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Novitiate

Tennessee (Usa),metà degli anni 50

La piccola Cathleen per la prima volta entra in una chiesa all’età di sette anni.
E’ cresciuta senza un’educazione religiosa da sua madre Nora, una non credente; dopo l’abbandono della famiglia da parte del padre,cinque anni dopo Cathleen ha la possibilità,grazie ad una borsa di studio,di entrare a far parte di una scuola cattolica. In lei nasce sempre più forte il desiderio di un amore diverso, più spirituale e a 17 anni decide  di entrare come postulante nel convento dell’Amata Rosa, per intraprendere il percorso che porta alla vita religiosa come suora.
Siamo agli inizi degli anni 60 e la chiesa, la sua intera struttura sta per essere investita dal vento del cambiamento portato da Giovanni XXIII con il Concilio Vaticano II; ma nel convento retto con rigidità dalla reverenda madre Marie Saint-Clair tutto ciò sembra lontanissimo.
E lo sperimenterà la giovane Cathleen; le regole ferree che vanno dall’obbligo del silenzio semplice a quella del grande silenzio mettono a dura prova quella che sembra una vocazione religiosa molto ferma.


Nel convento la vita scorre quasi sospesa nel tempo, con le giovani postulanti che intraprendono un percorso di vita durissimo, fatto di regole spesso ormai fuori dal tempo, come le auto punizioni corporali o l’assoluta intransigenza verso la minima mancanza ai propri obblighi. Nonostante la ferma opposizione di Nora, Cathleen arriva al momento di pronunciare i voti come novizia; ma nella ragazza i cambiamenti anche fisici iniziano a farsi sentire
così come dubbi. Avverte i primi turbamenti della sessualità, una confusione interiore che la portano dapprima a ridurre il cibo e quando le cose si aggravano ad un crollo fisico.
Ed è durante la degenza nella sua stanzetta che Cathleen ha modo di stringere un rapporto profondo con Suor Emanuel,un’altra ragazza alla ricerca di qualcosa che la ragazza stessa non sa definire.
Il rapporto tra le due sfocia in un rapporto fisico, che se da un lato riporta Cathleen alla vita ovviamente si tramuta in forti sensi di colpa.
Nel frattempo per il convento le cose stanno cambiando velocemente; le disposizioni emanate dal Concilio Vaticano II mutano radicalmente la vita dell’intera comunità, con conseguenze devastanti.


La stessa reverenda madre deve fare i conti con il cambiamento che di fatto,modernizzando la vita delle religiose, svuota la comunità.
Sono molte le giovani che abbandonano l’abito religioso per tornare alla vita secolare o semplicemente per trovare una nuova strada che permetta loro di vivere in modo differente la spiritualità.
Alla fine del noviziato solo Cathleen e altre quattro ragazze compiranno il proprio percorso,ma è emblematica la risposta della ragazza alla domanda chiave posta dal sacerdote al momento di prendere i voti, “Cosa cerchi?””Qualcosa di più
Novitiate,film del 2017 diretto dall’esordiente regista americana Maggie Betts è una pellicola più che buona che esplora il complesso momento storico che precedette il Concilio Vaticano II e i momenti successivi alla sua attuazione,attraverso le vicende
della giovane Cathleen e delle altre ragazze che vorrebbero intraprendere la vita religiosa, sottovalutando la durezza della stessa e il complesso di rinunce che ciò comporta.


Attraverso l’illustrazione delle rigide regole del convento dell’Amata Rosa lo spettatore assiste al percorso iniziatico di una vita fatta di rinunce, sacrificio, mortificazione carnale che va dalla repressione dell’istinto naturale della sessualità alla mortificazione del corpo.
Che si esplicita in una vita conventuale votata per metà al silenzio e per l’altra metà alla preghiera,senza un vero contatto umano; una vita di rinuncia presso che totale,che proprio per la sua mancanza di naturalezza finirà per scoraggiare molte postulanti,
le cui vocazioni in effetti avevano motivazioni fra le più varie.
La pellicola quindi scava dall’interno, mostrando le lunghe giornate delle religiose, scandite da un ritmo sempre uguale, quasi ossessivo nella sua ripetizione di gesti legati ad una tradizione ancestrale ormai slegata dai tempi.
Ed è proprio il contrasto fra la tradizione e l’esigenza del cambiamento scaturita dal Concilio il punto fermo del film, sviscerato da una Betts che per fortuna non cade nella trappola del solito vetero anticlericalismo.


Certo, per un non credente o per uno scettico guardare il film non aggiunge nulla di nuovo se non la conferma di uno stile, di una scelta di vita incomprensibile.
Il merito di Novitiate però sta proprio nel non prendere una posizione netta, lasciando parlare più le immagini che le protagoniste.
Un film ovviamente tutto al femminile, visto che gli unici protagonisti maschili sono del tutto marginali o appaiono per pochissimo e si possono addirittura contare; il papà di Cathleen, che morirà senza suscitare grandi emozioni nella ragazza, l’arcivescovo che arriva nel convento per
comunicare le nuove direttive di Roma volte alla modernizzazione del convento stesso, accolte con terrore e rabbia dalla Reverenda madre e i sacerdoti preposti alle messe a cui partecipano le novizie, figure quasi indistinguibili per il loro ruolo deputato ad un’altra contestabile direttiva secolare della chiesa che serba solo all’uomo il diritto di celebrare messa.


Tanti motivi e spunti di riflessione per un film che racconta storie femminili. Un pizzico di femminismo,che vuole le donne stesse alla fine conscie di un ruolo sociale probabilmente più importante della vita ascetica.
Il cast si muove ordinatamente,con buone prove individuali fra le quali spiccano quelle di Margaret Qualley nel ruolo di suor Cathleen Harris, Melissa Leo nel ruolo della Reverenda madre Marie Saint-Clair, bravissima nel dare intransigenza ad un personaggio ormai superato dal tempo (“Quaranta anni fa sono entrata da quella porta e da allora non sono uscita più“),una frase rivelatrice dello scollamento della donna con la realtà, oltre a Julianne Nicholson nel ruolo di Nora Harris e Dianna Agron che interpreta suor Mary Grace, la prima ad abbandonare il convento in aperto dissidio sia con le regole del convento stesso sia con l’inflessibile Reverenda madre.
Ottima scelta la location,lo Scarritt Bennett Center, a Nashville nel Tennessee, trasformato per l’occasione in un convento.
Un film di pregevole fattura del quale consiglio caldamente la visione.

Novitiate

Un film di Margaret Betts. Con Dianna Agron, Morgan Saylor, Julianne Nicholson, Margaret Qualley, Liana Liberato,Melissa Leo, Maddie Hasson, Denis O’Hare, Chris Zylka, Eline Powell, Ashley Bell, Rebecca Dayan, Kamryn Boyd, Marco St. John, Chelsea Lopez, Joseph Wilson, Darla Pelton-Perez, Cecilia Wyle, Lucie Carroll, Marshall Chapman, Adele Marie Pomerenke, Jordan Price, Lacy Hartselle, Nettie Kraft, Rachel Mae Moore, Lisa Stewart , Neva Howell, Abram Knott, Gabriela Contaldo, Jeromy Nichols, Ashley Coughlin, Kurstan Buck, Kalista Dwyer, Robert Happy Allen, Kirk H. Andersen, Hannah Renèe Jackson, Laurie Pallotta, Jeffrey Wilkerson, Sasha Mason, Julz Leigh, Bill Shick, Courtney Cook, Angela Fox, Jenny Revord, Shayna-Raye Funderburk, Abby Harkins, Sydney Harris, Phillip Trammel, Monty Powers, Sydney Hoover, Eliza Stella Mason, Valeigh Rhiannon Alford, Carter Stewart, Bryan Fields, Emma Barberi, Kadence Riggs, Kylie Knott, Tallie Fausnaught, Kaitlyn Williams, Jasmin Maya Larsen, Shelby Johnson, David Alan Spodeck, Shelton Tison, Timothy Carr, Francis Dobrisky, Stacy Harris Drammatico, durata 123 min. – USA 2017.

Margaret Qualley:suor Cathleen Harris
Sasha Mason:Cathleen, 12 anni
Eliza Mason : Cathleen, 7 anni
Melissa Leo : Reverenda madre Marie Saint-Clair
Julianne Nicholson : Nora Harris
Dianna Agron : suor Mary Grace
Rebecca Dayan : suor Emanuel
Morgan Saylor :suor Evelyn
Maddie Hasson : sorella Sissy
Liana Liberato : suor Emily
Eline Powell : sorella Candace
Chelsea Lopez : sorella Charlotte
Denis O’Hare : l’Arcivescovo McCarthy
Chris Zylka : Chuck Harris
Ashley Bell : suor Margaret
Marco St. John : padre Luca
Marshall Chapman : Suor Louisa

Diretto da Maggie Betts
Prodotto da:Carole Peterman,Celine Rattray,Trudie Styler
Scritto da Maggie Betts
Musiche di Christopher Stark
Fotografia Kat Westergaard

febbraio 29, 2020 Posted by | Drammatico | , , , , , , | Lascia un commento

Julieta

La cinquantenne Julieta è in procinto di dare una svolta alla sua vita.
Con il compagno ,lo scrittore Lorenzo, sta per trasferirsi da Madrid in Portogallo, con l’intenzione di non rivedere più la capitale spagnola.
Ma a sconvolgere i piani ecco l’incontro con Beatriz, compagna adolescenziale di sua figlia Antia, che Julieta non vede più da ben 13 anni e della quale non ha più notizie.
E’ proprio Beatriz a mettere al corrente la donna di frammenti di vita di Antia: la ragazza l’ha incontrata in Italia, sul lago di Como, dove vive con il marito e i tre figli.
Tornata a casa Julieta decide di non partire più, con grande sconcerto di Lorenzo, che tuttavia non può cambiare i suoi piani,così i due si separano.
Per Julieta è stato un colpo terribile apprendere che sua figlia non le ha mai comunicato di essersi creata una famiglia e che la stessa non ha fatto il minimo cenno all’amica di sua madre.

Così Julieta decide di scrivere a sua figlia una lunga lettera, quasi un diario,con il quale raccontare a Antia quello che è accaduto dalla sua nascita in poi.
Sull’onda dei ricordi, Julieta rievoca il primo incontro in treno con Xoan,il padre di Antia, l’amore a prima vista e mesi dopo la lettera che il giovane le aveva scritto invitandola a casa sua.
Con il giovane, un affascinante pescatore, Julieta aveva subito stabilito un legame sentimentale, coronato dalla nascita di Antia; ma un giorno,tornata da una visita a casa dei suoi per incontrare la mamma gravemente ammalata, Julieta aveva appreso dalla perfida e subdola cameriera del marito come lo stesso la avesse tradita con la compagna d’infanzia di Xoan, Ava.
La lite che era scaturita aveva spinto Xoan ad un’imprudente uscita in mare durante la quale era morto in seguito al naufragio della sua barca, affondata per una violenta tempesta.


Così Julieta si era ritrovata sola, con una figlia ancora adolescente e alle prese con la depressione, dalla quale grazie proprio alla presenza di Antia e dagli obblighi verso di lei era riemersa con fatica.
Ma Antia,dopo una vacanza durante la quale aveva stretto amicizia con Beatriz, aveva lentamente iniziato ad allontanarsi dalla madre fino al giorno in cui, diventata maggiorenne,aveva abbandonato la casa materna per scomparire senza dare più notizie.
Inutilmente Julieta, per tre anni,aveva atteso un cenno dalla figlia; poi,grazie anche alla fortuita conoscenza in ospedale di Lorenzo, amico di Ava gravemente ammalata di Sla e dopo un nuovo periodo di depressione, Julieta dicevo si era messa l’animo in pace e da quel momento aveva cercato di cancellare l’esistenza di Antia dalla vita.
Ma Antia tornerà improvvisamente a farsi viva, perchè una tragedia le ha cambiato la vita e le ha permesso di comprendere il dolore di sua madre…
Film delicato, senza eccessi verbali,scorrevole, Julieta di Pedro Almodovar, girato nel 2016 è opera essenziale e senza fronzoli.
Un racconto in cui l’uso di un lungo flashback permette di conoscere i retroscena della vita di Julieta sconvolta da improvvise tragedie che ne hanno minato sia la psiche che le speranze.


Eppure Julieta riesce ogni volta a venirne fuori: la morte del marito,della madre,l’abbandono della figlia, la morte di Ava, della quale comunque era rimasta amica.
Prove terribili superate come la depressione. Ma sempre con la mente rivolta a quella figlia dal comportamento incomprensibile.
E poi un secondo incontro con Beatriz e la scoperta di cose sconosciute,come l’abbandono anche di quest’ultima da parte di Antia,un abbandono doloroso per Beatrix che aveva con lei una relazione.
Una storia di vita, di una vita comune. Come comuni sono i personaggi,alle prese con le vicende umane e con le relative debolezze che questo comporta .
Come quella del marito, la fugace avventura con Ava, come quella del padre, che durante la malattia della moglie si era legato alla giovane badante e che si rifarà una vita dando un fratellino a Julieta, ormai in età avanzata.


Un intreccio di vicende a tratti dolorose, a tratti semplici e naturali; i personaggi sono umani e come tali vivono le passioni, incuranti di quello che possono implicare le loro scelte per gli altri.
Sul film incombe sempre una domanda, che riguarda Antia: perchè la ragazza ha di colpo abbandonato sua madre?
Lo scopriremo poco alla volta, indizio per indizio.
Ma la scoperta non ci farà provare simpatia per lei,anzi.
I giovani sanno essere crudeli , intolleranti verso le presunte colpe dei genitori.
Indulgenti con le proprie. E ci vorrà una tragedia per far comprendere ad Antia gli errori fatali commessi.
Il finale del film lascia intendere un riavvicinamento tra le due donne, ma quello che conta di più è la ritrovata serenità di Julieta, che si ricongiunge con Lorenzo, un uomo equilibrato ed intelligente, l’ultima occasione per la donna per dare un senso alla propria vita.
Una storia semplice.


Ma occorre saper rendere la semplicità non banale e Almodovar ci riesce alla perfezione, con il suo cinema fatto di una sapiente alchimia fra linguaggio e immagine.
Tutti bravi gli attori dalle due interpreti di Julieta giovane e donna matura ovvero Adriana Ugarte e Emma Suárez, così come molto bravo è Daniel Grao che interpreta Xoan.
Ottima anche Inma Cuesta ( Ava) e l’argentino di origini italiane Darío Grandinetti (Lorenzo).
Un film in cui la poesia si mescola mirabilmente ad un linguaggio essenziale, in cui il racconto fila liscio e spedito, senza inutili e ampollosi discorsi.
Un film da vedere,assolutamente.

Julieta
di Pedro Almodovar, con Emma Suarèz, Adriana Ugarte, Daniel Grao, Inma Cuesta, Darío Grandinetti. Titolo originale: Silencio. Genere Drammatico, – Spagna, 2016, durata 99 minuti.
Distribuito da Warner Bros Italia.

Emma Suárez: Julieta
Adriana Ugarte: Julieta giovane
Priscilla Delgado: Antía bambina
Blanca Parés: Antía adolescente
Daniel Grao: Xoan
Inma Cuesta: Ava
Darío Grandinetti: Lorenzo
Michelle Jenner: Beatriz
Rossy de Palma: Marian
Susi Sánchez: Sara
Pilar Castro: Claudia
Joaquín Notario: Samuel
Nathalie Poza: Juana
Mariam Bachir: Sanaa

Regia Pedro Almodóvar
Soggetto Alice Munro (racconti Fatalità, Fra poco e Silenzio)
Sceneggiatura Pedro Almodóvar
Fotografia Jean-Claude Larrieu
Montaggio José Salcedo
Musiche Alberto Iglesias
Scenografia Antxón Gómezs, Carlos Bodelóns e Federico García Camberos

febbraio 28, 2020 Posted by | Drammatico | , , , , , | Lascia un commento

Il gioco delle coppie

Alain, editore letterario di successo è a un bivio della sua carriera.
L’editoria digitale sta facendo passi da gigante e lui si trova di fronte al dilemma se accettare la sfida e lanciarsi nel complesso mondo
del digitale o proseguire con la tradizione, con i libri in formato cartaceo e quindi ignorare le sfide che gli ebook comportano.
Nel frattempo è anche alle prese con l’ultimo romanzo del suo amico Leonard, scrittore anticonformista del quale ha già pubblicato
altre opere.
Ma questa, a suo giudizio, mostra una pericolosa fase di involuzione e quindi rifiuta di pubblicarla.
Nonostante il parere contrario di sua moglie Selena, una stellina delle serie Tv, che invece giudica il libro il migliore della carriera di Leonard; ma il parere della donna è anche condizionato dalla relazione che la donna ha, da anni,con lo scrittore che a sua volte convive con Valerie, segretaria di un importante uomo politico.


A complicare la decisione finale di Alain si mette anche la relazione che l’uomo ha con Laure, un’esperta di marketing digitale, giovane e ambiziosa, sessualmente bisessuale e che spinge l’editore verso la nuova frontiera dell’informatica.
In questo valzer di amore e tradimenti si innestano le vicende personali dei protagonisti, divisi fra la vita pubblica, gli interessi e la vita privata.
Il gioco delle coppie, bruttissimo titolo italiano per l’originale Doubles vies, che sembra suggerire tutt’altra pellicola rispetto a quella che è in realtà
è un film diretto nel 2018 dal regista francese Olivier Assayas, tutto giocato su interminabili e francamente a tratti fastidiose divagazioni dei protagonisti sugli aspetti che comporta la nuova era del digitale.
Un film che non si schioda mai dalle schermaglie fra i protagonisti, borghesissimi rappresentanti della società francese, lontani dai problemi concreti
del quotidiano e quindi alle prese con problematiche che nel film sembrano pretestuose,quando non a tratti irritanti.
Il gioco delle coppie è l’esempio lampante della disparità di giudizio fra critica e pubblica,che raramente come in questo caso appare distante.
Lo spettatore qualunque si ritrova alle prese con un film confezionato con stile, ma verboso all’eccesso nel quale si innestano le pene amorose (sic.) dei protagonisti, legati da relazioni sesso/sentimentali e impegnati a disquisire, in interminabili cene, di libri e pettegolezzi, di politica e fatterelli, che alla lunga finiscono non solo per stancare ma anche per irritare lo spettatore.

Su tutto veleggia lo spettro del futuro digitale, visto da Alain come una sfida dai contorni incerti, da Selena come un’innovazione inutile e pericolosa e da Valerie come l’unica vera via del romanzo e del saggio.
Un po troppo poco per appassionare il pubblico, sconcertato da una serie infinita di dialoghi che avvengono davanti ad un bicchiere di vino e ad un antipasto; dialoghi per altro poco interessanti, che cercano di mescolare le idee dei protagonisti conciliandoli anche con il privato, che finisce per condizionare pesantemente le idee degli stessi.
Perchè se Selena sembra difendere a spada tratta il romanzo dell’amante e il giudizio appare inficiato proprio dalla relazione sentimentale, così come le decisioni di Alain appaiono prese in modo epidermico, vista la sua contemporanea relazione con Valerie, che a sua volta ne ha una contemporaneamente con una ragazza. Un micro cosmo che fa discorsi impegnati e che vive in maniera frivola il proprio privato,
quasi uno scollamento fra essere e apparire. E quando Alain decide di pubblicare il romanzo di Leonard su pressione e suggerimento di Selena non fa altro che confermare come le decisioni  prese siano più frutto della superficialità che del raziocinio.
Potrei citare il titolo di un film italiano per sintesi del film: Sotto il vestito niente.


Dietro la cortina fumogena alzata da Olivier Assayas, tutta dialoghi forbiti e citazioni, fra le quali la ormai tradizionale “Bisogna che tutto cambi perchè nulla cambi” di Tomasi di Lampedusa,dietro tutto dicevo c’è la pochezza del film.
Che si tramuta in un logorroico,torrenziale diluvio di parole che scivolano senza lasciare nulla, o meglio, lasciando solo un fastidioso senso di vuoto e francamente un po di invidia verso chi nella vita non ha da affrontare i veri problemi del quotidiano.
Il cast in qualche modo fa la sua parte, e ci mancherebbe, viste le qualità di Juliette Binoche (Selena) e di Guillaume Canet (Alain);
bene anche Vincent Macaigne (Leonard), alle prese con un personaggio scomodo, lo scrittore intellettualoide che disprezza la società salvo poi nutrirsi dei miti di essa,che tradisce la sua compagna salvo poi stancarsene, che frequenta Alain salvo poi tradirne la fiducia per anni diventando l’amante della moglie.
Personaggi umanamente squallidi e diciamocela tutta, anche intellettualmente.
Un film del quale sconsiglio la visione a meno che non si sia attratti da pistolotti sul sesso degli angeli.

Il gioco delle coppie

Regia di Olivier Assayas, con Guillaume Canet, Juliette Binoche, Vincent Macaigne, Nora Hamzawi, Christa Théret. Titolo originale: Doubles vies. Titolo internazionale: Non fiction. Genere Commedia, – Francia, 2018, durata 100 minuti

Guillaume Canet: Alain
Juliette Binoche: Selena
Vincent Macaigne: Léonard
Christa Théret: Laure
Nora Hamzawi: Valérie
Pascal Greggory: Marc-Antoine

Regia Olivier Assayas
Sceneggiatura Olivier Assayas
Produttore Charles Gillibert
Produttore esecutivo Sylvie Barthet
Casa di produzione CG Cinéma
Distribuzione in italiano I Wonder Pictures
Fotografia Yorick Le Saux
Montaggio Simon Jacquet
Scenografia François-Renaud Labarthe

febbraio 27, 2020 Posted by | Commedia | , , , , , | 2 commenti

The Life of David Gale

A Bitsey Bloom, giovane e rampante giornalista specializzata in reportage a sfondo sociale viene affidato dal direttore
della sua testata l’incarico di intervistare per sei ore David Gale, un ex professore di Università molto stimato all’epoca delle docenza accusato
di aver strangolato e ucciso Constance Harraway, sua amica e fidata collaboratrice che l’uomo affiancava nella lotta per l’abolizione della pena di morte.
Con l’ausilio di un giovane praticante, Zack Stemmons, impostogli dal direttore, Bitsey si reca nel braccio della morte nel quale è rinchiuso Gale, in attesa di essere giustiziato mediante un’iniezione letale.
Qui ha modo di conoscere la storia dell’uomo, la discesa all’inferno dello stesso causata da una allieva che in realtà si è fatta possedere con violenza volontariamente.
Per Gale era scattato il licenziamento e ciò aveva causato anche la fine del già traballante matrimonio, oltre a seri problemi di alcolismo.
Ma David Gale non aveva rinunciato al suo impegno, sempre aiutato da Constance, che scoprirà essere malata terminale di leucemia.


Attraverso una serie di eventi Bitsy scoprirà che in realtà Gale è innocente e farà una scoperta che la porterà verso una sorpresa finale…
In estrema sintesi questa è la trama di The Life of David Gale, film diretto da Alan Parer nel 2003, giocato su un doppio piano: il primo quello del racconto di ciò che si può nascondere dietro la pena capitale, il secondo quello della vita nascosta di Gale e di Constance, due appassionati sostenitori dei diritti umani e dell’abolizione di quella barbarie che è la pena di morte.
Parker lo fa con un linguaggio assolutamente scorrevole, intrecciando quasi fosse un thriller la storia di David Gale e la verità che si cela dietro la morte di Costance, anche lei  impegnata,nonostante la vita stia sfuggendole di mano, in una battaglia fatta in nome dell’umanità.
Il regista, autore di grandi film come Fuga di mezzanotte,Saranno famosi,Birdy le ali della libertà,Angel Heart ascensore per l’inferno e Mississipi Burning, aggiunge un’altra ottima regia al suo prestigioso curriculum,
con un film asciutto e nel quale il flashback della vita di Gale si sposa mirabilmente con il tentativo estremo di Bitsy di salvargli la vita, dopo
che la stessa, tramite alcuni colpi di scena ben congegnati, è riuscita ad ottenere le prove che Costance è morta non perchè uccisa da lui, ma per un suicidio.


Quello che sorprende è il finale, avvincente, che alcuni detrattori hanno trovato irreale e che invece, a mio parere, chiude degnamente una pellicola che apre uno squarcio su un tema da sempre dibattuto negli Usa, quello della pena di morte,
barbaro retaggio di civiltà di grado decisamente più basso di quella americana, tanto decantata tra i paesi democratici. Il finale, dicevo, appare quasi beffardo perchè trascina il film in direzione opposta a quella che si era intuita fino a tre quarti di film.
Per non accennare nemmeno di sfuggita al finale stesso , dirò che Parker fa suo il detto “la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni“, un finale che lascia sia l’amaro in bocca sia il dubbio sulla reale posizione del regista sul tema del film.
Momenti topici del film sono il dibattito tv fra David Gale e il governatore,nel corso del quale riesce a mettere nell’angolo lo stesso facendogli citare nientemeno che Hitler oltre alla descrizione della casa dell’omicidio arredata come un barraccone circense,gestita
da una ragazza che per 20 dollari intrattiene i turisti dell’orrore, un’altra abitudine purtroppo non solo americana, quella della spettacolarizzazione del male.


Grande contributo alla riuscita del film lo danno una sempre bravissima Kate Winslet (Bitsy), Kevin Spacey in grande spolvero nel ruolo di David Gale e la ottima Laura Linney nel ruolo di Constance. Da segnalare anche la buona prova di Gabriel Mann ( Zack Stemmons), valida spalla di Bitsy.
Un film scorrevole, ben congegnato e che si fa seguire con interesse e che vi consiglio caldamente di vedere.

The Life of David Gale 

di Alan Parker,con Kevin Spacey, Kate Winslet, Laura Linney, Gabriel Mann, Matt Craven, Rhona Mitra, Leon Rippy, Cleo King, Constance Jones, Lee Ritchey, Cindy Waite, Jim Beaver Drammatico, durata 131 min. – USA 2003.

Kevin Spacey: David Gale
Kate Winslet: Bitsey Bloom
Laura Linney: Constance Harraway
Lee Ritchey: Joe Mullarkey
Gabriel Mann: Zack Stemmons
Matt Craven: Dusty Wright
Rhona Mitra: Berlin
Leon Rippy: Braxton Belyeu
Melissa McCarthy: Nico/Goth Girl

Regia Alan Parker
Sceneggiatura Charles Randolph
Produttore Nicolas Cage, Alan Parker
Casa di produzione Saturn Films
Fotografia Michael Seresin
Montaggio Gerry Hambling
Musiche Alex Parker, Jake Parker
Scenografia Geoffrey Kirkland

febbraio 25, 2020 Posted by | Drammatico | , , , | 5 commenti

Gli abbracci spezzati

In seguito ad un drammatico incidente stradale nel quale ha perso la vista,Mateo Blanco ha deciso di cambiare il proprio nome in Harry Caine e con questa nuova identità firma le sceneggiature e i racconti con i quali ha proseguito la sua carriera,dopo essere stato un apprezzato regista cinematografico.
L’arrivo in studio di un giovane che dice di chiamarsi Ray X sconvolge la sua vita; dietro questo pseudonimo Mateo riconosce subito Ernesto Martel junior, figlio di quel Ernesto senior che tanto gli ha cambiato la vita.
Con l’aiuto di Diego, figlio della sua valida collaboratrice Judith, che gli è rimasta accanto in silenzio per anni, Mateo rievoca le vicende che lo hanno portato fino al fatidico giorno dell’incidente.
Così ricorda la bella Magdalena, una giovane che aveva conosciuto casualmente ;Lena,conosciuta così da tutti, era legata sentimentalmente più per riconoscenza che per vero affetto al ricchissimo e maturo Ernesto Martel senior, che la aveva aiutata in un momento di grave difficoltà, sostenendo le spese mediche per aiutare il padre di lei.


L’uomo, persona estremamente gelosa, aveva ceduto malvolentieri al desiderio di lei di fare l’attrice e aveva così finanziato un film diretto proprio da Mateo.
Sul set Mateo e Lena si erano innamorati, scoperti subito da Ernesto che aveva utilizzato suo figlio per spiarli con l’ausilio di una telecamera. L’uomo aveva anche utilizzato un’interprete del linguaggio per carpire i dialoghi fra i due innamorati;
la gelosia aveva portato l’uomo a tentare di uccidere Lena spingendola giù dalle scale; salvatasi miracolosamente Lena aveva accettato di restare con Ernesto a patto di poter finire il film, ma un violento pestaggio subito l’aveva convinta ad abbandonarlo.
Così Mateo e Lena si erano rifugiati a Lanzarote,in cerca di una nuova vita.
Una sera l’auto sulla quale viaggiava era stata violentemente investita da un fuoristrada e Lena aveva avuto la peggio,morendo sul colpo mentre Matia era rimasto cieco.
Così 14 anni dopo Mateo è alle prese con la sua vita difficile, aiutato dal giovane Diego e da Judith, che però trova finalmente il coraggio di rivelargli retroscena sconosciuti mentre sarà Ernesto Junior a completare il mosaico proiettando un filmato che aveva girato la sera dell’incidente,
alla proiezione del quale assiste Diego…


Decisamente un buon film questo Gli abbracci spezzati, diretto da Pedro Almodovar nel 2009, costruito attorno ad una solida sceneggiatura raccontata visivamente con un linguaggio scorrevole che passa agevolmente dal registro drammatico al romantico toccando il giallo
con capacità stilistica.
La tecnica del flashback non è mai invasiva, anzi.
Con equilibrio Almodovar evita i continui andirivieni tra passato e presente, uno degli errori che spesso registi meno capaci capaci commettono.
Il risultato è un’opera in equilibrio tra passione e dramma ben bilanciata, con un finale che farà riaffiorare cose non dette, omissioni, uno squarcio sulle nebbie del passato che porteranno Mateo non solo a comprendere l’accaduto, ma anche a placare il dolore che in lui la scomparsa di Lena ha lasciato.
E che porteranno anche una sorprendente rivelazione.
Un film quindi assolutamente ben fatto, agevolato dalla magnetica presenza di Penelope Cruz, attrice di razza e di Lluís Homar, davvero pregevole
nell’interpretazione di Mateo.
Bene anche José Luis Gómez nel ruolo del possessivo e violento Afredo Martel senior e c’è spazio anche per Angela Molina, nel ruolo piuttosto defilato della madre di Lena.
Un film essenziale, senza grossi fronzoli, che si lascia apprezzare per la capacità di passare tra i generi e nel racconto senza stacchi, ma con un percorso fluido e accattivante.
Un film consigliato.

Gli abbracci spezzati
un film di Pedro Almodóvar, con Penélope Cruz, Lluís Homar, Blanca Portillo, José Luis Gómez, Rubén Ochandiano. Titolo originale: Los Abrazos Rotos. Genere Drammatico, – Spagna, 2009, durata 129 minuti, distribuito da Warner Bros Italia.

Penélope Cruz: Magdalena “Lena” Rivero
Lluís Homar: Mateo Blanco / Harry Caine
Blanca Portillo: Judit García
José Luis Gómez: Ernesto Martel
Rubén Ochandiano: Ernesto Martel figlio / Ray-X
Tamar Novas: Diego
Ángela Molina: Madre di Lena
Chus Lampreave: Portinaia
Kiti Manver: Madame Mylene
Lola Dueñas: Lettrice di labbra
Mariola Fuentes: Edurne
Carmen Machi: Chon
Rossy de Palma: Julieta
Alejo Sauras: Álex

Regia Pedro Almodóvar
Soggetto Pedro Almodóvar
Sceneggiatura Pedro Almodóvar
Produttore Agustín Almodóvar, Esther García
Casa di produzione El Deseo
Distribuzione in italiano Warner Bros.
Fotografia Rodrigo Prieto
Montaggio José Salcedo
Musiche Alberto Iglesias
Scenografia Antxón Gómez, Víctor Molero
Costumi Sonia Grande

febbraio 23, 2020 Posted by | Drammatico | , , | Lascia un commento

La grande bellezza

In una serata romana, ad una festa chiassosa frequentata dalla alta borghesia romana e da parvenu, si muove un gruppo di conoscenze comuni a Jep Gambardella, un brillante giornalista e critico teatrale.
Uomo cinico, disincantato, Jep ha scritto in passato un romanzo dal grande successo, ma poi ha avuto il “blocco dello scrittore” e si è limitato a seguire l’inclinazione che aveva da giovane, quando 40 anni prima era approdato nella città eterna con la voglia di diventare il punto fermo della mondanità.
E Jep c’è riuscito.
Protagonista di tutte le feste più importanti della capitale,frequenta un gruppo consolidato formato da Romano, uno scrittore teatrale alla ricerca di un successo, da Lello, un commerciante di giocattoli marito infedele di Trumeau, da Dadina, direttrice del giornale per il quale lavora Jep, una donna nana ma dalla grande personalità e intelligenza. Il gruppo è completato da Stefania, una scrittrice che crede di essere alternativa al sistema ma che in realtà è la sua espressione più deleteria, dalla ricchissima Viola, madre di un giovane con gravi disturbi della personalità.
Un gruppo eterogeneo,che la sera si ritrova a tutte le feste di una Roma decadente sia nei costumi che nella morale, che Jep guarda con il disincanto di un uomo che, a 65 anni, ha ormai visto e assaporato tutto il possibile.


Ma proprio il sessantacinquesimo compleanno porterà delle novità, tutte spiacevoli tranne l’ultima, che lo cambierà radicalmente.
Inizia incontrando il marito del suo primo amore, Elisa,morta improvvisamente, l’unica donna che abbia veramente amato,prosegue con l’incontro con una donna bella e fondamentalmente onesta, Ramona,che però è affetta da un male incurabile e che lo lascerà ancora più solo e disilluso.
E via via il suicidio del figlio di Viola, l’allontanamento di Stefania alla quale ha spiattellato,con brutale sincerità le contraddizioni nelle quali la donna ha sempre vissuto e infine l’abbandono del gruppo da parte di Romano,deciso a tornare ad una vita più umana nel paese di nascita e di Viola, che dopo la morte del figlio ha deciso di spogliarsi di tutte le sue ricchezze e di andare a vivere come missionaria in Africa.
Ormai anche solo oltre che disilluso, Jep trova un’inaspettata scialuppa di salvataggio in suor Maria, una donna invecchiata precocemente dalle privazioni a cui si è sempre sottoposta.
Suor Maria, in odore si santità, con poche parole lo porterà a riconsiderare la propria vita, a recuperare le radici, a tornare quindi a trovare ispirazione per un nuovo romanzo e quindi per una nuova vita.


La grande bellezza di Paolo Sorrentino, premio Oscar 2014 e pluri premiato ai Golden Globe, agli European Film Award e ai David di Donatello è un film assolutamente particolare nel panorama cinematografico italiano (ma non solo).
Un film immerso, difeso da una cortina fumogena creata ad arte da Sorrentino, con il suo classico modo di far cinema in cui il gusto per l’iperbole si unisce a quello per la dissacrazione ma anche alla poesia attraverso un linguaggio visivo sicuramente sconcertante ma dal grande effetto.
Un film in cui il racconto di una Roma decadente e priva ormai di riferimenti di ogni genere (morale in primis) si mescola all’analisi delle vite prive di significato, vuote, dedite solo all’effimero della Roma bene.
Ogni personaggio viene mostrato nei suoi limiti, derivanti da un complesso di circostanze che culminano nelle notti festaiole e assolutamente inutili passate tra feste e droga, alcool a fiumi e discorsi vacui, quando non vuoti in maniera mortificante.
Jep Gambardella attraversa questo mondo in modo consapevole, attratto eppur allo stesso tempo schifato dalla vacuità delle cose; il suo cinismo,la sua viva intelligenza non riescono a frenarlo su quella che ormai è una strada senza ritorno, fatta di un’assenza presso che totale di sentimenti che alla fine si tramuta anche in una voglia di vivere ridotta al lumicino.
Ma alle volte basta poco per trovare un inaspettato gancio nel cielo.


Jep,dopo una serie di avvenimenti anche drammatici con i quali si troverà a confrontarsi (incolpevole) finirà per frenare proprio sull’orlo del precipizio,grazie al quasi miracoloso incontro con Suor Maria.
L’analisi spietata della quasi totalità della vita,passata in un edonistico quanto effimero piacere, tanto epidermico da aver lasciato solo un senso di vuoto assoluto nella sua anima lo premierà anche oltre i suoi limiti, sicuramente oltre le sue aspettative.
La grande bellezza mescola l’ormai chiaro anticlericalismo di Sorrentino, esplicitato da due scene in particolare,la scena del prelato e della suora in un locale lussuosissimo e la figura del Cardinale Bellucci,uomo vuoto e interessato solo al cibo con una critica neanche tanto velata alla cultura della capitale (lo spettacolo teatrale,la giovanissima pittrice che insozza le tele scagliano secchi di vernice).
Si salva poco,della capitale.
Solo parte della bellezza straordinaria della sua arte, dei suoi monumenti, dei suoi palazzi.
Poi nulla più.


Un discorso, quello di Sorrentino, avvolto nel suo classico nuvolone depistante, fatto di immagini ai limiti del grottesco e da dialoghi a volte criptici ma di sicuro effetto.
Un film quindi anche provocatorio, che mescola un linguaggio poetico che qui e la si fa prepotente ad un’analisi spietata della società.
Un film di sicuro effetto,nel quale si mescola un cast di grande effetto :davvero bravo Servillo, ma la vera protagonista è un’eccellente Sabrina Ferilli,che risulta molto convincente in uno dei pochissimi personaggi positivi del film, quello della sfortunata Ramona.
Tra i tanti personaggi segnalo il bravissimo Verdone, Pamela Villoresi e i camei di Fanny Ardant e Antonello Venditti oltre al piccolo sipario dell’avventura galante di Jep con la sciocca, insulsa Orietta, interpretata da Isabella Ferrari.
Unica cosa ostica è ascoltare alcuni brani del film, festaioli e dissacranti, emblemi del trash degli anni 2000 come A far l’amore comincia tu (sic) e Mueve la coilta, il re di quella cosa deprimente che sono i balli di gruppo.
Ma c’è anche spazio,come contraltare per The Beatitudes (Kronos Quartet) e per la Sinfonia n. 3 (Dawn Upshaw).
Tra trash e bellezza,un film di cui almeno si discute,tanto.
Infine un plauso alla splendida fotografia di Luca Bigazzi.


Un film da vedere.

La grande bellezza
un film di Paolo Sorrentino, con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Pamela Villoresi,Galatea Ranzi, Anna Della Rosa, Giovanna Vignola, Roberto Herlitzka, Massimo De Francovich, Giusi Merli, Giorgio Pasotti, Massimo Popolizio, Isabella Ferrari, Franco Graziosi, Sonia Gessner, Luca Marinelli, Dario Cantarelli, Ivan Franek, Anita Kravos, Luciano Virgilio, Vernon Dobtcheff, Serena Grandi, Pasquale Petrolo, Giorgia Ferrero, Aldo Ralli, Ludovico Caldarera, Maria Laura Rondanini, Anna Luisa Capasa, Francesca Golia Genere Drammatico, – Italia, Francia, 2013, durata 150 minuti, distribuito da Medusa.

 

Toni Servillo: Jep Gambardella
Carlo Verdone: Romano
Sabrina Ferilli: Ramona
Carlo Buccirosso: Lello Cava
Iaia Forte: Trumeau
Giovanna Vignola: Dadina
Pamela Villoresi: Viola
Galatea Ranzi: Stefania
Franco Graziosi: Conte Colonna
Sonia Gessner: Contessa Colonna
Giorgio Pasotti: Stefano
Giusi Merli: Suor Maria “La Santa”
Dario Cantarelli: Assistente della Santa
Roberto Herlitzka: Cardinale Bellucci
Serena Grandi: Lorena
Massimo Popolizio: Alfio Bracco
Anna Della Rosa: “Non fidanzata” di Romano
Luca Marinelli: Andrea
Ivan Franek: Ron Sweet
Vernon Dobtcheff: Arturo
Pasquale Petrolo: Lillo De Gregorio
Luciano Virgilio: Alfredo
Anita Kravos: Talia Concept
Massimo De Francovich: Egidio
Aldo Ralli: Cardinale
Gabriela Belisario: Maria
Isabella Ferrari: Orietta
Annaluisa Capasa: Elisa De Santis
Severino Cesari: Poeta Muto Sebastiano Paf
Fanny Ardant: Se stessa
Antonello Venditti: Se stesso
Rino Barillari: Se stesso

 

Regia Paolo Sorrentino
Soggetto Paolo Sorrentino
Sceneggiatura Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Produttore Nicola Giuliano, Francesca Cima, Fabio Conversi
Produttore esecutivo Viola Prestieri
Casa di produzione Indigo Film, Medusa Film, Babe Films, Pathé
Distribuzione in italiano Medusa Film
Fotografia Luca Bigazzi
Montaggio Cristiano Travaglioli
Effetti speciali Rodolfo Migliari, Luca Della Grotta
Musiche Lele Marchitelli
Scenografia Stefania Cella
Costumi Daniela Ciancio
Trucco Maurizio Silvi

 

febbraio 21, 2020 Posted by | Drammatico | , , , , , , | 2 commenti

Corpo e anima

In un macello di una città dell’est Europa arriva una nuova responsabile del controllo qualità; nello stesso luogo lavora anche Endre, il direttore amministrativo,un tipo solitario e con il braccio sinistro paralizzato. Anche Maria è una donna solitaria, anzi, sembra quasi asociale. Risponde a monosillabi e rifiuta ogni contatto con gli altri dipendenti dell’azienda.
L’arrivo di una psicologa, chiamata per analizzare le personalità dei dipendenti, uno dei quali ha versato un liquido afrodisiaco per animali in un contenitore d’acqua porta a galla le personalità dei due protagonisti, che inaspettatamente hanno qualcosa in comune. Entrambi infatti fanno gli stessi sogni, sono due cervi che vivono liberi nella foresta e finiscono per incontrarsi e scambiarsi il cibo.
Poco alla volta Maria e Endre scoprono di avere qualcosa in comune oltre i sogni ed inizia per loro un lento percorso, reso problematico sopratutto dal comportamento della ragazza, che vive come una reclusa e che frequenta
uno psicologo infantile ,immersa in un mondo adolescenziale dal quale sono esclusi i rapporti umani e in cui non c’è altro spazio che per il lavoro.
Endre, con molta pazienza, riuscirà a colmare il divario fra il mondo di lei e il suo, quello di un uomo disilluso e ormai rassegnato all’abitudine…
Corpo e anima, diretto da Ildikò Enyedi è un film praticamente perfetto.


Elegante, ipnotico, racconta con un linguaggio cinematografico fatto di silenzi, di immagini quasi rallentate l’incontro di due anime chiuse in un silenzio imperscrutabile.
Che appare tale almeno fin quando, con lo scorrere del film, non iniziano a colloquiare. In un modo difficile, reso complicato dalle proprie nature di esseri solitari, immersi in particolari mondi dai quali gli altri sono esclusi.
Per motivi diversi ma che in fondo non hanno molta importanza.
Lui risente della sua menomazione, anche se non da a vederlo, lei è anafettiva ed incapace di relazionarsi essendo rinchiusa in un mondo infantile, il cui unico rifugio e il sogno.
Ed è la dimensione onirica ad unirli, l’unico modo che troveranno per fare uno un passo verso l’altro, colmando quell’abisso che altrimenti li avrebbe resi due lupi solitari.
Maria imparerà a conoscere i totem della civiltà moderna, sarà un banale cellulare a metterla in contatto fisico con Endre, così come scoprirà il valore della musica.
La scoperta rischierà di trasformarsi nella sua fine e sarà solo il caso a salvarla. A riportarla alla vita, quella fatta di sensazioni e di contatto fisico, in una parola sola d’amore.


Un film davvero molto bello, che richiede però un approccio assolutamente nuovo verso un linguaggio cinematografico fatto di silenzi, di inquadrature spesso prese dalla distanza. Di cose non dette.
E di contrasti fortissimi, come lo squallore del posto di lavoro dei due protagonisti, un macello in cui vediamo delle povere mucche avviarsi alla morte e la lussureggiante foresta protagonista dei loro sogni.
Sono due cervi, liberi.
Di vivere assieme, di bere nel lago, di fare una vita essenziale seguendo il ritmo della natura.
Quella natura che non tradisce e che anzi ti restituisce l’umanità.
Questo punto di contatto li farà crescere individualmente, portandoli verso una realtà in cui tutti e due potranno completarsi, lei imparando ad amare, lui ritornando ai sentimenti.
Un film delicato,dolce.


Che parte piano e che sviluppa, con lentezza, un percorso del quale davvero per oltre metà film non si capisce la meta.
Ma che diventa chiara quando i due protagonisti si aprono e prendono coscienza di se stessi.
E lo squallore del mattatoio, i corpi dei bovini squartati lasciano il posto alla poesia di un amore particolare, fra due esseri che lo hanno dimenticato (Endre) o non lo hanno mai conosciuto e del quale ignorano l’esistenza (Maria).
Premiato giustamente con l’Orso d’oro di Berlino, Corpo e anima ha avuto anche la nomination agli Oscar,che con un po di coraggio
la parruccona Hollywood avrebbe potuto premiare tranquillamente. Il film ha due grandi punti fermi: una regia intelligente e sensibile, quella della regista ungherese Ildikó Enyedi e quella dei due attori protagonisti,


Géza Morcsányi (Endre) e sopratutto lei, una strepitosa Alexandra Borbély, l’attrice slovacca che merita il plauso per la capacità addirittura sbalorditiva di dare quell’espressione imbambolata, priva di sentimento, anafettiva come dicevo all’inizio
e che si rivela magnetica a tal punto da chiedersi, minuto dopo minuto, cosa nasconde dentro di lei, l’enigma della sua figura.
Un film davvero particolare finalmente fuori dai binari e dagli schemi.
Consigliato assolutamente.

Corpo e anima
un film di Ildikò Enyedi, con Alexandra Borbély, Morcsányi Géza, Ervin Nagy, Pál Mácsai, Júlia Nyakó. Titolo originale: A teströl és a lélekröl. Genere Drammatico, – Ungheria, 2017, durata 116 minuti.

Géza Morcsányi: Endre
Alexandra Borbély: Mária
Zoltán Schneider: Jenő
Ervin Nagy: Sanyi
Tamás Jordán: psicologo di Mária
Zsuzsa Járó: Zsuzsa
Réka Tenki: Klára
Júlia Nyakó: Rózsi
Itala Békés: Zsóka
Éva Bata: moglie di Jenő
Zsófi Bódi: Piroska
Attila Fritz: Peti
Ábel Galambos: Tomi
Pál Mácsai: detective
Nóra Rainer-Micsinyei: Sári
Rozi Székely: Teri
Vince Zrínyi Gál: Béla

Regia Ildikó Enyedi
Sceneggiatura Ildikó Enyedi
Produttore Ernő Mesterházy,
András Muhi,
Mónika Mécs
Casa di produzione Inforg-M&M Film
Distribuzione in italiano Movies Inspired
Fotografia Máté Herbai
Montaggio Károly Szalai
Effetti speciali Balázs Novák
Musiche Ádám Balázs
Scenografia Imola Láng
Costumi Judit Sinkovics
Trucco Orsolya Petrilla

febbraio 19, 2020 Posted by | Drammatico | , , , | Lascia un commento

Band Aid

Anna e Ben sono una coppia con grossi problemi dovuti ad una serie di fattori,che vanno dall’incapacità da parte di lui di avere un lavoro fisso fino
ai postumi dell’aborto spontaneo subito dalla donna tempo addietro e che in qualche modo ha scavato un solco fra loro. I due litigano di continuo, il che in realtà è un buon segno,perchè vuol dire che tentano di mantenere in
piedi un rapporto complesso.E in effetti i due si amano,anche se i litigi fra i due diventano sempre più frequenti.Ma ad una festa di loro amici casualmente si ritrovano ad improvvisare una canzone che ha per testo uno dei tanti litigi fra loro;
visto il risultato divertente ottenuto,quasi una valvola di sfogo in cui dire musicalmente il proprio pensiero,la coppia inizia a cantare nel loro garage e con l’ausilio di un amico vicino di casa,il bizzarro Dave, cantano dicevo alcune canzoni ispirate


ai quotidiani bisticci che intercorrono fra loro. I tre portano il singolare “concerto” in sale pubbliche, dove riscuotono un inaspettato successo.
La coppia ha così trovato qualcosa che sembra finalmente riunirli, una complicità fatta anche dallo sforzo comune verso qualcosa che li appassiona.
Ma paradossalmente la fine delle liti sembra mettere ancor più in crisi il loro rapporto,fino a quando sfocia in un litigio pesantissimo, durante il quale i due si scambiano accuse feroci con la conseguenza che Anna caccia di casa il marito.
Che però ha la fortuna di parlare con sua madre, donna intelligentissima che gli apre gli occhi su cosa significa essere donna, sulla differenza fra la chimica stessa dell’essere uomo e essere donna; nel frattempo Anna decide di cantare da sola e quando lo
fa troverà un Ben diverso ad ascoltarla e …
Band Aid, film del 2017 diretto da Zoe Lister-Jones,che è la protagonista della pellicola interprete del personaggio di Anna è una operazione cinematografica di livello medio superiore, grazie anche ad una sceneggiatura


brillante che racconta la storia di un matrimonio come tanti altri, che però riesce a sopravvivere grazie a due fattori base. Il primo è l’affetto che al di là di tutto è sempre presente nella coppia, poi per quello che sembra un limite e che invece finisce per diventare
lo spunto per un diverso inizio, ovvero la tendenza da parte della coppia a litigare su tutto,mettendo in discussione il partner ma anche se stessi.
Cosa che verrà accentuata quando i due,separatisi, si troveranno finalmente a fare i conti con il rischio di una rottura definitiva; Ben,grazie al provvidenziale intervento di sua madre,inizierà a vedere il comportamento della moglie con occhi diversi mentre Anna,che si è sfogata
urlando la sua rabbia e sfogandola lasciandosi finalmente andare avrà modo di riflettere sul loro rapporto,grazie anche alla musica,al suo potere terapeutico che la porterà a cantare,con un dolce motivo e in pubblico, il suo mondo interiore, quel mondo che in fondo
non chiede altro che di potersi esprimere .Ed è proprio la musica il collante che riunirà i coniugi,che finalmente troveranno qualcosa che li unisce anche superando le notevoli differenze di carattere e di modi di approcciare la vita.


Un film ben fatto,nonostante la pecca di qualche dialogo forse troppo surreale,ma che affronta con piglio sereno quello che è l’eterno dilemma della coppia,l’abitudine così come la conflittualità.
E la vera sorpresa del film è il tono grottesco ,surreale che permea lo stesso.
Bene gli attori,con particolari elogi alla brava ed espressiva Zoe Lister-Jones che interpreta Anna,buone anche le musiche.
Un film del quale consiglio la visione.

Band Aid

un film di Zoe Lister-Jones,con Zoe Lister-Jones, Adam Pally,Colin Hanks, Brooklyn Decker, Hannah Simone, Jesse Williams,Angelique Cabral, Adam Pally, Nelson Franklin, Majandra Delfino, Fred Armisen, Chris D’Elia, Chrissie Fit, Susie Essman, Ravi Patel, Jenna Lyng Adams,
Kat Purgal, Elisha Yaffe, Amy Pawlukiewicz Commedia, durata 91 min. – USA 2017.

Zoe Lister-Jones – Anna
Adam Pally – Ben
Fred Armisen – Dave
Susie Essman – Shirley
Hannah Simone – Grace
Retta – Carol
Ravi Patel – Bobby
Brooklyn Decker – Candice
Erinn Hayes -Crystal Vichycoisse
Jesse Williams – Skyler
Jamie Chung – Cassandra Diabla
Nelson Franklin – Ned
Angelique Cabral – Lauren
Majandra Delfino – Maria
Gillian Zinser – Sheena

Regia di Zoe Lister-Jones
Prodotto da Natalia Anderson e Zoe Lister-Jones
Sceneggiatura di Zoe Lister-Jones
Musiche di Lucius
Fotografia di Hillary Spera
Montaggio di Libby Cuenin

febbraio 18, 2020 Posted by | Drammatico | , , | 1 commento

Un amore di gioventù

Camille ha 15 anni ed è al primo amore.
L’oggetto di quell’amore totalizzante, che lascia insonne,che spera debba durare tutta la vita è il diciannovenne Sullivan, che la ricambia.
Ma l’entusiasmo giovanile, l’ardore di Camille deve anche confrontarsi con gli stessi limiti posti dalla giovane età dei protagonisti; Sullivan, anche se innamorato, vuole i suoi spazi
e più che altro è ansioso di trovare il suo ruolo nella società e non può accontentarsi dell’adorante compagnia di Camille.
Decide quindi di partire per il sud America per un viaggio che dovrebbe durare meno di un anno,o almeno così racconta alla ragazza.Ma in realtà Sullivan ha già deciso di di trasferirsi
definitivamente,via da una Parigi che sente come opprimente e disumanizzata e via anche da un sentimento che ormai vive come una prigione.
Così parte lasciando nello sconforto la ragazza, che da quel momento vive solo per le lettere che il giovane le invia; ma che ben presto si diradano fino a cessare del tutto.


Camille vive la situazione in maniera traumatica tanto da arrivare ad un tentativo di suicidio; ma si riprende e poco alla volta torna alla vita, grazie allo studio e alla passione per l’architettura.
Dopo qualche anno la troviamo brillante architetto,con una vita faticosamente ricostruita anche grazie all’amore del maturo Lorenz, che ne ha fatto anche la sua allieva prediletta.
I due vanno a vivere assieme e per la ragazza tutto sembra scorrere placidamente.
Ma un giorno,in un autobus,incontra la mamma di Sullivan che le rivela che il giovane è tornato da tre anni e che vive a Marsiglia ma che ogni tanto torna a Parigi; così Camille da alla donna il suo numero di telefono
e i due giovani si rivedono. Un attimo e la magia di quell’amore di gioventù ritorna, riportando il tempo all’adolescenza e ai primi fremiti amorosi.
Ma Sullivan è davvero convinto che sia quella la sua strada? Basta l’amore a colmare tutto e a placare quell’ansia che il giovane continua a sentire?
E Camille può davvero conciliare i ricordi,l’amore travolgente con l’affetto che ora prova per Lorenz?
Una storia sull’amore giovanile, quello che non si dimentica più,quello fatto di speranze e ansie,di attese e litigi,di baci e passioni è l’oggetto del racconto cinematografico di Mia Hansen-Løve, regista, attrice e sceneggiatrice di origine parigina,


una città che conosce bene e che mostra frenetica e robotizzata.Sia attraverso le parole che pronuncia Sullivan,il protagonista,sia attraverso le immagini, opposte a quelle della campagna francese assolate e solitarie,
che mostrano un ritmo di vita decisamente più umano con un paesaggio bucolico che sembra restituire umanità.
Un amore di gioventù, film del 2011,porta sullo schermo quindi la storia di un amore,di quello che poteva essere e che invece non sarà.
Perchè i sogni di gioventù devono convivere con la realtà quotidiana ma sopratutto con le legittime aspirazioni di chi dalla vita si aspetta qualcosa di diverso dal tran tran o dall’alienazione della metropoli.Ed è quello che Sullivan sembra provare,un senso di oppressione
dovuto all’affetto soffocante di Camille ma anche la ripulsa per l’abbraccio mortale della metropoli.
Camille invece vive un sogno,quello dell’amore che ti pervade e riempie le giornate.
Forse dalla vita non vorrebbe altro,oltre al compimento degli studi e una professione ma c’è un abisso fra le aspirazioni e i risultati che si raccolgono,sopratutto quando la meta dei tuoi sogni non condivide gli stessi.


Un film dall’andamento molto descrittivo, che esamina i sentimenti ma che lo fa in modo troppo superficiale.
Quello di Camille finisce per sembrare più un amore ossessivo, vissuto nel ricordo,idealizzato,che una cosa concreta con un futuro davanti.
E lo stesso personaggio della ragazza appare imprigionato in una nuvola rosa,che Sullivan, più inquieto anche perchè agitato da tormenti interiori, di certo non condivide.
Così le vite dei due giovani prendono strade differenti, ma noi spettatori assistiamo solo alla parte che riguarda quella di Camille,attraverso le sue esperienze che in realtà si riducono al completamento degli studi e
al nuovo amore per Lorenz;un amore non certo travolgente,ma quieto e probabilmente più responsabile.
Poi il ritorno del primo amore che pone in discussione tutto.
Ma quanto c’è ancora di vivo e quanto invece è solo idealizzazione di un ricordo? Forse per Camille molte cose sono rimaste inalterate,ma per Sullivan stanno ben diversamente.
In Un amore di gioventù purtroppo manca l’anima.


Troppo freddo il linguaggio visivo, poco analizzata la figura di Sullivan, troppo presente il quotidiano di Camille,fatto della ripetizione degli stessi gesti quotidiani.
Scuola,lavoro,lavoro e scuola.
Su un canovaccio così striminzito non si può imbastire un discorso organico e difatti il film resta al palo,inespresso.
Tutto si riduce ad una analisi epidermica di un sentimento complesso da analizzare come l’amore,qui visto più come idealizzazione che come qualcosa di profondo e maturo.
Lunghe pause, qualche momento felice quando la regista mostra le assolate campagne francesi ma è ben poco.
In quanto ai due attori principali,Lola Creton e Sebastian Urzendowsky,recitazione sufficiente e adeguata al clima del film;da segnalare la bella fotografia limitatamente agli esterni campestri del film.
Pellicola che raggiunge una striminzita sufficienza, ignorata praticamente dal pubblico e dalla critica.

Un amore di gioventù
un film di Mia Hansen-Løve, con Lola Creton, Sebastian Urzendowsky, Magne-Håvard Brekke, Valérie Bonneton, Serge Renko.Titolo originale: Un amour de jeunesse. Genere Drammatico, – Francia, Germania, 2011, durata 111 minuti.

 

Lola Créton: Camille
Sebastian Urzendowsky: Sullivan
Magne-Håvard Brekke: Lorenz
Valérie Bonneton: madre di Camille
Serge Renko: padre di Camille
Özay Fecht: madre di Sullivan

Regia Mia Hansen-Løve
Sceneggiatura Mia Hansen-Løve
Produttore Philippe Martin, David Thion, Gerhard Meixner (co-produttore), Roman Paul (co-produttore)
Casa di produzione Les Films Pelléas, Razor Film
Distribuzione in italiano Teodora Film
Fotografia Stéphane Fontaine
Montaggio Marion Monnier
Scenografia Mathieu Menut, Charlotte de Cadeville
Costumi Bethsabée Dreyfus
Trucco Michel Vautier

febbraio 16, 2020 Posted by | Sentimentale | , , | Lascia un commento

Opera senza autore

Dresda,1937

Nella città tedesca e nel museo locale il piccolo Kurt Barnert accompagnato dalla zia Elisabeth May assiste alla mostra sull’opera degenerata,così chiamata dai nazisti perchè non corrispondente all’ideologia dominante. Kurt adora sua zia, una donna eccentrica ma intelligente, che però paga i suoi atteggiamenti con la reclusione in un ospedale psichiatrico nazista in quanto sospettata di essere schizofrenica. Scoppia la guerra, Dresda viene bombardata ma Kurt è lontano, al sicuro nelle campagne mentre sua zia Elisabeth  anche se completamente sana di mente e priva di problemi psicologici viene mandata in un lager per morire in una camera a gas.
Il responsabile della sua deportazione è il tenente colonnello SS Carl Seeband, responsabile del progetto eugenetico nazista, volto a eliminare disabili,malati di mente e portatori di handicap dalla società tedesca, in quanto in grado di minare la purezza ariana e considerati un peso per la società.


La guerra finisce e Kurt si ritrova a vivere nella parte occupata dall’esercito russo mentre Seeband riesce a salvare da un parto travagliato la moglie del comandante russo del campo in cui è detenuto, scampando
così alla giusta punizione per il suo passato.
Il giovane Kurt mostra talento in pittura,tanto da essere accolto dalla prestigiosa Accademia d’arte di Dresda che indottrina i giovani artisti secondo l’ideologia socialista; durante gli studi conosce e si innamora, ricambiato,della bella Elisabeth (Ellie).
I due decidono di sposarsi, nonostante la ferma opposizione del padre di lei, che altro non è che Carl Seeband,responsabile della morte della zia del giovane. Kurt e Elisabeth si sposano e il giovane continua a dipingere pur senza entusiasmo; l’idea imperante socialista
che lo obbliga a dipingere cose che non sente sue, schematiche, lo porta ad abbandonare Dresda per Berlino, dove per miracolo evitano di restare bloccati nella Berlino est destinata a diventare il baluardo dell’ideologia comunista.
Dopo una serie di vicende, Kurt scoprirà la verità su suo suocero ma sopratutto…


Un gran bel film,Opera senza autore, tutto giocato su trent’anni di storia tedesca vista attraverso la vita di Kurt e contemporaneamente teso a mostrare il rapporto simbiotico esistente fra l’individuo e l’arte.
Diretto dal regista Florian Henckel von Donnersmarck nel 2018,il film,nonostante la durata di 188 minuti riesce a tener desta l’attenzione dello spettatore proprio per la capacità del regista di proseguire il racconto degli avvenimenti sul doppio binario biografico/storico e artistico/identitario
usando la vita di Kurt come trait d’union delle due cose. Che si integrano perfettamente mostrando da un lato la pace precaria prima, la guerra poi ,la pace e il comunismo a cui la vita di Kurt finisce per legarsi intimamente,indissolubilmente.
La vita di un giovane pittore, capace e dotato che deve scontrarsi con le briglie imposte dall’ideologia, che Kurt riuscirà a sciogliere, trovando una dimensione personale nella quale la libertà di espressione porta l’artista alla sua massima espressione,
quella che senza lacci e laccetti libera la fantasia,l’estro,la capacità comunicativa. In una parola l’arte vera,con la A maiuscola, non solo la tecnica fine a se stessa,l’eccesso di formalismo nemico giurato del vero artista.


Florian Henckel von Donnersmarck lo fa con un linguaggio cinematografico lineare e coerente,intersecando arte e vita di continuo senza però propendere per una delle due cose; il discorso deve essere globale,perchè vita e arte devono essere complementari,non ci può essere una vera maturità artistica senza una vita piena e coerente. Tesi ardita,visto che non sempre le cose sono così schematiche ma nel film è questo che ci viene mostrato e di conseguenza la linearità del film non viene inficiata.
Gran parte del merito va anche ascritto ai bravissimi attori utilizzati nella pellicola, a partire da Tom Schilling (Kurt Barnert) passando per Sebastian Koch(il dottor Carl Seeband) alla bellissima Saskia Rosendahl (Elisabeth May) per finire con Paula Beer (Elisabeth Seeband),tutti in parte ed espressivi.
Film che vale anche come documento storico, visto che passa attraverso anni terribili come quelli della guerra fino alla divisione di Berlino e alla guerra fredda, con momenti salienti come la visita al museo dell’arte con i dipinti “degenerati” e i campi di sterminio,passando dagli orrori dell’eugenetica all’ideologia comunista e alla fuga di coloro che non credevano nel socialismo reale.
Bello, consigliato davvero per chi ama il grande cinema.

Opera senza autore

un film di Florian Henckel von Donnersmarck, con Tom Schilling, Sebastian Koch, Paula Beer, Saskia Rosendahl, Oliver Masucci. Titolo originale: Werk ohne Autor. Genere Drammatico, Thriller, – Germania, 2018, durata 188 minuti

Tom Schilling: Kurt Barnert
Sebastian Koch: Prof. Carl Seeband
Paula Beer: Ellie Seeband
Saskia Rosendahl: Elisabeth May
Oliver Masucci: Prof. Antonius van Verten
Ina Weisse: Martha Seeband
Florian Bartholomäi: Günther May
Hans-Uwe Bauer: Prof. Horst Grimma
Ben Becker: caporeparto
Antonia Bill: infermiera
Rainer Bock: Dr. Burghart Kroll
Jonas Dassler: Ehrenfried May
Lars Eidinger: curatore dell’esposizione

Regia Florian Henckel von Donnersmarck
Soggetto Florian Henckel von Donnersmarck
Sceneggiatura Florian Henckel von Donnersmarck
Produttore Florian Henckel von Donnersmarck
Produttore esecutivo Max Wiedemann
Casa di produzione Pergamon Film, Wiedemann & Berg Filmproduktion
Distribuzione in italiano 01 Distribution
Fotografia Caleb Deschanel
Montaggio Patrick Sanchez-Smith
Effetti speciali Simon Giles
Musiche Max Richter
Scenografia Silke Buhr
Costumi Gabriele Binder
Trucco Maurizio Silvi

febbraio 14, 2020 Posted by | Drammatico | , , , , | Lascia un commento