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I picari

I picari locandina

Su una galera che naviga per rotte sconosciute facciamo conoscenza con due personaggi pittoreschi: Lazzarillo de Tormes e Guzman de Alfarache.I due, legati allo stesso remo, si raccontano le vicissitudini che li hanno portati a condividere lo stesso destino. Lazzarillo de Tormes, nato in una famiglia numerosa e poverissima, con una madre costretta a prostituirsi per procacciare cibo ai numerosi figli, è stato ceduto dalla famiglia ad un mendicante cieco e furbissimo.L’uomo ha insegnato a Lazarillo tutti i trucchi per sopravvivere di espedienti e carità, ma alla fine viene beffato dal giovane aiutante, stanco delle sue angherie e della sua avarizia. Guzman de Alfarache non ha conosciuto la miseria, perchè suo padre era un artigiano di valore, un orologiaio molto apprezzato ma con un vizio, quello del gioco.

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Giancarlo Giannini è Guzman

Esperto giocatore di dadi, l’uomo viene sorpreso a barare e finisce così impiccato.Accolto in una famiglia nobile come “coadiuvante pedagogico”, Guzman scopre a sue spese di essere caduto dalla padella nella brace.Il suo compito infatti consiste nel subire le punizioni in loco del rampollo ignorante e maleducato della nobile famiglia.Stanco dei soprusi, Guzman scappa; così ritroviamo i due avventurieri legati al remo della galera, che li sta trasportando verso un oscuro destino.

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Claudio Bisio, il capo degli ammutinati

Ma il caso vuole che l’equipaggio dei galeotti di bordo decida di ammutinarsi e cosi dopo rocamboleschi colpi di scena Lazarillo e Guzman vengono scaraventati fuori dalla nave e approdano miracolosamente su una spiaggia.Dopo un’altra avventura, in cui riescono con l’inganno a farsi liberare da un fabbro dalle catene che li imprigionavano, i due avventurieri inseguiti dalle locali guardie finiscono per dividere le proprie strade.Cosi Guzman va a servizio di un nobile ridotto in miseria, che verrà incarcerato per debiti mentre Lazarillo più fortunato diventa un attore, lavoro grazie al quale può permettersi di girare con un ricco abito utilizzato per le scene.I due amici si reincontrano e grazie all’abito di Lazarillo truffano un gioielliere e con i proventi della truffa acquistano una prostituta con l’intenzione di cederla di volta in volta in cambio di denaro.

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Giuliana De Sio è Rosario

Ma Rosario, la prostituta, si concede solo a chi le garba così alla fine diventa motivo di discussione tra i due amici con conseguente lite finale e nuova separazione dei loro destini.Che però sono fatalmente destinati a incrociarsi: Lazarillo diventa assistente del boia e un giorno si trova davanti l’amico Guzman condannato a morte per omicidio.Con un ennesimo colpo di teatro, Lazarillo riesce a far liberare Guzman, facendo impiccare in vece sua un povero ladro, mentre allo stesso Guzman Lazarillo taglia la mano, pena riservata ai ladri.Nel finale, troviamo ancora una volta i due amici impegnati nel furto di latte da un pastore che pascolava il suo gregge di pecore.

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A distanza di 21 anni dal capolavoro L’armata Brancaleone, Mario Monicelli riprende l’atmosfera del film medioevale trasportandolo in un’ambientazione spagnoleggiante di ispirazione picaresca, prendendo spunto dal romanzo di autore ignoto Lazarillo De Tormes, ambientato nel 1500. Questa volta i protagonisti non sono gli straccioni dal linguaggio ameno che attraversano un’Italia ignorante e popolata da gente superstiziosa, bensi due avventurieri che si imbarcano in imprese grottesche, quasi tutte condannate a fallire miseramente.I due protagonisti, Lazarillo e Guzman, hanno appreso dalla strada l’arte di arrangiarsi e tentano di mettere a frutto quanto imparato, sempre però con alterne fortune.

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Bernard Blier è il ruffiano

Non sono affatto due anime candide, come per esempio era il Brancaleone da Norcia protagonista dell’Armata Brancaleone, quanto piuttosto due simpatici gaglioffi che la vita ha costretto ad un’esistenza da vagabondi.Se per Lazarillo la scuola del vecchio mendicante ha avuto una funzione preminente facendolo diventare furbo e scaltro, per Guzman la morte ingloriosa del padre ha funzionato solo come detonatore di un’improvvisa libertà che il giovane non ha saputo ne potuto sfruttare, finendo per incontrare Lazarillo al remo di una galera che li conduce verso una sorte ignota.

I due compagni finiscono così per attraversare in lungo e in largo la Spagna, sempre inseguiti o dalle guardie o perseguitati da un destino infausto. E si imbattono nel corso della loro vita, in personaggi altrettanto “sfiagti”, come il Marchese Felipe de Aragona incontrato da Guzman che per poter mettere sotto i denti qualcosa è costretto a fare due volte la comunione o come il mendicante cieco che diventa la guida cattiva e cinica di Lazarillo. La galleria dei personaggi incontrati dal duo è ampia e variegata e passa dal precettore che picchia Guzman in loco del pargolo nobile ciuco e maleducato fino al gioielliere che i due truffano prima di venire truffati a loro volta da un vecchio ruffiano che rifila loro la bella Rosario, prostituta che va solo con chi piace a lei.

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Vittorio Gassman è il Marchese Felipe de Aragona

L’allestimento artistico del film, ovvero il cast che lavora in questa pellicola è di assoluto prim’ordine; si va da Nino Manfredi, cieco e truccato quasi come nel film di Scola Brutti sporchi e cattivi che da vita ad un personaggio a tratti ributtante, ovvero il mendicante spilorcio e cattivo che però funziona da guida verso la vita dura del picaro per il giovane Lazarillo, passando per Vittorio Gasmann sobrio e dolente nei panni del nobile Felipe de Aragona, che alle guardie incaricate di arrestarlo presenta i suoi averi, una brocca, una ciotola e un pitale.Naturalmente poi ci sono i due veri protagonisti: Enrico Montesano nel ruolo di Lazarillo e Giancarlo Giannini in quello di Guzman.

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A sinistra Enrico Montesano, Lazarillo

Entrambi lavorano bene mostrando un affiatamento che nell’economia del film si rivelerà prezioso; nessuno dei due tenta di prevalere sull’altro e lo spettacolo è assicurato. Merito anche del resto del cast, nel quale troviamo attori del calibro di Paolo Hendel, il precettore leggermente sadico del nobile rampollo e Claudio Bisio, il capo degli ammutinati della galera, il grande Bernard Blier nel ruolo del magnaccia e Giuliana De Sio in quella della prostituta Rosario, che mostra abbondantemente le sue grazie il che è davvero un bel vedere. C’è spazio anche per Vittorio Caprioli nel ruolo del bandito Mozzafiato e per Enzo Robutti in quello del comandante della galera che subirà l’ammutinamento.Segnalazione per la particina di Sabrina Ferilli che interpreta la figlia del magnaccia che vende Rosario. Se I Picari non è un capolavoro lo si deve solo ad una certa discontinuità del film, che manca di omogeinità e che sembra più affidato a degli sketch improvvisati dal duo Montesano- Giannini che ad un percorso più organico della pellicola.

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Nino Manfredi, il mendicante cieco

Tuttavia il maestro Monicelli sorprende ancora con un opera affascinante e divertente in maniera misurata, alla luce sopratutto del mezzo fiasco di critica e di pubblico rimediato con Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1984) che farà da preludio a quel gioiello che è Speriamo che sia femmina (1986), che sarà il lavoro precedente a questo film.Monicelli è un maestro, un grande regista, capace di amalgamare alla perfezione i cast pur in presenza di soggetti difficili come il romanzo Lazarillo De Tormes, dal quale il regista si discosta parecchio. Il romanzo infatti, narrato in prima persona dal protagonista, racconta la vita errabonda del giovane Lazzarillo nella Spagna di Carlo V prima di accasarsi felicemente con la serva di un vinaio, che dividerà con il vinaio stesso. Monicelli introduce quindi il personaggio di Guzman, che appare leggermente meno furbo e cinico di quello di Lazarillo, forse perchè di estrazione piccolo borghese la dove l’amico viene dal proletariato più povero e indigente.Questo contrasto lo si avverte nel film, e nel finale sarà proprio Guzman a pagare il prezzo più alto, sfuggendo all’impiccagione ma non al taglio della mano, operato dallo scaltro Lazarillo che però così gli salverà la vita.In definitiva, un buon film che mostra come il cinema italiano degli anni ottanta vivesse purtroppo solo delle performance dei grandi registi come Monicelli, probabilmente il più grande interprete della cinematografia italiana.

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I picari, un film di Mario Monicelli. Con Giancarlo Giannini, Enrico Montesano, Giuliana De Sio, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Bernard Blier, Paolo Hendel, Cristina Marsillach, Sabrina Knaflitz, Maria Luisa Armenteros Gonzales, Maria Casanova, Juan Carlos Naya, Claudio Bisio, Sabrina Ferilli, Blanca Marsillach, Vittorio Caprioli, German Cobos, Sal Borgese, Aldo Sambrell, Enzo Robutti, Jesus Guzman, Donatella Ceccarello. Commedia,  durata 128 min. – Italia 1987.

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I picari banner personaggi

Giancarlo Giannini: Guzman de Alfarache

Enrico Montesano: Lazarillo de Tormes

Vittorio Gassman: Marchese Felipe de Aragona

Nino Manfredi: il mendicante cieco

Giuliana De Sio: la prostituta Rosario

Bernard Blier: il magnaccia

Paolo Hendel: il precettore

Vittorio Caprioli: Mozzafiato

Enzo Robutti: Capitano della nave

Blanca Marsillach: Ponzia

Maria Casanova: Donna incinta

Juan Carlos Naya: Venditore di ceramiche

Claudio Bisio: il capo dei rematori ammutinati

Salvatore Borghese: il nostromo

Sabrina Ferilli: giovane prostituta figlia del protettore

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Regia     Mario Monicelli

Soggetto     Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Suso Cecchi d’Amico, Mario Monicelli, dal romanzo spagnolo Lazarillo de Tormes (1554)

Sceneggiatura     Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Suso Cecchi d’Amico, Mario Monicelli

Produttore     Giovanni Di Clemente

Casa di produzione     Clemi Cinematografica, Producciones Cinematograficas Dia

Distribuzione (Italia)     Warner Bros. Italia

Fotografia     Tonino Nardi

Montaggio     Ruggiero Mastroianni

Musiche     Lucio Dalla e Mauro Malavasi

Scenografia     Enrico Fiorentini

Costumi     Lina Nervi Taviani

Trucco     Manuel Martín, Mario Scutti

Le recensioni appartengono al sito http://www.davinotti.com

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Film apprezzabile per l’ottima (e verosimile) resa ambientale, scenografica e di costume dell’italia picaresca del ‘500, affidata alla maestria e al grande mestiere di Mario Monicelli in una delle sue ultime grandi produzioni cinematografiche. Il film è meno valido sul versante della sceneggiatura fatta più di spezzoni e singoli episodi e poco organica, difetto tuttavia che si tende a dimenticare a causa delle performances molto buone di gran parte del cast.

Due picari vagano per la Spagna combinandone di tutti i colori. A vent’anni da Brancaleone, Monicelli torna a filmare un’epoca storica reinventata, con immutato gusto della rivisitazione e spirito guittesco. Qui però l’invenzione non va oltre la serie di sketch comici e le storielle da commedia all’italiana trasferita in costume. Insomma, operazione non riuscita in un film troppo lungo e senza nerbo, che ha l’unico pregio di scorci visivi del tardo 500 spagnolo. Il resto è buon mestiere senza anima.

Con tutti questi attori, guidati da un valido regista, ci si poteva aspettare di più. Il film non è male, ma non tutto funziona (la parte con la De Sio, per quanto generosamente svestita, è un po’ troppo tirata); e nonostante l’indiscussa bravura di Giannini e Montesano, la pellicola finisce per trascinarsi un po’, anche se ha i suoi buoni momenti (il mendicante Manfredi, la fregatura dei cannoli e il pappone a gestione familiare). Sicuramente vedibile, ma poteva essere meglio.

Forse l’ultimo grande film di un grande regista. Ottima prova di Montesano e Giannini, ma sarebbe da citare tutto il cast… Monicelli riesce a dare l’idea di un intero periodo, tra miseria, fame e guerra, non dimenticandosi però di far ridere con zampate di quelle che si ricordano. Infatti la difficile miscela tra le parti “serie” e quelle più prettamente da commedia all’italiana è molto ben riuscita. Sicuramente un film da vedere.

Ma Lazzarillo de Lormes non era spagnolo? E allora perché si senton diversi mortacci? Una coppia di attori in buona vena, ma il film è di quelli della senilità di vari autori; cioè, si sente odore di set e si vede che le comparse son comparse. Riciclata la gag delle paste de Il mattatore (qui son cannoli). La De Sio sfodera un derrière da urlo, ma dura poco. Un film stanco, riscattato da qualche guizzo simpatico.

La confezione è notevole con i costumi, le scenografie e l’ambientazione curatissimi. Quando apriamo il pacchetto però ci accorgiamo che dentro non c’è molto oltre alle disavventure seriali dei due protagonisti che, peraltro, tra loro si sposano abbastanza bene. I flashback iniziali servono solo a proporci un Manfredi cieco mendicante e l’Hendel precettore manesco e a conti fatti di tutto il film quello che resta di più è la comparsata di Gassman nobile decaduto. Tanto fumo ma poco arrosto…

L’ottima ricostruzione storico-scenografica ed una trama divertente e non banale fanno di questo film uno degli ultimi grandi film di Monicelli. Buona parte del merito va sicuramente allo splendido cast che, oltre alla coppia di protagonisti, trova nella comparsata di Gassmann uno dei suoi momenti più felici.

Buon film di Mario Monicelli. Ciò in cui rende di più è nella perfetta ricostruzione di costumi, luoghi e atmosfere del 500; per quanto riguarda la sceneggiatura, ci sono alti e bassi, c’è poco d’autore e molto da commedia italiana (specie nelle scene con la prostituta); tra i furtarelli e qualche buona gag i ritmi sono sostenuti e nel complesso si lascia seguire fino alla fine per la bravura dell’ampio e vasto cast (Montesano e Giannini sono splendidi, ma al pari è anche Gassman).

Il film è ottimo per alcuni spunti, ma sopratutto per un cast veramente all’ altezza; la mano di Monicelli è sicura, vigorosa ed esperta, la trama ammiccante ma sincera, senza sbavature. Gassman è ben trattenuto, Giannini giusto, la De Sio splendida prostituta.

giugno 30, 2011 Posted by | Commedia | , , , , , , , , | 4 commenti

Il domestico

Il domestico locandina

Durante la seconda guerra mondiale Rosario Cavadoni, conosciuto da tutti come Sasa, lavora in mensa come cameriere fino al giorno in cui viene chiamato al servizio del maresciallo Badoglio.
La proclamazione dell’armistizio vede la fuga del maresciallo stesso da Roma mentre il povero Sasa si salva grazie alle sue doti di adattamento ai lavori di casa finendo al servizio di un ufficiale tedesco e in seguito all’occupazione militare americana in Germania ai servizi di un comandante statunitense.
La fine della guerra vede Sasa alla ricerca di un’occupazione in pianta stabile; finisce così per entrare al servizio di Salvatore Sperato, un produttore cinematografico che decide di farlo lavorare nel cinema accanto a sua moglie Lola Mandragali, una popolana sguaiata e becera.

Il domestico 15
Martine Brochard è Rita

Fallito miseramente il tentativo di diventare attore, Sasa entra a servizio di una famiglia nobile romana, impelagata con il fascismo. Qui Sasa ha modo di rendersi utile al vecchio patriarca portandolo in giro per i bordelli, dove l’uomo alla fine viene colto da malore, proprio mentre Sasa è a colloquio intimo con la simpatica prostituta Rita.
La famiglia del nobile mette a tacere lo scandalo, anche perchè ormai l’epoca dei bordelli si avvia malinconicamente alla conclusione per l’avvento della legge Merlin che stabilì la chiusura della case chiuse.
L’odissea di Sasa continua: l’uomo finisce alle dipendenze di una coppia dalla morale sessuale molto aperta e discutibile e alla fine approda in casa di Ambrogio Perigatti, un ricco petroliere dalle molte ombre.

Il domestico 2
Lando Buzzanca è Sasa

Qui Sasa ritrova una vecchia conoscenza, la prostituta Rita diventata nel frattempo moglie dell’uomo d’affari.
Sasa avrà modo di rendersi utile guarendo la figlia della coppia da una forma di strabismo: durante lo sbarco dell’uomo sulla luna, infatti, avrà un rapporto intimo con Linda (figlia di Amrogio e Rita) provocando la scomparsa del fastidioso disturbo che Sasa furbescamente attribuirà all’emozione provata dalla ragazza davanti alla tv durante l’allunaggio.
Ma è destino che il domestico non debba trovare tregua: Ambrogio Perigatti coinvolgerà come prestanome il povero domestico in una speculazione,che avrà come risultato la condanna di Sasa alla detenzione.
In carcere finalmente l’uomo potrà dedicarsi al suo lavoro di domestico….

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Il domestico, diretto da Luigi Filippo D’Amico su una sceneggiatura di  Sandro Continenza e Raimondo Vianello è una gradevole commedia del 1974 appartenente al florido filone della commedia all’italiana e non alla commedia sexy come erroneamente scritto da alcuni recensori della domenica.
L’impianto narrativo infatti è di stampo classico e della commedia sexy non riprende alcuna tematica: le scene sexy infatti sono limitate a qualche topless fugace delle belle protagoniste ed il film vive tutto sulla verve di Lando Buzzanca, chiamato per una volta a interpretare un ruolo brillante defilato dai ruoli sexy a cui l’attore siciliano aveva abituato il pubblico.
Il film percorre 30 anni della storia italiana, con Sasa che si imbatte via via in personaggi arricchiti e volgari, parvenue della borghesia emergente o vecchie glorie della nobiltà, nostalgiche di un passato ormai irrimediabilmente scomparso.
Se nel film manca la profondità, per ovvi motivi trattandosi di una commedia brillante, ci si consola con alcune gag gustose tra le quali spiccano la visita di Sasa con il vecchio nobile in un bordello pochi giorni prima della loro soppressione e la scena dell’allunaggio con la seduzione da parte della giovane Linda del maturo domestico Sasa, che la ragazza provoca in tutti i modi.

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Erika Blanc è Silvana

Finale agro dolce, o meglio, amaro con Sasa che finisce per fare il suo lavoro dietro le sbarre, condannato da un destino avverso che lo ha visto entrare e uscire da diverse famiglie ognuna delle quali con vizi nascosti, tipici della borghesia rampante dell’Italia post bellica.
Luigi Filippo D’Amico dirige con mano sicura un cast di caratteristi tutti all’altezza, con alcune tra le più belle star del cinema italiano anni settanta: si passa da Femi Benussi    (l’attrice Lola Mandragali che odia il caviale e lo rifila al suo cane! ) a Martine Brochard, perfettamente a suo agio nel ruolo della prostituta Rita che sogna di fuggire dal bordello in cui lavora e che vedrà coronato il suo sogno visto che sposerà nientemeno che un petroliere fino a Eleonora Fani, bravissima come suo solito nel ruolo dell’adolescente pruriginosa che guarirà dallo strabismo da cui è affetta grazie alla performance erotica di Sasa.

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Leonora Fani è Linda

Ancora, in ruoli di contorno troviamo Erika Blanc, la Silvana commessa in un negozio che si rifiuta di fare la scomoda testimone delle infedeltà della coppia presso la quale lavora Sasa ricordando che guadagna 120.000 lire al mese per lavorare 12 ore al giorno mentre i viziosi padroni di casa se la spassano avendo denaro e tempo libero; troviamo una splendida Malisa Longo in una parte lampo (quella della prostituta del bordello), Ivana Monti nel ruolo della moglie infedele che Sasa cercherà disperatamente di coprire

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Femi Benussi è Lola

e accanto a loro attori come Arnoldo Foà (Ambrogio Perigatti), Enzo Cannavale (il produttore Salvatore Sperato),Antonino Faa Di Bruno (il nobile puttaniere) e infine Gordon Mitchell (il Generale Von Werner), tutti a loro agio nei ruoli attribuiti.
Il domestico è un film senza grandi pretese ma riuscito:  va detto che alcune scene sono prolisse e che alcune situazioni sono davvero tirate per i capelli, ma nel complesso il film regge e si guarda con piacere.
Come al solito rivolgo l’invito a non fidarsi di alcune recensioni dei critici di alcuni siti, troppo snob per riconoscere un valore minimo ad una pellicola che non sarà un capolavoro ma che è sicuramente meglio di tanti prodotti osannati dai critici stessi.

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Questa recensione in particolare, “soldato semplice nella seconda guerra mondiale, “Zazà” viene mandato addirittura a fare l’attendente di Badoglio. Finisce poi al servizio di un ufficiale nazista e, infine, di uno americano. Tipico veicolo per Buzzanca. Comicità facile e scollacciata con velleità satiriche.” mostra un’acredine davvero spiazzante; il film non è affatto scollacciato, ma come ormai sappiamo bene il vero problema è la puzza sotto al naso di parte dei soloni cinematografici.

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Ivana Monti

Il domestico,un film di Luigi Filippo D’Amico. Con Femi Benussi, Luciano Salce, Silvia Monti, Lando Buzzanca, Paolo Carlini, Martine Brochard, Arnoldo Foà, Nanda Primavera, Camillo Milli, Renzo Marignano, Enzo Cannavale, Erika Blanc, Gordon Mitchell, Silvia Monelli, Malisa Longo, Carla Mancini, Mico Cundari, Empedocle Buzzanca
Commedia,  durata 105 min. – Italia 1974.

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Lando Buzzanca    …     Rosario Cabaduni, soprannominato ‘Sasa’
Martine Brochard    …     Rita
Arnoldo Foà    …      Ambrogio Perigatti
Femi Benussi    …     Lola Mandragali
Leonora Fani        Linda Perigatti
Paolo Carlini    …     Andrea Donati
Enzo Cannavale    …     Salvatore Sperato
Antonino Faa Di Bruno…. il nobile
Erika Blanc    …     Silvana
Luciano Salce    …     Il regista
Gordon Mitchell    …     General Von Werner
Erika Blanc…. Silvana
Malisa Longo…Una prostituta

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Regia: Luigi Filippo D’Amico
Sceneggiatura: Sandro Continenza e Raimondo Vianello
Musiche : Piero Umiliani
Editing: Renato Cinquini
Produttore:     Medusa
Fotografia :    Sandro D’Eva
Montaggio :    Renato Cinquini
Distribuzione: Medusa
Scenografia :    Ennio Michettoni, Franco Velchi
Costumi :    Luciana Fortini

Le recensioni appartengono al sito http://www.davinotti.com

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Divertente, ma sbilanciato. Molto buona la prima ora, però cala con la parte popolata da Foà e la Fani, nonostante la bravura degli interpreti, perché è troppo prolissa. Esilarante la parte con la Monti, Marignano, la Blanc (presunta monarchica…). Buzzanca, in ogni caso, è semplicemente eccezionale. E poi ci sono Salce, il grande Faà di Bruno, Cannavale, una sfolgorante Benussi.

Interessante parabola sull’esistenza di un “servo” che viene analizzata (in vérve comica) a partire dall’inizio della carriera (a ridosso della fine della 2a guerra mondiale) sino ad un finale (corrispondende al 1969 e relativo sbarco sulla Luna) che avanza teorie “politiche” esterne al genere: Luigi Filippo D’Amico riesce a mettere insieme momenti esilaranti (basterà ricordare Luciano Salce nella parodia di se stesso), senza scordarsi una sana polemica sulla corruzione politica e sociale, già all’epoca, ai vertici dei ministeri…

Valida commedia sulla lealtà dei servi e i vizi dei padroni, costruita su Buzzanca – al solito siculo e mandrillo – e su una variopinta galleria di attori e starlets: la Fani strabica e lolitesca, la statuaria Monti, la delicata Tanzilli, la Blanc che ghigna come la Facchetti, Foà distributore di bustarelle, Mitchell nazista…Trova spazio pure una parodia di Riso amaro (e del mondo del cinema in generale), con Salce regista e Buzzanca e la Benussi nei ruoli che furono di Gassman e della Mangano.

L’italico servilismo, ma anche il camaleontismo e l’ipocrisia: in questo anomalo Buzzanca-movie, dove il nostro è leccapiedi per vocazione (ma pur sempre mandrillo siculo), i vizi atavici dell’italiano vengono passati in rassegna in una svelta successione di episodi piuttosto ben sceneggiati, dove il migliore è quello con Salce neorealista a dirigere Lando domestico del produttore. Buona scelta dei comprimari, buon assortimento di fanciulle: la dolce e maliziosa Fani (semiesordiente) si fa notare nel ruolo della lolita strabica.

Notevole commedia, probabilmete il miglior film di Buzzanca. I toni sono più seri e impegnati del solito, ma il film è comunque veloce e divertente. Bravissimo Buzzanca, ottimo il resto del cast, pieno di nomi noti. Forse il finale non è troppo convincente, ma il film riesce a volare inaspettatamente in alto. Bellissima la colonna sonora.

Azzardo a definirlo il miglior Buzzanca-movie di tutti i tempi. La qualità della pellicola si manifesta in molti aspetti: innanzitutto il ruolo affibbiato a Buzzanca gli è congeniale e lo si vede convinto (dunque convincente). Bella l’idea di raccontare ad episodi la storia di questo domestico dall’Italia della Seconda Guerra Mondiale fino al 1974, con aspetti anche storiografici. Molto bella la colonna sonora di Piero Umiliani.

Solita commediola con protagonista Lando Buzzanca. Non dissimile da mille altre che l’attore ha interpretato nel corso del suo periodo d’oro. Ha un buon ritmo e due o tre gag apprezzabili, ma in fondo la si dimentica in fretta. Cast non particolarmente in palla, a partire dal protagonista.

Il domestico è un ruolo che si addice alla maestria comica del grande Buzzanca, libero di impersonare le varie caratteristiche di questo lavoratore in tutte le sue accezioni. Si ride anche se non ci si spancia, v’è da dirsi, ma neanche si affonda nel mare magnum triviale cui spesso la commedia italiana di quel periodo ci aveva abituato. La Fani che seduce il bravo Lando posizionando il suo dolce piedino proprio lì (riacquistando al contempo la perfetta simmetria oculistica) vale tutto il film, grazie anche all’espressione di lui…

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giugno 28, 2011 Posted by | Commedia | , , , , , , , , , , , , | Lascia un commento

La mano che nutre la morte

La mano che nutre la morte locandina

In una tradizionale villa con annessa tradizionale cripta si aggira la figura velata di Tania Nijinski: la donna è rimasta sfigurata in un incidente nel laboratorio della villa di proprietà di suo padre Ivan Rassimov. Suo marito, il professor Nijinski, continua l’opera intrapresa dal suocero con l’intento doppio di portare a termini gli studi di Rassimov e contemporaneamente trovare una cura che rigeneri i tessuti dell’epidermide ottenendo così una soluzione alla devastazione del volto di Tania.

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All’interno del maniero alloggia da qualche tempo la giovane Katiuscia che ufficialmente risiede nella casa per svolgere ricerche per un libro, ma che in realtà cerca prove della scomparsa di sua sorella aiutata in questo da Fjodor, che inutilmente ha tentato di convincere il riottoso responsabile della legge nel vicino villaggio a interessarsi al caso. Il poliziotto in realtà non ha alcun interesse a inimicarsi nè Nijinski ne sua moglie Tania, per cui le ricerche avvengono molto blandamente.

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Ma cosa succede realmente nella villa? Nijinski per trovare una cura utilizza corpi di donne, quindi effettivamente il dottore è responsabile della scomparsa della sorella di Katiuscia: i suoi tentativi ottengono finalmente il successo sperato ma accadono altre cose…

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Una coppia di giovani, Masha e Alex, di passaggio in zona ha un incidente di carrozza e trova rifugio presso il castello. Per Nijinski è l’occasione tanto attesa: uccide Masha e ne preleva il tessuto epidermico innestandolo sul volto della moglie, ma non vivrà abbastanza per godersi il trionfo perchè….

La mano che nutre la morte, per la regia di Sergio Garrone esce nelle sale italiane nel 1974; siamo di fronte ad un film realizzato in strettissima economia con metà del budget utilizzato per il cachet di Klaus Kinski, eppure sorprendentemente interessante. Merito della buona mano del regista che riesce a manipolare una sceneggiatura equilibrata anche se non originale utilizzando il poco che ha a portata di mano, senza utilizzare effetti splatter (le scene nel laboratorio sono davvero realizzate con poco) e senza usare a sproposito l’elemento erotico.

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Pure alla fine il prodotto risultante è gradevole, grazie all’abilità del regista che fino ad allora aveva diretto principalmente western all’italiana come Django il bastardo e Bastardo, vamos a matar; il buon risultato del film lo spingerà poco più tardi a dirigere un film sulla falsariga di questo, intitolato Le amanti del mostro.

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Nel cast troviamo un Klaus Kinski sorprendentemente misurato, che recita quasi con il freno a mano tirato mentre sicuramente affascinante è Katia Christine,l’attrice olandese comparsa in diversi ruoli di supporto in film di inizi anni 70 come La vittima designata o La prima notte del Dottor Danieli, industriale col complesso del… giocattolo. Di Marzia Damon si apprezza principalmente qualche apparizione senza veli.

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Curioso il nome del professore padre di Tania: Ivan Rassimov infatti è uno degli attori più eclettici del cinema di genere anni 60-70. Può valere la pena cercare una versione accettabile in dvx di questo film oppure aspettare con molta pazienza che capiti su qualche tv privata; se cercate in rete vedrete che è possibile trovarlo in streaming.

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La mano che nutre la morte,un film di Sergio Garrone. Con Klaus Kinski, Katia Christine, Marzia Damon, Carmen Silva, Stella Calderoni, Romano De Gironcoli, Alessandro Perrella, Carla Mancini, Luigi Bevilacqua, Bruno Arié, Osiride Peverello, Amedeo Timpani, Pasquale Toscano Fantascienza, durata 85 min. – Italia, Turchia 1974.

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Klaus Kinski     …     Prof. Nijinski

Katia Christine          …     Masha / Tanja Nijinski

Marzia Damon          …     Katja Olenov

Stella Calderoni          …     Sonia

Alessandro Perrella     …     Feodor

Ayhan Isik     …     Alex

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Regia: Sergio Garrone

Sceneggiatura: Sergio Garrone

Produzione: Amedeo Mellone, Claudio Sinibaldi

Musiche:  Stefano Liberati, Elio Maestosi

Editing: Cesare Bianchini

Costumi: Amedeo Mellone

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Tardo gotico che assembla: un mad-doctor (il convincente Kinski) in vena di esperimenti sulla pelle di giovani vittime, al fine di recuperare la bellezza perduta della donna amata; la solita coppietta con carrozza accidentata, costretta a trovar riparo nella casa del folle; una scrittrice che rimèmbra lo scopritore del trapianto, tale dott. Marshall (Rassimov); tanta faciloneria, nello stile d’un Garrone che è però già eccessivo (come dimostrerà nei Nazi e nei W.I.P.) e non lèsina Sex&Violence, ingredienti abbondantemente sparsi lungo i 90 minuti della pellicola. Discreta la colonna sonora.

La cosa più grandiosa di questo film e del suo gemello Le amanti del mostro è il coraggio di Garrone nel negare che i due film siano gemelli: cast, staff tecnico e canovaccio (il mad doctor) identici, e scene che si ritrovano nell’uno e nell’altro… Vecchiotto come concezione già al periodo, poverissimo, desolante nei generici (turchi), imbarazzante nel cast (tranne, s’intende, il grande Klaus), in breve un disastro. Avvistabile la musa del Legnani?

Miserrima coproduzione italo-turca, girata con sciatteria desolante, eguagliata solo da certi gotici spagnoli tipo Il mostro dell’obitorio. Kinski, ennesimo mad doctor, è vano e svogliato, la Christine inespressiva, i due comprimari turchi (Isik e Tas) pessimi. Un minimo accenno di recitazione proviene solo dalla graziosa Caterina Chiani aka Marzia Damon, protagonista pure di una focosa sequenza lesbo: unico sussulto di tutto il film.

Gotico italiano di scarso valore incentrato su una serie di situazioni trite e ritrite tra cui l’assunto principale della storia che si fonda sul solito scienzato pazzo che fa esperimenti ai danni di belle e sprovvedute fanciulle. Tutto già visto ed il peggio è la grossolanità dell’insieme (fatta eccezione per gli effetti truculenti che sono più curati della media). Per il resto la noia fa capolino in più di un momento. Tuttavia è leggermente, ma di poco, al di sopra dell’indecenza.

Forse questa suonerà ai più come un’eresia, ma io non l’ho trovato così male, questo film. Oltre alla presenza di Kinski vi sono da segnalare nel cast la regale Katia Christine (doppiata superbamente da Vittoria Febbi), i particolari splatter (molto audaci per l’epoca) dell’operazione chirurgica, le musiche. Poco sesso tranne una spinta scena lesbica, ottimo il doppiaggio eseguito dalla c.d.c. (e questo non è poco). Io mi sento di consigliarlo.

Poverissimo gotico di serie C, i cui unici elementi positivi risiedono nella buona interpretazione di Kinski, nella quasi accettabile colonna sonora e in alcune rare inquadrature riuscite (Kinski con la bambola). Tecnicamente modestissimo, con discontinuità varie nel montaggio e nella fotografia, squallido nelle location (una sequenza è ambientata in villaggio western) e diretto in maniera più che svogliata. Gore abbondante ma casareccio, nonostante la firma di Rambaldi. Cultissime le zoomate sulla tomba di Ivan Rassimov (!). Mediocrissimo.

Non malaccio questo orrore, buona la prova di Kinski mentre il resto del cast è perlomeno discutibile. Negli anni 70 furono prodotte diverse schifezze, mentre questo, pur mostrando degli enormi limiti, riesce comunque a farsi apprezzare. Trama banale e già vista, ma film che se la cava.

E riecco il grande Klaus nei panni del mad doctor che si lancia in folli esperimenti sul corpo umano. Horror gotico poverissimo, ha comunque dei notevoli picchi nelle scene splatter e il cast femminile (su cui svetta una fantastica Katia Christine) è di quelli che da solo può giustificare una visione. Non male, dopo tutto, anche se la scena lesbo era francamente gratuita ed evitabile. Buone le musiche. Insomma si può vedere.

La mano che nutre la morte locandina 1

La mano che nutre la morte locandina 2

La mano che nutre la morte locandina sound

giugno 23, 2011 Posted by | Horror | , , , | 1 commento

Il mostro è in tavola…Barone Frankenstein

Il mostro è in tavola Barone Frankenstein locandina

Il barone Frankenstein cerca di portare a termine quella che per lui è diventata un’autentica ossessione: creare un essere vivente utilizzando parti di cadaveri, cosa che nel frattempo gli è valsa l’espulsione dall’Università.
Ritiratosi quindi nel suo castello, il barone in compagnia della moglie e dei due figli Diastole e Sistole si dedica alla costruzione della sua creatura.

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Udo Krier, il Barone Frankenstein

Costruisce così, con l’aiuto dell’assistente Otto una creatura di sesso femminile mettendo assieme parti da vari cadaveri.
Non pago, il barone realizza anche un esemplare maschile che, nella sua folle mente, dovrebbe congiungersi carnalmente con la creatura femmina e mettere al mondo così un essere nuovo e perfetto.
I piani del barone falliscono miseramente: per un marchiano errore i due uccidono un giovane destinato a farsi monaco mentre la vittima predestinata era il giardiniere del castello Nicholas, un tipo sensibile a tutte le gonnelle.
Quello che succederà d’ora in poi diverrà una specie di incubo….

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Il mostro è in tavola barone Frankenstein, diretto da quel Paul Morrissey allievo di Andy Warhol e autore nello stesso periodo del film Dracula cerca sangue di vergine…e morì di sete, è un’opera bizzarra presa in parte almeno come ispirazione dall’ormai leggendario romanzo di Mary Shelley.
Gli elementi horror tipici delle trasposizioni cinematografiche fino ad allora realizzate si fondono con elementi di humour nero, conditi da un pizzico di sesso e di comicità surreale.

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L’equilibrio richiesto dalla fusione di questi elementi resta molto instabile per tutto il film, pur non mancando allo stesso un certo fascino gelido e macabro.
L’uso sperimentale della tecnica 3 D, unito ad una sceneggiatura irriverente e ironica della rilettura del romanzo, l’astrattismo concettuale di Morissey e il suo senso dello humour di marca yankees richiedevano un’alchimia cinematografica molto delicata e retta davvero sul filo del rasoio.

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Morissey invece resta distante sia dalla commedia brillante sia dall’horror puro e non miscela affatto le situazioni, anzi.
Indeciso sulla strada da prendere, crea un’opera fredda e asettica pur non priva di un suo macabro fascino.
Tuttavia, il film ha dalla sua una robusta creatività e un cast all’altezza, oltre che qualche trovata gustosa, come le opere di seduzione di Nicholas o le scene “splatter” della costruzione della creatura femmina, i due satanici fratellini che erediteranno le opere del padre e qualche sprazzo di geniale inventiva.
Il nostro Dawson/Margheriti compare ancora una volta tra i credit come regista della seconda unità, ma pare che il suo compito reale si limiti a quello di comparsa tra i credit stessi.
Nel cast c’è la nostra Dalila Di Lazzaro, bellezza algida e eterea che nel film riveste il ruolo della sventurata creatura creata dal folle barone, mentre Udo Kier è la solita sicurezza con quel volto impenetrabile che sembra preso di corpo dal teatro mimico del passato.
Kier ha un’espressione a metà strada tra l’ironico, lo stupefatto e l’ingenuo, ovvero l’espressione di chi sembra capitato per caso in mezzo a degli alieni ed in realtà risulta il più credibile di tutti, mentre la Bosisio futura signora Pina in alcuni episodi di fantozzi è una sicurezza.
Segnalo anche Arno Jverging, la piccola Nicoletta Elmi perfida da non credere, Rosita Torosh e il solito inespressivo Joe D’Alessandro.

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Alla sceneggiatura del film, uscito con il titolo originale di Flesh for Frankenstein (Carne per Frankenstein) collaborò Tonino Guerra, mentre le musiche adeguate sono di Claudio Gizzi.
Siamo di fronte ad un prodotto assolutamente e pesantemente datato: il cinema sperimentale di Morrissey, oggi 73 enne è un cinema molto particolare in cui la preponderanza di elementi astratti oltre che minimalisti risulta ai nostri giorni quasi insopportabile.
Il regista statunitense autore fra l’altro del classico Trash, oltre che di Calore (Heat) e Flesh (Andy Warhol’s flesh) vive oggi una seconda giovinezza grazie all’interesse di una parte di pubblico affascinato dal cinema indipendente, quello più lontano dai prodotti massificati dell’establishment di Hollywood.
Tuttavia gli amanti del cinema che si trovino oggi ad affrontare la visione di film come questo Il mostro è in tavola oppure Dracula cerca sangue di vergine possono rimanere sicuramente spiazzati da un tipo di cinema molto distante dai canoni odierni e sopratutto cerebrale e freddo.
Ma Morrissey è questo, prendere o lasciare.

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Il mostro è in tavola… barone Frankenstein,un film di Paul Morrissey. Con Dalila Di Lazzaro, Joe Dallessandro, Udo Kier, Arno Jverging, Monique Van Vooren,Rosita Torosh, Nicoletta Elmi
Titolo originale Flesh for Frankenstein. Horror/commedia nera, durata 95 min. – Italia, Francia 1973

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Il mostro è in tavola Barone Frankenstein banner protagonisti

Joe Dallesandro    …     Nicholas
Monique van Vooren    …     La Baronessa Katrin Frankenstein
Udo Kier    …     Barone Frankenstein
Arno Juerging    …     Otto, assistente del Barone
Dalila Di Lazzaro    …     La creatura femmina
Srdjan Zelenovic    …     La creatura maschio
Nicoletta Elmi    …     Monica, figlia del barone
Marco Liofredi    …     Erik, figlio del Barone
Liù Bosisio    …     Olga, la colf
Fiorella Masselli    …     Prostituta
Cristina Gaioni    …     Contadino
Rosita Torosh    …     Sonia,  prostituta
Carla Mancini    …     Contadina
Imelde Marani    …     Prostituta bionda

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Regia: Paul Morrissey (Antonio Margheriti)
Sceneggiatura :Tonino Guerra, Paul Morrissey
Produzione: Andrew Braunsberg,Louis Peraino (non accreditato)
Carlo Ponti     (non accreditato),Jean Yanne     (non accreditato)
Musiche: Claudio Gizzi
Fotografia:  Luigi Kuveiller
Scenografia: Enrico Job
Editing/Montaggio: Jed Johnson, Franca Silvi
Effetti speciali: Carlo Rambaldi

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Raffinato omaggio al mito, con grandi prestazioni e grandi facce di Udo Kier e di Arno Juerging (Joe Dallesandro fa strage di cuori, pure della Mancini e della Gajoni, ma è un tremendo pesce lesso). Molto divertente, superiore al gemello Dracula. Bellissima la Torosh (Sonia, la prostituta). Mi dicono che in realtà Margheriti funse da supervisore, affinché il clan warholiano riuscisse davvero a fare il film: lo fecero per davvero, visto che è un buon film.

Per questo e per il suo “gemello” (Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete) si scomoda spesso il nome di Margheriti (come regista della seconda unità), anche se pare il suo nome appaia per questioni burocratiche in quanto trattasi di co-produzione USA-Italia-Francia. Resta comunque un ottimo esempio di melodramma, fortemente intriso di macabra ironia e insaporito dalla spezia dell’erotismo (mai il mostro di Frankenstein sarà più così bello, qui nei – pochi – panni della sublime Dalila Di Lazzaro). In evidenza alcune sequenze fortemente splatter.

Frankenstein crea due mostri che dovranno accoppiarsi. La chiave è la parodia, infarcita di splatter un po’ trash, di ridondanze kitsch, di nudi vedo/non vedo in pieno stile pruriginoso-libertario anni 70. Insomma, buona l’idea di partenza di un’irrisione dei moduli dell’horror che si intreccia con un’irrisione dei modelli borghesi. Ma il film è pericolosamente vicino alla sciatteria scivolando talvolta nel velleitario e nell’amatoriale. Tra gli attori il migliore sembra Udo Kier, mentre Liù Bosisio si conferma buona caratterista.

Seconda incursione nella parodia dell’horror da parte di Morrisey, che stavolta sceglie di rileggere il mito di Frankenstein. Gli ingredienti sono gli stessi, purtroppo però il risultato è meno riuscito che nell’altra occasione: il ritmo, infatti, è lento, ma stavolta ci sono anche meno trovate e meno divertimento. In compenso non mancano alcune scene abbastanza splatter. Insomma, si lascia guardare sino alla fine senza problemi, ma anche senza veri guizzi e invenzioni.

Non mi convinse la prima volta che lo vidi, decenni fa, e devo dire che continua a non convincermi rivisto oggi. Mi pare una pellicola che non sappia bene da che parte dirigersi: come parodia dei film sul mostro di Frankenstein non diverte, come horror non funziona, come commedia erotica stufa; si possono salvare alcuni effettacci splatter (ma non sono un grande estimatore di questi dettagli) e la recitazione di Udo Kier (al contrario di quella di Dallesandro, inespressivo pesce bollito). Deludente assai.

 

Leggermente inferiore a Dracula. Certo, di cose ottime ce ne sono (tra le quali la stupenda e regale Monique Van Vooren). Dallesandro può solo mostrarsi nudo (compreso un ardito nudo frontale), Udo Kier è notevole. Molti caratteristi, tra cui la desnuda Rosita Torosh, Carla Mancini, Liù Bosisio, Imelde Marani, la Elmi e una giovane Dalila Di Lazzaro. Gustosi gli effetti splatter, buono il tema musicale. Finale un po’ disturbante.

Un buon film, al pari del “gemello” Dracula. All’atmosfera gotica e pomposa fa da contraltare una freddezza truce e crudele, ben rappresentata dal viso algido e severo del grande Udo Kier. Il resto del cast è buono, con Dallesandro inespressivo ed ambiguo (è la sua caratteristica) e la futura moglie di Fantozzi, Liù Bosisio (che finisce male). Sorprendente ed efficace anche la dose di splatter, davvero audace e ben fatto per l’epoca, con scene a tratti veramente disgustose. L’ironia è meno arguta che nel Dracula, ma ci si diverte comunque.

Film molto raffinato e particolare, da guardare però senza considerarlo un horror. Al di là delle varie scene erotiche (molte delle quali stancanti o inutili), il film è notevole in particolar modo per quanto riguarda fotografia e location (molto suggestive). Ma soprattutto per il soggetto: mai prima di questo film era stata proposta una versione di Frankenstein così alternativa e soprattutto cinica. Ben caratterizzati i personaggi: moglie ninfomane, marito pazzo, figli sadici, assistente maniaco… C’è anche un piccolo aggancio alla necrofilia.

Parodia estrema di Frankenstein, comprensivo di episodi di necrofilia (esplicita) ed incesto (solo documentato). Non mi ha divertito come il parallelo Dracula cerca sangue di vergine, ma resta un ottimo episodio di paragotico erotico-splatter (mah..). Performance eccellente di Udo Kier, mentre gli altri protagonisti sono nella media, con la presenza della “solita” Nicoletta Elmi bambina (che quindi dovrebbe aver visto il film solo alcuni anni dopo – VM18). Anche in questo caso, subentrano i rapporti di classe dopo “lo sfruttamento sessuale” della padrona.

Troppo lento e senza guizzi particolari. Le scene splatter fanno il loro dovere, ma dal punto di vista erotico/sensuale fallisce miseramente, nonostante la presenza di una giovanissima Di Lazzaro e della regale Van Vooren. La recitazione di Udo Kier è molto teatrale e comunque consona, ma tutto sommato sembra ancora manchi qualcosa. Il finale mi ricorda un po’ i bambini omicidi di Reazione a catena…

Film sicuramente più riuscito del successivo Blood for Dracula, anche se molto simile. Al centro rimane il rapporto tra sangue carne e sesso, in questa pellicola tutto è reso più esplicito e carnale. Lo splatter abbonda e si evitano i toni da blanda commedia; anche Kier risulta essere più in parte come perverso scienziato. La morale pubblica odierna uescirebbe scandalizzata dall’uscita nei cinema di un film come questo (e per di più in 3D!).

Parodia di Frankeinstein, è arricchito da scene erotiche in cui il bel nudo maschile di Dallesandro non passa inosservato e da scene splatter per la gioia degli appassionati del genere. È presente la brava Liù Bosisio nella parte della domestica. Della coppia dei mostri la Di Lazzaro è perfetta: giovanissima esprime, seppur per brevi scene, una intensa sensualità. Nicoletta Elmi, l’icona della bimba perfida, è sempre funzionale in ruoli ambigui.
I gusti di Anna

giugno 20, 2011 Posted by | Horror | , , , , , | Lascia un commento

La calda bestia di Spielberg

La calda bestia di Spielberg locandina

Un paese immaginario, retto da una dittatura feroce; un castello simile ad una fortezza perso nella foresta.

In quel castello viene mandata come direttrice Helga, una bellissima quanto feroce e sadica donna che da quel momento dirigerà quella che è a tutti gli effetti una prigione con pugno di ferro.

Ad accompagnarla c’è l’amante Hugo, e i due hanno immediatamente modo di mettersi crudelmente in mostra.

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Nella fortezza arriva infatti Elizabeth Vogel, figlia di un capo della resistenza ed Helga, che è anche lesbica oltre che sadica decide di farne la sua amante.

Ma la ragazza le tiene testa, solo che ad un certo punto viene in pratica costretta a cedere alle turpi voglie dell’aguzzina da John, amico di suo padre; in questo modo la ragazza può godere di una relativa libertà e mettere in piedi un piano di fuga accompagnata dall’amica di prigionia Jenny.

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La fuga riesce ma ad approfittarne sarà solo Elizabeth, perchè Jenny verrà ripresa e morirà sotto atroci torture.

Tuttavia lo Stilberg, la fortezza e la sua crudele direttrice hanno le ore contate: la resistenza ha la meglio e l’aguzzina paga il fio delle sue colpe.

La calda bestia di Spilberg, conosciuto all’estero come Helga la louve de Stilberg è un film sulla falsariga dei tanti nazi explotaition che imperversavano dopo il 1975 sugli schermi italiani.

A dirigere la pellicola c’è il regista francese Patrice Rondard, alias Patrice Rhomm, alias Alain Garnier, alias Alian Payet: una confusione di nomi che, unita alle varie traduzioni del titolo ingenererà una confusione indescrivibile.

Il regista, autore anche di Helsa fraulein SS (questo si un nazisploitation), in pratica gira due film utilizzando come attrici principali Malisa Longo e Patrizia Gori.

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Due film che hanno in comune una certa cura, che generalmente manca a molti altri prodotti “eros svastica” ma che ovviamente vanno presi per quello che sono.

In particolare La calda bestia di Spilberg (perchè Spilberg se in francese è Stilberg?) non presenta alcun elemento particolarmente interessante se non gli stereotipi classici del genere.

C’è la perfida direttrice (una bravissima e bellissima Malisa Longo), il solito amante bamboccione, la solita patriota e la solita amica della patriota che muore torturata.

Da questo si capisce che il film, se si escludono le performance erotiche delle due belle protagoniste, ovvero Patrizia Gori e Malisa Longo, altro non è che un mero pretesto per mostrare le due eroine impegnate in atti saffici o di nulla vestite, come la mamma ha fatto.

A cambiare per una volta (ma la cosa non ha invero alcuna importanza) è la sceneggiatura che sostituisce ai soliti nazisti ingrifati e sadici una dittatura di un posto immaginario.

In effetti è tutto qua.

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Il film segue un andamento visto tante volte con il solito finale alla delitto e castigo; la cattivona Helsa finisce ammazzata, la brava ragazza Elizabeth, patriota e quindi degna della massima considerazione dopo essersi sacrificata per la “patria”, cedendo alle turpi voglie della direttrice, troverà l’agognata libertà mentre i patrioti abbattono il regime dittatoriale.

Da vedere solo ed esclusivamente per la presenza della Longo

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La Calda Bestia Di Spilberg (Helga La Louve De Spilberg), un film di Patrice Rhomm (Alain Garnier), con Patrizia Gori, Malisa Longo, Dominique Aveline, Jean Cheruan, Claude Janna, Jacques Marbeuf, Olivier Mathot, C. Noe’, Carmelo Petix, Pamela Stanford. Erotico, Francia 1977

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Patrizia Gori     …     Elisabeth Vogel

Malisa Longo          …     Helga

Richard Lemieuvre          …     John

Dominique Aveline          …     Hugo Lombardi

Alban Ceray         …     Sergente

Jacques Marbeuf         …     Dottore

Jean Cherlian          …     Un consigliere

Claude Janna          …     Prigioniero

Olivier Mathot         …     Generale Gomez

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Diretto da Patrice Rhomm

Prodotto da Daniel e Marius Lesoeur

Musiche di Daniel White

Editing Claude Gros

giugno 18, 2011 Posted by | Erotico | , , | Lascia un commento

Terror, il castello delle donne maledette

Terror, il castello delle donne maledette locandina

Operazione complessa se non impossibile quella di raccontare con poche parole (sopratutto aventi un senso logico) la trama di Terror! Il castello delle donne maledette, conosciuto anche come Il castello della paura; non certo perchè siamo di fronte ad una sceneggiatura complicata in senso positivo, bensi per il suo contrario.
Siamo di fronte  infatti ad un titolo cult e ad una riedizione in chiave demenziale e trash del mito del dottor Frankenstein retrocesso al rango di conte dopo esser stato in origine barone.

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Sopratutto, trasformato in un folle che riesuma ( o meglio, recupera) nientemeno che un neandertaliano e che ha la bella idea di farlo co-abitare con un gigantesco e demente mostro del castello, Goliath.
Questo ameno Conte Frankenstein ha il suo avito e bravo castello, nel quale c’è ovviamente un altro campione dell’handicap, un nano allupato e crudele.
E altrettanto ovviamente il perfido scienziato fa rapire il cadavere di una donna, suscitando  i sospetti dei paesani; il nano Genz però “usa” il cadavere rovinando in tal modo i piani del Conte.
Accadono alcune cose: nel castello arriva la figlia del conte con un’amica (che verranno spiate dal duo Goliath-Neandertaliano mentre fanno il bagno,chiaramente nude), il prefetto Ewing indaga spinto anche dal Conte che lo depista suggerendo che il colpevole potrebbe essere un cavernicolo nascosto tra i monti ecc.

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Allora, direi che basta così perchè mi rendo conto che raccontata in questo modo la trama sembra più demenziale di quanto non lo sia in realtà.
Però se non credete alle mie parole, trovate il dvd del film, uscito da poco e del quale francamente nessuno sentiva il bisogno e beccatevi due ore di insopportabile noia e sopratutto idiozia.
Si, perchè Terror! Il castello delle donne maledette, opera orfana di un padre che abbia voluto firmare l’obbrobrio, evitando così la futura damnatio memoriae è davvero un film idiota.
Passato clandestinamente nelle sale (o forse mai passato), ha avuto un’effimera gloria negli Usa dove è stato distribuito con il titolo Frankenstein’s Castle of Freaks pur essendo, come già detto, un film privo di un regista accreditato.
Il che la dice lunga su quello che fu l’esito ai botteghini del film, così come racconta chiaramente l’imbarazzo di tale Dick Randall/Robert Oliver nell’utilizzare la sua vera identità come regista del film.

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Il bagno della figlia di Frankenstein e della sua amica

Nel cast dello stesso figurano due attori dal discreto passato, come Rossano Brazzi (inamidato e impomatato come non mai) ed Edmond Pourdom, i quali devono essersi vergognati come ladri quando il film è stato distribuito.
Gordiano Lupi, sul suo sito , dice del film: “Un film brutto come pochi, girato in maniera raffazzonata e senza stile, ma così bizzarro da essere ancora oggi oggetto di culto e di visione. La trama è confusa, la sceneggiatura piena di buchi, ma l’atmosfera malsana tipica del cinema exploitation garantisce di non annoiarsi. Il finale è il massimo del trash con un primo piano su Edmund Purdom che declama: “Era un mostro, un anormale. Ma forse siamo tutti un po’ anormali”. Perle di saggezza in una battuta che gli sconosciuti sceneggiatori potevano risparmiarci. Se nessuno ha mai lottato per attribuirsi il film ci sarà un motivo…”

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Ora, stimo e voglio un bene dell’anima (come critico e scrittore, non fraintendiamo) al buon Gordiano, ma dire che non cì si annoia è come bestemmiare e bere whisky in una moschea.
Le uniche consolazioni arrivano dalle rotondità di Simonetta Vitelli (la figlia di Frankenstein) e Laura De Benedittis (Valda) oltre che di Christiane Rücker.
Poichè le figliole non sono affatto male, è consolatorio ammirarle mentre sguazzano in una pozza d’acqua in una caverna anche se avvolte da un fumo presumibilmente sulfureo che ne offusca a tratti lo splendore fisico.
Un’opera detestabile, quindi, oltre chè esecrabile.
Del resto, è accaduto spesso nel passato di assistere a film indecorosi: la fregola di portare nelle sale filmetti senza alcun senso condendoli con nudità più o meno velate è stato uno degli espedienti più utilizzati per catturare gonzi cinematografici.

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Tra i quali figura anche il sottoscritto, che ha l’aggravante di averlo visto in tempi recenti e la scusante allo stesso tempo di averlo visto per necessità, dovendolo recensire per il blog e per un sito specializzato.
Terror! il Castello delle donne maledette, un film di Robert Oliver/Dick Randall. Con Rossano Brazzi, Michael Dunn, Edmund Purdom, Salvatore Baccaro,Simonetta Vitelli,Laura De Benedittis,Christiane Rücker Titolo americano:  Frankenstein’s Castle of Freaks– Horror, durata 87 min. Anno 1974

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Rossano Brazzi     …     Conte Frankenstein
Michael Dunn          …     Genz
Edmund Purdom         Ispettore Ewing,
Gordon Mitchell          …     Igor
Loren Ewing          …     Goliath
Luciano Pigozzi         …     Hans
Xiro Papas         …     Kreegin
Salvatore Baccaro         … Ook il neandertaliano
Simonetta Vitelli         …     Maria Frankenstein
Eric Mann         …     Eric
Laura De Benedittis         …     Valda
Robert Marx         …     Detective Koerner
Christiane Rücker          …     Krista Lauder
Margaret Oliver          …     Donna del paese
Alessandro Perrella         …Dottore

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Regia: Dick Randall
Sceneggiatura: Mario Francini, William Rose, Mark Smith    ,Roberto Spano
Produzione: G. Robert Straub, Oscar Brazzi (uncredited),Dick Randall (uncredited)
Musiche: Marcello Gigante
Editing: Enzo Micarelli

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Raggelante e sorprendente: un conto è prevedere una cosa, un altro conto è trovarsela davanti. Parte neanche male, quasi coscarelliano, con quel carro che sale per il pendice. Poi arriva Rossano Brazzi, incartapecorito, che recita la sua parte come se fosse un vero film. Parla con la sua voce, la modula, è serissimo, ma è tutto inutile: al 20’ si capisce che occorre prepararsi a tutto, pure a vedere la mdp che indugia sugli àlluci di Bàccaro. Un solo aggettivo per il finale: è inaggettivabile.

Ci sono film poveri, ma belli. Ci sono storie deboli, ma intriganti. E ci sono film poveri e brutti, mal scritti e peggio interpretati. Se è vero che spesso alcune pellicole spariscono nell’oblìo ingiustamente, è vero anche che altre dovrebbero restare nascoste: il fascino che genera un titolo mai visto, spesso volatilizza – come nebbia al sole – quando lo scopriamo. La cosa più bella di questo incredibilmente comico (ma di una comicità involontaria) film è il titolo… Inguardabile.

L’inizio col cavernicolo preso a mazzate è come un marchio di garanzia: il marchio B di boiata (ma una di quelle boiate che proprio non si possono perdere, per alcuni di noi). Ascoltando i dialoghi sugli uomini delle caverne e la teoria che alcuni siano sopravvissuti e, soprattutto, vedendo alcune scene (il cavernicolo resuscitato e quello in caverna col nano), risulta difficile pensare che gli attori non siano più volte scoppiati a ridere durante le riprese. E poi c’è il conte Frankenstein (ma non era barone?), che tocca uno dei punti più bassi.

Questo è uno di quei film che suscitano interesse proprio per la loro povertà ed assurdità. Il cast annovera niente meno che il grande Brazzi, affiancato da una nutrita schiera di freaks e caratteristi del cinemabis nostrano. Personalmente, va apprezzato in primis per gli occhioni blu e le forme della bella Simonetta Vitelli, qui in trasferta dai set del padre Demofilo Fidani. Puro trash.

E’ dura commentare film del genere. Pur sapendo, infatti, di assistere ad una perla del trash, lo spettatore non può essere pienamente preparato a ciò che vede. Passano i minuti e si stenta a credere che sia “vero” quello che scorre sullo schermo. Incredibile e ridicolo non rendono “giustizia” al film. Oltre ogni limite di grottesco; quando il termine trash non rende minimamente l’idea. A tratti, comunque, le risate sono (quasi) garantite.

Uno dei peggiori film che abbia mai visto ma anche di una comicità involontaria eccezionale. L’idea di mischiare l’uomo di Neanderthal con la saga di Frankenstein (misterosamente diventato conte invece che barone) rasenta la genialità assoluta. Degno di nota anche lo pseudonimo assunto da Baccaro: Boris Lugosi. Mistero assuluto su chi sia il regista del film. Alcune fonti pensano che Robert Oliver sia il vero nome del regista, altri che sotto tale nome si celi Oscar Brazzi (fratello di Rossano).

Trashone allo stato puro! Nani, freaks, giganti, mostri di frankenstein, cavernicoli, ragazze che fanno il bagno nude in pozzi di catrame!!! Mettete tutto questo insieme e otterrete “Terror!”, uno dei film più deliranti mai prodotti (ma che non eguaglia in bruttezza Nuda per Satana di Batzella, o Riti… di Polselli): qui almeno un po’ di trama c’è! Gli attori, a parte Brazzi, non recitano. Da vedere per farsi due risate.

Uno degli horror più trash degli Anni Settanta. La sceneggiatura è ricchissima di perle trash e propone due personaggi (il nano e l’uomo di Neanderthal) tra i più ridicoli della storia del cinema. Da antologia dell’assurdo alcuni dialoghi (come quello che chiude il film) e incredibili alcune trovate della regia (come i fulmini all’inizio). Il povero Rossano Brazzi si impegna pure, ma mette solo tristezza; impresentabili gli altri attori (nonostante Baccaro sia indimenticabile). Bruttissime le musiche. Da non perdere.

Se visto come film dell’orrore può non piacere ed è in effetti una boiata (a iniziare dal titolo pomposo e insensato), se invece è visto con lo spirito giusto ossia aspettandosi un gustoso orrore-spazzatura allora piacerà. La trama è divertente: il conte (?) Frankenstein si diverte a creare un essere fortissimo (una specie di Ercole…) ma dovrà vedersela con un suo ex-servitore vendicativo che ha stretto alleanza con un uomo di Neanderthal (!!!) che vive nei dintorni… Risate garantite!

Un horror che anziché far paura fa ridere per quanto è fatto male. Il CONTE (anziché barone) Frankenstein circondato da freaks nell’Ottocento (in cui qualcuno indossa blue jeans) fa i suoi necro-esperimenti in un castello sperduto. Un film che i cinefili appassionati di rarità devono per forza avere. Ma poi chi sono le donne maledette? E che c’entra Neanderthal con Frankenstein? Nomi semi-fantasy per i personaggi: Genz, Kreegin, Ook, Golia. Solo una cosa da salvare: le location, e neanche tutte. C’è anche un finto sfondo di indagini poliziesche.

La versione trash della storia del mostro di Frankenstein, popolata da personaggi semicelebri e diretta da un misterioso signore, sul quale il critico Bruschini ha una sua idea di identità (vedi extra dvd). Comunque, complice la visione troppo pulita consentita dal supporto moderno, il film perde le probabili apprezzate caratteristiche della primordiale messa in onda (pellicola disturbata, audio sporco) e si appiattisce notevolmente. Ovviamente la storia è immonda, ma qui si parla di estremo trash e quindi è un punto a favore. Ma se ci fosse ancora la vhs…

Esiste un cinema di serie A e di serie B, esistono incalliti amanti dei film di serie A e di serie B, esiste una dignità nei film di serie A e una in quelli di serie B… fin qui nulla di eccezionale. È fin troppo facile commentare questo film, ma forse se lo vediamo in un’ottica particolare, quell’ottica che ci dice che non è facile assolutamente girare un film così, allora questo è un capolavoro; ed infatti lo è… Se capolavori sono i vari Freaks & co. (senza nulla togliere alla storia del cinema) anche questo, nel suo genere, è un capolavoro.

Unbelievable! E i fans del cinema utrapsycothronico lo conoscono a memoria. Ormai è noto come il film più brutto mai prodotto in Italia (dopo quelli di Ferzan Ozpetek, però) e una visione – pure sotto l’effetto di stupefacenti – non può che confermare l'”orrore”. Di madre-regia ignota, il film fa spavento per lo squallore dispiegato e la tragica indigenza. Mentre Brazzi sperpera vecchi(ssimi) fasti hollywoodiani, Baccaro grugnisce in attesa del cestino e “la belle Simone Vitell” non si mostra come dovrebbe. Oltre–la-sfera-del-tuono.

giugno 10, 2011 Posted by | Horror | , | 1 commento

Schindler list

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Schindler list è più di un film.
Appartiene di diritto all’empireo della storia del cinema non tanto per i suoi numerosi meriti intrinseci, quanto piuttosto per una somma di fattori che coinvolgono l’abilità stilistica di Spielberg, capace di racchiudere in tre ore di grande cinema una storia così difficile e sofferta da raccontare come quella di Oskar Schindler, la sua capacità di emozionare e al tempo stesso di indignare lo spettatore, trasportandolo attraverso la follia e l’incredibile vicenda della shoah.

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Ancora, per la potente carica visiva delle sue immagini e del suo racconto, esternata tramite un bianco e nero che sembra rinchiudere in se le estremizzazioni del bene e del male, la follia del nazismo e per contro l’eroismo di un uomo, Oskar Schindler, che Israele riconobbe come giusto fra gli uomini, un riconoscimento toccato a pochissime persone.
La storia di Schindler, che Spielberg porta sul grande schermo, è la storia di un eroe solitario, di un uomo che riuscì a salvare oltre un migliaio di persone da morte sicura, fedele al motto del Talmud che recita “Colui che salva una sola vita salva il mondo intero”, incisa anche sull’anello che i superstiti alla shoah da lui salvati gli regaleranno grati di un atto di eroismo che durante la seconda guerra mondiale ebbe tanti silenziosi protagonisti, come il nostro Perlasca.
Per questo film come già detto Spielberg utilizza il bianco e nero, ritornando così al cinema degli esordi, quando la potenza bicromatica dei due colori fondamentali era l’unica forma di espressione del cinema; lo fa anche perchè la seconda guerra mondiale vide il bianco del coraggio, dell’altruismo e della voglia di vivere opposto drammaticamente al nero dell’anima più buia degli uomini, il nero della follia che devastò il mondo portando nella tomba oltre 50 milioni di esseri umani.
Un quinto dei quali appartenenti ad una sola razza, ammesso che sia logico parlare di razza: usiamo il termine popolo, più consono al dramma vissuto.

Un popolo, quello ebraico, che nel film appare vinto nel fisico ma non nel morale, un popolo che non potendo opporre alla preponderante forza del nazismo null’altro che la forza della propria fede, pagò un tributo spaventoso in termini di dolore e morte alla follia omicida del nazismo stesso.
Solo quattro volte Spielberg utilizza un tocco di colore nel film: lo fa all’inizio, su quell’immagine stupenda delle candele che si spengono per poi riaccendersi nel finale, lo fa quando inserisce due immagini tra le più poetiche di sempre e non solo limitate all’ambito cinematografico.
Sono i due cappottini rossi della bimba portata via dagli orchi in uniforme: il colore del sangue, della vita stessa che si spengono per mano degli uomini neri, quegli uomini che appartengono a quanto di peggio l’umanità ha saputo produrre nel corso della sua intera storia.
Perchè mai prima di allora il genocidio di un popolo era stato studiato e portato a compimento in un modo così sistematico e crudele.

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Attraverso Oskar Schinder il grande regista americano non racconta solo la storia del giusto tra gli uomini, ma lancia anche un messaggio fortissimo di speranza: anche nel buio più profondo può accendersi la luce di una candella, quella candela che simboleggia l’umanità vera e pulsante, quell’umanità generosa e altruista che può e deve essere la ver amaggioranza della stessa.
Steven Spielberg, nel 1993, riedita il romanzo La lista di Schindler di Thomas Keneally e lo modifica almeno in parte, ridando così luminosità alla figura di Oskar Schindler, l’imprenditore tedesco che dopo un periodo di collaborazione con il regime tedesco, scelse di tentare di salvare quante più vite umane possibili rinunciando così  all’arricchimento personale ma ottenendo in cambio qualcosa che vale molto, molto più del materiale, ovvero la soddisfazione di aver contribuito a salvare vite umane.

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Quesa è in sintesi la storia del film, che parte proprio da Cracovia nel 1939 subito dopo l’invasione nazista e che continua con l’illustrazione della nascita dei campi di concentramento, simboleggiati dalla potente e devastante figura di Amon Göth, il capo del campo di concentramento che accetterà nel finale di vendere a Schindler le persone che l’imprenditore poi riuscirà a salvare, proprio nel momento in cui il nazismo arrivava al termine della sua follia grazie anche al sacrificio di centinaia di migliaia di soldati delle forze alleate.
Quando scorrono le immagini finale, che molti critici hanno visto come una concessione ad Hollywood e che invece testimoniano la partecipazione commossa del regista al dramma che fino a quel momento ha raccontato in modo lucido e spietato, lo spettatore riflette, come raramente ha fatto in precedenza davanti ad uno schermo cinematografico.
Riflette sulla follia e sull’eroismo, riflette su un passato che appartiene alla memoria storia di due popoli, quello tedesco e quello ebraico che furono le due componenti più importanti di una tragedia di portata mondiale, due popoli che pagarono un tributo spaventoso alla follia stessa.
E alla fine quello stesso spettatore, dopo tre ore di proiezione, si rende conto che quello che ha visto non è soltanto un film ma qualcosa che va ben oltre il limite della pellicola e dello schermo.

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Spielberg fa tutto questo usando le sue straordinarie armi senza per questo cadere nella retorica: la sua creazione, il Survivors of the Shoah Visual History Foundation destinato a raccogliere le testimonianze visive e in voce dei pochi sopravvissuti alla shoah dimostrano come la sensibilità del regista vada ben oltre il facile pietismo.
Quando il regista di Cincinnati dirige Schindler list, viene dal grandissimo successo di Jurassic park e sopratutto da quattro anni in cui ha fatto cinema di alto livello ma in pratica di evasione, come dimostrano i tre film precedenti ovvero Hook – Capitan Uncino (1991),Always – Per sempre  (1988) e Indiana Jones e l’ultima crociata  (1989).
Hollywood è così e c’è poco da fare; per avere credibilità, finanziamenti e libertà di movimento devi avere alle spalle grossi incassi. L’unica sua esperienza con un film “bellico” Spielberg l’aveva avuta con 1941- Allarme a Hollywood  (1979), una mega produzione in chiave farsesca che però era costato una fortuna alla produzione e che rischiò di fermarlo per anni, pur essendo il film stesso assolutamente gradevole.

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E Spielberg che sa benissimo come funzionano le cose a Hollywood riesce a mettere le mani sul soggetto in cui tanto credeva proprio grazie ai soldi rimediati da questi tre film che ho citato.
Così, quando prende in mano Schindler list Spielberg fa un azzardo che però si rivela vincente: il film infatti otterrà una marea di premi, tra i quali i 7 Premi Oscar 1994 (su 12 nomination) ovvero i premi come Miglior film, Miglior regia, Miglior sceneggiatura non originale, Miglior fotografia, Miglior scenografia, Miglior montaggio, Migliore colonna sonora seguiti da 3 Golden Globe  (su 6 nomination) come Miglior film drammatico, Miglior regia, Miglior sceneggiatura e  6 Premi BAFTA (su 12 nomination) come Miglior film, Miglior regia, Miglior attore non protagonista, Miglior fotografia, Miglior montaggio, Miglior colonna sonora.

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Questo permetterà a Spielberg di girare 5 anni più tardi quell’altro capolavoro che è Salvate il soldato Ryan  (1998), un affresco potentissimo sulla guerra raccontato alla sua straordinaria maniera, inimitabile.

Tornando a Schindler list, non si può dimenticare l’apporto dato al film stesso dalla potente colonna sonora di John Williams ne il fondamentale apporto del grandissimo cast selezionato nel quale spiccano la potente e asciutta recitazione di Liam Neeson nel ruolo di Oskar Schindler, quella altrettanto stupenda di Ben Kingsleyin quello di Itzhak Stern il collaboratore ebreo che tanta parte ebbe nelle scelte di Schindler e quella paurosamente e autenticamente da psicopatico di Ralph Fiennes nel ruolo del rappresentante in terra del male assoluto, l’Untersturmführer  Amon Göth che si diverte a sparare con una carabina corredata di binocolo ai prigionieri, simbolo della banalità (scusatemi il termine) del male e della morte.

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Questi tre attori, nei loro ruoli, accendono lo schermo e la storia rendendola se possibile ancora più credibile e amaramente umana.
Bellissima la fotografia di Janusz Kaminski, perfetto il montaggio di Michael Kahn.
Schindler list è un’opera assolutamente da non far mancare nella propria videoteca, un film che di diritto deve essere presente accanto a capolavori come Ombre rosse o Arancia meccanica, come Quarto potere o altri esempi di film che escono dalla semplice cinematografia per diventare opere immortali come un Amleto di Shakespeare o come una sinfonia di Mozart.

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Schindler’s List,un film di Steven Spielberg. Con Liam Neeson, Ben Kingsley, Ralph Fiennes, Caroline Goodall, Jonathan Sagalle, Embeth Davidtz, Andrzej Seweryn, Beatrice Macola, Jonathan Sagall, Malgoscha Gebel, Shmuel Levy, Mark Ivanir, Friedrich Von Thun, Krzysztof Luft, Harry Nehring, Norbert Weisser

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Liam Neeson: Oskar Schindler
Ben Kingsley: Itzhak Stern
Ralph Fiennes: Amon Göth
Caroline Goodall: Emilie Schindler
Jonathan Sagall: Poldek Pfefferberg
Embeth Davidtz: Helene Hirsch
Malgoscha Gebel: Victoria Klonowska
Shmulik Levy: Wilek Chilowicz
Mark Ivanir: Marcel Goldberg
Beatrice Macola: Ingrid
Andrzej Seweryn: Julian Scherner
Friedrich von Thun: Rolf Czurda
Krzysztof Luft: Herman Toffel
Harry Nehring: Leo John
Norbert Weisser: Albert Hujar
Alexander Held: burocrate SS

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Regia     Steven Spielberg
Soggetto     Thomas Keneally (dal romanzo La lista di Schindler)
Sceneggiatura     Steven Zaillian
Produttore     Steven Spielberg, Gerald R. Molen, Kathleen Kennedy, Branko Lustig
Fotografia     Janusz Kaminski
Montaggio     Michael Kahn
Musiche     John Williams e altri artisti
Scenografia     Ewa Braun, Allan Starski

Doppiatori

Alessandro Rossi: Oskar Schindler
Franco Zucca: Itzhak Stern
Roberto Pedicini: Amon Göth
Isabella Pasanisi: Emilie Schindler
Lucio Saccone: Poldek Pfefferberg
Micaela Esdra: Mila Pfeffembarg
Carolina Zaccarini: Helene Hirsch
Francesco Pannofino: Wilek Chilowicz
Marco Mete: Marcel Goldberg
Perla Liberatori: Danka Dresner

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La tomba di Oskar Schindler

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Oskar Schindler

…”Dal libro dell’australiano Thomas Keneally La lista. L’industriale tedesco Oskar Schindler, in affari coi nazisti, usa gli ebrei come forza-lavoro a buon mercato. Gradatamente, pur continuando a sfruttare i suoi intrallazzi, diventa il loro salvatore, strappando più di 1100 persone dalla camera a gas. È il film più ambizioso di S. Spielberg e il migliore: prodigo di emozioni forti, coinvolgente, ricco di tensione, sapiente nei passaggi dal documento al romanzesco, dai momenti epici a quelli psicologici. La partenza finale di Schindler è l’unica vera caduta del film, un cedimento alla drammaturgia hollywoodiana, alla sua retorica sentimentale. L. Neeson rende con grande efficacia le contraddizioni del personaggio. L’inglese R. Fiennes interpreta il paranoico comandante del campo Plaszow come l’avrebbe fatto Marlon Brando 40 anni fa. Memorabile B. Kingsley nella parte dell’ebreo polacco, contabile, suggeritore e un po’ eminenza grigia di Schindler. 7 Oscar: film, regia, fotografia di Janusz Kaminski (in bianconero, tranne prologo ed epilogo), musica di John Williams, montaggio, scenografia e sceneggiatura. Quel rosso del cappottino della bambina che cerca di sfuggire al rastrellamento è una piccola invenzione poetica, un esempio del modo con cui gli effetti speciali possono diventare creativi. (Morandini)” …

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giugno 7, 2011 Posted by | Drammatico | , , , | Lascia un commento

Gatti rossi in un labirinto di vetro

Gatti rossi in un labirinto di vetri locandina

Barcellona, Spagna.
Tra un gruppo di turisti in viaggio verso la città della Catalogna  agisce un misterioso killer che non si accontenta di uccidere le malcapitate vittime, ma enuclea dall’orbita anche un occhio.
Le indagini della polizia brancolano nel buio e di volta in volta il sospettato cambia, ma l’assassino verrà smascherato nel convulso finale.

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Per forza di cose ho dovuto riassumere la trama in maniera sintetica, ma in questo caso specifico onde evitare a chi non abbia visto Gatti rossi in un labirinto di vetro occorre evitare l’esposizione dei fatti che accadono durante il film.
Ci sono infatti citazioni e immagini che se colte dall’inizio indicano abbastanza chiaramente chi è il colpevole  e il gioco di Lenzi è proprio quello di coinvolgere lo spettatore omaggiando qua e là alcuni registi (come Argento) a cui il regista toscano si è evidentemente ispirato.

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Ines Pellegrini

Dopo Così dolce… così perversa , Orgasmo e Paranoia (1969), il discontinuo Il coltello di ghiaccio (1972) e dopo il buon Sette orchidee macchiate di rosso (dello stesso anno) Umberto Lenzi torna a dirigere un thriller, avendo a disposizione però un budget modesto.
E sopratutto sfruttando una sceneggiatura con alcuni buchi e poco credibile.
La mano del grande regista c’è tutta e il mestiere maschera incongruenze e recitazione a tratti approssimativa di alcuni partecipanti al cast; manca la profondità lenziana tipica dei primi prodotti, quella capacità psicologica mista alla trattazione dell’etica degli stessi che avevano caratterizzato i thriller del maestro.
Del resto Lenzi non ha più a disposizione Trintignant e la Baker, Castel , Jean Sorel o Erika Blanc ; Martine Brochard fa del suo meglio, ma non ha la personalità ne è sua la capacità drammatica, da attrice di thriller della Baker o della Blanc.

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Il film tuttavia raggiunge la sufficienza  perchè Lenzi non è un artigiano qualsiasi ma un professionista capace di mascherare le pecche con la sua indubbia, indiscutibile capacità di creare atmosfera anche con poco come in questo caso.
Nella pellicola, qualche momento gore, come le varie mutilazioni oculari dei vari assassinati oppure la scena della ragazza data in pasto ai maiali; qua e là qualche momento saffico e qualche casto nudo affidato alle grazie della Brochard e di Ines Pellegrini, l’attrice italo africana protagonista dei due pasoliniani Il fiore delle mille e una notte e del Salò.
Poco altro da dire, se non una citazione per il resto del cast che include il monocorde e inespressivo John Richardson e la solita sicurezza rappresentata da Daniele Vargas; colonna sonora autenticamente anni 70 di Bruno Nicolai però molto più adatta ad un poliziottesco invece che ad un giallo/thriller.

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Martine Brochard

Un film che temo deluderà i fans del thriller all’italiana, sopratutto i fans del maestro se avranno avuto la ventura di imbattersi prima in questo film che nel resto della sua produzione antecedente.
Gatti rossi in un labirinto di vetro, un film di Umberto Lenzi. Con Martine Brochard, Ines Pellegrini, Joan Richardson, Daniele Vargas,Raf Baldassarre, Georges Rigaud, Silvia Solar, John Richardson
Thriller, durata 90 min. – Italia 1975.

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Martine Brochard: Paulette Stone
John Richardson: Mark Burton
Ines Pellegrini: Naiba Levin
Andrés Mejuto: Commissario Tudela
Mirta Miller: Lisa Sanders
Daniele Vargas: Robby Alvarado
George Rigaud: reverendo Bronson
Silvia Solar: Gail Alvarado
Raf Baldassarre: Martinez
José María Blanco: Ispettore Lara
Marta May: Alma Burton
John Bartha: sig. Hamilton
Olga Pehar: sig.ra Randall
Veronica Miriel: Jenny Hamilton
Olga Montes
Richard Kolin: sig. Randall
Rina Mascetti: infermiera dell’ospedale
Fulvio Mingozzi:poliziotto
Francesco Narducci: receptionist all’hotel Presidente
Tom Felleghy: medico legale

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Regia Umberto Lenzi
Soggetto Félix Tusell
Sceneggiatura Félix Tusell
Fotografia Antonio Millán
Musiche Bruno Nicolai

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giugno 1, 2011 Posted by | Thriller | , , | 5 commenti