La vedova del trullo
La vicenda si svolge in Puglia, in un paese della provincia di Bari; Nicola, sposato alla bella Maddalena, prepara i fuochi artificiali per i festeggiamenti del santo patrono.
Durante l’operazione, qualcosa va storto e l’uomo muore, lasciando la povera Maddalena senza sostentamento.
Le persone più importanti del paese decidono di aiutare la bella e piacente vedovella, offrendole come abitazione un trullo presente in paese, unico esemplare rimasto di un lontano passato; ma la soluzione è ovviamente temporanea, così il parroco del paese decide di assumere Maddalena come perpetua.
La bella donna però si trasforma in un’insidia troppo grande per il parroco, che la manda a servizio da un ricco proprietario del paese, Don Calogero.
Il quale ha un figlio; Marco, in preda a tempeste ormonali e che ben presto si invaghisce della donna, dimenticando sia le lezioni private sia la fidanzatina; Maddalena, costretta dalle vicissitudini a dover accettare l’ospitalità di Don Calogero, del quale è diventata infermiera, è costretta così a dimenarsi nella scomoda situazione.
A cambiare radicalmente le cose,arriva un evento fortuito; fuori dal paese vengono scoperte delle grotte, e sul posto si reca l’equipe del professor Granini; quando Maddalena lo conosce, ha un sussulto, perchè l’uomo in pratica è la fotocopia del defunto marito.
Mentre sono in corso i festeggiamenti per il santo patrono, essendo passato un anno dalla morte di Nicola, Maddalena decide di seguire il professore accettandone la corte, non prima però di aver ceduto al giovane Marco, che così, calmati i suoi bollori, può tornare finalmente dalla fidanzatina.
Film senza particolari pregi, ma nemmeno indecoroso, La vedova del trullo, di Franco Bottari, è uno degli ultimissimi rappresentanti del filone della commedia sexy; uscito nel 1979, quindi in pieno declino del genere, pur contando su un robusto cast di comprimari, come Carotenuto, Montagnani, Giuffrè, è un filmettino che specula principalmente sulle doti fisiche della vera protagonista del film, la diva del Crazy horse Rosa Fumetto.
La spogliarellista, poco dotata dal punto di vista recitativo, abbonda invece in scene di nudo, mentre il film ha pochi momenti divertenti, non staccandosi mai dallo stantio copione del figlio del padrone di casa che cerca la propria iniziazione erotica a spese della solita procace colf.
Poco riuscita anche la parte riguardante la location; la provincia di Bari assomiglia troppo, dal punto di vista sociale, agli stereotipi tipici degli anni settanta, troppe volte riportati quasi fossero verità.
Gli attori, ovvero il trittico di comici/caratteristi fanno la loro parte con diligenza; divertente, as usual, Renzo Montagnani che riveste il doppio ruolo di Nicola e di Granini, mentre Giuffrè e Carotenuto mantengono il loro standard naturale
La vedova del trullo, un film di Franco Bottari. Con Mario Carotenuto, Renzo Montagnani, Carlo Giuffrè, Rosa Fumetto, Nino Terzo
Erotico, durata 93 min. – Italia 1979.
Rosa Fumetto: Maddalena
Renzo Montagnani: Nicola / Il Professore Luigi Granini
Mario Carotenuto: Sindaco
Carlo Giuffrè: Parroco Don Bonifacio
Nino Terzo: Maresciallo dei Carabinieri
Regia Franco Bottari
Sceneggiatura Franco Bottari
Produttore Francesco Paolo Prestano
Casa di produzione Sirus International Films
Fotografia Maurizio Salvatori
Montaggio Marcello Malvestito
Musiche Stelvio Cipriani
America 1929 sterminateli senza pietà-Boxcar Bertha
Siamo in America, nel 1929, all’epoca della grande depressione.
Bertha è una ragazza diciottenne, che ha perso il padre e perciò si è data ad una vita errabonda, senza meta.
Durante il suo vagabondare, conosce Bic Bill Shelly, un sindacalista, con il quale ha una breve incontro sessuale, al termine del quale l’uomo la abbandona.
In seguito, la ragazza conosce un uomo di colore, un baro, del quale la ragazza diviene la spalla.
Barbara Hershey è ‘Boxcar’ Bertha Thompson
Ritrovato Bill, che è prigioniero in un bagno penale, la donna riesce a liberarlo, assieme ad un suo amico. Con l’aggiunta di un uomo di colore, la ragazza compone con loro un quartetto che, influenzato dalle idee di libertà di Bill, decide di attaccare il padrone di una compagnia ferroviaria, reo agli occhi del quartetto di essere uno schiavista.
Una serie di fortunate rapine permette per qualche tempo al gruppo di sognare la vittoria, ma l’Fbi è sulle loro tracce……
America 1929, sterminateli senza pietà, intitolato negli States Boxcar Bertha, è il secondo film di Martin Scorsese, diretto nel 1972 , film che precede Mean Streets, la sua prima opera di grande successo.
Si tratta di un film nel quale il regista mette già in mostra il suo straordinario talento, attraverso una visione lucida e resa visivamente senza mediazioni del periodo della grande depressione, seguita al crollo della borsa di Wall Street e che determinò anche il crollo della media borghesia americana, che vide di colpo annientate piccole e medie fortune, con conseguenze catastrofiche sopratutto fra la classe lavoratrice.
Scorsese adattò per lo schermo il romanzo autobiografico di Bertha Thompson, Autobiografia di una vagabonda americana, raccontando non solo la crisi economica, ma anche la vita degli hobos, dei senza tetto e senza reddito, attraverso una visione ad ampio spettro di altri problemi sociali come il razzismo e l’emarginazione.
La storia di Bertha, che diviene ben presto un’odissea, attraverso la quale la ragazza passa dallo stato adolescenziale alla vita da adulta, diviene un paradigma di tante storie americane, vite vissute nell’illusione pre crollo di Wall Street attraverso il periodo della grande depressione fino al New deal, che trasformerà nuovamente l’America in una terra promessa.
Bertha diviene immediatamente adulta, perchè alla morte del padre è costretta a fare i conti con i problemi sociali, che le impediscono di avere una vita normale; si prostituisce, quindi immediatamente entra nel mondo dei grandi, in cui alle favole si sostituiscono i problemi esistenziali, come il dover sopravvivere.
Il tutto dopo aver conosciuto Bill, che la rende adulta, uno strano tipo di sognatore che decide con lei di attaccare il potere, rappresentato dal cinico e spietato Sartoris, copia carbone dei tanti profittatori che uscirono dalla grande crisi ancora più ricchi di prima.
Scorsese racconta le loro vite, quella di Bertha, di Bill, di Rake, il baro che nasconde la sua provenienza per paura di mostrare le sue origini, di Von Morton, il nero che rappresenta la parte più discriminata d’America, ovvero la gente di colore diprezzata solo per l’appartenenza al ceppo etnico che pure tanto collaborò alla nascita della grande nazione.
Storie che si intrecciano, con destini quasi simili, comuni a quelli di tanti, troppi americani costretti a fare i conti con il grande sogno americano infrantosi davanti alle logiche del potere e del profitto.
Storie che si chiudono con personali sconfitte, come del resto diventa una sconfitta il sogno di vedere una società più giusta, in cui le pari opportunità diventino davvero realtà e non solo parole scritte sulla costituzione della più grande democrazia del mondo.
Ecco, Scorsese fa proprio questo; puntare il dito sulla differenza sostanziale tra la teoria dell’uguaglianza e la pratica della stessa, assolutamente divergente quando deve essere applicata.
Lo fa usando un linguaggio scenografico molto forte, non privo di pecche, ma duro e diretto.
Un sistema che andrà sempre più perfezionando, riuscendo a diventare in seguito uno dei registi più attenti a cogliere le contraddizioni della società americana; America 1929 è proprio l’anticamera di questo modo di vedere la storia americana, attraverso vite di emarginati, di disillusi, di coloro che vivono vite spesso disperate ai margini della società dell’opulenza.
Se questo film ha dei punti deboli, e non poteva essere altrimenti, vanno ricercati nel sacro furore che Scorsese mette nella descrizione della società e delle vite dei protagonisti, usando sia un linguaggio molto aggressivo, sia una virulenza di immagini che spiazzano lo spettatore, costretto a confrontarsi con una storia cruda e drammatica in cui i perdenti lo sono davvero, in cui l’attacco frontale del regista si manifesta in una serie finale di sequenze molto crude con qualche limite di comprensibilità sopratutto nelle varie sequenze temporali.
Il film, prodotto da Roger Corman, ha come protagonisti Barbara Herhsey e David Carradine, rispettivamente Bertha e Bill; i due attori si integrano alla perfezione, dando vita ad una coppia di personaggi di notevole spessore interpretativo.
La Hershey, che all’epoca del film aveva 24 anni, si cala perfettamente nel ruolo scomodo di Bertha, riuscendo a dare al suo personaggio un candore misto a disillusione di qualità elevatissima, come del resto fa David Carradine, alle prese con un personaggio romantico, sognatore ma allo stesso tempo cinico come quello di Bill.
L’uscita del film suscitò scalpore, per il realismo e la crudezza delle immagini; in Italia Tullio Kezich, all’epoca critico di punta del Corriere, definì Scorsese come uno dei “quattro giovani registi più promettenti del cinema americano d’oggi “. Una lungimiranza condivisa da quanti restarono affascinati dal nuovo modo imposto da Scorsese di raccontare la quotidianità, le vite comuni, il sociale di quel pianeta dalle molteplici facce che sono gli Usa.
America 1929 – Sterminateli senza pietà,un film di Martin Scorsese. Con Barbara Hershey, John Carradine, David Carradine, Barry Primus,Bernie Casey
Titolo originale Boxcar Bertha. Drammatico, durata 97 min. – USA 1972.
Barbara Hershey … ‘Boxcar’ Bertha Thompson
David Carradine … ‘Big’ Bill Shelly
Barry Primus … Rake Brown
Bernie Casey … Von Morton
John Carradine … H. Buckram Sartoris
Victor Argo … McIver 1
David Osterhout … McIver 2
Grahame Pratt … Emeric Pressburger
‘Chicken’ Holleman … M. Powell
Harry Northup … Sceriffo Harvey Hall
Ann Morell … Tillie Parr
Marianne Dole … Signora Mailler
Joe Reynolds … Joe Cox
Regia: Martin Scorsese
Soggetto: Joyce Hooper Corrington e John William Corrington
Sceneggiatura: Martin Scorsese
Fotografia: John M. Stephens
Montaggio: Buzz Feitshans
Musiche: Gib Guilbeau e Thad Maxwell
Scenografia: Walter Starkey
Un Robin Hood americano: Bill, un sindacalista perspicace che ruba ai ricchi per aiutare i poveri, futuro martire di una società prevenuta ed ancora conservatrice per alcune sue maniere. Altri tre ragazzi l’accompagnano (come se fossero i dodici apostoli con Gesù), e sono: la sua ragazza “puttana” interpretata dalla brava Barbara Hershey, un “negro” e da un “vigliacco” giocatore di poker. Martin Scorsese già dimostra di essere un grande come regista e Corman (produttore) c’azzecca sempre, non c’é niente da fare…
Sullo sfondo polemico di un periodo di crisi dell’America, questa storia trasmette ironia, ribellioni, riflessioni e tragedie. Opera intelligente del giovane Scorsese che sfrutta bene l’occasione di “raccomandazione” offertagli da Roger Corman. Filone politico di un ambientalismo ostile alla razza nera e a quella “rossa”. Ottimi risvolti che denotano un film sopra le righe anche grazie ad un cast all’altezza. Nel finale si intravedono le capacità di uno dei registi che sarà destinato a rimanere parte della storia del cinema.
Mi ha sorpreso. Credevo di assistere ad un film di genere gang scontato e noioso. Invece ho assistito ad una bellissima storia, che tocca tematiche importanti e ci fa notare coma gli Usa di quei tempi fossero il contrario della democrazia. Ci finiscono tutti, sotto i colpi della polizia intollerante: comunisti, neri ed ebrei. Bravi gli attori, soprattutto la Hershey. Scorsese si dimostra un cineasta superbo.
Secondo lungometraggio di Scorsese, che con i soldi di Roger Corman e della AIP gira in economia seguendo la più consolidata formula del maestro della serie B. Un gangster movie secco e molto violento con protagonista la bravissima e bellissima Barbara Hershey nella parte di Boxcar Bertha, che rimasta orfana dopo la morte del padre si dà alla vita da fuorilegge insieme ad un sindacalista (David Carradine che recita insieme al padre John) e ad un giocatore d’azzardo (Primus). Tante le sparatorie e molto sangue fino allo straziante finale del treno.
La seconda opera di Scorsese mostra già le grandi capacità di questo regista che esplora le tematiche tipiche dei suoi film, una su tutte la violenza insita nella società americana (ma non solo) e tratteggia una galleria di perdenti che resta nella memoria. Bello, avvincente e soprattutto intenso. Sconosciuto ai più, va decisamente recuperato.
Dal romanzo autobiografico di Bertha Thompson, un truce affresco degli USA negli anni della Grande Depressione e il suo portato di povertà, sospetto, odio xenofobo, sindacalismo sovversivo e violente reazioni padronali. Spinti dalla saldissima regia di Scorsese, Hershey e Carradine jr. entrano a buon diritto nella lunga galleria di antieroi romantici del cinema americano; Carradine sr. concede un aristocratico cameo. Si scorgono analogie con Il clan dei Barker di Corman che, non a caso, lavora qui in veste di produttore.
Incontro d’amore-Bali
Strano destino quello di questo film: girato da Ugo Liberatore nel 1970 con il titolo emblematico di Bali, nel 1972 uscì nei cinema con il titolo di Incontro d’amore e ancora successivamente come Incontro d’amore a Bali.
Della stesura originale del 1971 restava l’impianto generale, ma al film vennero aggiunte sequenze iniziali dirette da Paolo Heusch, che in teoria dovevano servire per completare la trama, ma in realtà aggiunsero ben poco al film, se non l’elemento torbido rappresentato dalla presenza di alcune scene di nudo girate da Ilona Staller, con lo pseudonimo di Elena Mercury.
Scena presente solo nella seconda versione; Ilona Staller
La Staller in pratica prese il posto della Antonelli, che nella prima versione era la protagonista principale del film.
Il montaggio definitivo pur non snaturando il film, non aggiunse gran che al senso generale del film, limitandosi a proporre delle sequenze in cui viene in qualche modo esplicato il rapporto tra i due coniugi protagonisti del film.
La vicenda parte, nella versione definitiva, con l’omicidio da parte di Carlo di sua moglie Daria e il successivo arrivo della polizia; al commissario che chiede il perchè dell’assassinio, Carlo racconta la sua storia.
Lui e Glenn, scrittori, partono per l’isola di Bali dove Carlo si diletta in fotografia e con l’amico partecipa alla stesura di un libro.
Glenn, in profonda crisi spirituale, trova in un bramino conforto per la sua anima, nonostante le benevole prese in giro dell’amico.
Sull’isola arriva Daria, la splendida moglie di Carlo, che ben presto inizia a provare simpatia e qualcos’altro per il giovane tormentato. arrivando alla fine ad offrirsi fisicamente pur di distoglierlo dagli strani pensieri che il giovane ha.
Tutto inutile, perchè alla fine, con la morte del bramino, anche Glenn subirà la stessa sorte.
Ritornato a casa,Carlo ucciderà la moglie, sopraffatto dalla gelosia e si ucciderà davanti agli occhi esterrefatti del commissario tagliandosi la gola con un frammento di vetro.
John Steiner è Glenn
Incontro d’amore è un film che ha nell’ambientazione la sua parte migliore; lo splendido scenario dell’isola di Bali supplisce in qualche modo alla storia, francamente scontata e alla banalità dei dialoghi; il film è monotono, a tratti davvero noioso, non fosse per gli scenari intriganti che accompagnano la vicenda.
Così tra templi indù, lunghe pause e scenari esotici, si dipana la vicenda, fino al finale che ovviamente conosciamo tranne che per la parte che riguarda il suicidio di Carlo;
chi ha avuto modo di vedere la prima stesura del film, non resta ovviamente disorientato dal passaggio del personaggio di Daria dall’interpretazione della Staller a quella della Antonelli. Viceversa immagino cosa abbia provato lo spettatore non al corrente dello stratagemma.
Gli attori svolgono diligentemente il loro ruolo; assolutamente ingiudicabile la Staller, che resta in scena pochi minuti, ripresa in volto per pochi fotogrammi, bene la Antonelli, assolutamente splendida, mentre Steiner che interpreta Glenn cerca di dare una profondità spirituale al suo personaggio con alterne fortune. Viceversa Umberto Orsini se la cava dignitosamente.Il commissario è interpretato da un sobrio Ettore Manni, mentre le musiche sono ben costruite da Giorgio Gaslini.
Un film non memorabile di Ugo Liberatore, che veniva dal grande successo dell’altrettanto esotico Bora Bora; in questo caso, il fiasco al botteghino, si trasformò in una battuta d’arresto che vedrà la sua carriera in declino, con la parziale eccezione di Nero veneziano.
La pellicola è disponibile in un’ottima versione digitale di circa 700 mega,in italiano, ai seguenti link:
https://ultramegabit.com/file/details/lfDMOpDWeuI/Incont.part1.rar
https://ultramegabit.com/file/details/X6z591Nj0Y0/Incont.part2.rar
https://ultramegabit.com/file/details/vnDnYGBEe2U/Incont.part3.rar
Incontro d’amore – Bali un film di Ugo Liberatore, Paolo Heusch. Con Ettore Manni, Umberto Orsini, John Steiner, Laura Antonelli, Ilona Staller, Carla Mancini, Petra Pauly
Drammatico, durata 95 min. – Italia 1970.
John Steiner … Glenn
Laura Antonelli … Daria
Umberto Orsini … Carlo
Petra Pauly … Brigitte
Johannes Schaaf … Bradford
Ettore Manni … Commissario di polizia
Lydiawati … Tillem
Regia:Paolo Heusch, Ugo Liberatore
Sceneggiatura:Fulvio Gicca Palli,Pier Giuseppe Murgia,Ottavio Alessi,Ugo Liberatore
Produzione:Eliseo Boschi,Luggi Waldleitner
Musiche:Giorgio Gaslini
Montaggio:Giancarlo Cappelli,Lisbeth Neumann
Fotografia:Roberto D’Ettorre Piazzoli,Angelo Lotti
Production Design :Marilù Carteny,Andrea Crisanti,Gianni Scolari
L’opinione di mm40 dal sito http://www.filmtv.it
Dopo aver girato lavori come Bora Bora (ambientato nell’oceano Pacifico) o Il sesso degli angeli (trama: tre belle ragazze su una barca nel mare – fine), non esattamente grandi successi di pubblico nè di critica, Ugo Liberatore insiste con i suoi scenari prediletti in questo Bali, noto anche come Incontro d’amore: bastava il primo titolo. Il secondo è melenso e fuorviante, perchè la parte romantica della trama è blanda e neppure troppo importante ai fini della storia, che di partenza vorrebbe essere un dramma, ma ben presto finisce per divenire una cartolina esotica abbastanza patinata con accenni di erotismo a base di personaggi dalle vaghissime velleità intellettuali. Il fatto che in pratica si stia parlando di due film, comunque, cambia poco la materia del discorso; due film, sì: uno è quello effettivamente diretto da Liberatore, l’altro è costituito dagli inserti posizionati qua e là da Paolo Heusch e girati in Italia, su richiesta della produzione pesantemente insoddisfatta dalla pellicola licenziata dal primo. Heusch conferisce così alla trama un tocco di poliziesco che a ben guardare non guasta; il problema è però che la sceneggiatura di Ottavio Alessi (unico accreditato sui titoli di testa) fa in ogni caso acqua da tutte le parti. Anche gli interpreti, pur non disprezzabili in sè, non convincono granchè, forse non convinti della bontà del prodotto loro per primi; si parla di John Steiner, Umberto Orsini, Laura Antonelli (strasplendida, poco da aggiungere) ed Ettore Manni; la cosa senza dubbio migliore nel complesso è l’ariosa colonna sonora firmata da Giorgio Gaslini. Liberatore girerà un altro paio di pellicole prima di desistere e tornare a ciò che sapeva meglio fare, cioè le sceneggiature
L’opinione del sito http://www.cinetecadicaino.blogspot.com
Incontro d’amore (Bali) si ricorda per un’ambientazione perfetta e una suggestiva fotografia, non certo per una sceneggiatura sfilacciata e zeppa di buchi, per una storia che presenta molte incongruenze, giustificate con grande fatica da Ottavio Alessi. La stupenda scenografia balinese supplisce alla pochezza del soggetto, monotono, montato con compassata lentezza, tra lunghi silenzi, scenari esotici, templi indù, riti magici, inutili passeggiate tra giungla e oceano. Tecnica di regia indonesiana molto suggestiva, a metà strada tra il reportage naturalistico e la fiction, grande uso dello zoom con particolari degli occhi in primissimo piano, come se fossimo in un western di Sergio Leone. Parte romana più anonima, a parte una bella panoramica della città eterna che scorre sui titoli di testa e le sequenze truci dopo le brevi parti erotiche. Il genere passa dal mondo movie all’esotico – erotico, senza soluzione di continuità, ma grazie alla parte romana contamina persino il thriller con elementi di horror metropolitano e suggestioni magiche.
Opinioni tratte dal sito http://www.davinotti.com
Undying
Titolo ripescato dal dimenticatoio verso il 2000, sottoforma di VHS, dalla infaticabile Shendene & Moizzi (della quale i cultori del cinema italiano sentono la mancanza). In effetti, pur essendo fascinosa l’ambientazione esotica e piacevole la presenza di attori scafati (nonché aggraziati), si fa fatica a sopportare – per intero – lo sviluppo di un plot drammatico che sfiora, in più contesti, la noia generata dalla banalità di situazioni (e dialoghi) e da una trama confusa e poco chiara. Solo per appassionati del cinema “segreto” italiano.
Il Gobbo
Liberatore, dopo Bora Bora tenta il bis esotico-erotico, ma poco erotico e più mistico-intellettuale: fiasco. Allora il produttore Bini fa girare a Paolo Heusch un prologo e un epilogo, con Cicciolina a “controfigurare” (le virgolette hanno un perché non svelabile) la Antonelli, e rimonta il film di Liberatore. Insomma, caos totale, fra locations notevoli, pretenziosità, ma poco pelo: questa è la versione che circola, il director’s cut appare verosimilmente palloso, ma forse più intrigante… Citato in Io sono un autarchico!
Homesick
Esotico, mistico e piuttosto fiacco. Spiccano comunque la bellezza ancora pudica della Antonelli e quella più selvaggia della Pauly, oltre ad una bellissima Elena Mercury-Ilona Staller nelle scene aggiunte da Paolo Heusch. Orsini è sempre molto professionale e Steiner incarna con convinzione la figura dell’occidentale in crisi mistico-esistenziale. Sensualmente avvolgenti le musiche di Gaslini; suggestiva la cornice balinese.
Daidae
Stupenda ambientazione esotica e ottime scene erotiche (anche se è palese l’uso della controfigura nelle scene più spinte). Film non eccezionale ma che si può digerire benissimo (non aspettatevi però chissà cosa). Ripescato dopo anni di oblio e passato anche in tv regionale.
La notte dell’alta marea
Richard Butler è un maturo e affascinante direttore di un’agenzia pubblicitaria; don Giovanni impenitente, vive separato da sua moglie.
Un giorno casualmente incontra l’androgina Diana, enigmatica ragazza alla ricerca di un lavoro.
Richard, colpito dalla personalità magnetica della ragazza, le offre un lavoro, e contemporaneamente cerca di sedurla.
Ha inizio così un gioco delle parti, in cui il cacciatore, Richard, vede la sua preda sfuggirgli con ogni sotterfugio.
La ragazza inizia a fare il classico gioco del gatto con il topo, così Richard ormai preso nella trappola, si scopre attratto in maniera fatale dalla donna.
A sistemare il tutto arriverà una salutare trasferta in un’isola, dove i due separeranno le loro vite per sempre; Richard avrà alla fine una notte d’amore con la bella Diana, mentre la stessa convolerà a giuste nozze con un giovane.
Luigi Scattini elabora un romanzo di Todisco, Il corpo, e lo trasforma in un film, La Notte dell’Alta Marea, che purtroppo ha pochi pregi e tanti difetti.
Il principale è la scelta dei protagonisti, Anthony Steel e Annie Belle; come racconta il regista nel suo blog, luigiscattini.wordpress.com, i protagonisti principali dovevano essere Marcello Mastroianni e Dalila Di Lazzaro.
Venuti a mancare loro, per una serie di problemi, Scattini dovette accontentarsi di Steel e Annie Belle, con conseguenze irreparabili.
Se Steel appiattisce il personaggio di Richard attraverso una recitazione monocorde e a tratti irritante, la Belle fa di peggio, rendendo il personaggio di Diana gelido come un ghiacciolo consumato al Polo Nord.
Così, venuti a mancare i presupposti principali, ovvero la capacità degli attori di trasmettere un minimo di emozione, il film scorre senza alcun sussulto fino alla fine, appiattendosi in maniera totale.
Annie Belle
E a nulla valgono i tentativi del bravo Scattini di recuperare le cose attraverso la sua indubbia abilità nel presentare i paesaggi, che dovrebbero fare da contorno ad una storia di per se già vita e francamente poco attraente.
Così i paesaggi magici della Martinica, quelli splendidi del Canada, finiscono per essere l’unica attrattiva del film; a parte la colonna sonora di Timmy Thomas, autore della hit Why can’t we live together, scritturato per armonizzare il film e dargli un sottofondo esotico, non si riesce a trovare altro pregio nel film.
Pam Grier
Che, ripeto, naufraga per colpe non imputabili al regista, che fa del suo meglio; ma Steel è davvero impresentabile e la Belle, che non ha mai avuto nella recitazione il suo punto di forza, riesce ad essere attraente solo quando si spoglia.
Bene invece Pam Grier, all’epoca poco conosciuta e bene anche Giacomo Rossi Stuart, sempre professionale e inappuntabile.
Per questa storia ci sarebbe stato bisogno di un’attrice con una personalità magnetica, capace di sedurre e attrarre lo spettatore; viceversa la platinata attrice francese appare talmente monocorde da indurre la sonnolenza piuttosto che un risveglio dei sensi.
Scattini, che veniva dal controverso Blue nude e dal grande successo dei due film con la splendida Zeudi Araya, Il corpo e La ragazza dalla pelle di luna, chiude così in maniera anonima una carriera sicuramente dignitosa, in cui aveva messo in mostra qualità di rilievo.
La stessa Annie Belle si riciclerà in seguito nel cinema regionale, anche se non mancherà di apparire in alcune buone produzioni; Anthony Steel viceversa troverà un filone fertile nella tv, per la quale girerà delle fiction, fino alla sua morte avvenuta nel 2001 a Londra.
In definitiva un’occasione sprecata, visto che il tema trattato, affidato ad un cast di ben altro tipo, avrebbe ottenuto il risultato di attirare lo spettatore su una storia deja vu, certo, ma non priva di fascino.
La notte dell’alta marea, un film di Luigi Scattini. Con Anthony Steel, Annie Belle, Pam Grier, Hugo Pratt, Giacomo Rossi Stuart, Gerardo Amato
Drammatico, durata 90 min. – Italia, Canada 1977.
Anthony Steel … Richard Butler
Annie Belle … Diana
Hugo Pratt … Pierre
Pam Grier … Sandra
Giacomo Rossi-Stuart … Guida
Alain Montpetit … Fotografo
Gerardo Amato … Philip
La morte ha sorriso al suo assassino
Una donna, Greta von Holstein, mentre è su una carrozza, ha un incidente; la ragazza, sbalzata dall’interno, picchia il capo e subisce un trauma con relativa perdita di memoria.
Greta assomiglia in maniera incredibile ad una donna, sua omonima, che si è vista per un attimo ad inizio film; il suo volto appare su una lapide, davanti alla quale c’è un uomo che piange.
Soccorsa dai padroni di una villa, i coniugi Walter ed Eva von Ravensbrück,la ragazza viene ospitata nella villa, dove risiede il dottor Sturges, che la cura e ne resta turbato; l’uomo, che conduce misteriosi esperimenti sulla resurrezione, resta particolarmente colpito da un medaglione-amuleto che Greta porta al collo.
Greta si risveglia dopo l’incidente
Nel frattempo la venuta di Greta sembra alterare in qualche modo gli equilibri della casa e delle vite dei suoi abitanti; parallelamente iniziano ad accadere strane cose.
Una cameriera della villa decide di licenziarsi, e si allontana in fretta dalla stessa, ma viene raggiunta e barbaramente trucidata con una fucilata in pieno volto.
Tra i coniugi von Ravensbrück iniziano i primi problemi; sia Walter,sia Eva, si invaghiscono della bellissima e impenetrabile Greta.Il rapporto a tre prosegue per qualche tempo, fino a quando Eva, accortasi della relazione di Greta con Walter, spinta dalla gelosia, con un tranello porta la ragazza nei sotterranei della villa, dove la mura viva.
La scomparsa della ragazza allarma Walter, che tuttavia deve prendere atto della situazione, e nonostante l’arrivo della polizia, ben presto il tutto arriva ad una fase di stallo.
Gli esperimenti del dottor Sturges
Ma le sorprese stanno per iniziare:una sera nella villa Walter e Eva organizzano un ballo in maschera, durante il quale ecco apparire una donna che ha le stesse fattezze di Greta.
La quale insegue Eva e le mostra il suo volto che all’improvviso si trasforma in un orribile teschio; sconvolta, Eva si getta dal terrazzo della villa.
La morte arriva a colpire Walter, che viene ucciso e appeso come un animale squartato ai ganci della stalla, mentre il padre di Walter, che in realtà è il marito di Greta, viene lasciato morire rinchiuso in una tomba.
… e dell’assistente di Sturges
Muore anche un servitore della villa, ucciso a coltellate; il commissario che intanto indaga sulle misteriose sparizioni e sulle morti, rinviene l’amuleto e decide di farlo esaminare da uno studioso.
Quest’ultimo rivela che l’antico amuleto serviva agli inca come parte di un rituale atto a far resuscitare i morti.
Il commissario decide di far visita al fratello di Greta, che si stava occupando del caso; ma lo rinviene morto.L’uomo infatti è stato ucciso proprio da Greta che gli ha lanciato contro il volto un gatto.
La soluzione del rebus è singolare; Greta era morta di parto anni prima, ma suo fratello la aveva richiamata in vita proprio grazie all’amuleto; ma quando il commissario si reca a trovare Greta nella sua tomba, scopre che è vuota………..
…mette in atto le sue arti di seduzione nei confronti di Eva
La morte ha sorriso all’assassino, girato da Aristide Massaccesi con il suo vero nome, è un horror/thriller girato nel 1972; pasticciato, a tratti quasi indecifrabile, mostra cose egregie (la solita mano di Massaccesi, abile e scaltra) a soluzioni tirate per i capelli, quasi un espediente per allungare il brodo e renderlo digeribile.
Il che accade solo a tratti; se la trama horror ha una sua logica, la ha meno la sceneggiatura, spesso lacunosa e incomprensibile; tuttavia il regista, abilmente, ci mette il suo mestiere riuscendo a tirar fuori un prodotto finito se non degno di rilevanza quanto meno non infame.
Il cast raggiunge a mala pena la sufficienza, essendo male assortito; a disagio Luciano Rossi, Klaus Kinskj appare come un corpo estraneo. Un tantino meglio Eva Aulin, che sopperisce con la sua bellezza, strappando però a mala pena la sufficienza.
Un film decisamente in tono minore, arruffato, con pochi momenti brillanti, legati alle improvvise trasformazioni di Greta; il tutto condito da qualche blanda scena erotica con protagoniste la bella Aulin, che interpreta Greta e Angela Bo, che interpreta Eva.
Klaus Kinski
La morte ha sorriso all’assassino,un film di Aristide Massaccesi. Con Klaus Kinski, Ewa Aulin, Giacomo Rossi Stuart, Attilio Dottesio,Marco Mariani, Fernando Cerulli, Giorgio Dolfin, Carla Mancini, Angela Bo, Luciano Rossi
Drammatico, durata 91 min. – Italia 1973.
L’orrenda trasformazione di Greta
Ewa Aulin: Greta von Holstein
Klaus Kinski: dottor Sturges
Angela Bo: Eva von Ravensbrück
Sergio Doria: Walter von Ravensbrück
Attilio Dottesio: ispettore Dannick
Marco Mariani: Simeon
Luciano Rossi: Franz
Giacomo Rossi Stuart: dottor von Ravensbrück
Fernando Cerulli: professor Kempte
Pietro Torrisi: assistente muto del Dr. Sturges
D’Amato cava sangue dalle rape, ma sempre rape rimangono. Lento, per arrivare a metraggio decente, impreziosito da fotografia splendida (molte le inquadrature dal basso) e da carezzevoli musiche di Berto Pisano (forse si sente pure il flicorno). Molta eco da Poe. Un po’ buffa l’ambientazione teutonica in un’orgia di… pini marittimi. I migliori sono Kinski e Dottesio (doppiato da Cigoli). La Aulin è, come spesso avviene, talmente candida da sfociare nel perverso
Esordio (ufficiale) in regia per Massaccesi, dopo una lunghissima gavetta come tuttofare nell’ambiente del cinema, ed unico film siglato con il suo vero nome (a fronte di un incalcolabile numero di pseudonimi). Si tratta di un horror gotico, con momenti di violenza grafica molto forti per l’epoca, come un volto sfigurato da un coltello, un cadavere sbudellato e una fucilata in faccia. La trama piuttosto contorta e confusa non preclude al regista la possibilità di portare sullo schermo buone sequenze di tensione e di erotismo.
Mentre tecnicamente qua e là qualcosina funziona (ma giusto qualcosa), dal punto di vista narrativo le cose non funzionano assolutamente: la storia, infatti, è confusionaria e farraginosa ma soprattutto sconta un ritmo molto lento che nemmeno un finale a sorpresa, anche se non troppo, riesce a risollevare. Solo per i fan del regista e, forse, nemmeno loro apprezzeranno.
Interessante gotico pieno di enormi pregi, ma con qualche difetto non indifferente. Tra i pregi ricordiamo l’ottima regia, la bellissima fotografia, la notevolissima colonna sonora e il buon cast. Tra i difetti invece abbiamo una storia lenta e sconclusionata, che fatica moltissimo ad ingranare e che non riesce assolutamente ad appassionare. Non mancano le scene splatter, a tratti fin troppo esagerate. Il finale verrà ripreso da un horror americano di poco successivo.
Storia horroromantica, dove la bellissima Ewa Aulin seduce tutti, spettatore compreso, con la sua dolcezza carica di sensualità all’inverosimile. Atmosfera morbida e torbida allo stesso tempo, condita da uno splendido tema musicale, perfetto per questo prodotto. Certo, la sceneggiatura alcune volte barcolla, ma l’insieme gustoso degli splendidi costumi e della suggestiva ambientazione, compensa adeguatamente le mancanze. Lo ricordo davvero volentieri questo film, bella creatura dell’indimenticabile Aristide Massaccesi.
Nunsploitation, il cinema conventuale
Con il termine nunsploitation viene genericamente indicato il florido filone del cinema conventuale, spesso chiamato anche tonaca movie o filone conventuale, un genere cinematografico ambientato dietro le mura di conventi quasi esclusivamente popolati da badesse, novizie e suore, e molto più raramente tra le mura di monasteri maschili.
Difficile tracciare un punto di inizio di questo particolare genere cinematografico; viceversa è piuttosto facile indicarne il percorso che ne è seguito, e che ebbe la massima diffusione nel decennio settanta, a cavallo tra il 1972 e il 1979, con successive e rare ulteriori incursioni.Un cinema in cui le storie si assomigliavano un pò tutte, nella maggior parte presa di sana pianta dal medioevo o dal rinascimento, quando storicamente si ebbe la massima espansione dei conventi.
Accadeva, all’epoca, che le famiglie nobili, per non dotare le figlie femmine, scegliessero per le stesse le rassicuranti mura dei conventi, dove la stragrande maggioranza di esse finivano per consumare le proprie vite in un isolamento non voluto.
Il flano cinematografico di Le monache di Sant’Arcangelo
Le famiglie ricche trovavano così un rassicurante mezzo per evitare dispute sulle eredità; la stessa sorte accadeva spesso anche ai secondogeniti maschi, costretti ad entrare in ordini o religiosi oppure a scegliere la carriera militare per evitare di ritrovarsi senza alcun mezzo di sussistenza alla morte dei genitori.
Ma tutto questo ai registi interessava relativamente; il filone conventuale, infatti, si interessava principalmente delle storie delle ragazze rinchiuse nei conventi.
Evelyn Stewart (Ida Galli) in La badessa di Castro
Ovviamente, le ragazze chiuse contro la loro volontà in convento, nel fiore degli anni, proprio quando le prime pulsioni ormonali, i primi sentimenti d’amore iniziavano a sbocciare, divennero un mero pretesto per mostrare la vita all’interno degli stessi conventi in un’ottica più pruriginosa che storica.
Così nella stragrande maggioranza dei film si vedono badesse rese crudeli dalla frustrazione sfogare istinti repressi sulle novizie o sulle suore; che, dal canto loro, spesso hanno lasciato un amore fuori dalle mura, o più semplicemente avvertono gli irresistibili richiami della carne.
Scena tratta dal pluri censurato Interno di un convento, di Borowczyck
A questo va aggiunto un altro elemento storico modificato a discrezione dei registi su ovvia imposizione dei produttori, ovvero l’introduzione di espedienti come la tortura, in realtà usata meno frequentemente di quanto riportato da alcuni testi, per fermare l’eresia, la stregoneria ecc.
La stessa inquisizione, nata con i compiti specifici su citati, viene largamente usata come espediente per giustificare l’esposizione di corpi nudi, nella totalità femminili, che vengono martirizzati attraverso l’uso di strumenti come la corda, le tenaglie, il fuoco e altro.
Una splendida Fenech in La bella Antonia, prima monica e poi dimonia
Così il Malleus maleficarum entra nelle mura dei conventi, preti confessori e esorcisti, inquisitori e quant’altro diventano strumenti per piegare il corpo e l’anima delle suore e delle novizie, che, essendo donne, storicamente sono più facilmente aggredibili dai demoni della tentazione.
Discorso maschilista, come del resto era inevitabilmente maschilista la chiesa e le sue propaggini; ma questo è un discorso che con il cinema centra poco.
Magda Konopka in Cristiana monaca indemoniata
Parlavo, all’inizio, della suora contro convinzione, ovvero la novizia costretta a subire le scelte dei genitori.
Uno dei primi film a parlare di vite conventuali, condito anche da un pizzico di erotismo è La monaca di Monza, che si basa sulla vera storia di Virginia De Leyva, diretto nel 1969 da Eriprando Visconti, nipote del grande Luchino.
Nel film, la giovane badessa, reclusa contro la sua volontà, finisce per invaghirsi di Osio, un giovane che la stupra ma del quale lei si innamora.
La nascita di un figlio farà accorrere le autorità religiose.
Le parziali nudità della Heywood, la trama scabrosa, finiscono per dare rilevanza ad un film di modesta caratura e ad aprire timidamente la porta dei conventi alla macchina da presa, che da allora diventano sempre più curiose di mostrare una realtà, molto artefatta, basata su vite conventuali spesso al di là di ogni considerazione morale.
Nunsploitation nipponico: Il convento della bestia sacra
A dare un impulso decisivo è paradossalmente un film che di conventuale ha solo una parziale ambientazione; si tratta di I diavoli (The devils), un film politicamente scorretto girato da Ken Russell nel 1971; la storia di Grandier e Jeanne Des Anges, il primo accusato dalla seconda di aver portato il diavolo, con conseguente lascivia all’interno del convento di Loudun, apre o meglio spalanca le porte ad una degenerazione del filone.
Russell infatti, iconoclasta come nessun altro, mostra la cruda realtà del convento di suor Jeanne attraverso i vizi peccaminosi della badessa e delle altre sorelle.
Condannato per blasfemia: I diavoli di Ken Russell
Il risultato finale è un suggerimento che diviene ben presto un’occasione per modificare le storie stesse e renderle sempre più pruriginose.
Nel 1973 il regista spagnolo Jesus Franco gira Confessioni proibite di una monaca adolescente; una ragazza, Maria, sorpresa in compagnia di un ragazzo, viene portata da padre Vicente in un convento. Qui la ragazza scopre che dalla superiora all’ultima delle suore la parola d’ordine è amoralità e sesso.
Una rara inquadratura tratta da La monaca di Monza, eccessi, misfatti, delitti
La ragazza tenta la fuga, ma viene catturata e condannata al rogo; non fosse per l’intervento di un inquisitore non scamperebbe al suo tragico destino.
Il film è ovviamente molto esplicito, ma di buon livello; da esso prende ispirazione Le Monache di Sant’Arcangelo di Domenico Paolella, girato nello stesso anno.
La vera storia della Monaca di Monza
La storia vede protagonista Don Carlos, che ha una relazione peccaminosa con Giulia di Mondragone, che a sua volta ha una relazione lesbica con una suora. Il nobile ribaldo si incapriccia di una novizia, che sarà costretta a cedere alle sue voglie, ma che otterrà la libertà dai voti una volta che scoppierà lo scandalo all’interno del convento. Lo stesso Paolella, visto il discreto riscontro di pubblico, gira nello stesso anno Storia di una monaca di clausura , usando Eleonora Giorgi in loco della Muti, protagonista del film precedente. Questa volta è la giovane attrice a subire le angherie del solito convento, uscendone però pulita e con l’aureola della santa.
Boccaccio in convento nel film Leva lo diavolo tuo da lo mio convento
Altro film conventuale, questa volta con ambientazione medioevale è Flavia la monaca musulmana, storia di una donna ancora una volta costretta a farsi monaca contro la sua volontà che avrà rapporti con i saraceni che invasero Otranto, finendo in maniera orribile i suoi giorni, ovvero spellata viva.
Il film di Mingozzi, non scevro da una certa eleganza, è decisamente osè sia per le numerose scene di sesso, sia per l’ambientazione giudicata blasfema; furono molte le traversie del film stesso una volta uscito sugli schermi.
L’uscita di Decameron di Pasolini ebbe ovviamente un’importanza capitale sullo sviluppo e la diffusione del filone;
anche se l’opera del grande scrittore e regista era ambientata parzialmente in convento, con intenti chiaramente socio-politici, venne sfruttato per le sue peculiarità, sopratutto nella parte che mostra le poco ortodosse sorelle del convento alle prese con un giovane che si finge sordo muto e che finirà per dover soddisfare sessualmente l’intera comunità di suore, badessa inclusa.
Molti film del filone decamerotico, infatti, verranno ambientati in convento, tra frati gaudenti, intenti a lasciar assoluzioni dietro penitenza del bacio del cordone, fra diavoli levati e messi “ne lo convento” et similia.
Spazio alla tortura nel film Confessioni proibite di una monaca adolescente
Tra questi sottoprodotti, girati in economia, con trame pecorecce e alle volte ridicole, spiccano titoli come Leva lo diavolo tuo da lo mio convento o Metti lo diavolo tuo ne lo mio convento, La bella Antonia, prima monica e poi dimonia, uno dei più riusciti, grazie anche alla splendida e conturbante bellezza di Edwige Fenech,Le calde notti del Decameron di Gian Paolo Callegari, Confessioni segrete d’un convento di clausura dell’ineffabile Batzella, Cristiana la monaca indemoniata di Sergio Bergonzelli,
che coniuga tutti gli stilemi del genere, ovvero sesso in convento, nudità, demonio ecc, Fratello homo, Sorella bona (Nel Boccaccio superproibito) di Mario Sequi, I racconti romani di una ex novizia di Pino Tosini, Riti, magie nere e segrete orge nel Trecento di Polselli, assolutamente trash e imperdibile per gli amanti dei film indecorosi, Donne e magia con satanasso in compagnia di Roberto Bianchi Montero, E continuavano a mettere lo diavolo ne lo inferno di Bitto Albertini.
La coppia Giorgi-Spaak in Storia di una monaca di clausura
Questi sono solo alcuni dei titoli che affollarono i cartelloni pubblicitari della fertile stagione a cavallo tra il 1971 e 1975, epoca di massimo fulgore sia dei decamerotici sia del filone conventuale.
Che spesso si intrecciavano, con una caratteristica peculiare che distingueva il decamerotico dal nunsploitation tout corut; nel primo caso, infatti, i film anche se hanno una vocazione libertina e godereccia, non hanno alcuna ambizione artistica, ma solamente comica e di divertissement. Nel secondo caso c’è una certa quantità di pretestuosità e passatemi il bisticcio di parole.
Anne Heywood in La monaca di Monza
Infatti ci sono film che si elevano anche sulla generale mediocrità del filone; è il caso di Interno di un convento, di Borowczyck, opera raffinata e fondamentalmente anticlericale i tutte le sue sequenze.
In questo film, uno dei più crudi e sessualmente espliciti, l’erotismo è una trave portante, visto anche come espressione dei sensi delle novizie rinchiuse in un convento, costrette a fare i conti con una sessualità inespressa e tuttavia insopprimibile.
L’ottimo Flavia, la monaca musulmana
Un film italiano di discreto livello è La badessa di Castro di Armando Crispino, storia di una badessa fatta tale al solito con la forza che sfoga la sua repressione anche sessuale sia sulle monache sia intrecciando una relazione proibita con un vescovo.
Il filone andò progressivamente perdendo forza, e le cause sono note, ovvero la crisi del cinema, la sempre maggior diffusione di pellicole hard, che tolsero l’arma di punta della morbosità a molti generi di nicchia.
Le scomunicate di San Valentino
Ogni tanto arriva qualche pellicola conventuale, di ben altro spessore rispetto alle origini; è il caso di Magdalene film del 2002 scritto e diretto da Peter Mullan, che affronta la difficile tematica degli abusi subiti da orfane, da donne considerate perse ricoverate nelle case Magdalene. Un atto d’accusa durissimo, per un film tra i più validi dell’ultimo decennio, ma che appartiene a questo genere solo perchè tratta di religiose, di frustrazione, di sadismo.
Eva Grimaldi in La monaca del peccato
Il genere nunsploitation non ha prodotto capolavori, com’era scritto già in partenza; troppo preponderante l’elemento erotico per poter pensare di ricavarne pellicole di valore.
Tuttavia resta come fenomeno di costume, e quà e la in alcuni film emerge una carica trasgressiva che avrebbe potuto essere sfruttata meglio.
Monica Zanchi
Monica Zanchi è nata in Svizzera, nel cantone di Berna, presumibilmente dopo il 1955; di lei mancano completamente dati biografici, per cui la sua vita pre cinematografica e il suo approccio al cinema stesso restano un mistero. In rete manca il minimo dettaglio biografico, per cui della bionda Monica si può parlare esclusivamente attraverso le 12 pellicole interpretate, nessuna tra l’altro memorabile, se si esclude il misconosciuto L’uomo, la donna e la bestia-Spell, dolce mattatoio, il film di Alberto Cavallone più importante che abbia girato.
Monica Zanchi in L’uomo, la donna e la bestia-Spell, dolce mattatoio
Il suo esordio cinematografico avvenne con L’occhio dietro la parete di Giuliano Petrelli nel 1977, in un ruolo minore in un film decisamente brutto e inconsistente nonostante il cast di buon livello presente nel film; la storia dell’anziano paralitico che spia la figlia durante i suoi incontri erotici è decadente e fuori contesto, visto che ormai siamo nella parte declinante del decennio settanta.
La Zanchi appare in un ruolo subalterno rispetto alla protagonista, Olga Bisera, la scialba protagonista con Fernando Rey e John Philipp Law di questo film che di memorabile non ha davvero nulla.
Un esordio che comunque convinse Cavallone a scritturare la Zanchi nel suo citato L’uomo, la donna e la bestia-Spell, dolce mattatoio, diretto nel 1977 in cui la bionda attrice svizzera ha un ruolo importante, quello di una prostituta che si muove in un ambiente surreale, la provincia italiana, ricettacolo di debolezze, di pubbliche virtù ma sopratutto di vizi privati.
Monica Zanchi in due scene tratte da Emanuelle e gli ultimi cannibali
La buona prova fornita, la spregiudicatezza con cui Monica interpreta il ruolo della prostituta convincono Giuseppe Vari, nello stesso anno, ad affidarle il ruolo di Monica, giovane e spregiudicata ragazza figlia di un commendatore lombardo nel suo Suor Emanuelle, al fianco di una svogliata Laura Gemser, molto a disagio senza il suo mentore Joe D’Amato.
Il film è sicuramente di bassa qualità, ma la Zanchi si fa notare, anche se principalmente per la sua disponibilità a interpretare ruoli scabrosi; se Suor Emanuelle non può certo essere ricordato per il suo contenuto artistico, praticamente inesistente, rimane nella memoria dello spettatore proprio per la capacità della Zanchi di esprimere con un certa abilità il personaggio di Monica, ragazza un tantino ninfomane, con indubbio talento.
Monica Zanchi con Maria Baxa in Incontri ravvicinati del quarto tipo
Emanuelle e gli ultimi cannibali di Joe D’Amato è il passo successivo; Massaccesi scrittura il tandem Zanchi-Gemser, oltre all’immancabile marito di quest’ultima, Tinti, per un film molto forte sulle avventure della fotoreporter di colore, questa volta impegnata tra i cannibali dell’Amazzonia. La Zanchi interpreta il ruolo di Isabelle, aggregata ad una coppia di cercatori di diamanti, che farà una brutta fine. Nel film Isabella/Monica si salverà da una fine atroce grazie proprio ad Emanuelle, che con uno stratagemma la salverà dai cannibali, dopo che la ragazza è stata violentata da tutta la tribù.
L’uomo, la donna e la bestia-Spell, dolce mattatoio
Ancora una volta il suo è un ruolo molto scabroso, che la vede protagonista in una parte che prevede numerose scene di nudo; l’attrice se la cava dignitosamente, anche se va ricordato ancora una volta il livello qualitativo della pellicola.
Il quinto film del 1977, l’anno più importante della sua carriera la vede come co-protagonista di Autostop rosso sangue di Pasquale Festa Campanile, un thriller assolutamente atipico nella produzione del regista; la Zanchi vi appare in una parte brevissima, in un film che ha come vera star Corinne Clery.
Nel 1978 ecco arrivare un film memorabile, ma nell’eccezione negativa del termine; si tratta dello sguaiato, incredibilmente trash Incontri molto ravvicinati del quarto tipo di Mario Gariazzo, in cui Monica è la domestica di un’astronoma fissata con gli alieni, che finirà per avere un incontro ravvicinato, naturalmente di tipo erotico, con tre buontemponi che faranno la festa alle due ingenue (ingenue?) donne.
Naturalmente si tratta di un mero espediente per mostrare nude le due protagoniste del film, la Zanchi e Maria Baxa; il film, un prodotto a bassissimo budget oggi è ricordato dalla nutrita schiera dei fans del cinema di serie z, ovvero i cultori del trash più spinto.
Un altro fotogramma tratto da Suor Emanuelle
Nel 1978 eccola sul set di Porco mondo di Sergio Bergonzelli, un thriller anomalo connotato di erotismo, che ha una sua dignità nella denuncia dello squallido sottobosco che gravita intorno alla politica; nel film la Zanchi recita accanto a Karin Well, ad Alida Valli,Arthur Kennedy,Barbara Rey e William Berger. E’ una produzione con un buon budget, ma che finirà per diventare l’ennesimo titolo circolante in due versioni, una edulcorata per il mercato nazionale ed una con inserti scabrosi per quella internazionale.
Sempre nel 1978 partecipa a quello che può definirsi l’ultimo film di rilievo che interpreta; si tratta di I peccati di una monaca – La novizia, diretto da Jaime Jesus Balcazar, che in origine si intitolava Ines de Villalonga 1870. Il film, un nunsploitation del filone conventuale, la vede protagonista nei panni di Ines, una nobile finita in convento che si illuderà di trovare l’amore in un giovane che è fratello di una sua consorella, ma che ritornerà mestamente in convento.
Il film passa inosservato così la Zanchi, dopo una piccola parte nello splendido Caro papà di Dino Risi, accanto al grande Gassman, ruolo in cui non viene nemmeno accreditata, dopo Action, il delirante affresco di Tinto Brass in cui ancora una volta ha una piccola parte, scompare quasi del tutto dallo schermo.
Ricomparirà in due piccoli ruoli in Sogni erotici di Cleopatra di Rino Di Silvestro e in Giorni felici a Clichy (Jours tranquilles à Clichy) di Claude Chabrol, uno dei film meno riusciti del grande regista francese per poi eclissarsi del tutto e scomparire dalla scena.
Da allora della Zanchi nessuno ha avuto più notizie, in modo tale che oggi solo i nostalgici di certo cinema degli anni ruggenti del cinema erotico hanno memoria di lei.
Attrice comprimaria, la Zanchi non ha trovato molto spazio nel cinema anche perchè ha esordito nel momento peggiore in assoluto per le ambizioni che probabilmente nutriva; il cinema di fine anni settanta era inesorabilmente in declino, e lo mostrano le partecipazioni della stessa attrice a film che è anche riduttivo definire di nicchia.
Sorte toccata a molte altre starlette, incapaci per propria colpa o per colpa altrui.
Incontri ravvicinati del quarto tipo
Due fotogrammi tratti da Ines De Villalonga
L’occhio dietro la parete
Sogni erotici di Cleopatra
L’occhio dietro la parete di Giuliano Petrelli (1977)
Spell (dolce mattatoio) di Alberto Cavallone (1977)
Suor Emanuelle di Giuseppe Vari (1977)
Emanuelle e gli ultimi cannibali di Joe D’Amato (1977)
Autostop rosso sangue di Pasquale Festa Campanile (1977)
Incontri molto ravvicinati del quarto tipo di Mario Gariazzo (1978)
Porco mondo di Sergio Bergonzelli (1978)
II peccati di una monaca – La novizia (Aka Inés de Villalonga 1870) di Jaime Jesús Balcázar (1979)
Caro papà di Dino Risi (1979)
Action di Tinto Brass (1980)
Sogni erotici di Cleopatra di Rino Di Silvestro (1985)
Giorni felici a Clichy (Jours tranquilles à Clichy) di Claude Chabrol (1990)