allergica ai tessuti e le altre starlet che compongono il cast.


Si spogliano tutte, da Pascale Rivault (la dottoressa amica di Erica e Giorgio) e Gabriella Lepori cosi come Catherine Diamant; inutile dire che le attricette appaiono espressive solo senza vestiti, perchè la recitazione latita in maniera preoccupante contribuendo non poco alla scarsa credibilità della pellicola stessa.
Stelvio Massi non riesce in nessun momento a creare tensione, limitandosi a snocciolare sequenza da sbadigli, intervallate dagli omicidi abbastanza feroci ma racchiusi in pochi minuti di proiezione, lasciando il resto del film a galleggiare nell’anonimato; il finale riscatta in qualche modo il film, riuscendo a salvare dalla bocciatura totale il prodotto stesso.

Howard Ross

Pascale Rivault

In quanto alle varie componenti del film, le musiche sono imbarazzanti, la fotografia appena sufficiente e tutto il resto assolutamente dimenticabile.
Fra i tanti thriller del periodo d’oro, questo è uno dei più anonimi e deludenti; agli amanti del cinema anni settanta ricordo che la pellicola è di difficile reperibilità e che le uniche versione ridotte dal 35 mm sono riconducibili a vecchie VHS, mentre non sono riuscito a trovare versioni digitali o ricavate da rippaggi via satellite. Il che è attribuibile anche alla presenza nel film, come già accennato, di scene abbastanza forti anche per il genere thriller.

 Cinque donne per l’assassino

Un film di Stelvio Massi. Con Giorgio Albertazzi, Howard Ross, Ilona Staller, Katia Christine,Francis Matthews, Pascale Rivault, Lorenzo Piani, Catherine Diamant, Gabriella Lepori, Carla Mancini, Edmondo Sannazzaro Giallo, durata 95′ min. – Italia 1974.

Francis Matthews …Giorgio Pisani
Pascale Rivault … Dottoressa. Lidia Franzi
Giorgio Albertazzi … Professor Aldo Betti
Howard Ross …Commissario
Katia Christine … Alba Galli
Catherine Diamant … Oriana
Gabriella Lepori … Sophia
Maria Cumani Quasimodo …Zia Marta
Tom Felleghy …Editore
Ilona Staller … Tiffany

Regia Stelvio Massi
Soggetto Roberto Gianviti, Gianfranco Clerici
Sceneggiatura Roberto Gianviti, Gianfranco Clerici, Vincenzo Mannino
Produttore Carlo Maietto
Casa di produzione Thounsand Cin.ca (Roma); Les Film La Boétie (Paris)
Distribuzione (Italia) Alpherat
Montaggio Maurizio Bonanni
Musiche Giorgio Gaslini
Scenografia Sergio Palmieri
Costumi Sergio Palmieri
Trucco Bianca Verdirosi

giugno 16, 2012 Posted by | Thriller | , , , , | Lascia un commento

Una ragazza piuttosto complicata

Alberto è un giovane bohemien, seduttore ma anche voyeur; un giorno intercetta casualmente una telefonata bollente tra due amanti lesbiche e decide di conoscere personalmente Claudia,una delle  protagoniste della telefonata.
Claudia è una ragazza che fa la pittrice a tempo perso; è una borghese enigmatica e sessualmente disinibita, fidanzata con Pietro che però frequenta poco.
Tra i due nasce una relazione; Alberto sembra stregato dalla strana ed enigmatica personalità di Claudia, che sembra riuscire a convivere senza problemi dividendosi tra Pietro e il suo nuovo amante.
Casualmente un giorno Alberto scopre che la donna porta con se una pistola; chieste spiegazioni in merito riceve da Claudia una risposta ambigua.

Florinda Bolkan

La donna racconta di aver dovuto subire le attenzioni particolari di Greta, la seconda moglie di suo padre e che la pistola le serve perchè ha intenzione di usarla su di se, perchè è arrivata al punto di disprezzarsi e odiarsi.
Alberto conosce Greta e poco tempo dopo matura il desiderio di liberare Claudia dal suo personale tormento; così un giorno incontratola per strada mentre è alla guida di una bicicletta la investe e la uccide.
Ma Claudia sembra più sconvolta che rallegrata dalla notizia dell’omicidio e tronca la relazione con Alberto.
Quando costui tenterà di rivederla……


Classico melodramma intriso di motivazioni filosofiche-sociali,Una ragazza piuttosto complicata è la riduzione cinematografica di un romanzo di Alberto Moravia; lo scrittore, che nel 1959 aveva scritto La marcia indietro, il romanzo da cui il film è tratto, è stato utilizzato spesso per edizioni cinematografiche, quasi sempre con risultati discutibili se non pessimi.
In questo caso, anche se non siamo di fronte ad una riduzione malvagia, assistiamo al solito esercizio di stile in classica metafora anti borghese con intenti moralizzatori e di denuncia inerenti il dorato mondo medio borghese italiano della fine degli anni sessanta.
Diretto da Damiano Damiani nel 1969, che l’anno precedente aveva viceversa trasposto con grande bravura il classico di Sciascia Il giorno della civetta, Una ragazza piuttosto complicata è un film a corrente alternata, in cui convivono alcune parti felici (la descrizione del mondo pop in cui vive la pittrice Claudia) e altre decisamente meno (dialoghi spesso astrusi e improbabili), con un finale abbastanza sorprendente ma allo stesso tempo irrisolto e enigmatico.


Probabilmente il regista friulano nelle intenzioni voleva riproporre Moravia in una nuova veste, dopo aver presentato nel 1963 La noia, sempre tratto da un romanzo dello scrittore romano; non a caso sceglie per il ruolo di Claudia Catherine Spaak che nel 1963 aveva interpretato Cecilia.
Ma questa volta l’alchimia non c’è e non per colpa della bella attrice francese; a non funzionare è la storia in se, ricca di pause e di dialoghi spesso artificiosi quando non pretestuosi.
In più nel ruolo di Alberto viene scelto Jean Sorel, che misteriosamente appare impacciato e goffo; il ruolo a metà strada tra l’intellettuale e il frivolo che sono l’ossatura del personaggio di Alberto sono resi in maniera dilettantesca dall’attore francese.

Catherine Spaak e Jean Sorel

Un altro errore della sceneggiatura del film consiste nell’aver sacrificato il personaggio di Greta, che poteva essere reso ricco di sfumature abbandonandolo al suo destino; non viene spiegata infatti la natura del rapporto tra Claudia e Greta così come relegato in un angolo è il personaggio di Pietro, il fidanzato di Claudia interpretato da un Proietti in palese disagio.

Molto meglio la Bolkan nel ruolo di Greta, ma come già detto, il suo personaggio manca di spessore, profondità.
Bene invece la parte visiva che riguardano la descrizione dell’avanguardia body art (c’è una ricercatezza di inquadrature davvero encomiabile); il film quindi mantiene un equilibrio davvero precario fra scene e dialoghi a tratti narcotizzanti e una storia dei personaggi che la popolano mai eviscerata e viceversa piuttosto sacrificata.
Prodotto che avrebbe potuto avere un’altra resa se solo si fosse osato arricchire la psicologia dei personaggi sacrificando dialoghi verbosi e pretenziosità delle solite tirate anti borghesi.
Damiani ha fatto di meglio nel corso della sua carriera, ma va anche detto che non siamo di fronte ad un prodotto invedibile quanto piuttosto pesantemente datato. Non certo un b-movies, che può valere una visione.

A tal riguardo segnalo il link per la visione in streaming del film, in una buona qualità:http://www.nowvideo.sx/video/e39470fb4d429

Una ragazza piuttosto complicata
Un film di Damiano Damiani. Con Florinda Bolkan, Catherine Spaak, Jean Sorel, Luigi Proietti,Gabriella Grimaldi, Gaetano Imbrò, Gino Lavagetto, Franco Giornelli, Luigi Casellato, Luciano Catenacci, Franco Leo, Sergio Graziani Drammatico, durata 112′ min. – Italia 1969

Jean Sorel: Alberto
Catherine Spaak: Claudia
Florinda Bolkan: Greta
Gigi Proietti: Pietro

Regia Damiano Damiani
Sceneggiatura Damiano Damiani, Alberto Silvestri, Franco Verucci
Casa di produzione Filmena, Fono Roma
Distribuzione (Italia) La Florida Cinematografica
Fotografia Roberto Gerardi
Montaggio Antonietta Zita
Musiche Fabio Fabor

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giugno 12, 2012 Posted by | Drammatico | , , , , | Lascia un commento

Sensitività (Sensività)-Kyra la signora del lago

Sensività locandina

Sensitività, o Kyra – La signora del lago, o anche L’ultima casa vicina al lago o Sensività (titolo originale) è un film conosciuto più per le sue disavventure che per i suoi pregi artistici, peraltro molto ridotti.
Diretto da Enzo G. Castellari nel 1979, rappresenta l’unica incursione nel campo dell’horror metafisico da parte del regista romano e arriva nelle sale due anni dopo il discreto risultato di Quel maledetto treno blindato, un curioso film bellico diretto dallo stesso Castellari nel 1977.
Sensitività ebbe vicende molto travagliate, a partire da una distribuzione cinematografica penalizzante che portò il film nelle sale per un ristrettissimo periodo; l’insuccesso ai botteghini convinse la casa cinematografica Video Kineo ad acquisire i diritti della pellicola, cosa che avvenne in maniera non indolore.

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Il film di Castellari venne affidato ad Alfonso Brescia che stravolse la trama originale, girò altre scene sostituendo l’attrice protagonista Leonora Fani con una controfigura con il risultato finale di ottenere un prodotto ibrido e sconclusionato che rese il film irriconoscibile.
Poichè già di per se la sceneggiatura originale era debole e poco convincente il guazzabuglio divenne totale e il film si rivelò economicamente un altro fallimento.
Del film di Castellari si persero le tracce e a tutt’oggi coloro che hanno visto la versione originale, mai più trasmessa nel mercato televisivo si contano sulla punta delle dita.

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Il titolo del film in origine era Sensività, ma nella versione spagnola divenne Sensitività, titolo con il quale il film è passato sul piccolo schermo; il giudizio tecnico sul film va quindi mediato su quella che è la parte originale dello stesso,  per intenderci diretta da Castellari.
La stessa sceneggiatura originale prevedeva uno svolgimento della pellicola sui binari della storia nera con elementi horror, erotici e metafisici che nella versione da noi conosciuta come Kyra la signora del lago sono in parte persi e in parte assolutamente incomprensibili.

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In quest’ultima versione, quella che attualmente circola (sporadicamente) in orari impossibili e su canali televisivi a visibilità limitata, la storia è incentrata sulle vicende di Lilian, una ragazza orfana che ritorna al proprio paese natale, per scoprire che dopo ogni rapporto sessuale con giovani del luogo, nel corso dei quali perde la conoscenza finendo per sembrare morta, avviene un omicidio.
Il tutto è legato ad un’antica maledizione e a Kyra, una divinità crudele e alla presenza in paese della gemella di Lilian, Lilith (antico personaggio della cosmogonia ebraica e mesopotamica, considerata dagli ebrei la prima moglie di Adamo e dai mesopotami un demone crudele).
La contemporanea presenza delle due gemelle risveglia quindi l’antica maledizione, amplificata dall’odio viscerale che Lilith porta per Lilian, che la ragazza considera responsabile delle disavventure che ha vissuto.
L’odio mortale tra le due gemelle porterà alla tragedia finale, quando Lilith aggredirà Lilian, arrivata in paese con una moto, provocandone la caduta dalla stessa che prenderà fuoco durante il mortale duello tra le ragazze, che moriranno per colpa della benzina infiammatasi dopo l’uscita dal serbatoio della moto.

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Leonora Fani

Il plot ha quindi una tematica di base non originale, che Castellari sviluppa svogliatamente come del resto testimoniato dal regista stesso che ha ricordato quanto poco credesse in questo progetto. Tuttavia, nelle parti attribuibili sicuramente al regista romano si nota un’eleganza formale e un uso della fotografia di sicuro livello, segno dell’indubbia abilità del regista romano.
Il giudizio sul film andrebbe quindi formulato visionando la versione originale del film, dimenticando per un attimo quella farraginosa e incoerente di Brescia; Sensitività ha un suo fascino, delle belle scene e un minimo di tensione anche se l’horror non è certamente il genere preferito da Castellari, che infatti non girerà più prodotti di questo genere.
Tra le scene aggiunte nella nuova sceneggiatura ce ne sono alcune che muovono al riso invololontario, tanto appaiono fuori contesto e inserite per ovviare all’assenza dell’attrice protagonista, la Fani; si vedano in tal senso le immagini della mano insanguinata che affiora dall’acqua o quelle dell’ascia che sfonda le porte inserite senza alcuna logica.
Come giustamente fa notare D.P. nel suo esaustivo articolo scritto per il mensile Nocturno (http://www.nocturno.it/news/sensivita-vs-kira-la-signora-dellago?AspxAutoDetectCookieSupport=1),

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la differenza tra l’idea iniziale di Castellari e la realizzazione successiva di Brescia appare evidente sin dalle battute iniziali.
Abbastanza previdibile e scontata appare la sequenza iniziale, con la mamma di Lillian e la stessa bambina insieme su una barca, seguito dall’arrivo in paese di un misterioso motociclista con casco che si rivelerà essere la stessa Lillian mentre ben diversa era l’introduzione studiata da Castellari.
In definitiva, il giudizio sul film non può essere oggettivo almeno per quanto riguarda la prima stesura del film, troppo differente dalla seconda; anche il finale è completamente differente e mortifica l’opera di Castellari banalizzandola con una sbrigativa morte di entrambe per lo scoppio della moto, mentre in origine la sequenza prevedeva un finale in cui le due ragazze finivano per unirsi in un legame incestuoso.
Poichè molto difficilmente ritroveremo in rete la versione originale del film, dobbiamo accontentarci di quella di Brescia, che ovviamente non vale una visione nemmeno distratta; a scusante del regista romano va detto che è difficilissimo modificare una pellicola senza avere nemmeno la presenza dell’attrice protagonista, dovendo quindi contare solo su controfigure e artifici di scena.

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Per quanto riguarda il cast, splendida la prova di Leonora Fani,, che si conferma attrice di razza anche se ancora una volta bisogna segnalare la miopia dei produttori e dei registi che non la scritturarono (salve rarissime eccezioni) per film che ne esaltassero la grandi capacità interpretative e il carisma che l’attrice veneta possedeva. Così così la Adriani mentre il resto del cast fa il suo dovere; belle le musiche di Maurizio e Guido De Angelis, bella la fotografia.
Per quanto riguarda la documentazione fotografica che ho scelto per questa recensione, occorre ricordare che si tratta della seconda versione del film, quella di Brescia, che ho eliminato le parti più scabrose e che essendo la fonte una riduzione in analogico di una vecchia VHS i fotogrammi stessi del film appaiono di bassissima qualità.

Sensitività
Un film di Enzo Girolami Castellari. Con Caterina Boratto, Leonora Fani, Vincent Gardenia, Wolfango Soldati Drammatico, durata 92 min. – Italia, Spagna 1979.

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Leonora Fani: Lilian
Patricia Adriani: Lilith
Caterina Boratto: Kira
Vincent Gardenia: Pittore anziano
Wolfango Soldati: Manuel
Enzo G. Castellari: Ispettore

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Regia Enzo G. Castellari versione originale
Regia Alfonso Brescia versione Kyra la signora del lago
Soggetto José Maria Nunez
Sceneggiatura Leila Bongiorno, José Maria Nunez
Casa di produzione Cinezeta
Distribuzione (Italia) Alpherat Orange
Fotografia Alejandro Ulloa
Montaggio Gianfranco Amicucci
Musiche Maurizio De Angelis, Guido De Angelis

giugno 10, 2012 Posted by | Horror | , | Lascia un commento

Brutti sporchi e cattivi

Un’umanità brutta, sporca e cattiva, che vive emarginata in una baraccopoli ai margini della metropoli in condizioni di degrado fisico e morale, in cui tutti sono pronti a far tutto pur di galleggiare in un’esistenza anonima e segnata dalla miseria e dall’abbrutimento
Un microcosmo popolato da accattoni e ladri, puttane e truffatori, un’umanità segnata anche fisicamente da tratti somatici spesso ripugnanti, in cui vige una promiscuità in cui non c’è alcuna regola morale, nella quale fioriscono rapporti incestuosi e rapporti proibiti tra e con minorenni; questo è il quadro d’assieme del film di Scola, che indica proprio nel titolo le caratteristiche specifiche di questa massa amorfa di individui che sono per l’appunto brutti sporchi e cattivi.
Siamo alla periferia di Roma, in un campo densamente popolato e strutturato a macchia di leopardo con costruzioni fatiscenti in cui vivono, in condizioni assolutamente proibitive quelli che sono gli emarginati e i reietti della società civile; fra essi spicca la famiglia allargata di Giacinto Mazzatella, un emigrato pugliese privo di un occhio dal carattere dispotico, che alloggia in una baracca in cui vivono due dozzine di persone.

Promiscuità nella baracca

Tra esse ci sono la consorte di Giacinto, la mamma, i figlie le figlie, le nuore che occupano come bestie la cadente costruzione; Giacinto non si fa scrupoli di trattare tutti come animali, assolutamente indifferente a qualsiasi forma di morale. Lo vedremo infatti circuire sua nuora, portarsi a casa una prostituta e imporla come sua compagna alla moglie e al parentame,usare la sua cinica a abominevole morale per dominare e tiranneggiare la pletora di persone che lo circonda, tutti in qualche modo costretti a ruotare attorno alla sua figura.
Giacinto sa di poter dominare gli altri in virtù del possesso di un milione di lire, somma che gli è stata riconosciuta come indennizzo per aver perso un occhio; quel milione ovviamente fa gola a tutti e lui lo nasconde nei luoghi più improbabili, fino a scordarsi talvolta il nascondiglio in cui lo ha messo.

Nino Manfredi

Allora Giacinto diventa ancor più disumano se vogliamo; la sua furia si abbatte su tutti, fino al momento in cui ritrova il denaro e torna quindi ad una dimensione meno diabolica.
Il precario equilibrio della gente della barracca si dissolve il giorno in cui porta a casa Iside, una formosa prostituta napoletana con la quale si è dato alla bella vita, iniziando a dilapidare il suo piccolo gruzzolo.
Per la famiglia è un’onta intollerabile; non è il gesto in se a scatenare le ire, perchè ben altre cose accadono in quella succursale d’inferno che è la baracca, ma è lo spreco di denaro la molla scatenante, perchè su quel denaro ci fanno affidamento un pò tutti.
Così, con un complotto di famiglia grottesco e tragico si arriva alla decisione finale; Giacinto deve morire.
Gli avvelenano la pasta, ma il piccolo Lucifero si salva, perchè è scaltro, perchè assomiglia ad un topo, uno di quelli che infestano il campo; così, conscio di esser stato avvelenato con un topicida, Giacinto si salva ingerendo acqua salata e vomitando il micidiale intruglio.


La sua vendetta scatta puntuale: vende la baracca ad un altro gruppo di disperati, acquista una vecchia auto e si gode la scena dell’arrivo degli emigrati che si scontra con la sua famiglia. Poi da fuoco alla barracca; adesso le famiglie senza casa sono due, ma la soluzione c’è.
E Giacinto torna ad occupare il suo ruolo di re della corte dei miracoli; si fa nascondere il denaro nel braccio che adesso porta ingessato e giganteggia dall’alto del ritrovato potere.
Brutti sporchi e cattivi è un film grottesco all’eccesso, cattivissimo e nichilista, in cui si muove un’umanità sperduta e senza bussola, in cui non c’è un solo personaggio che non risenta della situazione di degrado morale in cui vive.
E la degradazione la avvertiamo in quasi tutte le scenette costruite dal regista, quell’Ettore Scola che con questo film raggiunge le vette della sua poetica; siamo di fronte ad un piccolo capolavoro che riesce nell’impresa di capovolgere gli stereotipi imposti dalla morale corrente, in cui i poveri sono solamente sfortunati protagonisti della vita sociale.
In questo film si ribaltano le prospettive, perchè affiora l’altra faccia di un’umanità fatta di poveri che non sono solo tali dal punto di vista economico, ma lo sono dal punto di vista etico e morale, una massa amorfa priva di dignità e regole, di sentimenti e sopratutto un’umanità istintiva preda delle peggiori pulsioni.


Scola dipinge quindi un sottoproletariato che assomiglia a quello pasoliniano solo per l’habitat nel quale si muove; non ha speranze, questo popolo di disperati e non le ha perchè è marcio dentro, perchè è cattivo di suo, perchè ha un comportamento asociale e anarchico.
Non ci sono leggi che tengano, non c’è armonia o pulizia morale in questo girone dantesco; nella barracca ( e il discorso lo si può allargare a tutto il campo) si vive assieme per opportunità personale, perchè non c’è altro posto in cui ripararsi, mangiare e espletare i propri bisogni.
Emblematica a tal fine la figura della ragazzina che riempie l’acqua per la famiglia; è l’immagine di apertura e la vediamo guardare, con occhi sognanti e ancora se vogliamo puri in direzione della città, che sembra lontana anni luce dall’alto della cupola di san Pietro. La rivedremo nelle scene finali andare ancora a riempire l’acqua, ma questa volta incinta.Un’immagine desolante, ancora stagliata con la città in lontananza, assolutamente indifferente ai drammi di gente che vive esistenze al più infimo livello animalesco.


Scola smonta quindi un mito, quello del povero sfortunato e ne fa un mito all’opposto, creando le condizioni per la nascita di un’altra frazione di sottoproletariato, quello senza speranza e senza futuro.
Un mondo in cui vige una legge della giungla ancor più crudele, perchè popolata da esseri pensanti eppure allo stesso tempo preda degli istinti più ciechi.
Quando nel 1976 il grandissimo regista di Trevico mette mano alla sceneggiatura di questo film è reduce dal successo di uno dei capolavori del cinema italiano, quel C’eravamo tanto amati in cui aveva fatto capolino tutta l’amarezza e il cinismo di un uomo che vede e analizza come farebbe un patologo con un cadavere la vita e la società; è il momento più fecondo e profondo del regista, che di li a poco avrebbe consegnato alla storia del cinema altri capolavori come Una giornata particolare, La terrazza e La famiglia.

Beryl Cunningham

Parte della critica è stata poco indulgente con Scola e questo non deve sorprendere; i critici spocchiosi, abituati a vedere film incomprensibili salutati come manifesto del mondo moderno poco potevano capire di un’ars poetica così amara e cinica, che per certi versi tanto assomiglia a quella di Monicelli, pur essendo naturalmente diversa e di diverso respiro.
Brutti sporchi e cattivi è un film disturbante, amaro e grottesco, cattivo fin nel midollo ed è sopratutto la titanica prova d’attore di Nino Manfredi, che interpreta il satanico Giacinto con una compenetrazione nel personaggio assoluta e totale.
Abbiamo conosciuto bene l’attore ciociaro, tanto da sapere perfettamente che lui umanamente è agli antipodi dal personaggio interpretato; eppure quella caratterizzazione perfetta, quell’aria luciferina, quel suo essere personaggio dannato e senza speranza è così trasfigurato da farci chiedere legittimamente se in fondo nell’animo dell’attore non albergasse una piccola parte di quel Giacinto così splendidamente interpretato.

La prostituta Iside

Perchè Manfredi/Giacinto alla fine sembrano un tutt’uno; e poichè abbiamo conosciuto il Manfredi sornione e ironico, allegro e gentile gli facciamo credito di una capacità interpretativa straordinaria, in questo ruolo che sarà uno dei più intensi realizzati in una carriera straordinaria.
E’ proprio con Scola che Manfredi raggiunge l’apice della sua abilità, della sua capacità di creare personaggi straordinariamente reali.
Ed è con questo film che l’attore ciociaro può, a pieno titolo, fregiarsi dell’immagine figurata di primo degli attori del nostro cinema.

L’avvelenamento di Giacinto

Tornando al film è difficile scegliere scene rappresentative dello stesso, visto il percorso lineare dello stesso, la discesa agli inferi di questo gruppo di umani così poco umani; a dover scegliere obbligatoriamente segnalerei la scena iniziale e quella finale che ho citato con protagonista la ragazzina che perde la purezza iniziale proprio in virtù del lassismo morale che impera nella barracca, la scena del congresso carnale tra uno dei figli e la cognata avvenuto all’interno della barracca stessa mentre tutti dormono e segnata dalla frase “Ahò, la faccia da mignotta ce l’hai, er fisico pure. nun vedo perché nun dovresti esse all’altezza della situazione“, l’oltraggioso rapporto tra uno dei fili e Iside (la prostituta) anch’esso caratterizzato dal fulminante assunto “Sono uno di famiglia“, il primo incontro tra Giacinto e Iside sotto un gigantesco cartellone pubblicitario, uno dei totem della civiltà dei consumi oppure la scena più grottesca  e cattiva del film, il momento in cui buona parte della famiglia accompagna la vecchia nonna a riscuotere la pensione, un corteo di straccioni che invade le strade di una Roma indifferente e repellente.

L’incendio della baracca

Un film contestato, a volte poco capito e che ha diviso come in pochi casi il pubblico e la critica; segno della vitalità, della forza dirompente di una pellicola capace di generare discussioni violente, riflessioni e capace di sovvertire canoni precostruiti.
Un viaggio all’inferno e nell’inferno, dal quale siamo fuori, fortunatamente.
Forse.

 

Brutti sporchi e cattivi
Un film di Ettore Scola. Con Nino Manfredi, Marcella Michelangeli, Marcella Battisti, Francesco Crescimone, Silvia Ferluga, Zoe Incrocci, Adriana Russo, Franco Marino, Ennio Antonelli, Beryl Cunningham, Ettore Garofalo, Maria Bosco Commedia, durata 115′ min. – Italia 1976.

Nino Manfredi: Giacinto Mazzatella
Francesco Anniballi: Domizio
Ennio Antonelli: l’oste
Marcella Battisti: Marcella Celhoio
Maria Bosco: Gaetana
Giselda Castrini: Lisetta
Francesco Crescimone: il commissario
Beryl Cunningham: la baraccata di colore
Alfredo D’Ippolito: Plinio
Giancarlo Fanelli: Paride
Silvia Ferluga: la maga
Marina Fasoli: Maria Libera
Ettore Garofolo: Camillo
Zoe Incrocci: la madre di Tommasina
Franco Marino: padre Santandrea
Marco Marsili: Vittoriano
Franco Merli: Fernando
Marcella Michelangeli: impiegata postale
Clarisse Monaco: Tommasina
Linda Moretti: Matilde
Luciano Pagliuca: Romolo
Giuseppe Paravati: Tato
Aristide Piersanti: Cesaretto
Silvana Priori: Moglie di Paride
Giovanni Rovini: la nonna Antonecchia
Adriana Russo: Dora
Maria Luisa Santella: Iside
Mario Santella: Adolfo
Assunta Stacconi: Assunta Celhoio

Regia Ettore Scola
Soggetto Ruggero Maccari, Ettore Scola
Sceneggiatura Ruggero Maccari, Ettore Scola
Produttore Carlo Ponti
Fotografia Dario Di Palma
Montaggio Raimondo Crociani
Effetti speciali Fratelli Ascani
Musiche Armando Trovajoli
Scenografia Luciano Ricceri, Franco Velchi
Costumi Danda Ortona
Trucco Francesco Freda

giugno 4, 2012 Posted by | Drammatico | , , | 3 commenti

L’arcano incantatore

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La vicenda ha luogo in un’epoca imprecisata ma, presumibilmente, alla fine del settecento. Per sfuggire al tribunale ecclesiastico, che lo cerca per aver sedotto e costretta all’aborto una ragazza, un giovane seminarista, Giacomo Vigetti, stipula un misterioso patto con una megera, che si vuole in grado, attraverso i suoi poteri, di risolvere fatti incresciosi come quello che lo riguarda. Questa vive nella stanza di una villa lugubre, nascosta dietro un paravento da cui mostra solo un occhio ed una mano guantata di pizzo nero, con l’unghia della quale segnerà il novizio, stabilendo con esso un legame inscindibile. Di lì a poco si imbatterà in eventi inspiegabili, dirà la donna, tutti da ricondurre al loro accordo.
Dopo averle consegnato in pegno il cilicio della madre morta, la dama lo indirizza presso il monsignore: un prete a cui la chiesa ha revocato i voti per via del suo interesse verso gli studi esoterici.

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Così, svolgendo l’incarico di assistente per il vecchio parroco, potrà estinguere il debito con la fattucchiera, avendo in cambio risolte le sue contrarietà.

Una volta sul luogo avrà modo di conoscere, per bocca di Aoledo, che lo accompagnerà dal suo nuovo padrone, le dicerie che ruotano attorno all’uomo, noto nel circondario come arcano incantatore per via dei misterici esperimenti, sul limitare tra la vita e la morte, che compie all’interno del suo maniero, antico e fatiscente. Non meno inquietanti sono le storie che interessano Nerio, il suo predecessore, morto in circostanze oscure, in odore di patto satanico.
Vox populi che sembra trovare conferma proprio nel diario di Nerio, dove questi annotava i suoi tentativi di evocare il demonio. Anche tutto ciò che interessa lo spretato sembra rispondere al vero, sebbene nei suoi esperimenti metempirici, risieda invece un’inestinguibile sete di conoscenza:

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lo studio sulla telecinesi e sull’esperienza extracorporea, condotto in parallelo con un fantomatico corrispondente. Il compito del seminarista, sarà proprio quello di trascrivere i messaggi cifrati che il monsignore detta lui, traendoli da un piccolo libro che porta sempre con sé. I messaggi vengono spediti poi da una delle converse che vivono in un casolare, ai bordi di un lago, nei pressi della magione dell’uomo.
Ma dopo aver assistito ad inquietanti manifestazioni, bicchieri che si librano nell’aria, pipistrelli a suggere sangue di salassi necessari per la trance, inspiegabili luci spettrali, e, soprattutto, due ragazzine in abito da conversa che appaiono e scompaiono tra le mura della casa, il novizio si convincerà che il maligno evocato da Nerio è davvero in quel luogo e sta tentando di impossessarsi di monsignore.
La verità, però, è ben diversa.

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Quando gira L’arcano Incantatore, Avati, è lontano dal gotico ormai da diverso tempo, tornerà a batterlo più di dieci anni dopo con Il nascondiglio ma in realtà, non ha mai abbandonato del tutto il “nero”, lavorando a thriller come La stanza accanto e Dove comincia la notte, in qualità di sceneggiatore e produttore, e a L’amico d’infanzia, di cui fu anche regista. Poco prima, oltretutto, fu autore, e sostanzialmente supervisore, del culto televisivo Voci notturne, diretto poi da Fabrizio Laurenti (La casa 4). Ad ogni modo, anche in un capolavoro come Regalo di Natale, ad esempio, il regista dipana il tessuto narrativo in un’ottica da giallo, sfruttando i tempi del tavolo da poker, per sviluppare una vicenda che trasfigura da commedia a dramma, lambendo poi, appunto, il mistery.

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E va detto che elementi più precisamente gotici non erano estranei neanche a Magnificat ed al più antico Tutti defunti… tranne i morti (che però è piuttosto un autoironico sberleffo del genere, essendo una commedia nera uscita a ridosso de La casa dalle finestre che ridono). L’ultimo horror, vero e proprio, prima di questo, fu Zeder di ben tredici anni prima.
A ben vedere, Avati, realizza con L’arcano incantatore la sua opera gotica più classica. Pur se calata nell’atmosfera provinciale del cosiddetto gotico padano, di stretta invenzione sua e del fratello Antonio col quale collabora da sempre, che aveva caratterizzato i suoi esordi (Balsamus e Thomas e gli indemoniati), la vicenda assume qui valore più universale; nonostante ciò, non perde la propria connotazione prettamente italica. Tanto più che il film è stato girato prevalentemente in Umbria, tra Todi e le splendide campagne intorno (un bel reportage sui luoghi del film può vedersi su http://www.davinotti.com).

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L’ambiente, anche se non apertamente nominato e non di pretto padano, gioca un ruolo fondamentale nell’economia della messa in scena. Ad ogni modo un’iscrizione in testa ai titoli vuole che quella narrata sia: una fola esoterica delle nostre campagne, dando una collocazione logistica di massima.

L’autore emiliano opera per contrasto, girando in luoghi che comunicano un senso apparente di calma e quiete come il lago di Corbara ed i boschi e le radure limitrofe, utilizzando due registri distinti per rimarcare le differenze contestuali: illuminando gli interni, scarsamente, con luci naturali o candele, e al contrario sovresponendo le luci degli esterni, enfatizzando, cioè, le stesse peculiarità luministiche degli ambienti. L’eccezionale fotografia di Cesare Bastelli fa il resto, pur rischiando, per certe soluzioni e per l’estrema pulizia frutto dell’uso del digitale in luogo della pellicola (o almeno così parrebbe), di risultare a volte un po’ stucchevole.

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Le sequenze notturne, comunque, sono d’intensità esemplare, ridonando quei contrasti chiaroscurali che, dai tempi della prima Hammer, hanno sempre identificato il genere. In particolare i momenti all’interno della biblioteca sono tra i più riusciti, sul piano della suggestione visiva.

Ne risulta un lavoro d’eleganza formale fuori dall’ordinario. Una storia malevola, inquietante, dai toni rarefatti, dai dialoghi misurati al millimetro, in cui la paura è sostituita da un’inquietudine angosciosa e profonda, claustrofobica, che non cala mai un secondo fin dalla prima sequenza e lo spaesamento costante, tratto distintivo della recitazione di Dionisi, altrove tendenzialmente legnosa, qui viene in forza proprio alle intenzioni primarie del racconto.
Ma vero catalizzatore del film è l’immenso Carlo Cecchi, che sembra portarsi letteralmente addosso il Renato Caccioppoli di Morte di un matematico napoletano.

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L’aura sulfurea che lo accompagna ad ogni ingresso in scena, rende magistralmente il principio della ricerca del sapere, e come fonte assoluta del male e come travaglio interiore e fisico. Principio che sottendeva anche al capolavoro di Martone. Il viraggio fantastico non ne diminuisce il senso; al contrario, l’ombra demoniaca contribuisce ad amplificarlo oltremodo.

Ne L’arcano incantatore, Avati recupera e sovrascrive tutti i paradigmi del suo cinema orrorifico, compreso lo sguardo, tra il partecipe e l’impietoso, sulle credenze e sulle pratiche arcaiche legate alle superstizioni popolari del mondo rurale, ad esempio. O, anche, l’accento anticlericale molto presente nella grammatica del primo Avati, che pone la religione, proprio alla stregua di una qualsiasi altra superstizione, caricando i simboli cattolici di valori sinistri e morbosi. Salvo poi tratteggiare figure di prelati bonarie o tendenzialmente positive, qui l’esorcista a cui viene narrato l’episodio in analessi.
Quella di monsignore, invece, aldilà delle rivelazioni finali, è una figura dolente, segnata dalle proprie scelte; un uomo che in nome della conoscenza è pronto ad immolare se stesso, la sua fede; che affronta i suoi studi, come attraversando una via crucis luciferina, alla fine della quale, la salvezza è l’erudizione pura ad onta d’ogni costrizione dogmatica.

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Il film è carico di fascinazioni e citazioni da Bava, Murnau o dallo stesso Kubrick di Shining che si palesa negli spettri delle due converse che appaiono sempre in coppia come le gemelle Grady e nel prefinale, che rompe con la linearità soffusa del racconto, movimentando erroneamente una pellicola che ha nella stasi irretita del terrore tutta la sua ragion d’essere. L’accetta, lo squarcio sulla porta a mo’ di finestra, sono citazioni un po’ troppo plateali che si sarebbero dovute evitare; non fosse che la fine, vera e propria, cancella d’un colpo (di scena) ogni ingenuità e ridona a L’arcano incantatore il fascino sinistro e misterioso di una leggenda nera contadina; una di quelle storie ascoltate dalle voci dei vecchi di paese, infarcite di preghiere e novene e nomi di santi, che non si sa mai quale origine abbiano e dalle conclusioni sempre amare e stranianti.

Con quest’opera può anche dirsi concluso un ciclo nella vita artistica di Avati, che da allora ha condotto il suo cinema, malgrado momenti vagamente più brillanti, come certuni de Gli amici del Bar Margherita, su territori poco comprensibili per chi ne ha apprezzato il percorso, tortuoso, certo, e anche contraddittorio, ma a cui non era mai venuto meno uno sguardo poetico subito riconoscibile, immancabilmente vitale e profondo; sia nei toni del nero, come s’è detto, sia in quelli del grottesco (La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone), sia quando a questi si è sostituita la malinconia garbata di Una gita scolastica o Noi tre o Storia di ragazzi e di ragazze.

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In film come Il figlio più piccolo, si manifesta un malaugurato declino autoriale, rintracciabile, oltre che nell’esilità dei soggetti e nella pochezza della messinscena, soprattutto nella mancata occasione di ottimizzare, e gratificare, una magnifica presenza come quella di Christian De Sica, riducendo la prestazione di questi ad un inseguimento impietoso di tic e movenze dell’inarrivabile papà Vittorio (o forse non ho afferrato il gioco metafilmico). E meglio è sottacere sui volti televisivi che continuano ad intasare i suoi fotogrammi o sul Cesare Cremonini de Il cuore grande delle ragazze che grida pietà al cielo. Una sconfinata giovinezza, però, aveva in se qualche traccia sparuta che potrebbe far sperare in una rinascita futura (e poi c’erano i grandi Capolicchio e Crocitti, che da soli basterebbero a dire di un autore che quando vuole sa ancora pensare cinema). Rinascita che ci si augura possa comprendere anche il gotico, padano o meno che sia, che il nostro ha dichiarato anni fa di voler abbandonare, salvo poi dirigere il succitato Il nascondiglio (discreto ma non esaltante).
Probabilmente ne L’arcano incantatore il regista aderisce a moduli più codificati, meno personali che in Zeder o Balsamus; questo, però, non va a detrimento di un film che è e rimane uno dei suoi migliori in assoluto ed uno dei massimi vertici del cinema horror italiano e non solo; tanto che è ormai destinato a divenire un classico moderno, una pietra d’angolo, del cinema gotico e tanto che Guillermo Del Toro (Il labirinto del fauno) lo dice addirittura superiore anche ad un qualsiasi film di Tarantino.

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Alla riuscita finale non poco contribuiscono le musiche eteree e dai toni misterici di Pino Donaggio: l’inquietante motivetto Rosa di rose, che ritorna più volte durante la visione, è raggelante almeno quanto le canzoncine di Rosemary’s baby e Profondo rosso o il coro infantile di Chi l’ha vista morire?
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Un film di Pupi Avati. Con Carlo Cecchi, Stefano Dionisi, Arnaldo Ninchi, Andrea Scorzoni, Patrizia Sacchi,Vittorio Duse, Massimo Sarchielli, Renzo Rinaldi, Consuelo Ferrara, Eliana Miglio, Clelia Bernacchi Fantastico, durata 96 min. – Italia 1996.

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Stefano Dionisi: Giacomo Vigetti
Carlo Cecchi: Nerio / arcano incantatore
Arnaldo Ninchi: Aoledo
Andrea Scorzoni: don Zanini
Mario Erpichini: padre Tommaso
Vittorio Duse: padre Medelana
Patrizia Sacchi: Vielma
Eliana Miglio: prostituta malata
Consuelo Ferrara: Severina
Massimo Sarchielli: sacerdote

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Regia Pupi Avati
Soggetto Pupi Avati
Sceneggiatura Pupi Avati
Produttore Aurelio De Laurentiis, Antonio Avati
Casa di produzione Filmauro, Duea Film
Fotografia Cesare Bastelli
Montaggio Amedeo Salfa
Effetti speciali Francesco Paolocci, Gaetano Paolocci
Musiche Pino Donaggio
Scenografia Giuseppe Pirrotta
Costumi Vittoria Guaita
Trucco Franco Rufini

giugno 1, 2012 Posted by | Drammatico | , , , | 1 commento