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La piscina

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« La piscina è un film che oggi non riesco più a guardare. Mi fa male»
Sono le parole di Alain Delon, protagonista del film.
Parole che si riferiscono alla relazione con la bellissima Romy Schneider, l’altra star di La piscina,film di Jacques Deray del 1968,dove complice proprio l’attore francese la coppia si ritrovò cinque anni dopo la fine del loro amore.
Un amore che aveva fatto epoca,sin dal primo incontro nel 1958 sul set di L’amante pura e che si concluse proprio nel 1963.
Una storia d’amore, la loro, che prosegui fino al giorno della tragica morte di Romy,che per tutta la vita rimase legata a Delon,tanto da farle dire,in una delle sue ultime interviste che «L’uomo più importante della mia vita resta Delon. Quando ho bisogno di lui è sempre pronto a tendermi la mano. Ancora oggi è l’unica persona sui cui posso davvero contare»
Due attori giovani e bellissimi, tra i più amati del cinema,un film noir ben diretto da Deray, la presenza di una poco più che ventenne e conturbante Jane Birkin per una storia drammatica che,come suggerisce il titolo, ha come sfondo una piscina che sarà muta testimone delle vicende drammatiche di un triangolo amoroso con sullo sfondo proprio la Birkin,detonatore della storia che sfocerà in tragedia.

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Una villa,una coppia Jean-Paul e Marianne.
La casa è di proprietà di un amico dei due;Jean Paul è uno scrittore che ha tentato la via del successo ma ha visto naufragare miseramente il primo tentativo di pubblicare un libro ed è costretto a fare il pubblicitario abbandonando per il momento i sogni di gloria mentre lei è un’articolista presso un giornale.
La serenità (apparente) della coppia muta drasticamente in seguito ad una telefonata;Harry,amico di entrambi annuncia la sua visita e la sua permanenza per qualche giorno in villa con sua figlia Penelope.
L’arrivo di padre e figlia altera la situazione.
Jean Paul sospetta,osservando attentamente Harry e Marianne, che tra i due in passato ci sia stata una relazione mentre la giovanissima Penelope,che ha fatto le stesse considerazioni,sembra rinchiudersi in se stessa.
Una sera Harry organizza una gran festa con amici;è proprio Penelope a capire che tra Marianne e suo padre c’è stato qualcosa e che c’è del fuoco che cova sotto la cenere.Durante la festa infatti osserva attentamente Harry e Marianne ballare in modo molto intimo e indispettita o forse ingelosita dalla scena scappa in piscina dove viene seguita da Jean Paul,anche lui ormai certo del passato amoroso tra l’amico e la sua donna.

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I due diventano confidenti parlano ed è in questo modo che finalmente Penelope sembra abbandonare l’atteggiamento di chiusura verso tutti che aveva tenuto fino a questo momento.
Sarà durante un lungo colloquio tra Penelope e Jean Paul che inizierà a maturare il dramma,un giorno nel quale proprio Jean Paul rifiuta di accompagnare nella vicina Saint Tropez Marianne,che piccata sceglie di andarci con Harry.
Penelope racconta a Jean Paul come l’uomo lo disprezzi,considerandolo uno scrittore fallito e come desideri Marianne più per soddisfazione personale che per vera attrazione verso la donna stessa.
La sera Harry,ubriaco,affronta Jean Paul davanti alla piscina.
All’uomo rimprovera quella che ritiene una relazione sbagliata tra sua figlia e lui; folle di gelosia si avventa contro Jean Paul ma appannato nei riflessi dal troppo alcool bevuto finisce in piscina.
Jean Paul potrebbe tendergli la mano e soccorrerlo.
Viceversa,gli tiene la testa sott’acqua causandone la morte.

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Sul luogo dell’incidente arriva l’ispettore Levecque,che da subito si rende conto che la scena contiene incongruenze;Harry ha al polso un costosissimo orologio che non avrebbe mai indossato per un bagno di sera e i vestiti a bordo piscina sono lindi e pinti, segno che la vittima non li ha mai indossati.
L’ispettore parla con Marianne,dicendosi convinto che Jean Paul ha in qualche modo provocato la morte di Harry ma di non avere prove a sufficienza per arrestarlo.Marianne va in camera di Harry e scopre che i vestiti non sono quelli indossati da Harry la sera prima…
Davvero un bel film,La piscina.
Per quanto lento e descrittivo, il film analizza con la dovuta profondità le caratteristiche psicologiche dei personaggi,le loro manie,i loro problemi e i loro comportamenti.
E’ un quadro ben dipinto, in tutti i suoi particolari.
Deray incontra Delon per la prima volta sul set di questo film;segue il consiglio dell’attore di scritturare per la parte di Marianne la bellissima Romy Schneider e ha un colpo di fortuna perchè la coppia da vita ad una interpretazione memorabile.
Nel film la misteriosa,magica alchimia tra i due attori è ben visibile e contribuisce a dare credibilità alla storia.
Altrettanto fortunata è la scelta di Jane Birkin, assolutamente irresistibile nei panni di Penelope e quella di Maurice Ronet nel ruolo di Harry;il che dimostra il vecchio assioma che quando si sceglie bene il cast si è a metà dell’opera.
Il film non brilla certo per originalità della sceneggiatura.
Molte volte in passato e mille volte in seguito verrà riproposto il tema del triangolo di amorosi sensi con aggiunta del quarto incomodo ma in questo caso la storia assume un che di torbido, d malsano che aggiunge valore alla pellicola.

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Tuttavia Deray è abile a creare l’atmosfera e a delineare i personaggi;l’inquieto Jean Paul,la dubitante e incerta Marianne,la fragile e inesperta Penelope,l’egoista e ipocrita Harry sono personaggi che hanno spessore nei ritratti psicologici che fanno da sfondo alla storia.
Il film quindi regge bene,nonostante la tendenza a privilegiare i dialoghi e i sottintesi.
In fondo è quello che Deray vuol trasmettere.
Un film datato,indubbiamente,ma che resta sicuramente opera valida e godibile a quasi 50 anni dalla sua prima uscita.

La piscina
Un film di Jacques Deray. Con Alain Delon, Paul Crauchet, Romy Schneider, Jane Birkin, Maurice Ronet, Steve Eckhardt, Maddly Bamy, Suzie Jaspard, Thierry Chabert, Stéphanie Fugain Titolo originale La piscine. Drammatico, durata 113 min. – Francia 1968.

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La piscina banner personaggi

Alain Delon: Jean-Paul
Romy Schneider: Marianne
Maurice Ronet: Harry
Jane Birkin: Penelope
Paul Crauchet: Ispettore Leveque
Suzie Jaspard: Emilie
Maddly Bamy: un’amica al party
Stéphanie Fugain: amica di Harry

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Cesare Barbetti: Alain Delon
Maria Pia Di Meo: Romy Schneider
Giuseppe Rinaldi: Maurice Ronet
Renata Marini: Suzie Jaspard
direttore del doppiaggio: Mario Maldesi

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Regia Jacques Deray
Soggetto Jean-Emmanuel Conil
Sceneggiatura Jean-Claude Carrière, Jacques Deray
Produttore René Pignères, Gérard Beytout
Produttore esecutivo Gérard Beytout
Casa di produzione Société Nouvelle De Cinématographie, Tritone Film
Fotografia Jean-Jacques Tarbes
Montaggio Paul Cayatte
Musiche Michel Legrand
Scenografia Paul Laffargue
Costumi André Courrèges

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“Aspetterò che tu ti accorga di amarmi per tutta la vita”
“E’ strano abbiamo tutti delle preferenze , magari per cose che non valgono niente .”
“Il mio dramma è che quando una ragazza si interessa a me, io me ne innamoro subito! È questo che mi blocca. Forse perché non ho avuto abbastanza esperienze. Sono rimasto vergine fino a venticinque anni, fino al mio secondo matrimonio. Capisce? È per questo”
“Ma è vero quello che dice?”
“Eh no, purtroppo non è vero…!”

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L’opinione di Luca Scial dal sito http://www.mymovies.it

Jean-Paul è uno scrittore di scarso successo, ospite nella villa lussuosa della bella e ricca Marianne a Saint Tropez. I due vivono nella passione, lontani dal mondo, finquando non arriva Harry, cantante playboy ex fiamma di Marianne, con sua figlia: la bella diciottenne Penelope. Il loro arrivo romperà gli equilibri tra i due, facendo riemergere vecchi amori e gelosie.
Passioni, gelosie e pensieri proibiti ruotano intorno a una piscina, nella lussuriosa Saint Tropez. Attori belli e bravi inscenano un ben fatto dramma della passione.
L’opinione di Will Kane dal sito http://www.filmtv.it

Personaggi alla deriva,anche se fissi in un’unita’di luogo,in un thriller a discreta gradazione erotica,con una tensione sorda che cresce impercettibilmente ai bordi della piscina del titolo.Film molto francese,con i tempi appunto tipici della cinematografia transalpina dell’epoca,ma emanante un suo fascino un po’perverso:del resto,i bellissimi Alain Delon e Romy Schneider che dopo l’amore si fustigano lievemente con un ramoscello sono sadomaso soft,ma molto audaci per un film “normale”.Inoltre,uno dei delitti piu’lenti e verosimili del cinema giallo.
L’opinione di atticus dal sito http://www.filmscoop.it

Il film dovrebbe essere un noir ma è passato alla storia soprattutto per la componente sensuale che credo non abbia pari nel cinema dell’epoca. La storia di un quadrilatero bollente consumato sui bordi di una piscina nella calura estiva della periferia parigina, tra scene di seduzione e sguardi languidi, fino al colpo di scena che complica il menage.
Grande atmosfera di ricercato ed elegante erotismo, una svolta gialla piuttosto blanda, un bravo regista di genere ed un quartetto di interpreti assolutamente memorabile per un film che fece scandalo, tanto intrigante quanto inconsistente. Le effusioni tra gli splendidi Delon e Schneider però sono di quelle che non si dimenticano.

L’opinione del sito http://www.ilballodelcervello.com

Senza dubbio ci troviamo di fronte ad una pellicola che trasuda una ricercata raffinatezza, in cui l’erotismo si sposa con un’estetica di tinte tenui e desaturate; una storia di corpi sui quali si può leggere di sesso, d’amore e di morbosità, corpi che celati da un abito ben confezionato sanno tenere nascosti i segreti più intimi e inconfessabili. Jane Birkin, certamente il simbolo più evidente di questo fine erotismo, interpreta magistralmente una lolita dal fascino esotico e ingenuo, che muove il proprio corpo in modo quasi convulso e infantile, come a volerne scoprire le potenzialità.
La piscina è il perno intorno al quale si muovono gli sguardi dei quattro protagonisti, che lentamente, come naufraghi ai suoi bordi, si spogliano delle proprie ipocrisie in un’intensa spirale di tensione; l’acqua stagnante risplende di glamour e trattiene in profondità un torbido microcosmo i cui dettagli sono resi ottimamente da una sceneggiatura in cui centrale è lo studio meticoloso della psicologia dei personaggi. Gli occhi indagatori sono la chiave di lettura più profonda e inquietante di questa storia, occhi che scrutano, si accorgono e sanno, prima che l’indicibile sia detto o perfino pensato. La fotografia di Jean-Jacques Tarbes restituisce i quadri vividi di uno spaccato di vita che sfiora il perverso.

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Jane Birkin è Penelope

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Romy Schneider è Marianne

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Maurice Ronet è Harry

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Alain Delon è Jean Paul

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agosto 31, 2015 Posted by | Drammatico | , , , , , | 4 commenti

Venga a prendere il caffè da noi

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La spartizione è il secondo romanzo scritto da Piero Chiara dopo Il piatto piange; nel 1970 Alberto Lattuada riduce per lo schermo il romanzo dello scrittore di Luino mutando il titolo in Venga a prendere il caffè da noi e mantenendo praticamente intatta l’atmosfera ridanciana e grottesca del romanzo, che è una delle cose migliori di Chiara, autore saccheggiato a buon motivo dai registi cinematografici.
Aiutato dallo stesso Chiara e con l’aiuto importante del critico Tullio Kezich,Lattuada dirige un film amaro e al tempo stesso di stile quasi boccaccesco,ricreando l’ambiente piccolo borghese in cui si muovono i personaggi del film, ambientato nella bella Luino,piccola perla del varesotto che sorge sul lago Maggiore,che fa da cornice alle storie parallele e al tempo stesso incrociate del protagonista maschile,Emerenziano Paronzini e delle tre sorelle Tettamanzi,Camilla Fortunata e Tarsilia.
Lattuada trasla il film dall’epoca fascista ai primi anni sessanta,modificando il finale; non sono scelte da poco che però alla fine non mutano l’economia del film.
Il gusto per il grottesco,per il surreale e al tempo stesso ironico sguardo sulla piccola provincia italiana di Chiara è ripreso in maniera praticamente perfetta da Lattuada, che ha anche l’intuito e la fortuna di scegliere come protagonista nelle vesti di Emerenziano, funzionario integerrimo del Ministero delle Finanze,il grande Ugo Tognazzi, sornione come un gatto che ha avvistato un topo ed aspetta il momento giusto per papparselo.

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L’attore cremonese è nel pieno della sua maturità artistica e lo dimostra appieno in questo film godibile, allegro e ironico,nel quale interpreta il ruolo di un allupato dipendente pubblico che stanco della vita da single e sopratutto affetto da un’incontrollabile frenesia sessuale,decide di mettere assieme l’utile e il dilettevole, puntando gli occhi su tre sorelle anche loro single ma con alle spalle un ricco patrimonio lasciato loro dal padre.
Il che a ben vedere è la ciliegina sulla torta,la molla che spingerà l’uomo a corteggiare le tre sorelle.
Lattuada punta molto sull’atmosfera ironica del romanzo e nel film si lascia trasportare sia dalla stessa atmosfera sia dal fascino che emana dalla ridanciana cittadina lombarda;il lago, le belle e linde case di Luino, la simpatia della popolazione locale,istrionica e a tratti furba costituiscono l’ossatura del film, che veleggia dall’inizio alla fine su una leggerezza di fondo che non scade mai nel banale,anzi.
Assistiamo alle imprese di Emerenziano carpendo i suoi pensieri,il suo modus vivendi e il suo modus operandi;sappiamo in anticipo le sue mosse e se non parteggiamo per lui è solo perchè romanticamente ci aspetteremmo motivazioni più profonde alla base dell’operato dell’uomo.

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Che invece sceglie coscientemente di sedurre dapprima una delle sorelle e poi infine le altre due,in una atmosfera di quadrilatero di amorosi sensi mai scadente nel volgare o nell’erotico.
A ben guardare è proprio questa una delle peculiarità del film,ovvero lo scansare come la peste le scene di nudità facili e cattura pubblico optando invece per una sana e ironica comicità che non è di grana grossa, tutt’altro.
In una recensione si legge testualmente “Una commedia di gusto grossolano, diretta con mestiere e sorretta da una riuscita caratterizzazione dei personaggi, ma fastidiosa e disgustosa per la volgarità di cui è impregnata” (Segnalazioni Cinematografiche)
Nulla di più lontano dal vero.Non c’è nulla di volgare a livello visivo,nulla nei dialoghi se non l’arguzia tipica della gente di provincia, sempre pronta a trovare un motto o una battuta sagace su quello che accade,sulla vita stessa.
Veniamo alla trama:
Emerenziano Paronzini è quindi alla ricerca di una donna con cui accasarsi.E’ stanco della sua solitaria vita da single,inoltre essendo un reduce di guerra tornato a casa con una fastidiosa menomazione.
Individua tre sorelle , Camilla,Fortunata e Tarsilia Tettamanzi come sue prede e decide di prenderne una in moglie, in modo da assicurarsi non solo una donna che lo serva e lo riverisca, ma un comodo approdo per i suoi pruriti sessuali.

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Fantastica la descrizione che da Piero Chiara delle tre sorelle:
“Brutte ciascuna a suo modo di una bruttezza singolare, e consapevoli della ripugnanza che ispiravano agli uomini, avevano tacitamente soppresso l’amore, come se l’avessero seppellito in giardino per nascondere una vergogna. In verità, neppure quando andavano a scuola, e Camilla addirittura all’Università, nessun uomo aveva pensato di farle accorte del loro sesso; né poteva essere diversamente, per quei tre frutti malformati di un matrimonio che era stato di puro interesse, tra il loro padre – una specie di pappagallo con le gambe storte – e la loro madre, mal sortito avanzo di una vecchia famiglia
Nella realtà del film, le tre sorelle sono interpretate magistralmente da tre attrici non certo brutte,anzi a loro modo con un certo fascino.
Tornando alla pellicola,Emerenziano riesce ad entrare in casa Tettamanzi e dopo un breve corteggiamento seduce Fortunata,individuata dallo scaltro uomo come la preda più facile e abbordabile.
Il matrimonio va in porto e al ritorno dal viaggio di nozze, che è stato un vero e proprio tour de force sessuale per Fortunata (il dottore che la visita la troverà “vaginalmente infiammata“) Emerenziano si stabilisce nella casa delle donne.

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Riverito come un sibarita, l’uomo inizia a guardare con un certo appetito sessuale le altre due sorelle e alla fine le seduce entrambe.
Inizia così un rapporto a quattro, con il sultano che a turno giace con una delle concubine.
In seguito il vorace e instancabile appetito dell’uomo si rivolge anche alla domestica Caterina;ma una sera,mentre è intento nella sua opera di seduzione,Emerenziano che ha ecceduto nelle libagioni finisce per avere un colpo apoplettico; da quel momento dovrà vivere su una sedia a rotelle, accudito comunque amorevolmente dalle tre sorelle,che lo portano a spasso come un trofeo di caccia.
Venga a prendere il caffè da noi è uno dei più grandi successi della straordinaria stagione cinematografica del 1970; solo film straordinari come Lo chiamavano Trinità di E.B. Clucher,Per grazia ricevuta di Manfredi (vera star office della stagione),Anonimo veneziano di Enrico Maria Salerno,Il piccolo grande uomo di Arthur Penn,Borsalino di Jacques Deray,Il gatto a 9 code di Dario Argento faranno meglio della pellicola di Lattuada.
Guardando la presenza di questi film non si può non provare nostalgia per quella straordinaria e feconda stagione cinematografica che fu il 1970…
Il film come già detto si avvale della location bellissima e fiabesca di Luino,della presenza di un grande Tognazzi, di dialoghi divertenti e di una sceneggiatura di prim’ordine.
Non dimentichiamo anche le tre bravissime protagoniste femminili, Francesca Romana Coluzzi(Tarsilla Tettamanzi) alla quale perfidamente Lattuada applica una antiestetica peluria sulle labbra,Milena Vukotic (Camilla Tettamanzi) e infine Angela Goodwin (Fortunata Tettamanzi); tre attrici dalla futura lunga e longeva carriera cinematografica,lusinghiera e meritata.
Nel film compare anche lo stesso Piero Chiara nel ruolo di Pozzi.
Un film ancora oggi fresco e divertente,irriverente.
Che potrete vedere in una buona qualità su You tube all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=k8VBzpmPr_o
Buona visione con un grande film targato anni settanta…

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Venga a prendere il caffè da noi

Un film di Alberto Lattuada. Con Ugo Tognazzi, Angela Goodwin, Milena Vukotic, Francesca Romana Coluzzi, Checco Rissone,Piero Chiara, Alberto Lattuada, Antonio Piovanelli, Carla Mancini Commedia, Ratings: Kids+16, durata 113 min. – Italia 1970.

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Francesca Romana Coluzzi: Tarsilla Tettamanzi
Ugo Tognazzi: Emerenziano Paronzini
Milena Vukotic: Camilla Tettamanzi
Angela Goodwin: Fortunata Tettamanzi
Jean Jacques Fourgeaud: Paolino
Valentine: Caterina, la cameriera
Checco Rissone: Mansueto Tettamanzi, il padre delle sorelle
Piero Chiara: Pozzi
Natale Nazzareno: garzone
Carla Mancini: studentessa
Alberto Lattuada: Raggi, il dottore
Antonio Piovanelli: Don Casimiro

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Regia Alberto Lattuada
Soggetto Piero Chiara (romanzo)
Sceneggiatura Alberto Lattuada
Adriano Baracco
Tullio Kezich
Piero Chiara
Produttore Maurizio Lodi Fé
Casa di produzione Mars Film Produzione
Distribuzione (Italia) Paramount
Fotografia Lamberto Caimi
Montaggio Sergio Montanari
Musiche Fred Bongusto
Tema musicale Vivienne eseguita da Fred Bongusto
Scenografia Vincenzo Del Prato
Costumi Dario Cecchi
Trucco Eligio Trani

“Come dice il Mantegazza, alla mia età ho bisogno delle tre c: caldo, coccole e cibo!”
“Dovevamo rompere le reni alla Grecia, Hanno rotto il culo a me!”
“”Però anche voi, che cambiamento: sembrate tre puttane!”

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Da dove era venuto con quella faccia severa, con quell’aspetto composto e a prima vista distinto? Da qualche importante città, da una famiglia di rango, da una lunga abitudine alla riservatezza?
Solo dopo qualche mese si seppe che veniva, in seguito a trasferimento d’ufficio, dal capoluogo della provincia; ma. che era di Cantévria, un paesucolo della Valcuvia, a pochi chilometri da Luino.
“Da Cantévria con quel nome?” si domandava la gente. E nessuno credeva possibile che da quel luogo di campagna, abitato da contadini e da famiglie d’emigranti, potesse uscire un funzionario, anche d’infimo grado, dell’Ufficio Bollo e Demanio; e con quel nome, Emerenziano Paronzini, che sembrava il nome di un generale, benché fosse senza mistero per la Valcuvia dove esistevano molti Emerenziani ed Emerenziane e dove il cognome Paronzini si ripete in più posti.

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L’opinione di Will Kane dal sito http://www.filmtv.it

Dal romanzo di Piero Chiara(che appare nel piccolo ruolo del commercialista del bottegaio in crisi Jean-Jacques Forgeraud,amante clandestino della sorella Tettamanzi più vistosa,Francesca Romana Coluzzi) intitolato “La spartizione”, l’occasione per un numero dei suoi per Ugo Tognazzi, tra i mostri sacri del pantheon attoriale italico, probabilmente il più duttile:ometto di impostazione rigida, programmatore freddo e calcolatore del proprio futuro, da sistemarsi con un buon partito, individuato in una a scelta di tre sorelle ereditiere di un solido patrimonio, avvicinate con il pretesto di un aiuto a proposito di un nodo gabellare,visto che Eremenziano Paronzini(nome veramente indovinato per un personaggio del genere) è un funzionario dell’ufficio imposte, azzecca quasi ogni mossa,salvo farsi prendere dall’ingordigia degli appetiti sessuali. Lattuada(anche lui presente,nel cameo del dottore di famiglia Tettamanzi) dipinge con sapiente malignità il quadro grigiastro della vita di provincia in riva al lago, la repressione sessuale di una tipica mentalità borghesotta, la vocazione ad un dissolutismo grottesco repressa ivi compresa. Benchè felicemente ambientato,”Venga a prendere il caffè da noi” ha un buon corpo attoriale,ma sembra che Tognazzi presti al personaggio un buon mestiere, e non l’estro di sempre, o comunque non è al massimo delle sue potenzialità d’attore, benchè si tratti di un carattere rigido che rivela tutto insieme le sue aspirazioni da satiro attempato, e il monologo a tavola(“Dovevamo spezzare le reni alla Grecia, e invece hanno rotto il culo a me!” esclama a un certo punto) è un bel crescendo d’interprete, ma sono altri i personaggi, vedi “Amici miei”,”Romanzo popolare”,per citarne due soli, che sono veramente memorabili tra quelli interpretati dal grande attore cremonese. Bravissime anche le tre interpreti, soprattutto la “tanta” Francesca Romana Coluzzi,purtroppo deceduta in questi giorni.

Opinioni tratte dal sito http://www.davinotti.com

B.Legnani

Tutto molto corretto e composto, in linea con la sana (almeno in apparenza) provincia lombarda. Tognazzi disegna bene il protagonista e talora lo fa quasi sotto-recitando. Le tre donne sono molto brave. Fourgeaud è doppiato da Nino Castelnuovo. Ruolo della vita per la Coluzzi.

Galbo

Nella cornice perbenista ed ipocrita della meravigliosamente rappresentata provincia italiana, si muove un poersonaggio che non potrebbe essere più italico di così, il seduttore ragionere benissimo interpretato da Tognazzi in uno dei migliori ruoli della carriera. Buon film di Lattuada che sfrutta la massimo le corde satiriche della sceneggiatura.

Pigro

Il placido lago prealpino nasconde i bollenti spiriti di tre sorelle zitelle, presto appagati dal “gallo” che ha capito come dare una svolta alla propria vita. E così questa piacevole commedia ci diverte non solo con le pennellate satiriche sulla sessuofobia ipocrita, ma anche con deliziose annotazioni psicologiche al limite del caricaturale che Lattuada destina a tutti i protagonisti di questo girotondo erotico-grottesco. Magistrale Tognazzi nella sua maschera da macho calcolatore, impagabili le tre grazie, pudiche e assatanate.

Homesick

L’Italia non è più fascista e l’epilogo meno drastico, ma l’adattamento di Lattuada rispetta la garbata licenziosità del romanzo di Chiara e la sua rappresentazione di una provincia immobile e perbenista. Nel superlativo Tognazzi si ritrovano – ora accennati, ora enfatizzati – gesti, sguardi e manie del trigamo e taciturno Paronzini, così come il terzetto “gambe” Coluzzi-“capelli” Goodwin-“mani” Vukotic è l’ideale ritratto cinematografico delle represse sorelle Tettamanzi. L’ottimo risultato è altresì favorito dalle musiche di Bongusto, che catturano al volo lo spirito della commedia.

Daniela

Emerenziano Paronzini, metodico ragioniere di mezz’età, si sistema sposando una delle tre ricche sorelle Tettamanzi, ma non disdegna il talamo delle altre due… Ritratto satirico della vita di provincia, piatta come le acque del lago su cui si affaccia la cittadina in cui è ambientata la vicenda ma anche altrettanto torbida, dato che le apparenze bigotte nascondono voglie proibite e vizietti inconfessabili. Memorabile la caratterizzazione di Tognazzi, ma non vanno dimenticate Goodwin e Vukotic con la loro vibrante “bruttezza”. Meno credibile nel ruolo la stangona Coluzzi.

Markus

Trasposizione cinematografica del romanzo di Piero Chiara “La spartizione”. L’interprete principale è un istrionico e superbo Ugo Tognazzi, nei panni d’un uomo che, malgrado la bruttezza d’una donna, la sposa perché ricca. Una volta piazzato in casa, coglie l’occasione per deflorare anche le due cognatine fino ad un imprevisto finale. Girato a Luino, il film gode di grande ritmica degli eventi e di una sano cinismo. Lattuada ci mostra per l’ennesima volta una certa tendenza per il feticismo (gambe e piedi femminili). Rallegramenti.

Cangaceiro

Il merito di Lattuada è parlare per quasi 2 ore di pruriti sessuali e istinti carnali (mostrandoci anche qualcosina) senza mai risultare volgare. Il filoconduttore è tutto qui: la ricerca dello “star bene” in tutti i sensi, senza farsi troppi scrupoli morali, il tutto calato nella sana provincia italiana di allora, qui ben fotografata, una sorta di “do ut des” che soddisfa tutti. Domina Tognazzi, bravissimo nell’interpretare con raffinatezza un uomo piccolo ed egoista. Tra le sorelle spicca una Coluzzi quasi irriconoscibile. Tante le scelte registiche azzeccate.

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agosto 28, 2015 Posted by | Commedia | , , , , | 4 commenti

La sbandata

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Salvatore Cannavone ha lavorato duramente per oltre trent’anni in America.
Ciabattino,lustrascarpe e altro,risparmiando centesimo su centesimo ha messo da parte una piccola fortuna e ha deciso di rientrare in Sicilia,spinto dalla nostalgia.
Qui l’uomo viene accolto in casa (in modo interessato) da suo fratello Raffaele,sposato con l’avvenente Rosa e padre della bella Mariuccia.
Da subito l’uomo avverte una tempesta ormonale;anni di astinenza e di desideri repressi fanno divampare in lui il desiderio di una donna.
E sotto il suo sguardo interessato non può non finire Mariuccia,che dal canto suo sembra accettare la corte di suo zio,spingendosi anzi in la, coinvolgendo il maturo uomo in un gioco fatto di provocazioni e ammiccamenti.

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La ragazza intuisce il punto debole dello zio e ne incoraggia i pruriti e le fantasie;senza mai accettare esplicitamente rapporti completi,tiene l’uomo sulla graticola e ne approfitta per ricavarne regali in denaro,sotto lo sguardo assente (ma non troppo) del padre.
Dopo un po di tempo sia Raffaele che Mariuccia hanno ciò che vogliono:l’uomo una casa nuova e la ragazza soldi e corredo.
A questo punto ecco che spunta un giovane che chiede la mano della ragazza,accordata dai genitori.
Per Salvatore sembra che la beffa sia compiuta ma al contrario sarà proprio in quel momento che riuscirà ad avere finalmente la ragazza e con essa anche la bella cognata…
La sbandata è un film del 1974 diretto da Alfredo Malfatti,primo e unico film diretto in carriera dal regista.
E a vedere l’esito di questa prova,non si può certo dire che il cinema abbia perso un protagonista memorabile.In realtà,secondo quando dichiarato dalla protagonista del film,Eleonora Giorgi,la pellicola è stata diretta da Salvatore Samperi, che non volendo (e non potendo) firmare il film,si nascose dietro la figura oscura di Malfatti per dirigerla completamente.

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Storia di corna,incesto e tradimenti,La sbandata è il classico film samperiano,pruriginoso e ammiccante,nello stile tipico del regista di Malizia,ben lontano qui dal risultato della commedia che aveva visto come protagonista la splendida Laura Antonelli.
Il film è banale e sciatto,appesantito anche dall’insopportabile figura di Domenico Modugno,che caratterizza all’eccesso la figura dell’emigrante figliol prodigo Salvatore Cannavone, affetto da evidente sindorme senile di attività ipersessuale.
Sigari a gogo,un’espressione tra il laido e il furbo alla Calandrino,Modugno imperversa per il film rendendo particolarmente odiosa la figura di Salvatore,tanto da far desiderare allo spettatore di vederlo punito e spogliato completamente dei suoi averi.
Invece finisce diversamente,e la commedia che in qualche momento aveva cercato la strada improbabile della satira,sbanda e finisce in farsa.

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A ben vedere il titolo del film,La sbandata,andava applicato letteralmente,intendendo il tutto come una sbandata in corso d’opera di un prodotto della commedia sexy all’italiana,anche se in realtà di pecoreccio e voyeuristico non è che ci sia chissà cosa.

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Il film è tratto dal romanzo Il volantino di Pietro A. Buttitta e ne riprende l’ambientazione sicula, cara a tanti registi del cinema nostrano.
Indolenza,pigrizia e ancora malizia e furbizia,scarsa voglia di lavorare,il siciliano con i baffi,la donna furba e vogliosa,il familiare becco e contento,insomma tutti i segni caratteristici da sempre attribuiti ai meridionali e nello specifico ai siciliani;la solfa è sempre la stessa,cambiano i protagonisti ma mai gli scenari e gli sfondi.
A parte Modugno,indisponente e antipatico,nel film c’è una giovane e bella Eleonora Giorgi,ventunenne,che si era fatta apprezzare per gli scabrosi Storia di una monaca di clausura e Appassionata e sopratutto per Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno, di Luciano Salce,film che le aveva dato anche una patente di attrice in erba dalle buone qualità e non solo dal bel corpo.
L’attrice romana non demerita,pur nel grigiore (oserei dire squallore) generale, mentre sicuramente più apprezzabile, anche se defilata rispetto ai due protagonisti citati è la splendida Luciana Paluzzi,nel ruolo della madre di Mariuccia.

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C’è posto anche per uno spaesato Pippo Franco,presenza fissa di tantissime commedie sexy.
Null’altro da segnalare se non il consiglio di lasciar perdere un film stanco e banale,in cui il tentativo di Samperi di fare satira bonaria e comicità ridanciana svanisce dopo pochi minuti dall’inizio della pellicola.
La sbandata
Un film di Alfredo Malfatti. Con Luciana Paluzzi, Domenico Modugno, Eleonora Giorgi, Umberto Spadaro,Pippo Franco, Franco Agostini Erotico, durata 90 min. – Italia 1975

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Domenico Modugno: Salvatore Cannavone
Eleonora Giorgi: Mariuccia, figlia di Raffaele
Pippo Franco: Raffaele Cannavone
Luciana Paluzzi: Rosa, moglie di Raffaele
Umberto Spadaro: dottore
Nino Musco: avvocato
Franco Agostini: Giovanni Liga
Gino Pernice: Carluzzo
Renzo Rinaldi: giocatore a carte

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Regia Salvatore Samperi (non accreditato), Alfredo Malfatti
Soggetto Pietro A. Buttitta, dal suo romanzo “Il volantino”
Sceneggiatura Salvatore Samperi, Ottavio Jemma
Casa di produzione Mondial
Distribuzione (Italia) Titanus
Fotografia Franco Di Giacomo
Montaggio Sergio Montanari
Musiche Domenico Modugno
Scenografia Ezio Altieri
Costumi Ezio Altieri

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L’opinione di sasso67 dal sito http://www.filmtv.it

Uno di quei film di cui, a quasi quarant’anni di distanza, non si riesce a capire la motivazione (se non la speranza di incassare qualche milioncino con un’operazione a metà tra il pruriginoso e la commedia folkloristica). Ma soprattutto non si capisce perché l’autore di Vecchio frack e Nel blu dipinto di blu accettase di partecipare a simili filmacci: che anch’egli avesse bisogno di soldi?
L’opinione di mm40 dal sito www,filmtv.it

L’unica cosa atipica di questa farsetta sguaiata è il protagonista: Modugno in una parte in cui sarebbe stato perfetto Lino Banfi è davvero qualcosa da sbiancare. Per il resto tutto procede come a quei tempi era solito che procedesse: qualche scenetta di nudo, un sottofondo incessante di volgarità e misoginia, Pippo Franco nel ruolo dichiaratamente ‘comico’ (poichè, dato il tema pesantissimo dell’incesto, occorre senz’altro sdrammatizzare ed a Modugno manca il physique du role), stereotipi italioti ammanniti a volontà. Non brilla certo per fantasia, questa Sbandata scritta dallo stesso Samperi (con Ottavio Jemma) che girerà o ha già girato innumerevoli varianti sul tema morboso dell’incesto fra le mura domestiche (da Nenè a Casta e pura, da Peccato veniale all’esordio di Grazie zia). Poco entusiasmo.

L’opinione del Mereghetti

Il film poteva puntare su elementi più provocatori (la frustrazione senile, l’avidità di denaro), invece risolve tutto con palpiti pruriginosi e bozzettismo di maniera. (P. Mereghetti Dizionario dei Film)

Opinioni tratte dal sito http://www.davinotti.com

Undying
Non è una fissazione del sottoscritto, ma un dato di fatto: il cinema italiano Anni Settanta accarezzava con frequenza pressoché costante il tema dell’incesto (con predilezione del rapporto zio-zia/nipote). In tal caso, pur essendoci di mezzo Domenico Modugno (che pure, come ovvia conseguenza, si occupa del reparto musicale) il film appare fiacco, noioso e ben poco morboso. La Giorgi non può competere con le coève attrici disponibili sulla piazza, che sarebbero di certo apparse ben più credibili nei (pochi) panni di meridionali focosette…

Il gobbo

Mimmo Modugno zio d’America con proverbiale gruzzolo torna al paesello, e conosce una nipotina (ben) cresciuta… Ennesimo sotto-Malizia scritto dallo stesso Samperi: ormai di prammatica l’atmosfera calda e appicicaticcia, ma non se ne può più. Modugno ha in effetti un bel daffare fra la Paluzzi e una Giorgi che ha sicuramente degli argomenti, ma che come sicilianuzza dell’interno pare leggermente poco credibile. Un titolo che mantiene quanto promette.

Homesick

Samperiano e monotono, rispolvera alcuni degli argomenti preferiti della commedia erotica alla siciliana (ritorno dagli USA, incesto, matrimonio, soldi) utilizzando un pur valido Modugno come zio danaroso e voglioso. Piuttosto scialba la Giorgi, con il suo candore fuori luogo; ben più consistente la Paluzzi. Si può soprassedere.

B.Legnani

Brutto. Parte male, col volerci mostrare un protagonista simpaticissimo, col bel risultato di rendercelo fastidioso (al quinto sigaro, poi, diventa quasi odioso). Giorgi fuori parte (la Paluzzi, inoltre, se la mangia a colazione), Pippo Franco ripetitivo, come le scenette al circolo, insopportabili già alla seconda volta. Non c’è erotismo se non ci sono finezze e qui tutto è tagliato via con un coltello male affilato. Come se non bastasse, i tentativi umoristici funzionano una volta su dieci.

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agosto 27, 2015 Posted by | Commedia | , , , | 4 commenti

Un dramma borghese

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Da un romanzo di Guido Morselli,uscito postumo in seguito al suicidio dello scrittore,Florestano Vancini riduce per lo schermo Un dramma borghese nel 1979.
Il regista di Ferrara,elegante e misurato, propone la drammatica vicenda raccontata da Morselli affrontando il tema spinoso dell’incesto senza mai indugiare sul lato scabroso e sull’impatto visivo,privilegiando al contrario l’eleganza della trattazione e immergendo il film in un’atmosfera al limite del cupo,in cui tutte le scene sono caratterizzate da un’atmosfera quasi opprimente,oserei dire decadente, che ben simboleggiano l’aria e il continuum in cui si muovono i personaggi del film.
Che sono tre,mentre tutti gli altri riempiono la scena,senza interagire nei momenti topici,quasi figure di contorno che si muovono nella penombra del film accompagnando il dramma che si svolge sotto i loro occhi in modo silente e inerte.
Vancini,giornalista e descrittore,studioso di storia,abbandona per un attimo le sue passioni e propone un dramma a tinte davvero fosche,tutto centrato su tre figure che appaiono differentemente caratterizzate;quella di un padre e sua figlia e quella di un’amica della ragazza che finirà per diventare il detonatore involontario della tragedia finale.

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Che poi tragedia non sarà,visto che il finale è aperto a ogni soluzione.
Tre personaggi,dicevo.
Il primo è Guido,un giornalista che ha perso sua moglie che probabilmente si è suicidata (nel film la cosa non è specificata chiaramente); è un uomo in crisi,afflitto anche da una fastidiosa e dolorosa infiammazione reumatica.
Il secondo personaggio è Maria Luisa chiamata Mimmina,una ragazza che frequenta un esclusivo college svizzero,dolce e inquieta,che risente prepotentemente della mancanza dei suoi genitori e che dopo essere rimasta orfana di madre ha riversato tutto il uo affetto sul padre,che però vede saltuariamente.
Terzo anello della catena è Thérèse,amica di Mimmina,i cui contorni psicologici appaiono molto sfumati e che rimane quasi un personaggio sullo sfondo,pur avendo nel film una parte importantissima quando stringerà una relazione con Guido.
Il film si apre con le immagini del Hotel Victoria di Lugano,nel quale il portiere parla svogliatamente con quello che scopriremo essere un dottore;nella stanza al secondo piano c’è Guido,dolorante,che viene visitato dal dottore che gli diagnostica un attacco reumatico.

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Anche Mimmina accusa malessere,dovuto probabilmente ad una sindrome influenzale.
Inizia così una forzata convivenza nella stanza in penombra dell’Hotel.
Tutto attorno è sfumato,grigio.
Così come l’umore dei due protagonisti.
Mimmina appare fragile e desiderosa d’affetto,Guido imbarazzato nel ruolo di padre costretto a convivere con quella figlia che in realtà conosce poco.
Inizia così il primo vero dialogo tra un padre ed una figlia che fino a quel momento hanno conosciuto poco l’uno dell’altra.
Mimmina ha bisogno d’affetto e trasferisce questo suo desiderio sul padre,mescolando con ingenuità e malizia allo stesso tempo arti seduttive e un disperato
Inizia così un gioco della parti che dapprima imbarazza e poi mette in seria crisi Guido,che è costretto a subire in qualche modo quel comportamento provocante della ragazza.

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Della cosa non tardano ad accorgersi sia i dipendenti dell’hotel che il sensibile dottor Vanetti;i commenti e i mormorii si sprecano quando all’improvviso sulla scena irrompe Therese,l’amica di Mimmina,che tanta influenza ha sulla stessa.
Tra Guido e Therese è passione a prima vista.
I due diventano amanti sotto gli occhi sgomenti ( e gelosi) di Mimmina,che ha perso il suo riferimento,quel padre verso il quale nutre affetto misto a sensazioni intime contrastanti.
Per recuperare le attenzioni a Mimmina resta solo un gesto…
Un dramma borghese è quindi un dramma dall’impianto solido che però Vancini vanifica parzialmente con una regia troppo statica e incline al dialogo che risulta a tratti piuttosto noioso.
Sembra quasi di assistere ad una piece teatrale piuttosto che ad un film;l’ambientazione quasi claustrofobica rende tutto molto opprimente e di certo la sceneggiatura non aiuta a superare il senso di smarrimento che si prova guadandolo.
In realtà l’andamento molto blando del film, con i dialoghi tra padre e figlia a tratti convenzionale,a tratti pieni di imbarazzo rende tutto piuttosto piatto.
Il dramma,per quanto a tinte fosche,spesso diventa quasi banale,perdendosi proprio nei momenti topici del film.
Qualche scossone verso la fine, quando irrompe la figura di Therese che altera il rapporto di coppia tra padre e figlia,ormai pericolosamente vicini all’incesto;da questo momento il film sembra prendere vigore,però è solo un’impressione momentanea.

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Il finale,aperto a tutte le soluzioni, rende ancor più scialbo quanto visto.
All’eleganza formale,la bella fotografia e alle musiche discrete bisogna sommare un certo senso di noia.
Vancini è bravo ma questo non è il suo genere e si vede.
Gli attori sono discreti ma anche molto imbarazzati;poco più che discreto Franco Nero,bella ma poco espressiva Lara Wendel.Bene invece Dalila Di Lazzaro,dei tre sicuramente la più in parte.Il film è praticamente irreperibile e non esiste ad oggi una sua versione digitalizzata.E’ presente su You tube all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=Gc90MeKZAiY

Un dramma borghese
Un film di Florestano Vancini. Con Dalila Di Lazzaro, Franco Nero, Carlo Bagno, Lara Wendel Drammatico, durata 104 min. – Italia 1979

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Franco Nero: Guido
Dalila Di Lazzaro: Therese
Lara Wendel: Mimmina
Carlo Bagno: dottor Vanetti
Felicita Monfrone: cameriera
Silvio Pascorelli: facchino

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Regia Florestano Vancini
Soggetto Guido Morselli (romanzo)
Sceneggiatura Lucio Manlio Battistrada, Fiorenzo Mancini, Florestano Vancini
Produttore Gianni Minervini, Antonio Avati, Franco Nero (co-produttore)
Casa di produzione A.M.A. Film
Fotografia Alfio Contini
Montaggio Nino Baragli
Musiche Riz Ortolani
Scenografia Fiorenzo Senese
Costumi Fiorenzo Senese

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“Sono nata tre giorni fa,quando mi hai portata via da quel maledetto pensionato” (Mimmina)
“E’ la prima volta che sono veramente padre” (Guido)
“E’ il mio problema.Ho preso anche delle pillole ma non succede niente.Forse capirò quando avrò un’attività sessuale” (Mimmina)

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Il romanzo descritto dal sito http://www.adelphi.it

Questo romanzo è la storia dell’amore impossibile fra un padre e una figlia che quasi non si conoscono e si ritrovano insieme, per qualche settimana, in un albergo sul lago di Lugano. Il padre è il corrispondente da Bonn di un grande giornale di Milano (in cui sarà facile riconoscere il «Corriere della Sera»), uomo disincantato, lucido, pieno di soprassalti della memoria, di idiosincrasie, di occultate amarezze e nostalgie, ma al tempo stesso con qualcosa di eternamente adolescente, agile e acerbo; la figlia è una ragazza di diciotto anni, che è stata messa in collegio dopo la morte della madre e ben poco ha visto del mondo, ma vive una sua vita intensa di fantasticherie grandiose, di passioni sospese e avvolgenti. La loro convivenza in albergo sviluppa, si può dire fatalmente, un terribile amore: soprattutto da parte della figlia, prorompente e ingenua, eppure dotata di una strana maturità, che rende il rapporto col padre tanto più paradossale. Questa figlia, infatti, non gli si vuole offrire come amante, ma come moglie, e oltre tutto come una moglie protettiva, conscia di quel lato infantile che al padre, poi, appartiene realmente. Diviso fra l’attrazione e la ripulsa per questa «calamità» che si abbatte sulla sua vita, mentre tenta vanamente di fare chiarezza in se stesso e nel suo passato, il padre crede di sfuggire all’incesto buttandosi in una rapida avventura con un’amica della figlia. Ma questo non farà che aiutare il gioco a precipitare nel dramma.
La vicenda ha luogo in un tempo sospeso, che può essere anche oggi. Il décor svizzero è accennato con pochi, sapientissimi tocchi, come anche una certa atmosfera di morosità lacustre in cui è immersa la vicenda. Domina, invece, l’opera paziente dello scandaglio psicologico, l’indagine sulle ombre della psiche, sui guizzi dei desideri, e in questo Morselli si muove con la stessa precisione e sicurezza con cui sapeva ricostruire l’operazione militare di cui si parla in Contro-passato prossimo. Spostando continuamente la luce dal giornalista, convinto di essere corazzato dall’esperienza, alla giovane figlia, che alla vita non ha fatto ancora in tempo neppure a esporsi, Morselli riesce a delineare con straordinaria finezza quella zona intermedia in cui questi due personaggi, fino allora vissuti in mondi senza contatto, si incontrano e si scoprono fino a scoprirsi complici e a spaventarsi della propria complicità, sfuggendola e ricadendovi in un circolo senza uscita.
Un dramma borghese, che risale ai primi anni Sessanta, apparve per la prima volta nel 1978.

Dal sito http://www.sololibri.net

Prendete un romanzo di Guido Morselli e confrontatelo con qualsiasi best-seller di narrativa nazionale esposto oggi sul bancone di una libreria: per profondità di argomentazione, ricchezza espressiva e tenore stilistico c’è la stessa differenza che passa tra un capo di Burberry e uno acquistato al mercatino rionale sotto casa.
Eppure, Morselli lo conoscono in pochi.
In tutti i campi della vita, per avere successo, il talento può non bastare: occorre anche una briciola di fortuna, perché senza si arriva poco lontano. In Italia, soprattutto, è importante avere le conoscenze giuste. Il caso di questo scrittore, nato a Bologna nel 1912 e morto suicida nel 1973, di grande spessore letterario, dallo stile colto e raffinato, resta esemplare: Morselli, infatti, si è visto per anni chiudere le porte in faccia da varie case editrici, e soltanto dopo il suo gesto estremo gli è stato riconosciuto il merito dovuto. Dramma umano e beffa: narratore incompreso e snobbato da vivo, rinverdito da Adelphi e apprezzato da morto.
Citazioni dal romanzo

«La fisso a mia volta, la esamino cercando di dare al mio sguardo una espressione ilare e affettuosa. La fronte, sotto i capelli scomposti, è stretta e piuttosto convessa, come in tutte le donne. Né la fronte né gli occhi testimoniano di un’intelligenza acuta, esigente. Le labbra sottili, il naso fine, l’arco sopracciliare molto rilevato sono quelli di sua madre, tratti che significano dolcezza ma anche ostinazione. Da quanti anni non guardavo questo viso, o non lo osservavo? Sono letteralmente alla scoperta di mia figlia.
A lei il mio pensiero non è sfuggito:
– Ho fatto il conto, – dice – che da quando avevo sette anni a oggi, siamo stati insieme cinquecento ore. In tutto, venti giornate.»
«Adesso, Mimmina vuole che mi infili sotto il lenzuolo. La accontento. Era fatale che ci si arrivasse; e eccomi una buona volta a giacere con questa diciottenne, ansiosa di dedizione e perciò devotamente dispotica, legata inestricabilmente alla mia carne, e che, per fortuna, è soltanto mia figlia. Mi accoglie con una gratitudine concentrata degli occhi radiosi, teneri. Il letto è molto largo, io sono molto magro, sicché le posso proibire di avvicinarsi e di toccarmi. Ma forse è vero che bisogna coricarsi con una donna per sapere di lei qualche cosa, anche come entità fisica. Mia figlia non è affatto magra. Il calore che viene dalla sua persona m’investe come una vampa, e mi sento attrarre nel solco che il suo peso scava. Non per il naso, ché cerco di non agitare le coltri e io stesso di non muovermi, direi attraverso la mia pelle inavvezza e sensibile, mi penetra l’odore delle sue carni.»
«È in piedi, ferma, appoggiata al muro, la testa china. Mi volge la schiena e non mi vede. Non ha posa, dunque. Sfugge anche me, e d’altra parte non sa dove andare, che fare. Cerca un rifugio, come stamane, un angolo dove nascondersi. Ha l’anima piena di incertezza. Di paura, magari. Mi accorgo che non piange; muove adagio le mani, senza pensare, forse le gingilla col fiocco che è alla cintura della vestaglina, la povera vestaglina verde che la copre. Non sente nemmeno l’impulso di parlarmi, di starmi vicino. È stanca. Anche alla sua età la stanchezza, quella di dentro, può vincere. Mimmina come tutte le nature non infette da una coscienza razionale, si trova nella condizione di essere sola con ciò che la fa soffrire. Soffre, semplicemente e senza diversivi, elementarmente, come sarebbe in grado di godere senza ombre, al pari delle creature sue simili. Ma la realtà è questa, intanto, che il trauma del distacco non è superato. Ci siamo, in pieno.
Torno, in punta di piedi, al mio tavolino.
Domani sera quando resterà sola, a Pegli o a Rapallo, dopo la partenza del dottore, come si comporterà? Si ricorderà di ordinarsi da mangiare, se sarà in un albergo, o di andar giù all’ora di cena? Bisognerà che disfaccia la sua valigia, che provveda alle piccole cose importanti che occorrono e per le quali si deve avere la mente disponibile. O se ne rimarrà al buio, immobile come adesso nella sua stanza, a dirsi: sono sola al mondo, mamma mia, per me non c’è più nessuno?»

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L’opinione di mm40 dal sito http://www.filmtv.it

Un triangolo certamente atipico (due donne ed un uomo, in cui però i rapporti sono strettissimi: padre, figlia, amica della figlia) sta alla base dell’omonimo romanzo di Guido Morselli da cui Vacini trae questo film. E il dramma c’è tutto, inequivocabile, fino alle estreme conseguenze; non solo per la trama con epilogo tragico (un tentativo di suicidio che rimane in sospeso davanti all’entrata della sala operatoria), ma anche per la scelta del regista di tributare onori postumi allo scrittore, chiudendo la pellicola con le immagini della sua tomba e la spiegazione per cui Un dramma borghese uscì postumo: Morselli si suicidò, nel 1973. Peraltro la causa principale del gesto fu la sensazione di fallimento che lo perseguitava, ormai passata la sessantina ed annichilito dai molteplici rifiuti di pubblicazione ricevuti dalle case editrici. Vancini qui (anche sceneggiatore, insieme a Lucio Battistrada) compie però un passo falso nella sua carriera: il film non riesce, nonostante il buon Franco Nero protagonista e l’esperienza del cast tecnico (montaggio di Nino Baragli; fotografia di Alfio Contini ; musiche di Riz Ortolani), ad eguagliare la forza espressiva del romanzo. A ben vedere l’operazione di trasporto su pellicola delle pagine di Morselli non dev’essere risultata facile: la prosa elegante della scrittura (citato dalla voce del narratore in terza persona) è materia delicata per una traslazione per immagini. Film claustrofobico, fatto di interni bui e con tre personaggi quasi esclusivamente al centro della scena.
L’opinione di Undjimg dal sito http://www.davinotti.com

Solidamente costruito – pur se diretto da un autore avverso al cinema bis e abitualmente attivo su temi impegnati – perde punti nella poco riuscita conciliazione dei due “avversi” registri tematici: quello intellettuale (comunque predominante) e quello erotico. Ottimo il cast che molto punta sulla (già) maladoscelente Lara Wendel, alle prese con un tema parecchio audace: non esita, infatti, a sedurre il padre e quasi ci riesce, se non arrivasse in tempo la più matura Dalila Di Lazzaro. Prodotto da Franco Nero (anche attore di punta) può vantare una bella sound track, composta da Riz Ortolani.

L’opinione di Lucius dal sito http://www.davinotti.com

Una storia audace di quelle che pochi coraggiosi autori saprebbero trattare: un rapporto malato tra una figlia e un padre, trasferitisi in una misteriosa e vecchia villa di Lugano. L’ambientazione già di per sè affascina, il cast è ispirato e la Di Lazzaro da sola buca lo schermo con le sue doti di bellezza e classe innata. Non è il padre il vero ammalato, ma la figlia dalla sessualità patologica che cerca di sedurlo in ogni modo. Claustrofobico e morboso.
L’opinione di Stefania dal sito http://www.davinotti.com

Più che dramma borghese… dramma medicale! La malattia (psicosomatica) del padre vedovo (bancario con ambizioni letterarie) e della figlia orfana (collegiale smarrita, più che vogliosa) è la cifra tangibile di un malessere emotivo più che di un disfacimento morale: c’è ben poco di pruriginoso nel loro rapporto, è una specie di febbre fredda. Gli esterni lacustri e uggiosi, gli interni lussuosi ma anonimi dell’hotel svizzero, i primi piani sui volti contratti o affranti: tutto coerente, ma tutto meccanico, perciò neppure il finale -tragico- ci scuote. Malinconico e corretto.

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agosto 25, 2015 Posted by | Drammatico | , , , | Lascia un commento

Il maratoneta

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“È sicuro? (dott. Christian Szell)
È sicuro cosa? (Thomas Babington Levy,Babe)
Sollievo e sofferenza: quale dei due applicherò, adesso dipende unicamente da lei. Quindi ci pensi su e mi risponda: è sicuro? (dott. Christian Szell)”

Un momento topico del film.Babe,il protagonista del film,è finito nelle mani dello spietato nazista Szell che sta per estrargli un dente per costringerlo a rivelargli ciò che sa su una fortuna in diamanti.
La macchina da presa mostra lo strumento odontoiatrico, indugia sullo sguardo terrorizzato di Babe e sul volto sinistro del nazista.
Allo spettatore sembra quasi di essere seduto al posto dello sventurato Babe e sente un brivido percorrergli il corpo.
Il regista ha ottenuto quello che voleva:giocare con una delle arcane paure dell’uomo,la tortura applicata sui denti,il posto più sensibile del corpo umano.
Terrore e paura si mescolano mentre la scena prosegue e il film continua…l’attimo è finalmente passato e lo spettatore sembra liberato da un incubo.
Il maratoneta è un film diretto dal regista londinese JohnSchlesinger ,Oscar nel 1970 per l’immortale Un uomo da marciapiede,che riduce per lo schermo il romanzo Marathon man di William Goldman,coinvolgendolo anche nella sceneggiatura del film stesso.
Il risultato è un thriller mozzafiato,in cui tutti gli elementi del film si sposano magicamente grazie anche alla bravura eccezionale dei due protagonisti,un intenso Dustin Hoffman e un grandissimo Lawrence Olivier.

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Un thriller ben congegnato tra l’altro,giocato tutto in velocità,sul filo della corsa ad una fortuna in diamanti e pieno di colpi di scena.

Babe è uno studente in storia,appassionato di maratone e segretamente ossessionato dalla morte del padre avvenuta anni prima, causata dall’accusa di essere un comunista nel periodo più buio della caccia alle streghe,il maccartismo,che portò il potere americano a sospettare di numerose personalità della cultura (esempio lampante Charlie Chaplin)

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Durante uno dei suoi estenuanti allenamenti,assiste casualmente alla morte del fratello di Christian Szell,un nazista che vive alla luce del sole in Uruguay e per cui lavora sotto copertura il fratello di Babe,Doc.
Quest’ultimo si occupa del trasporto di diamanti di proprietà di Szell,facendo il corriere;malauguratamente per Szell,suo fratello era l’unico depositario della chiave di una cassetta di sicurezza in cui il criminale nazista ha depositato tutta la sua fortuna.
Szell quindi è costretto ad entrare negli Usa per cercare la famosa chiave;incontra Doc e lo ferisce mortalmente con un pugnale che nasconde in una manica.
Mortalmente ferito,Doc si reca a casa di Babe ma non riesce a comunicargli nulla,nemmeno il segreto sulla sua doppia vita e sulla sua reale occupazione.
Nel frattempo Babe si è innamorato di Elisa,una agente che lavora sotto copertura;Szell,convinto che Doc abbia rivelato qualcosa a suo fratello lo fa rapire e lo tortura.

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Babe apprende quindi la verità su suo fratello,il suo impiego nella divisione diretta da Janeway,un’organizzazione segreta governativa che agisce nell’ombra;scopre che Szell è protetto e aiutato proprio da Janeway,che lo favorisce con lo scopo di apprendere notizie su altri criminali di guerra sfuggiti al giusto processo.
Sarà una corsa drammatica la salvezza di Babe;è un maratoneta allenato e riesce a tornare a casa,dove si arma con la pistola del padre.
Contatta Elisa,ma viene da questa tradito.
Durante un drammatico conflitto a fuoco,tutti i protagonisti dello stesso vengono feriti a morte;muore Elisa,che salva Babe da morte sicura,muore Janeway e muoiono di due aiutanti di quest’ultimo.Ma prima di morire Janeway comunica a Babe l’indirizzo della banca e l’ora in cui il criminale nazista andrà a ritirare i diamanti.
E’ arrivata l’ora della resa dei conti.
Veloce e intrigante,Il maratoneta ha un impianto di prim’ordine sia come struttura sia come svolgimento della trama.
I colpi di scena si susseguono, le pause del film sono avvincenti e sopratutto i personaggi di Babe e di Szell sono perfettamente caratterizzati;Babe appare un ingenuo,l’uomo qualunque inserito a forza in un gioco troppo complesso per lui mentre Szell è il cattivo di turno,un cattivo senza alcuno scrupolo con alle spalle un passato da torturatore e sopratutto da nazista convinto.

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Lo scontro tra i due,così diversi, avrà compimento in un finale drammatico e ad alta tensione,perfettamente reso scenicamente da uno Schelinger assolutamente perfetto.
Il finale è anche l’unica cosa veramente divergente tra il romanzo palpitante di di William Goldman e il film;non accenno a questa differenza per evitare di svelare proprio il colpo di scena finale.
Grandissimo Dustin Hoffman,che interpreta in modo inappuntabile il giovane e inesperto Babe catapultato in una storia assolutamente troppo grande per lui,bravissimo Lawrence Olivier nel ruolo del perfido e amorale dottor Szell,bene anche Martha Keller che interpreta il ruolo di Elisa,la donna che prima circuisce,poi tradisce l’inesperto Babe giungendo infine alla redenzione salvandogli la vita e pagando il suo gesto con la morte,bene anche Roy Scheider nel ruolo di Henry David Levy (Doc).
Uscito nel 1976,Il maratoneta ebbe immediatamente un gran successo di pubblico e inaspettatamente di critica,tanto da elevare il film stesso a livello di cult negli anni successivi.

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Azione,trama intrigante,profondità di espressione e sopratutto grandi interpretazioni:sono queste le chiavi di lettura di uno dei più bei film del genere thriller nella storia del cinema.
Menzione d’onore per le musiche che spaziano da Jules Masseneta Charles Mougeot da Franz Schubert a Michael Small e per la splendida e viva fotografia diConrad L. Hall.
Un film indimenticabile,da vedere assolutamente
Potrete visionare il film a questo indirizzo: http://www.dailymotion.com/video/x2jp3dd

Il maratoneta

Un film di John Schlesinger. Con Marthe Keller, Dustin Hoffman, Laurence Olivier, Roy Scheider, William Devane,Fritz Weaver, Jacques Marin, Richard Bright, Lou Gilbert, Marc Lawrence, Allen Joseph, Tito Goya, Ben Dova, James Wing Woo, Nicole Deslauriers, Lotte Palfi Andor, Jeff Palladini, Scott Price Titolo originale Marathon Man. Drammatico, durata 125 min.

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Dustin Hoffman: Thomas Babington Levy (Babe)
Laurence Olivier: dott. Christian Szell
Roy Scheider: Henry David Levy (Doc)
Marthe Keller: Elsa Opel
Fritz Weaver: Prof. Biesenthal
William Devane: Peter Janeway
Richard Bright: Karl
Marc Lawrence: Erhard
Allen Joseph: Padre di Babe
Ben Dova: Klaus Szell
Jacques Marin: LeClerc
James Wing Woo:Chen
Nicole Deslauriers: Nicole
Lotte Palfi Andor: Sopravvissuta ebrea
Tito Goya: Melendez

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Giancarlo Giannini: Thomas Levy
Glauco Mauri: dott. Christian Szell
Luigi Vannucchi: Henry Levy
Solvy Stubing: Elsa Opel
Massimo Foschi: professor Biesenthal
Stefano Satta Flores: Peter Janeway

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Regia John Schlesinger
Soggetto William Goldman
Sceneggiatura William Goldman
Produttore Robert Evans, Sidney Beckerman
Fotografia Conrad L. Hall
Montaggio Jim Clark
Effetti speciali Richard E. Johnson, Charles Spurgeon
Musiche Jules Massenet, Charles Mougeot, Franz Schubert, Michael Small
Scenografia Richard Macdonald
Costumi Robert M. Moore, Bernie Pollack
Trucco Ben Nye

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L’opinione del sito maurcrispi.blogspot.com

“E’ sicuro?”
Questo l’incipit del dialogo paradossale tra un Laurence Olivier, dagli azzurri occhi di ghiaccio, nei panni del criminale nazista Szell (conosciuto – tra le sue vittime dei lager – come l'”Angelo bianco”) e Dustin Hoffmann nel ruolo di Babe, il giovane studente di storia, ebreo di origine e figlio di H.V. Levy, intellettuale vittima del maccarthismo.
A queste parole segue una scena formidabile, rifratta in due parti, in cui il criminale-nazista mette opera le sue arti di dentista per estorcere una confessione alla sua vittima. Già, perchè è un medico odontoiatra…
Una scena che nulla ha perso, malgrado i quasi quarant’anni trascorsi dall’anno di uscita del film.
Mi riferisco a “Il maratoneta”, il magistrale film di John Schlesinger, da alcuni considerato un “capolavoro assoluto” della cinematografia.
Un film che mi è piaciuto per diverse ragioni, sia quando l’ho visto una prima volta alla sua uscita, in modo un po’ istintivo, sia quando ho avuto modo di rivederlo proprrio di recente in DVD.
Le ragioni per cui mi è piaciuto e per cui mi piace tuttora?”(…)
L’opinione di Lord Holy dal sito http://www.filmtv.it

Tratto dal romanzo omonimo di William Goldman, il quale ne adatta qui anche la sceneggiatura, lascia il segno soprattutto in virtù di un buon numero di sequenze da antologia e dell’efficacia nell’immedesimazione dei due attori principali. Dustin Hoffman incarna sostanzialmente l’uomo qualunque, che suo malgrado si ritrova coinvolto in un intrigo più grande di lui, condotto a sua insaputa da persone vicine che mai aveva imparato a conoscere davvero. Laurence Olivier è invece la manifestazione di uno spettro del passato, il riflesso di una disumanità la cui esistenza è bene non dimenticare, perché purtroppo ogni tanto torna a tormentare altre vittime riproponendosi per mezzo di nuovi intermediari. Fra le scene che più rimangono impresse, citerei la tensione da cardiopalmo del rapimento, l’efferata perversione della tortura e la trepidazione dell’inseguimento. Roy Scheider ha inoltre dalla sua un paio almeno di ottimi contributi, nei momenti di fratellanza, nel sospetto del pedinamento, nell’attentato e nell’incontro a tre per mangiare insieme. Mi trovo quindi d’accordo con quanto scriveva il critico Roger Ebert a conclusione della sua recensione: «If holes in plots bother you, “Marathon Man” will be maddening. But as well-crafted escapist entertainment, as a diabolical thriller, the movie works with relentless skill».
L’opinione del sito http://www.storiadeifilm.it

Che film Il Maratoneta! Bello, intenso e al contempo scarno ed essenziale come solo i grandi classici del cinema sanno essere. Parliamo di anni 70’ e di thriller vecchio stampo, gli archetipi del cinema d’azione attuale. In molti tratti Il Maratoneta può sembrare eccessivamente complicato; una mole d’azione e dialoghi tale che sembra di seguire passo passo le pagine di un libro più che vedere un film. E’ importante saperlo, Il Maratoneta è stato tratto dal libro omonimo di William Goldman e ne ricalca più o meno tutta la sceneggiatura, salvo piccole differenze nel finale. Semplici coincidenze? Non si sa. Va segnalato però il grande lavoro svolto da Schlesinger per snellire una sceneggiatura tanto intricata.
Quanto alle prove attoriali; c’è un grande Dustin Hoffman, l’Hoffman brillante degli anni 70’, quello in stato di grazia che parafrasando Luca Carboni, non ne sbagliava davvero uno. Prove eccellenti anche da parte dei co-protagonisti, in primis il gerarca nazista Szell, interpretato da un bravo Laurence Olivier poi Marthe Keller nella parte della giovane Elsa. Il montaggio è molto buono e fluido nonostante la complessità della trama. Buone anche le riprese, mai noiose.
L’opinione di jellyBelly dal sito http://www.filmscoop.it

Il paradigma del thriller: tensione altissima, situazione intricata ed un cattivo veramente cattivo. Ne “Il maratoneta” c’è tutto, con l’aggiunta di un eccellente coppia di protagonisti in cui, per una volta, Hoffman è surclassato dal suo comprimario, uno straordinario Laurence Olivier in un ruolo del tutto atipico per lui. Epperò il suo Dr. Szell è indimenticabile, uno dei malvagi più malvagi ed epici della storia del cinema, che raggiunge il suo apice nella famosissima scena della tortura sulla sedia da dentista.
Strana carriera quella di Schlesinger, capace di girare due film come questo e Midnight Cowboy e poi di navigare in acque mediocri, senza riuscire ad imprimere la propria impronta nella new Hollywood come molti altri suoi colleghi.
Curioso, poi, come in questo film Dustin Hoffman non venga doppiato da Ferruccio Amendola ma da Giancarlo Giannini che scimmiotta Ferruccio Amendola, in una delle sue prove al doppiaggio meno convincenti.

Opinioni tratte dal sito http://www.davinotti.com

Fauno

E buona grazia! Con tre colossi quali Hoffman, Olivier e Scheider e due talenti quali Devane e la Keller, con un soggetto già in partenza devastante ne poteva scaturire solo un gran film… Se poi si interconnettono thriller, azione, spionaggio e ognuno di questi generi spara tante creazioni e tutte a forte impatto emotivo (torture naziste, doppi giochi, attentati, bracciali strani, complicità inattese, fughe ispirate a Bikila, servizi segreti che fanno i lavori più sporchi) ecco che la ricchezza visiva si moltiplica e il top viene raggiunto in un attimo.

Caesars

Una delle armi vincenti del film è quella di mettere lo spettatore praticamente nella stessa posizione del protagonista della vicenda: anche noi come lui non riusciremo per molto tempo ad avere le idee chiare su cosa stia succedendo e perchè e chi siano esattamente tutti i personaggi che compaiono. A questo ovviamente si devono aggiungere l’ottima interpretazione di Dustin Hoffman e Lawrence Olivier ed una trama non banale. Uno di quei prodotti che reggono bene il tempo. Da vedere.

Daniela

Thriller discreto, anche se non all’altezza delle migliori opere del regista e dagli sviluppi non del tutto convincenti. Eccellente il cast, con bravi attori (a parte l’anonima Keller) che fanno corona a due campioni dello schermo di diverse generazioni e stili recitativi. A ritagliarsi uno spazio permanente nella memoria dello spettatore non è la vicenda in se stessa, né i personaggi, ma la sequenza agghiacciante della tortura. Chi, seduto su quella sedia a bocca aperta, non ha mai immaginato Oliver dietro il volto del proprio dentista?

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agosto 22, 2015 Posted by | Drammatico | , , , | 4 commenti

Al lupo al lupo

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Storia di tre fratelli alla ricerca della propria identità e delle proprie radici,due uomini e una donna che legatissimi da piccoli hanno finito poi per seguire le proprie vite trascurando in qualche modo il legame fortissimo,simbiotico che esisteva fra di loro.
Sarà la ricerca del padre,apparentemente scomparso senza spiegazioni,a unire di nuovo i tre ricreando la magica atmosfera,ricomponendo come un puzzle l’antico affetto che li legava.
In sintesi è questa la trama di Al lupo al lupo,film del 1992 diretto e interpretato da Carlo Verdone,un’opera sorprendentemente matura e intimista,l’undicesima diretta dall’attore e regista romano che arriva nello stesso anno in cui Verdone dirige Maledetto il giorno che ti ho incontrato e prima di Perdiamoci di vista,quindi un’opera assolutamente a se stante sia come tematiche sia come registro.

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La storia parte mostrandoci Vanni Sagonà,apprezzato pianista alle prese con un concerto durante il quale per la prima volta è assente suo padre,Mario,conosciuto e apprezzatissimo scultore e poeta.
Deluso e un po preoccupato dalla sua assenza,Vanni si reca a casa di suo padre scoprendo che non c’è e trovando solo la copia delle chiavi delle loro residenze di campagna e di mare.
Convinto che Mario Sagonà sia partito per una delle due case,Vanni contatta sua sorella Livia per farsi accompagnare,non possedendo la patente.
Livia è sposata,ma ha una relazione clandestina con Paolo e sta meditando di lasciare il marito;per questo non sembra propensa ad accettare l’invito di Vanni ma alla fine più per evitare di dover partire con suo marito che spinta dalla preoccupazione per l’assenza del padre che attribuisce al carattere bizzarro dello stesso,accetta di mettersi in viaggio con il fratello.

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Vanni e Livia si dirigono quindi verso la residenza di campagna,dove scoprono che il terzo fratello,Gregorio,ex musicista e violinista e attualmente Dj,ha organizzato una rumorosa festa con amici e conoscenti.Tra Vanni e Gregorio scoppia una lite sedata a fatica da Livia e il gruppo si separa;mentre i due fratelli vanno a ritirare un premio assegnato al padre,Livia sembra dirigersi verso la casa al mare,ufficialmente per cercarlo,in realtà per incontrare il suo amante.
Alla fine i tre convergono verso la casa,dove i rancori tra i due fratelli emergono prepotentemente quando a loro si unisce un gruppo di vecchi amici passati per caso in barca.
Vengono fuori l’invidia di Gregorio per il fratello,da sempre musicista di valore e il sottile disprezzo di Vanni per Gregorio,che accusa di essere la pecora nera della famiglia.
Lo scontro tra i due però avrà uno sviluppo imprevedibile.
Vanni e Livia assisteranno ad una serata in cui Gregorio mostra il suo talento di DJ;sarà in quell’occasione che Vanni abbandonerà per un po i panni del fighetto inappuntabile e si lascerà andare,complice anche una compressa di anfetamina che lo porterà a sciogliersi e ad abbandonarsi.
I tre fratelli, ora riavvicinati e finalmente complici,possono rimettersi alla ricerca del padre….
In bilico tra la commedia sentimentale con venature (e velature) comiche ma malinconiche,Carlo Verdone sceglie un ibrido agro dolce,costruendo il film come un viaggio di tre persone alla ricerca di se stessi.
Tre persone profondamente diverse,dai percorsi di vita assolutamente differenti,eppure uniti da un legame antico oltre che dal legame fortissimo del sangue.

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Un padre dalla schiacciante personalità fa da deus ex machina invisibile eppure presente con la forza magnetica che da sempre esercita sulla famiglia.
Per contraltare,i tre figli sembrano volersi svincolare da quell’abbraccio soffocante;Vanni è quello che più di tutti ha rispettato il ruolo scritto per lui,seguendo le orme paterne e diventando come lui un personaggio famoso della cultura.
E’ un giovane dalle buone maniere,sempre educato e vestito impeccabilmente;non si concede mai colpi di testa e sembra rispettare in pieno il suo ruolo anche nella società.
Gregorio è l’esatto opposto di suo fratello.
Ha scelto di fare il Dj,vive come un bohemienne senza regole precise,è abituato a immergersi nel caos e ha fatto della sua vita una fucina di incontri,musica,vivendo disordinatamente e al di fuori delle regole scritte da suo padre.
Livia è una donna tormentata,in crisi matrimoniale e legata ad un altro uomo;come scoprirà in seguito,ama suo marito e sua figlia,eppure sente il bisogno di trasgredire,come quel suo ingombrante padre che pur amando la moglie la tradiva con un’altra donna.
Dei tre in fondo Livia è quella più vicina al carattere e all’indole di suo padre.
Pur non essendo presente fisicamente,se non nel finale,Mario Sagonà opprime i tre però al tempo stesso li costringe ad un affannoso viaggio che in teoria ha lo scopo di trovarlo ma che in realtà sembra essere stato provocato proprio per mettere in discussione la vita dei giovani.
Il viaggio alla ricerca del padre diverrà infatti l’occasione per ritrovare se stessi e ritrovare l’antico affetto che da piccoli li univa indissolubilmente.
Ogni singola tappa del viaggio infatti porterà Vanni,Gregorio e Livia davanti al loro passato, sull’onda di ricordi mai assopiti, ma vivi e presenti nel loro essere.
L’antico affetto riemergerà di volta in volta,man mano che i ricordi comuni affioreranno durante la convivenza forzata.
Così Vanni scoprirà di invidiare un po il suo scapestrato fratello Gregorio,che vive si una vita disordinata,ma che ha il coraggio di sfuggire al perbenismo, a quelle leggi non scritte ma inviolabili che sembrano guidare le loro vite e scritte per loro non solo dal padre,ma dalla società in cui sono costretti a vivere,dal ruolo che rivestono e sopratutto dal portare l’ingombrante cognome Sagonà.
Gregorio confesserà a suo fratello l’invidia per il suo talento e le ombre che li hanno divisi;i due si ritroveranno nella memorabile sequenza ambientata in discoteca,quando Gregorio procurerà a suo fratello una donna,imbarazzante desiderio di Vanni, evidentemente troppo preso dal suo ruolo per coltivare e gestire i rapporti umani.

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Anche per Livia arriverà il momento della resa dei conti.
Durante il viaggio scoprirà di amare ancora suo marito e di desiderare solamente il ritorno ad una vita coniugale per certi versi frustrante ma i cui vantaggi sono di gran lunga superiori agli svantaggi.
Al lupo al lupo è un bel film,con qualche errore ma con tanti pregi.
Sicuramente la parte meno interessante e slegata dal film è la lunga sequenza della discoteca,tirata per le lunghe e che avrebbe richiesto tempo girato in meno,ma d’altro canto Verdone cerca di mostrare l’elemento in cui si muove il suo alter ego Gregorio,la sua vita dietro la consolle e le sue serate da DJ.
Parlo di alter ego perchè fondamentalmente il personaggio di Gregorio assomiglia molto a Verdone;da quello che racconta nei suoi libri o quando mostra la figura del padre,che sia nel film o nella vita reale,Verdone sembra richiamare il suo passato,il suo vissuto.
Bene gli attori, dallo stesso Verdone, una volta tanto misurato e attento alla bella e seducente Francesca Neri per finire con la prova matura di Sergio Rubini.
Come dicevo agli inizi,il film ha una connotazione malinconica e nostalgica che Carlo Verdone propone con senso della misura e sentita partecipazione;non sono un’estimatore del regista romano e tanto meno quando recita.Ma questa è un’opera di tutto rilievo,anche se poco apprezzata da parte del pubblico e della solita critica.
Bene il resto del cast,che però agisce sullo sfondo dei tre protagonisti,che finiscono per diventare il perno sul quale ruota tutto.Una segnalazione per Maria Mercader,che interpreta il ruolo della raffinata ed elegante amante di Mario Sagonà.
Ultimamente il film è stato riproposto più volte in tv e vista la consuetudine delle reti commerciali a riproporlo, suggerisco la sua visione caldamente agli spettatori amanti del buon cinema.

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Al lupo al lupo

Un film di Carlo Verdone. Con Carlo Verdone, Sergio Rubini, Francesca Neri, Maria Mercader, Simona Mariani,Giovanni Vettorazzo, Giampiero Bianchi, Barry Morse, Loris Paiusco, Gianpiero Bianchi, Cecilia Luci, Alberto Marozzi, Gillian McCutcheon, Marco Marciani Commedia, durata 114 min. – Italia 1992

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Carlo Verdone: Gregorio Sagonà
Francesca Neri: Livia Sagonà
Sergio Rubini: Vanni Sagonà
Barry Morse: Mario Sagonà
Giampiero Bianchi: Paolo
Cecilia Luci: Vanessa
Alberto Marozzi: Ivano
Fabio Corradi: Gregorio Sagonà da piccolo
Maria Mercader: signora anziana
Giulia Verdone: Livia Sagonà da piccola
Massimo De Lorenzo: Corrado Santoro

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Regia Carlo Verdone
Soggetto Filippo Ascione, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone
Sceneggiatura Filippo Ascione, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone
Produttore Mario Cecchi Gori, Vittorio Cecchi Gori
Distribuzione (Italia) Penta Film (1992)
Fotografia Danilo Desideri
Montaggio Antonio Siciliano
Musiche Manuel De Sica
Scenografia Francesco Bronzi

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L’opinione di Elias dal sito http://www.mymovies.it

Questa storia ripercorre lo stesso tipo di tematica già evidenziata col film “Io e mia sorella” con l’aggiunta di qualche opportuna variante. Anche in questo film il regista ci descrive il riavvicinamento di fratelli (per la precisione di due fratelli e una sorella), che il tempo li aveva divisi,in seguito ad un particolare episodio: l’improvviso allontanamento del padre verso una meta a loro sconosciuta. Il film riesce a mettere in evidenza le singole storie di ognuno di essi con le relative problematiche: Vanni è un affermato pianista, tanto preciso nel suo lavoro quanto insicuro e “fragile” nel suo carattere e in alcune componenti psicologiche della sua personalità; Greg. è una persona che non è riuscita a costruirsi delle solide basi per un suo futuro e pertanto è costretto ad arrangiarsi vivendo alla giornata con un’occupazione saltuaria come DJ di party privati e come compositore di canzoni senza pretese; infine Livia che sta attraversando un burrascoso rapporto matrimoniale e conducendo una relazione clandestina dagli esiti incerti. Ciò che ci ha colpito di questo film è stata l’abilità di Verdone nel non ergersi come protagonista principale ed assoluto della trama, ma di bilanciare perfettamente le storie dei tre personaggi dando ad ognuno di essi il giusto peso e la dovuta importanza. A nostro avviso mentre, in linea generale, dovrebbero essere i genitori ad aiutare i figli venendo incontro alle loro esigenze, in questo caso Verdone ci fa capire che in alcuni momenti della vita potrebbe accadere il contrario, vale a dire che questi tre fratelli, sebbene divisi dal destino, alla fine uniranno le loro forze e la loro volontà per ritrovare il padre “perso”.
L’opinione di Cherubino dal sito http://www.filmtv.it

Forse i veri cinefili non saranno d’accordo, ma io penso di averlo visto nelle condizioni ideali e cioè non sapendone nulla, neppure della trama; e non avendo visto film dello stesso regista da parecchio tempo (almeno una decina d’anni).
Esprimo dunque un parere “ignorante”, cui credo ogni film abbia diritto, specie se lo si veda per la prima volta dopo ben ventitrè anni dal suo esordio sugli schermi; e non mi sento condizionato neppure dalle primissime opere, comiche, di Verdone o dal ricordo, per me parziale e sfuocato, della sua crescita successiva come regista e come attore.
Ebbene, debbo dire che sono stati 108 minuti “belli” e che sono proprio stato soddisfatto, sia per la vicenda narrata, dall’inizio alla fine, sia per il ritmo lento della narrazione, sia per la verosimiglianza del procedere dei personaggi verso il non scontato lieto fine.
Riguardo agli interpreti, tutti e tre i principali (i fratelli) li ho trovati veramente bravi: Carlo Verdone, Francesca Neri e Sergio Rubini perfetti per i loro ruoli. Barry Morse, che non conoscevo, proprio adeguato per impersonare il padre artista nel poetico finale in cui ritrae i figli ritrovati così come sono da sempre nella sua mente.
E poi, il piacere di rivedere dopo moltissimi anni, in un’apparizione fugace, Maria Mercader, ancora un bel volto; e nostalgia.
Opinioni tratte dal sito http://www.davinotti.com

Luchi78

Il miglior film di Verdone: divertente e malinconico, riflessivo e spensierato. Una bella storia diretta magistralmente, dove ognuno dei tre fratelli Sagonà segue il proprio percorso lungo tutta la durata del film. Molto divertenti le situazioni imbarazzanti che si capovolgono in comicità pura, ma soprattutto in contrasto con quella sottile angoscia che pervade tutto il film per la costante ricerca del padre. Verdone prova a riprendere il tema nel suo ultimo Io, loro e Lara, ma i risultati saranno sensibilmente inferiori.

Tomastich

All’opposto di ogni facile battuta, all’opposto del film ad episodi, all’opposto del Verdone più conosciuto, c’è questo “Al lupo al lupo”. Un road movie (che poi riprenderà in Il mio miglior nemico) che si snoda lungo mezza Italia, alla ricerca di un padre svanito nel nulla. Protagonisti sono i tre fratelli, Verdone, Neri e Rubini. Anche qui come nel film del 2006, a svelare l’arcano sarà una poesia. Finale sopra le righe.
Jandileida

Un malinconico Carlo che esagera un po’ nel calcare la mano e tende alla lacrima facile ma che riesce comunque a girare un film sincero e molto buono nella descrizione dei caratteri dei tre fratelli, paradigmatici forse, ma comunque centrati e “reali”. La Neri pre-revisione AGIP era uno splendore quasi rinascimentale ed anche una più che discreta attrice. E poi Verdone aveva (e, a volte, ha ancora) tempi comici perfetti e trova qui in Rubini una buona spalla, cosicché la pellicola risulta piacevolissima anche se qua e là il ritmo cala vistosamente.
Motorship

Uno dei più profondi e introspettivi film di Carlo Verdone. Una pellicola ben realizzata che sa inteligentemente alternare momenti malinconici con altri più comici e spensierati. La ricerca del padre “desaparecido”, i ricordi della madre scomparsa e dell’infanzia dei tre protagonisti sono trattati con una delicatezza e una tenerezza non proprio comuni, delicatezza che sfocia in un finale commovente e superlativo nella realizzazione. Ottima prova dei tre protagonsisti (Verdone, Rubini e la Neri), eccellenti le musiche di Manuel De Sica.

Stelio

Un film poetico dall’inizio alla fine, con un accompagnamento musicale magistrale e interpreti straordinari. Sergio Rubini svetta nella recitazione rispetto agli altri, Francesca Neri il fanalino di coda. Tanta malinconia e tanto mondo passato intervallati da momenti di modernità che non stonano e non fanno perdere il contatto con la realtà. Compagni di scuola è forse il film più complicato mai girato da Verdone (insieme a Ma che colpa abbiamo noi), ma il tempo spero rivaluterà Al lupo al lupo come il migliore.
L’opinione del sito http://www.agoravox.it

Un film on the road, fotografato in maniera eccelsa da Danilo Desideri che immortala le spiagge della Maremma (Capalbio, Punta Ala), le colline senesi (Bagno Vignoni e la vasca termale) e la città di Siena in tutta la loro sfolgorante bellezza. Un film di caratteri, ben scritto e sceneggiato da due decani della commedia all’italiana come Benvenuti e De Bernardi, aiutati da Filippo Ascione, ma anche dai ricordi d’infanzia di Carlo Verdone. La forza della storia è lo scontro dei caratteri tra fratelli, interpretati magnificamente da Rubini, Verdone e Neri.
Rubini è il genio di famiglia, il ricco e affermato pianista che è sempre stato la gioia del padre. Verdone è la pecora nera, il disc-jockey in perenne bolletta, privo di senso pratico, arruffone, ma simpatico. Neri è la donna in crisi che vorrebbe lasciare un marito che non sopporta, ha un amante, ma non sa decidere perché non vuole perdere la figlia. Il contrasto più forte è tra il preciso e concreto Rubini e lo strampalato e folle Verdone, gelosi l’uno dell’altro, che alla fine scopriranno di volersi bene e di potersi dare qualcosa l’uno con l’altro. Verdone procura una donna a Rubini, imbranato per quanto geniale, e lo fa divertire nella sua discoteca, ma al tempo stesso deve riconoscere che il fratello è davvero un grande pianista.
I tre caratteri contrastanti danno vita a una commedia garbata quando insieme partono alla ricerca del padre avendo come traccia soltanto una poesia. Lo ritrovano, dopo aver ascoltato il consiglio della vecchia amante (Mercader), in una baita di montagna dove si è ritirato in attesa della morte. “C’è stato un tempo in cui ho creduto di essere immortale, ma adesso so che non è vero”, dice il vecchio genitore. Il film si conclude – in maniera molto poetica – con il padre che fa il ritratto dei propri figli ma li disegna come quando erano bambini.

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agosto 21, 2015 Posted by | Commedia | , , , , | 2 commenti

Lo chiamavano Trinità

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Anche lui puzzava come te quando arrivò qui; ci vollero tre pezzi di sapone per vedere il colore della pelle; quindi giovanotto se vuoi che ti stringa la mano devi farti un bagno, non vorrei prendermi il tetano.
La frase di Jonathan pronunciata all’indirizzo di Trinità,il bizzarro e irriverente protagonista del film Lo chiamavano Trinità in qualche modo simboleggia la natura stessa del film, una rivoluzione copernicana del genere western,da sempre disseminato di violenza,sparatorie,pieno di uomini duri e spietati, come del resto era spietata la vita della frontiera americana.

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Il film di Enzo Barboni esce nelle sale nel 1970 ottenendo un successo assolutamente inatteso e diventando rapidamente il capostipite di un sottogenere del western,il western comico,quella nicchia scavata da Barboni stesso che mette in qualche modo alla berlina il linguaggio rozzo,le situazioni tagliate con l’accetta che erano state fino all’arrivo di Trinità una delle caratteristiche peculiari del genere stesso.
Il western abbandona quindi gli stereotipi delle sparatorie violente,delle morti seminate nei film come grandine a favore di un’atmosfera ridanciana e comica,in cui si spara ma quasi casualmente,in cui una buona scazzottata alla fine si rivela più efficace di un colpo di Colt o Winchester
Pugni e sberleffi,situazioni surreali e battute fulminanti quindi sostituiscono i duelli all’ultimo sangue,in un modo talmente radicale da trasformare il vecchio West da terra di uomini violenti e senza pietà in un sobborgo di un paesino qualsiasi,in cui emergono le figure del prepotente e del vendicatore,dello smargiasso e del ras del quartiere a sostituire i personaggi tradizionali del Western.
E’ come se il West all’improvviso diventasse un quartiere;le desolate e sconfinate praterie sembrano un campetto di periferia, ci sono i cavalli e non le auto,ma l’atmosfera resta quasi intatta.Il Saloon diventa un nostro bar,più rissoso,sicuramente,ma quasi casereccio,rassicurante.
I morti quasi scompaiono,volano sganassoni e ceffoni,pugni e tavoli,le Colt si usano solo in caso di necessità assoluta.
Boot hill accoglie solo i morti per cause naturali e la dimensione violenta del West si ridimensiona fino a diventare il ring sul quale si ergono protagonisti assoluti Trinità e Bambino,personaggi dalle mille sfaccettature che impongono alla legge delle pallottole uno stop improvviso,trasformando il selvaggio West e modificandone stile e comportamenti.
Terence Hill e Bud Spencer,i due simpatici e scanzonati protagonisti del film diventano una coppia irresistibile, tanto che da quel momento il duo finirà per girare molte altre pellicole tutte accolte con gran favore dal pubblico e con sorrisi di sufficienza dalla critica,sempre sospettosa nei confronti dei film di cassetta.
In fondo però basterebbe pensare alla sana comicità, alle due ore di divertimento puro a cui si assiste seguendo le vicende di Bambino & Trinità; la violenza diventa quasi un gioco, i ceffoni e i pugni sembrano un po come le risse che scatenavamo da bambini e alla fine tutto si risolve con un occhio nero e con qualche livido.

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La trama in breve:
Trinità è un personaggio stravagante che gira il West in modo indolente;si fa trainare dal suo cavallo sdraiato su un travois e con il cappello che copre buona parte del volto.
Un aspetto quasi dimesso che in realtà nasconde un personaggio sveglio e intelligente,furbo e opportunista.
Lo dimostra liberando un messicano dalle mani di due bounty killer prima di avviarsi e alla fine giungere in uno squallido paese in cui suo fratello Bambino,il suo esatto opposto in tutti i sensi incluso quello fisico,dopo un passato da delinquente è ora sull’altro lato della barricata.
E’ divenuto infatti sceriffo.Uno sceriffo assolutamente particolare,che usa le mani come strumento di convincimento.
I due,dopo un’iniziale scontro verbale,faranno causa comune per difendere una carovana di mormoni dall’interesse del maggiore Harriman;Trinità finirà per invaghirsi di una mormone per poi scoprire che la vita pacifica non fa per lui e riprendere il vagabondaggio per il West alla ricerca di nuove avventure.
La trama non ha praticamente nessuna importanza sia in questo film che nei successivi proposti e incentrati sulla figura di Trinità;lui non è un vendicatore,non è uomo da rimanere fermo in un posto,non è un difensore dei diritti.
E’ solo un vagabondo allo stato puro,che però all’occasione sa trasformarsi in un implacabile difensore dei più deboli.

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Lo fa con furbizia e intelligenza,sfruttando agilità e destrezza per mettere alla berlina il cattivo di turno.
Il suo alter ego,Bambino, è invece un ragazzone dal cuore tenero mimetizzato dall’aspetto imponente e minaccioso e da uno sguardo burbero sotto il quale però si intuisce battere un cuore d’oro.
Ama e al tempo stesso è divertito da quel suo fratello scapestrato e impudente,anche se nasconde questi sentimenti ben sapendo delle doti di opportunismo che Trinità,la mano sinistra del diavolo nasconde.
I due però,in coppia, sono letali quanto un battaglione di soldati.
Usano le mani come magli,sono in grado di venir fuori illesi dalla peggiore rissa e sopratutto sono assolutamente scevri dalla violenza.
Se usano la pistola è soltanto per disarmare o scoraggiare l’avversario, la loro vera arma sono i pugni,sconfiggono l’avversario con l’ironia e lo sberleffo.
E’ questa la vera grande innovazione portata dalla coppia Trinità-Bambino.
Si possono vendicare i torti o difendere i deboli a suon di ceffoni;epiche le risse o le situazioni comiche che si susseguono nel film,splendide le battute pronunciate dalla coppia come quella pronunciata da Bambino all’indirizzo di Trinità: “Ma non hai uno scopo nella vita? Fai qualcosa… ruba del bestiame… assalta una diligenza… rimettiti a giocare, magari… una volta eri un ottimo baro! Ma fa qualcosa” oppure “Ma perché non ti dai alla vita onesta? Torna a New Orleans dalla mamma… portale un paio di ragazze e mettiti in affari con lei!” uno strano concetto di onestà che dimostra in maniera lampante come i due provengano comunque dal mondo dell’illegalità e che da questo mondo hanno imparato l’arte di arrangiarsi e di sopravvivere.
Assolutamente irresistibile è una delle scene finali,nella quale Trinità sembra disposto a lasciare la vita vagabonda per accasarsi con la bella mormone di cui si è invaghito.

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Questo discorso: “Riprendi nel tuo gregge questa pecorella smarrita, che trasformerà le sue armi in strumenti di pace e lavoro. In Tua gloria, sarà circonciso per rispettare la tua legge. Dagli la forza di creare un tempio nel quale cantare i Tuoi inni. Lavorerà fino a rompersi la schiena, dissoderà i campi, seminerà e raccoglierà il frutto del suo lavoro, taglierà boschi, costruirà case, e alleverà bestiame. Quando al calar della notte tornerà a casa distrutto dalla fatica, giulivo e felice verrà nel Tuo tempio a cantare la Tua gloria. Grazie per avere ripreso il nostro nuovo fratello nel Tuo gregge. Rendilo meritevole della Tua pietà …e illumina la sua esistenza con la luce del Tuo spirito. Amen.” finirà per portare il giovane vagabondo a scappare a gambe levate dalla carovana mormone, ben consapevole che la libertà di gui gode non può essere assolutamente imbrigliata da una vita che non gli appartiene.
Lo chiamavano Trinità è un film importante.
Perchè lascia a casa violenza e pistole e propone divertimento allo stato puro
I due protagonisti,Terence Hill e Bud Spencer formano una coppia assolutamente irresistibile,inseriti come sono in un contesto violento e di illegalità diffusa.
Le loro gesta affascinano tutti,senza distinzione di età;le botte,i ceffoni,le risse scatenano ilarità con soluzioni estemporanee,come i pugni in testa che Bambino ammanisce ai cattivi.
Barboni crea quindi una coppia di personaggi indimenticabili, proponendo finalmente due ore si sano e robusto divertimento.
Belle le musiche,sopratutto il tema centrale ripreso ai giorni nostri da Mario Biondi
Da vedere assolutamente.

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Lo chiamavano Trinità

Un film di E.B. Clucher. Con Steffen Zacharias, Bud Spencer, Terence Hill, Gisela Hahn, Farley Granger, Ugo Sasso, Gaetano Imbrò, Riccardo Pizzuti, Fortunato Arena, Ezio Marano, Michele Cimarosa, Dominic Barto, Elena Pedemonte, Luciano Rossi, Dan Sturkie, Remo Capitani, Paolo Magalotti, Vito Gagliardi, Antonio Monselesan, Franco Marletta, Luigi Bonos, Thomas Rudy Western, durata 117 min. – Italia 1970.

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Lo chiamavano trinità banner PROTAGONISTI

Bud Spencer: Bambino
Terence Hill: Trinità
Farley Granger: maggiore Harriman
Remo Capitani: Mezcal
Dan Sturkie: Tobia
Ezio Marano: Faina
Luciano Rossi: Timido
Steffen Zacharias: Jonathan Swift
Gisela Hahn: Sarah
Elena Pedemonte: Giuditta
Ugo Sasso: sceriffo zoppo
Michele Cimarosa: messicano
Riccardo Pizzuti: Jeff
Dominic Barto: Mortimer
Tony Norton: bounty killer
Gigi Bonos: oste della locanda all’inizio del film
Osiride Pevarello: Gioele
Giancarlo Bastianoni: uomo del maggiore
Roberto Dell’Acqua: mormone
Alberto Dell’Acqua: mormone
Jess Hill: bambino

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Glauco Onorato: Bambino
Pino Locchi: Trinità
Sergio Graziani: maggiore Harriman
Vinicio Sofia: Mezcal
Arturo Dominici: Tobia
Gianni Marzocchi: Faina
Gianfranco Bellini: Timido
Ferruccio Amendola: Jonathan Swift, uomo del maggiore
Serena Verdirosi: Sarah
Liliana Sorrentino: Giuditta
Michele Gammino: Oste della locanda all’inizio del film, Jeff, uomo del Maggiore
Mario Lombardini: sceriffo zoppo, Uomo del maggiore
Luciano De Ambrosis: pistolero biondo all’inizio del film
Manlio De Angelis: pistolero coi baffi all’inizio del film
Daniele Tedeschi: pistolero, Sicario
Romano Ghini: uomo del maggiore, Pistolero

Lo chiamavano trinità banner cast

Regia E.B. Clucher
Soggetto E.B. Clucher
Sceneggiatura E.B. Clucher
Produttore Italo Zingarelli
Casa di produzione West Film
Fotografia Aldo Giordani
Montaggio Giampiero Giunti
Effetti speciali Sergio Chiusi, Stefano Seno
Musiche Franco Micalizzi, Lally Scott
Scenografia Enzo Bulgarelli
Costumi Luciano Sagoni

Lo chiamavano trinità banner citazioni

I fagioli comunque erano uno schifo!! (Trinità)
Trinità… la mano destra del Diavolo. (Cacciatori di taglie)
La mia esposa stava al fiume señor, a lavare… un gringo l’aggredì e la voleva… e ho corso in suo aiuto… avevo il coltello… quello mi guarda con gli occhi spalancati e muore… nel cadere avrà battuto la testa… io gli ho dato solo qualche coltellata… (Messicano)
Ragazzi, ho l’impressione che dovremmo eleggere un nuovo sceriffo! (Il Maggiore)
È dallo straripamento del Pecos che non vedevo tanto sudiciume!
Nessuno è meno sopportabile di un ipocrita…
Su, degno fratello, ti accompagno a casa così potrai finalmente farci vedere la tua faccia.
O lasciate questa valle o ne farò la vostra tomba, la scelta è vostra.
Sceriffo, che ne facciamo dei prigionieri? O li impicchiamo o li buttiamo fuori… Ma io non posso mica stare a lavorare per loro!
Lavorare per essere pagati è umiliante. Meglio rubare: c’è più emozione! (Mescal) [ al Maggiore]
Ricordatevi: non dovete mai fidarvi di nessuno, nemmeno degli amici. (Faina) [ insegnando ai Mormoni]
Non potevo lasciarlo in paese, ha il vizio di dire la verità… è un tipico alcolizzato.
… in California! (Trinità al cavallo)
Ma tu che ci fai attaccato a quella stella?

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Lo chiamavano trinità banner RECENSIONI
L’opinione di Lord Holy dal sito http://www.filmtv.it

Tanti sono i primati e i motivi per i quali è giusto ricordare e promuovere questo classico, reso tale dal tempo e dal fuoco mai spento di una nutrita schiera di fedeli appassionati. Nato come tentativo di sperimentare una formula, poi rivelatasi di successo, per ridare respiro a un genere forse ritenuto al tramonto, in realtà finisce per creare qualcosa di profondamente nuovo e diverso. Il punto di partenza è ovviamente il western, ma filtrato secondo un approccio “italiano” e in maniera deliziosa contaminato dai toni comici e irriverenti di una commedia ironica o propri di una parodia.
Gustose sono le atmosfere, ricreate nei minimi dettagli dall’ambientazione e dalla colonna sonora, uno spasso sono le battute di dialogo, con alcune perle e colpi di genio, da morire dal ridere. Sembrerà un paradosso, però è evidente come si ricorra all’offesa pur non risultando mai volgari, come si ricorra alla violenza pur non dimostrandosi mai violenti. Infatti, solo un semplice e sano divertimento è l’obiettivo ricercato, con l’essenziale cuore pulsante determinato dall’affiatamento, dalla spontanea e inimitabile intesa creatasi fra Terence Hill e Bud Spencer. A mio modesto parere rappresenta il miglior esempio, assieme al suo seguito …continuavano a chiamarlo Trinità (1971), del loro fortunato abbinamento, successivamente tanto prolifico di titoli al cinema. Anche se lo si conosce ormai a memoria, puntuali non si perde l’occasione di rivederlo quando possibile. Vero?

L’opinione di NotoriusNiki dal sito http://www.filmscoop.it

Colizzi li accoppia ma è Barboni a valorizzarli, le scazzòttate saranno anche marchio di Colizzi, i piatti di fagioli un cliché nato nel precedente film di Barboni (Ciakmull), tuttavia il genio sta nel permeare la pellicola di un tono comedy, infatti Girotti con Colizzi ancora non era doppiato dal brillante Pino Locchi, recuperava il retaggio eastwoodiano del cavaliere solitario, Pedersoli relegato ancora ad una mera spalla, con Colizzi la coppia era male assortita, necessario dunque un cambio di impostazione, ed ecco giungere Barboni che con spirito parodistico ne riscrive i personaggi a mo’ di avventura picaresca che ricorda una certa ironia e spavalderia de ‘Butch Cassidy and the Sundance Kid’ girato mezzo lustro prima.
Immancabile un altro grande caratterista,Riccardo Pizzuti, che si prodigava a fare da carne da macello in tutte le comparsate della coppia, si ricicla con classe anche Farley Grangrer, uno dei tanti passati nel tritacarne di Hitchcock, le donzelle, altro cliché del personaggio di Hill, celebre la ballata di Annibale, ricorda le illustri di Frankie Laine che dispensava nei western classici a dare quel tocco di epicità. Nulla da aggiungere, ha generato un sottogenere.

Opinioni dal sito http://www.davinotti.com

Capannelle

È un film icona che ha inaugurato un filone. Peccato che questo filone fosse poi destinato a scadere nel ridicolo per colpa di tutte le copie che verranno girate senza la base originale. Il trio Spencer-Hill-Barboni gira infatti a meraviglia e costruisce diverse scene e dialoghi tra i due fratellini (Trinità e Bambino) memorabili. Notevole sia questo episodio che il degno sequel.

Magnetti

Un film perfetto a cominciare dalla elevata qualità realizzativa. Una accoppiata di attori ineguagliabile che avremmo voluto veder recitare sempre insieme per sentirci a “casa”. Supera le barriere del tempo: dopo 40 anni e gli innumerevoli passaggi televisivi una occhiata (e spesso di più) gliela si dà sempre. E’ spiritoso e fracassone, senza sbracare, e con riuscite atmosfere western accompagnate dall’imperituro tema musicale fischiettato. Veramente belle e scelte con cura le location. La sua visione ci riempie gli occhi e lo spirito con un cinema genuino come nessun altro film sa essere.

Lovejoy

Quando lo spaghetti western ormai era giunto al capolinea, Enzo Barboni ebbe un’idea a dir poco geniale: contaminare l’ormai morente genere western con la commedia e quello che ne venne fuori fu un successo clamoroso, che dura ancora oggi. Merito di un copione di ferro, di battute e gag leggendarie e di una coppia d’attori da quel momento entrata per sempre nel cuore degli italiani, ovvero gli irresistibili, leggendari Bud Spencer e Terence Hill. Non un capolavoro, ma avercene di film così. Con un seguito altrettanto riuscito.

Disorder

Un’incredibile bomba comica, quasi insuperabile (almeno per quanto riguarda la cinematografia italiana). Negli intenti non doveva nemmeno essere una commedia, solo un western ironico stile Il Buono il Brutto il Cattivo (lo si capisce dai vari morti ammazzati all’inizio), ma il risultato è un autentico capolavoro della risata: memorabile quasi ogni battuta, ogni mossa o espressione dei protagonisti, per non parlare della colonna sonora.

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agosto 20, 2015 Posted by | Western | , , , , | 4 commenti

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agosto 15, 2015 Posted by | Photogallery | , | Lascia un commento

La figlia di Ryan

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Il ponte sul fiume Kwai,Lawrence d’Arabia e Il Dottor Zivago;un trittico divenuto ormai leggendario diretto dal grande David Lean,regista inglese dalla produzione non fertile (solo 19 film diretti) ma dalle indubbie capacità e dalle grandi doti narrative.
E’ proprio Lean nel 1970 a dirigere La figlia di Ryan, affresco sentimental/drammatico che si snoda attraverso 175 minuti di cinema a tratti di gran classe, a tratti leggermente prolisso,come del resto nello stile del regista britannico.
Un film che ha il suo punto di forza nella stupenda location,l’Irlanda, terra tenebrosa e selvaggia,assoltata e brumosa,vero caleidoscopio di colori e suoni, di mare e boschi.
Grazie alla fotografia di Freddie Young che aveva collaborato con Lean a Lawrence d’Arabia e a Il dottor Zivago,lo stesso Lean realizza un film dal largo respiro,una storia incentrata su una figura femminile e su deu maschili;la prima è quella di Rosy Ryan,le altre due sono quelle del professor Charles Shaughnessy e del maggiore Randolph Doryan, protagonisti del tradizionale triangolo amoroso che sfocerà in tragedia e che segnerà le vite dei protagonisti in modo irreversibile.

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La storia verte sulle vicende di Rosy Ryan,giovane e insoddisfatta figlia di Thomas,il proprietario dell’unico ritrovo di Kirrary,piccolo e squallido borgo della penisola di Dingle,in Irlanda,affascinante zona situata nel Kerry, contea sud-occidentale della Repubblica d’Irlanda.
Rosy è giovane,ha voglia di vivere e mal sopporta l’atmosfera opprimente e culturalmente arretrata di Kirrary.
Sogna un futuro lontano dal suo paese,ma è costretta dalle circostanze a tarpare le ali dei suoi sogni e accettare la placida e per certi versi noiosissima realtà del posto in cui vive.
L’unica novità è rappresentata dall’arrivo del maestro Charles Shaughnessy;presa dalla noia Rosy accetta la corte discreta del timido Charles e alla fine accetta di sposarlo.
Ma per Rosy si tratta di un’esperienza negativa;in fondo non è innamorata di lui e questo rende la situazione ancora più pesante.
Ma il temporale irrompe nella vita della donna sotto forma di un atletico ufficiale inglese,il maggiore Randolph Doryan,che sconvolge i sentimenti e i sensi di Rosy.

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La relazione tra i due non passa certo inosservata.
E’ Michael, un uomo con deficit mentali a raccontare uno degli incontri dei due amanti e ben presto la relazione è sulla bocca di tutto il piccolo paese.
Rosy è a tutti gli effetti un’adultera;poco importa che ami profondamente Randolph e che per la prima volta senta di essere una donna realizzata.
Ad aggravare le cose c’è la palese simpatia verso la Germania opposta nella prima guerra mondiale (epoca in cui si svolgono i fatti) ai tanto odiati inglesi.
Dopo alcune vicende Rosy sarà accusata di aver tradito i patrioti anti inglesi,percossa e umiliata pubblicamente.
Dovrà perciò andar via dal paese anche perchè nel frattempo…
La figlia di Ryan è un film dal fascino discreto.

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Unico neo è rappresentato dalle lunghe pause che Lean concede al racconto,compensate però dalle riprese suggestive dello splendido paesaggio irlandese.
Lean indugia tantissimo su alcuni aspetti della storia d’amore tra i tre protagonisti del racconto;a conti fatti però nessuno dei tre suscita particolari sentimenti di identificazione.Così come gli altri personaggi della storia,come il minorato Michael,padre Collins,Thomas Ryan non brillano per simpatia.
Il racconto si snoda quindi attraverso le vicende sentimentali di Rosy,Charles e Randolph sullo sfondo marginale almeno agli inizi della guerra mondiale.
Sarà nella parte centrale del film prima,nel finale dopo che esploderanno le contraddizioni,le ripicche le meschinità e verrà alla luce in maniera manifesta l’atmosfera di ipocrisia e morale piccola piccola di quasi tutti i protagonisti del film.
Bella la descrizione dell’ambiente.
Lean indugia proprio sul contrasto fra l’assolato paesaggio irlandese e la penombra della morale corrente.
Atmosfera tipica da paese isolato:pettegolezzi,invidie,ripicche e il pub all’ombra del quale si conuma la vita noiosa e pigra dei maschi del villaggio.
Un’atmosfera dolciastra,appiccicosa.

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Ottima la scelta del cast, con attori perfettamente calati nelle parti.
Bravissima Sarah Miles,una delle indimenticabili interpreti di Il servo (The Servant) del 1963 per la regia di Joseph Losey;la figura irrequieta di Rosy è resa magistralmente dall’attrice inglese.

La figlia di Ryan

Un film di David Lean. Con Robert Mitchum, John Mills, Trevor Howard, Sarah Miles, Christopher Jones,Leo McKern, Barry Foster, Marie Kean, Arthur O’Sullivan, Evin Crowley, Douglas Sheldon, Gerald Sim, Barry Jackson, Des Keogh, Niall Toibin Titolo originale Ryan’s Daughter. Drammatico, durata 176 min. – Gran Bretagna 1970.

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Sarah Miles: Rosy Ryan
Robert Mitchum: Charles Shaughnessy
Trevor Howard: padre Collins
Christopher Jones: maggiore Randolph Doryan
John Mills: Michael
Leo McKern: Thomas Ryan
Barry Foster: Tim O’Leary
Marie Kean: signora McCardle
Evin Crowley: Moureen
Arthur O’Sullivan: signor McCardle
Philip O’Flynn: Paddy
Gerald Sim: capitano

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Maria Pia Di Meo: Rosy Ryan
Giuseppe Rinaldi: Charles Shaughnessy
Bruno Persa: padre Collins
Cesare Barbetti: maggiore Randolph Doryan
Stefano Sibaldi: Thomas Ryan
Ferruccio Amendola: Tim O’Leary

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Regia David Lean
Sceneggiatura Robert Bolt
Produttore Anthony Havelock-Allan
Casa di produzione Metro-Goldwyn-Mayer
Fotografia Freddie Young
Montaggio Norman Savage
Effetti speciali Robert MacDonald
Musiche Maurice Jarre
Scenografia Stephen Grimes (production designer), Roy Walker (art director)
Costumi Jocelyn Rickards
Trucco Charles E. Parker

La figlia di Ryan banner recensioni

L’opinione di Lehava dal sito http://www.filmtv.it

“Non può essere tutto qui!”
Le parole vengono fuori veloci, accorate. E Rosy non sa se urlarle a squarciagola, come una liberazione, o sussurrarle, come una confessione di un peccato inconfessabile che Dio e gli uomini, in quella terra tragica e meravigliosa, in quel cielo sconosciuto e lontano, non le perdoneranno. “Sì. E’ tutto qui, che ci dovrebbe mai essere?” La risposta di padre Collins è dura, quasi arrabbiata e sottintende altro, un moto di stizza e di rimprovero. E’ allora che Rosy non trattiene le lacrime: “Ma che ne so? Io non lo so proprio, cosa possa esserci d’altro, ma qualcosa dev’esserci pure!” ora i singhiozzi non si fermano più, e che potrà mai fare padre Collins? Pak. Un schiaffo, ecco, le ci vuole uno schiaffo, pak, e Rosy cade in terra ed ingoia le sue paure, i suoi desideri, le sue fantasie e le angoscie. Ecco, ora, sulla spiaggia, è tornato il silenzio dal vociare umano. Restano gli uccelli, ed il fragore delle onde che si fa quasi rombo, ed il vento che soffia incessante e pare che fischi. Laggiù in quell’angolo sperduto di universo, dove la natura si fa passione, travolgente ed incontrollabile. “Non è bene, non è bene! Non far niente è un’attività molto pericolosa” questo era il rimbrotto del prete ad una svagata Rosy che, di tutto punto vestita, continua ad aggirarsi per le colline il cui verde è smorzato, qua e là, dai ciuffi porpora dell’erica e dalle fucsie spinose in fiore. Ma quelle lunghe solitarie passeggiate, che terminano sempre sulla spiaggia assolata, sono la sola consolazione di un cuore in fermento: non che sia un essere dotato di grande cultura! ma pur sempre troppo superiore per poter trovare conforto nell’amicizia di qualche miserabile giovane del villaggio. E’ graziosa ed educata Rosy. (…)
Dal sito http://www.davinotti.com

Daniela

Irlanda 1916. In un villaggio sulla costa, la figlia del locandiere, sposata ad un maestro, lo tradisce con un ufficiale inglese, attirandosi il disprezzo dei compaesani. Melodramma sentimentale di lunghezza eccessiva, con un trio di protagonisti non molto convincente: Mitchum fuori ruolo nella parte dell’uomo mite e comprensivo, Miles corretta ma un pò imbambolata, Jones anonimo. Risultano indimenticabili invece alcune figure di contorno (il prete Howard, il matto Mills) e soprattutto gli splendidi paesaggi, fotografati magistralmente.

Giuan

Specialista in kolossal autoriali, Lean rischiò di finir la sua carriera con quest’opera le cui “colpe” son così scoperte da lasciar fin troppo spago al destro critico. In effetti dal film (come da Mitchum) ci si aspetta che esploda potente e furibondo da un minuto all’altro; speranza castrata da reticenze storico-politiche, miscasting (soprattutto Jones) e magniloquenze inevitabili. Eppure spettacolo e tensione sono innegabili, come memorabili restan il Don Camillo irlandese di Howard, il controverso traditore McKern, l’ambigua inquietudine di Sarah Miles

Pigro

Avrà creduto di essere lirico o epico, e invece gli interminabili scorci dei paesaggi (bellissimi) o le lunghe sequenze diluiscono il nerbo della storia (lei tradisce lui con un militare: ma quest’ultimo è inglese e siamo in un villaggio di irredentisti irlandesi) rendendo estenuanti le oltre 3 ore di visione. La narrazione troppo basata su attesa e sospensione non si addice al melodrammatico Lean, che – non pago – ci aggiunge una musica inopinata di fanfare e accenti pseudo-felliniani. Un’ora di meno (minimo), e il film sarebbe decollato.

Galbo

Durante la prima guerra mondiale, in un villaggio irlandese, giovane Rosy, moglie del maestro locale, s’innamora di un ufficiale inglese. Penultimo film di David Lean, è un’opera di ambientazione rurale che si segnala per la fotografia di grande respiro degli splendidi paesaggi irlandesi. Dal punto di vista narrativo, l’attenzione è focalizzata sulla controversa figura della protagonista, a disagio negli angusti confini di un piccolo paese. Limite del film è l’eccessivo ricorso ai toni melodrammatici. Buona la prova del cast.

L’opinione di Lospaccone dal sito http://www.filmscoop.it

Se ne “Il dottor Zivago” non aveva inciso più di tanto la scelta di dare maggior peso alla parte melodrammatica del film, lo stesso non si può dire per “La figlia di Ryan”. Infatti, la scelta di abbandonare quasi totalmente l’analisi del contesto storico impoverisce il racconto e i suoi protagonisti, rende il film prolisso, o, nelle poche volte in cui è presente, non aggiunge nulla al racconto se non qualche sequenza paesaggisticamente suggestiva.
Alla luce di questo le quasi 3 ore di durata si fanno sentire maggiormente rispetto agli altri colossal di Lean; tuttavia in numerose scene eccessivamente dilatate giunge in soccorso una fotografia strepitosa che lascia senza fiato e che rende il film più digeribile di quello che sarebbe in realtà. Anche qui al centro della vicenda c’è un tradimento e i personaggi che lo consumano assomigliano molto a Yurij e Lara. Gli attori offrono una buona prova, solo Robert Mitchum mi lascia qualche dubbio (scegliere un “freddo” per la parte di un “freddo” forse è troppo)
Tirando le somme, è un film poco più che sufficiente che la fotografia e l’inconfondibile stile registico di Lean rendono discreto; queste, però, non riescono a stemperare del tutto quella sensazione di “occasione mancata” che si ha alla fine della visione.

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agosto 10, 2015 Posted by | Drammatico | , , , , | 2 commenti

La cruna dell’ago

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L’ago è il soprannome di Henry Faber,uno spietato agente segreto al soldo dei nazisti che deve il suo nomignolo all’abitudine di uccidere le sue malcapitate vittime con uno stiletto.L’uomo carpisce un segreto fondamentale custodito gelosamente dagli alleati;gli aerei che gli stessi hanno posizionato in una zona dell’Inghilterra sembra debbano decollare per Calais,presumibilmente la zona dove si concentrerà l’attacco degli alleati volto a liberare la Francia.Ago” Faber però scopre che la flotta aerea non è reale,ma realizzata in compensato;ovviamente quindi l’attacco verso Calais è solo un diversivo.Henry Faber deve assolutamente raggiungere un U Boat tedesco che lo attende in un angolo sperduto della Scozia;qui potrà consegnare il suo rapporto ai nazisti,confermando così il falso obiettivo alleato.

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Inseguito dal controspionaggio inglese,Faber prende un treno per la Scozia.Raggiunto il borgo di Banff,l’uomo noleggia una barca e prende il largo nel tentativo di contattare il sommergibile ma viene sorpreso da una fortissima tempesta;semi svenuto Faber naufraga sull’isola di Storm Island,un posto remoto e scarsamente abitato.Qui viene soccorso da una coppia con un bambino;Lucy e David Rose,i coniugi che abitano l’isola con il loro figlioletto sono in profonda crisi.David,pilota della Raf vive confinato su una sedia a rotelle accudito senza molto affetto da Rose,che non solo è trascurata dal marito ma è da questi maltrattata.L’uomo,pieno di rabbia e di amarezza per il suo stato,sfoga su sua moglie le frustrazioni che il suo handicap gli procura;a Rose appare quindi naturale innamorarsi di quel seducente sconosciuto che la corteggia.Mentre gli uomini del controspionaggio inglese continuano a cercarlo inutilmente,Faber cerca un modo per poter contattare il comando tedesco ma nel frattempo non disdegna le attenzioni di Rose.

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Un giorno però David scopre la reale identità di Faber;scoperta fatale,perchè la spia lo uccide facendolo cadere da una rupe.Per Rose ha ora inizio un gioco mortale,nel corso del quale dovrà lottare duramente per sopravvivere…

Tratto dal best seller Eye of the needle conosciuto anche come Storm Island,La cruna dell’ago, è il primo romanzo firmato da Ken Follett con il suo nome e segue quattro romanzi in cui lo scrittore britannico aveva usato degli pseudonimi.

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La riduzione cinematografica è affidata al regista di Cardiff Richard Marquand,scomparso prematuramente a soli 49 anni per un ictus.Marquand,che diverrà famoso per aver diretto La terza e ultima parte della saga di Guerre stellari Il ritorno dello Jedi porta sullo schermo una versione sobria e asciutta,in linea con lo stile del romanzo del quale riprende l’ossatura rispettandone la trama senza modificarne la struttura.

Grazie alla scorrevolezza della trama del romanzo e alla sua solida costruzione,Marquand non deve fare altro che applicare la location giusta e trovare interpreti posati e carismatici.Il regista assolve ai suoi compiti in modo preciso;le location inglesi e scozzesi sono ben scelte e accuratamente aderenti a quelle originali del romano mentre Donald Sutherland e Kate Nelligan appaiono a loro agio nei ruoli rispettivamente di “Ago” e di Lucy.

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Il film non ha pause,mantiene alta la tensione nel miglior spirito delle spy story;i colpi di scena sono sapientemente miscelati e alla fine il risultato è davvero egregio.Siamo di fronte alla miglior riduzione di un romanzo di Follett,alla pari della serie tv I pilastri della terra,che è di gran lunga il romanzo più affascinante di Follett,scrittore fecondo e dal fascino indiscutibile.Bene tutto il resto,montaggio fotografia e colonna sonora.Un film pregevole del quale è consigliata la visione.

La cruna dell’ago

Un film di Richard Marquand. Con Donald Sutherland, Stephen MacKenna, Philip Martin Brown, Kate Nelligan, Christopher Cazenove, George Belbin, Faith Brook, Barbara Graley, George Lee, Arthur Lovegrove, Colin Rix, Barbara Ewing, Chris Jenkinson, William Merrow, Patrick Connor Titolo originale Eye of the Needle. Avventura, durata 112 min. – Gran Bretagna 1981.

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Donald Sutherland: Henry Faber

Kate Nelligan: Lucy Rose

Christopher Cazenove: David Rose

Philip Martin Brown: Billy Parkin

Ian Bannen: Godliman

Patrick Connor: Ispettore Harris

Rupert Frazer: Muller

Alex McCrindle: Tom

George Lee: Constable

Faith Brook: Lucy

Colin Rix: Oliphant

Arthur Lovegrove: Peterson

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Michele Kalamera: Henry Faber

Lorenza Biella: Lucy Rose

Saverio Moriones: David Rose

Massimo Rossi: Billy Parkin

Sergio Di Stefano: Oliphant

Bruno Alessandro: Peterson

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Regia Richard Marquand

Soggetto Ken Follett

Sceneggiatura Stanley Mann

Produttore Stephen J. Friedman per Kings Road Production

Distribuzione (Italia) United Artists (1982)

Fotografia Alan Hume

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L’opinione di Will Kane dal sito http://www.filmtv.it

Si dice che la materia narrativa de “La cruna dell’ago”, bestseller spionistico-bellico di Ken Follett fosse cosa non semplice da ridurre per il cinema, ma a Richard Marquand, cineasta canadese esordiente riuscì così bene da fare un film venduto parecchio sui mercati internazionali, e tratteggiando in modo così sfaccettato il cattivo agente nazista “Ago” ( reso splendidamente da un Sutherland glaciale) da spingere George Lucas a scegliere proprio Marquand per “Il ritorno dello jedi” , in cui la figura diabolica di Darth Vader doveva mettere in evidenza le proprie contraddizioni e residui d’umanità. Ambientato su un’isola britannica semideserta, conosciuta come Storm Island, il film è una storia d’amore frammista ad un intrigo che vede coinvolti appunto la superspia tedesca che uccide con una praticità impressionante, e i servizi segreti inglesi che vogliono celare ad Hitler particolari sull’imminente sbarco sulle coste europee, che poi avverrà in Normandia. Il film ha un passo non velocissimo, ma la cura con cui sceneggiatura e regia delineano i caratteri piuttosto complessi dei personaggi rendono “La cruna dell’ago” un thriller cui è possibile affezionarsi, e svariati sono i fans di questo film che non risparmia la crudeltà con cui il protagonista si sbarazza di chi è d’intralcio ai suoi piani ( la scena in cui getta dalla scogliera il marito paraplegico della donna di cui s’innamorerà è tremenda) e l’impossibilità di adoperare la medesima spietatezza verso appunto la coprotagonista, una Kate Nelligan di notevole partecipazione.

L’opinione di Anthony F.dal sito http://www.filmscoop.it

Altra grande interpretazione di D. Sutherland, quella della spia tedesca H. Faber, nel film “La Cruna dell’Ago”, tratto da un romanzo omonimo di ken Follett, ben diretto da R. Marquand.Ripeto: grande performance, buona sceneggiatura, quantunque un po’ lenta; discreto l’intreccio, non del tutto riuscito; buona la colonna sonora; eccellente il montaggio; meno riuscito il sonoro. Gradevole in tutta la sua durata, direi un ottimo film di puro intrattenimento, tra guerra e spionaggio, stto lo sfondo della Seconda Guerra Mondiale.Magistrale Sutherland.

Opinioni tratte dal sito www.davinotti.com

Galbo

Da una delle migliori opere di Ken Follett decisamente una buona trasposizione cinematografica (di certo la più intrigante tra quelle tratte dai libri dell’autore inglese). Richard Marquand rispettoso della pagina scritta realizza un thriller teso e avvincente, segnato dalla buona caratterizzazione ambientale (l’Inghilterra durante la seconda guerra mondiale) e dall’ottima interpretazione (una delle migliori in carriera) di Donald Sutherland.

Pigro

Spia tedesca in Inghilterra, in attesa d’imbarco su un’isola scozzese per riferire al Führer, ha una relazione con la moglie di un paralitico. Una spy-story che digrada verso il sentimentale e verso il thriller, in un continuo ribaltamento di prospettiva (le vicende spionistiche, il dramma famigliare, la lotta per la sopravvivenza), riuscendo a fondere i registri e i piani in una narrazione compatta e incalzante. Bella la location isolana; bravo Sutherland. Anche senza uno smalto folgorante, il film si fa vedere e apprezzare con piacere.

Daniela

1944, vigilia dello sbarco in Normandia, incrocio fatale fra una coppia malsposata che ha trovato rifugio in una sperduta isoletta scozzese ed una spia tedesca, spietata e ben decisa a portare a termine la sua importante missione. La migliore trasposizione da un romanzo di Follett, grazie ad un attore duttile come Sutherland che – nonostante un certo appiattimento della trama – riesce a conservare al suo personaggio un’ambiguità che lo rende interessante: freddo assassino ma anche uomo capace di amore e di rimpianto.

Caesars

Un buon esempio di spy-movie sostenuto da un grande Donald Sutherland, freddo e spietato. La storia è interessante e tiene col fiato sospeso fino alla fine grazie anche alla sapiente regia di Richard Marquand. Non un film imperdibile ma un intrattenimento intelligente e ben realizzato. Di questi tempi non è poco.

Hackett

Da un bellissimo romanzo di Follett il regista trae un film solido, freddo e ben strutturato. Fedele al libro ha però il difetto di dare poco spessore al personaggio di Sutherland, privo della complessità che una spia del suo calibro possedeva. Nel film sembra volersi dare più spazio all’amore fedifrago tra lui e la giovane donna, lasciando colpevolmente nello sfondo il personaggio del marito di lei. Certo, un film non deve necessariamente essere trasposizione letterale, ma alcuni personaggi a volte sono fondamentali.

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Era stato l’inverno più freddo degli ultimi quarant’anni. I villaggi nella campagna inglese erano isolati dalla neve, e il Tamigi era gelato. Un giorno di gennaio il treno da Glasgow per Londra arrivò a Euston con ventiquattro ore di ritardo. La neve e l’oscuramento contribuivano a rendere pericolosi i viaggi in auto: gli incidenti stradali erano raddoppiati, e la gente raccontava barzellette su come era più rischioso guidare una Austin Sette per Piccadilly di notte che attraversare con un carro armato la linea Sigfrido.
Poi, venne la primavera, e fu splendida. I palloni di sbarramento galleggiavano maestosi nell’azzurro splendente del cielo, e i soldati in permesso amoreggiavano per le vie di Londra con ragazze in abiti sbracciati.

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agosto 1, 2015 Posted by | Drammatico | , , , , | 1 commento