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Il padrino

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Quando i dirigenti della Paramount, la grande casa di produzione cinematografica americana fondata da Zukor acquisirono i diritti del romanzo di Mario Puzo Il padrino  non immaginavano certo che avrebbero incontrato tante difficoltà per ridurre il romanzo stesso prima in una sceneggiatura e poi in un film sul quale aveva deciso di scommettere con molta audacia.
La genesi di una delle opere cinematografiche più famose della storia, che ebbe anche due sequel e che si trasformò contemporaneamente in una delle saghe più belle della storia del cinema e in un’operazione commerciale di straordinario successo, è quanto di più complesso si possa immaginare.
Robert Evans, il capo indiscusso della Paramount chiamò alcuni registi famosi offrendo loro di dirigere il film con un budget notevole, segno che la casa di produzione credeva fermamente nel progetto.

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Marlon Brando

Inaspettatamente registi del calibro di Sergio Leone, Elia Kazan, Arthur Penn e Costa Gavras declinarono gentilmente l’invito; il genere mafia movie era ancora considerato poco appetibile e fondamentalmente dequalificante per un regista di fama, così l’incredulo Evans dopo aver scartato il grande Peckinpah, che voleva libertà d’azione ma che aveva anche problemi gravi a livello psicologico (abusava di farmaci e whisky) puntò su Francis Ford Coppola, un regista praticamente sconosciuto che aveva alle spalle solo 4 film peraltro diretti in un arco temporale di 8 anni.
La scelta dell’attore protagonista si rivelò ancora più difficile; Coppola ovviamente voleva fare a modo suo mentre i vertici della Paramount avevano idee differenti.

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Alla fine la spuntò Coppola, che dovette scontrarsi con collaboratori e dirigenti; in effetti la scelta di Marlon Brando era molto rischiosa in quanto il grande attore di Omaha non aveva certo l’età per interpretare il patriarca della famiglia Corleone, Don Vito.
Alcune sedute di trucco e dell’ovatta infilata nella bocca trasformarono Brando nella maschera divenuta poi celebre.
Altrettanto laboriosa fu la scelta del resto del cast; per il ruolo di Michael, figlio di Don Vito, si scatenò una vera guerra tra il regista e la produzione.
Ma Coppola, per sua e nostra fortuna difese a spada tratta le sue scelte e chiamò  l’illustre sconosciuto Al Pacino per ricoprire il ruolo delicatissimo di Michael.

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L’attore di New York aveva all’attivo solo un paio di partecipazioni, la seconda delle quali era stata quella in Panico a Needle Park; Coppola testardamente andò avanti e completò il cast con Robert Duvall,James Caan, Diane Keaton e con gli altri attori che grazie al successo di Il padrino ebbero una visibilità internazionale senza precedenti.
Come sappiamo, il film fu un successo assolutamente straordinario, tanto che il film vinse tre Oscar su 11 nomination (Miglior film, Miglior attore protagonista per Marlon Brando, Migliore sceneggiatura non originale per Francis Ford Coppola e Mario Puzo), si aggiudicò 4 Golden Globe e in Italia due David di Donatello.
Tutto il mondo applaudì un film tecnicamente perfetto splendidamente recitato e appasionante come pochi.
Avvenimento più unico che raro, Il padrino fu salutato da larga parte della critica come uno dei film più importanti della storia del cinema, cosa poi amplificata negli anni successivi dalla costruzione di un mito che vede il film di Coppola come una delle opere imprescindibili della cinematografia di tutti i tempi.

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Ma quali sono i meriti effettivi del film di Coppola, perchè ha avuto tanta fama e perchè ha affascinato generazioni di spettatori?
In primis il merito fondamentale va a Coppola, capace di ricavare dal romanzo di Puzo un affresco vivo e affascinante sull’America degli anni 40 (con incursioni nel passato e quindi all’origine del fenomeno della criminalità organizzata), realizzato tramite una storia senza cedimenti e senza pause.
Un film che dura 175 minuti, un’eternità cinematograficamente parlando ma che passano in un lampo, tante e tali sono le situazioni e le storie intimamente collegate che fanno del Padrino il classico film che tiene incollati alla poltrona.
Poi la grandissima resa del cast, che Coppola fortissimamente volle e che rispose con caratterizzazioni rimaste nella storia del cinema, a partire da quella di Marlon Brando che diventò un autentico mito grazie alla maschera di uomo duro, di criminale ma con tanto di codice d’onore.
La mafia uccide, la mafia significa traffici illeciti e tutto il peggio che ciò comporta, ma Don Vito Corleone appare quasi un eroe nella sua capacità di rifuggire quando può dall’uso della violenza. Crede nell’amicizia, nella famiglia e gestisce i suoi affari senza crudeltà inutili.
E’ un malvivente, ma di quelli che riescono anche a suscitare simpatia.

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Simonetta Stefanelli

E Brando trasforma il suo personaggio in qualcosa di vivo e pulsante, un personaggio negativo che però ha dei valori che la sua famiglia in qualche modo rispetta e venera.
Accanto a lui si muovono gli altri protagonisti della saga, ovvero il cinico Michael, dapprima riluttante e poi braccio destro fedele del padre e suo vendicatore nonchè suo sostituto alla guida della famiglia.
Al Pacino diventa anch’esso un simbolo e da quel momento diverrà uno degli attori più stimati di Hollywood, tanto da essere in seguito definito uno degli attori più importanti della storia stessa del cinema.
A differenza di Brando, Pacino avrà modo di rinverdire la sua fama anche grazie ai due successivi sequel che porteranno a compimento la saga della famiglia Corleone.

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Un altro protagonista importantissimo, anche se in un ruolo leggeremente defilato è Robert Duvall, quel Tom Hagen che è il braccio nell’ombra del Padrino, il figlio adottato che venera Don Vito e che in seguito mostrerà tutto l’affetto per la famiglia Corleone diventando il braccio destro di Michael.
Ancora, c’è James Caan, il figlio prediletto del boss, irruento e così differente dal padre e da Michael e che finirà ucciso coinvolgendo proprio Michael in una guerra che non avrebbe voluto. Bravissimo, Caan, nel mostrare forza e testardaggine; è violento e testone, ribelle ma anche profondamente legato a quel padre che non condivide la sua maniera di gestire gli affari ma che lo adora senza riserve.

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Diane Keaton

La famiglia Corleone è composta anche da Connie Corleone, interpretata splendidamente da Talia Shire (Tania Rose Coppola, sorella del regista), la donna che per prima si sposa con l’uomo che tradirà la famiglia e che morirà per ordine di Michael, da Fredo che è il vero punto debole della famiglia.
Fredo è un giovane con qualche problema, timido e privo della forza di carattere che è a caratteristica del padre e dei suoi fratelli; John Cazale, che interpreta Fredo riserva al suo personaggio quell’aria spaurita che sarà la caratteristica peculiare nel secondo film della saga, quando troverà la morte per ordine del fratello Michael.
La famiglia Corleone è questa, ma attorno ad essa ruotano altri personaggi che in un modo o nell’altro finiranno per condividerne le sorti; c’è Kay Adams, compagna di studi di Michael che lo sposerà e gli darà un figlio, interpretata da una bellissima Diane Keaton, c’è Apollonia, prima moglie di Michael, da quesi sposata in Sicilia e morta in un attentato esplosivo.

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Apollonia è interpretata dalla bella Simonetta Stefanelli, che resta in scena poco tempo ma che dette vita al personaggio forse più rimpianto dagli spettatori, la giovane e ingenua ragazza siciliana che sposa il suo amore e che finisce per morire in maniera assurda e tragica.
Ci sono ancora tanti personaggi che costellano la storia, ma occorrerebbe uno spazio enorme per descriverli tutti.
Perchè la caratteristica del Padrino è proprio quella di mostrare uno spaccato di vite che ruotano attorno alla famiglia Corleone; dal boss rivale Sollozzo (il trafficante) a Tattaglia, un altro boss rivale passando per Clemenza (amico di Don Vito) e per Carlo Rizzi (il marito di Connie).
Personaggi che si muovono sullo sfondo di una New York malavitosa e violenta, nella quale anche la polizia ha i suoi problemi, tra mele marce come il capitano ucciso da Michael e le tangenti che vengono pagate agli agenti per chiudere un occhio.
Se vogliamo, un altro dei pregi del film è proprio la capacità descrittiva di un ambiente in cui convivono tante realtà in modo precario e in equilibrio instabile; c’è la lotta tra bande, ci sono omicidi per il controllo del territorio e degli affari più loschi mentre si affaccia prepotente il bussines dei bussines, l’affare del secolo ovvero il traffico e lo spaccio della droga.

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James Caan

In un mosaico così organico come può mancare una colonna sonora adeguata?
Il motivo portante del film, opera del maestro Nino Rota, è avvolgente e sinuoso e finisce per diventare immediatamente riconoscibile, un autentico marchio di fabbrica che finirà per diventare anch’esso un best sellers.
A ben guardare Il padrino è il più italiano dei film di Hollywood e non solo perchè parla di mafia e di una famiglia italiana.
Coppola è italo americano, essendo figlio di una famiglia di origini lucane, Mario Puzo lo è anche lui perchè la sua famiglia è di origini campane, così come italianissimo è il maestro Nino Rota; di origini italiane è Al Pacino, italo americano è Lombardi che è direttore degli effetti speciali.
Il plot del film è conosciutissimo per cui è perfettamente inutile riassumere una trama che ormai tutti conoscono nei minimi dettagli.
Val la pena invece ricordare che Coppola in fase di sceneggiatura con l’ovvia consulenza di Puzo decise di sveltire la trama del film eliminando alcune cose presenti nel romanzo, come il piano ideato da Don Vito per far rientrare suo figlio Michael dall’esilio siciliano in seguito all’omicidio del Capitano di polizia, la parte dedicata al tormentato matrimonio tra Kay e Michael con la breve separazione tra i due coniugi, il personaggio di Jules, nuovo compagno di Connie e altre parti descrittive giudicate cinematograficamente poco proponibili.

Il Padrino, come dicevo agli inizi, è un affresco grandioso e affascinante; Coppola, dopo il grande successo del film si vide immediatamente proporre un sequel e due anni dopo lo realizzò, centrando un altro successo di portata planetaria.
Il padrino – Parte II (The Godfather: Part II), realizzato nel 1974 non solo si rivelò un successo ma superò come riconoscimenti il film precedente, vincendo 6 Oscar su 11 nomination. Coppola bissò l’Oscar alla regia centrando un record che sarà uguagliato solo da Il signore degli anelli, vincere cioè due Oscar consecutivi con il film pilota e poi con il sequel.

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A 16 anni di distanza, nel 1990 venne girata la parte finale della saga, Il padrino – Parte III (The Godfather: Part III) : il film ebbe successo, ma inaspettatamente venne bocciato alla notte degli Oscar, dove su 7 nomination non portò via nemmeno un premio. La giuria scelse come film dell’anno Balla coi lupi, che fece incetta di premi proprio a spese del capitolo conclusivo della saga del Padrino.
Oggi il primo film di Coppola sulla famiglia Corleone è considerato, dall’American Film Institute come il terzo film statunitense più importante della storia, dietro Casablanca e  Quarto potere.

Il padrino
Un film di Francis Ford Coppola. Con Marlon Brando, James Caan, Al Pacino, Robert Duvall, Diane Keaton,
Richard Castellano, Sterling Hayden, John Marley, Richard Conte, Al Lettieri, Abe Vigoda, Talia Shire, Gianni Russo, John Cazale, Julie Gregg, Tony Giorgio, Salvatore Corsetto, Rudy Bond, Cardell Sheridan, Vito Scotti, Angelo Infanti, Alex Rocco, Franco Citti, Richard Bright, Corrado Gaipa, Victor Rendina, Saro Urzì, Simonetta Stefanelli, Jeannie Linero, John Martino, Tere Livrano, Al Martino, Salvatore Corsitto, Ardell Sheridan, Lenny Montana, Morgana King
Titolo originale The Godfather. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 175 min. – USA 1972.

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Marlon Brando: Don Vito Corleone
Al Pacino: Michael Corleone
James Caan: Santino Corleone
Robert Duvall: Tom Hagen
Diane Keaton: Kay Adams
Talia Shire: Constanzia Corleone
John Cazale: Fredo Corleone
Richard Castellano: Peter Clemenza
Abe Vigoda: Salvatore Tessio
Sterling Hayden: Mark McCluskey
Al Lettieri: Virgil Sollozzo
Gianni Russo: Carlo Rizzi
Corrado Gaipa: Don Tommasino
Al Martino: Johnny Fontane
John Marley: Jack Woltz
John Martino: Paulie Gatto
Lenny Montana: Luca Brasi
Richard Conte: Emilio Barrese (Barzini)
Alex Rocco: Moe Greene
Salvatore Corsitto: Amerigo Bonasera
Julie Gregg: Sandra Corleone
Simonetta Stefanelli: Apollonia Vitelli
Saro Urzì: Sig. Vitelli
Angelo Infanti: Fabrizio il Pastore
Franco Citti: Calò

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Regia     Francis Ford Coppola
Soggetto     Mario Puzo (romanzo)
Sceneggiatura     Mario Puzo, Francis Ford Coppola
Produttore     Albert S. Ruddy
Casa di produzione     Paramount Pictures
Fotografia     Gordon Willis
Montaggio     William Reynolds
Peter Zinner
Effetti speciali     Paul J. Lombardi
Musiche     Nino Rota
Scenografia     Dean Tavoularis
Costumi     Anna Hill Johnstone

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Giuseppe Rinaldi: Don Vito Corleone
Ferruccio Amendola: Michael Corleone
Pino Colizzi: Santino Corleone
Cesare Barbetti: Tom Hagen
Mario Laurentini: Peter Clemenza
Elio Zamuto: Salvatore Tessio
Riccardo Cucciolla: Fredo Corleone
Vittoria Febbi: Kay Adams
Rita Savagnone: Connie Corleone
Gino Donato: Mark McCluskey
Arturo Dominici: Virgil Sollozzo
Michele Gammino: Carlo Rizzi
Sergio Graziani: Jack Woltz
Gigi Reder: Paulie Gatto
Guido Celano: Luca Brasi
Arturo Dominici: Amerigo Bonasera
Donatella Gambini: Apolonnia Vitelli

 

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Incipit del romanzo di Puzo

Amerigo Bonasera sedeva nella III Sezione Penale della Corte di New York in attesa di giustizia; voleva vendicarsi di chi aveva tanto crudelmente ferito sua figlia e, per di più, tentato di disonorarla.
Il giudice, un uomo servero dai lineamenti pesanti, si arrotolò le maniche della toga nera, come se intendesse punire fisicamente i due giovanotti in piedi davanti al banco. Il suo viso esprimeva freddamente un maestoso disprezzo. In tutto questo, tuttavia, c’era qualcosa di falso che Amerigo Bonasera intuiva, ma non comprendeva ancora.
“Avete agito come la peggior specie di degenerati” disse aspramente il giudice. Sì, sì, penso Amerigo Bonasera. Animali. Animali. I due giovanotti, capelli lucidi tagliati a spazzola, viso tutto acqua e sapone in atteggiamento di umile contrizione, chinarono il capo in segno di sottomissione.
Il giudice continuò: “Avete agito come bestie selvagge in una giungla e siete fortunati di non aver abusato di quella povera ragazza, altrimenti vi avrei mandato in prigione per vent’anni”. Fece una pausa e gli occhi sotto le sopracciglia straordinariamente folte ebbero un lampo furtivo verso il volto olivastro di Amerigo Bonasera; poi li abbassò su un cumulo di rapporti mensili di libertà sulla parola che aveva davanti. Aggrottò le sopracciglia e si strinse nelle spalle, come per mostrarsi convinto suo malgrado. Parlò di nuovo.
“Tuttavia, grazie alla giovane età, al fatto che siete incensurati e appartenete a famiglie rispettabili, dato che la legge nella sua magnanimità non cerca vendetta, io con questa sentenza vi condanno a tre anni di reclusione. Condanna con la libertà condizionale.”

– Sonny Corleone: Hai saputo? Il Turco vuole trattare. Bella faccia di corno, quel figlio di puttana! Ieri sera la presa nel culo e oggi vuole trattare.
– Michael Corleone: Cos’ha detto?
– Sonny Corleone: E che deve dì? Piripì, perepè, perepà, perepù; vuole che mandiamo Michael a sentire le sue proposte. E fa sapere che l’offerta sarà così buona, che non potremo rifiutare
Per la giustizia dobbiamo andare da don Vito Corleone.

Quando colpiscono, colpiscono quelli che amiamo.

La droga deve essere controllata come un’industria per mantenerla rispettabile! Non la voglio vicino alle scuole. Non la voglio in mano ai bambini! Questa è un’infamità. Nella mia città limiteremo il traffico ai negri e alla gente di colore. Tanto sono bestie, anche se si dannano peggio per loro.

“Santino… vieni qua! Ma che fai Oh. Il tuo cervello che si è rammollito a furia di correre appresso a quella… a quella li? Mai dire a una persona estranea alla famiglia quello che c’hai nella testa.”

Michael Corleone:”Mio padre non è diverso da qualunque altro uomo di potere, da qualunque abbia responsabilità di altri uomini. Come un senatore, un presidente”
Kay Adams:”Non vedi come è ingenuo quello che dici?”
Michael Corleone:”Perchè?”
Kay Adams:”Senatori e Presidenti non fanno ammazzare la gente”
Michael Corleone:”Chi è più ingenuo Kay?”

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gennaio 31, 2012 Posted by | Capolavori | , , , , , , | Lascia un commento

Coffy

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Coffy di Jack Hill, con protagonista Pam Grier è probabilmente il film più famoso della Blaxploitation, il genere cinematografico ideato agli inizi del decennio settanta per catturare l’attenzione del pubblico afroamericano.
Il termine Blaxploitation nasce dalla fusione di black (nero) ed exploitation (sfruttamento) ed è un genere che tende a riportare in maniera cruda e visivamente molto forte problematiche relative alla condizione di vita della gente di colore in America.
Un genere poco amato dai critici perchè caratterizzato ( a loro modo di vedere) da un’assoluta mancanza di contenuti a tutto vantaggio di scene di violenza o di sesso: un’accusa in parte vera ma che non deve far dimenticare come molti di questi film nascessero da storie quotidiane di emarginazione e razzismo, a cui la gente di colore reagiva a volte in maniera violenta.

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Coffy riassume in se tutti gli stereotipi del genere, partendo da una storia di violenza per raccontare la violenza stessa usata dalla protagonista per vendicare la sorella morta a causa di un’overdose di eroina mal tagliata.
Ad interpretare il personaggio della dura vendicatrice di colore Coffy viene chiamata Pam Grier,

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che aveva già lavorato con Hill in due film del filone WIP, Women in prison, altro genere molto popolare tra il finire degli anni 60 e gli inizi dei 70.
I due film, ovvero Sesso in gabbia e The big bird cage avevano lanciato la prorompente sensualità e perchè no, valorizzato anche le capacità interpretative della Grier che si era fatta un nome.

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Ma è grazie anche alla blaxploitation che Pam Grier consolida la sua fama: l’attrice di colore diventa una specie di simbolo per gli afroamericani che da quel momento fanno la fila per vedere i suoi film.
La trama di Coffy è molto semplice e lineare; racconta le vicende di un’infermiera che per vendicare sua sorella non esita ad entrare nel mondo pericoloso e violento degli spacciatori di droga di colore.
La donna dapprima aggancia un potente boss offrendogli il suo corpo e poi gli fa saltare il cervello.

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E’ l’inizio di una vendetta che Coffy porterà avanti fra mille difficoltà, durante il compimento della quale vedrà anche il suo fidanzato poliziotto rimanere ferito in maniera grave con conseguente coma.
A completare la serie di ostacoli posti sul suo cammino arriverà anche la sua cattura da parte di King George, magnaccia e sfruttatore che incarna il peggio degli istinti criminali.
Vestito di rosso, agghindato come un damerino e coperto di catene d’oro, King George rappresenta quella classe di delinquenti emergenti che una volta arricchiti non esitano a mostrare tutto il loro sadismo e la frustrazione repressa sfogandola sulle vittime occasionali che incrociano le loro vite.
Coffy finirà proprio nelle grinfie dell’uomo e ne sperimenterà il sadismo fino alla conclusione, ovviamente all’insegna dell’happy end.

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Film violento e veloce, basato sul ritmo e sorretto da una sceneggiatura accettabile, Coffy è un film piacevole aldilà delle evidenti forzature del regista che estremizza le situazioni e i dialoghi per imprimere ritmo al film stesso.
La Grier caratterizza molto bene il ruolo della vittima prima e vendicatrice poi che riscatta la dignità della sorella infliggendo un duro colpo al mercato dello spaccio cittadino.
Alcune sequenze che la vedono protagonista si ricordano a lungo, come quella in cui si accapiglia con le prostitute invitate ad una festa da King George o come quelle in cui sopporta le torture del gangster.
Il finale forse poteva essere scritto meglio pur lasciando inalterato l’happy end, ma la logica di questi film era quella di accontentare una fascia particolare di pubblico per cui va bene così.

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Molto ben fatta la colonna sonora che segue nei momenti topici il film e che accompagna lo spettatore tra la visione di un cervello schizzato sulla parete e il seno prorompente della Grier non lesinato; la soundtrack è opera dell’afroamericano Roy Ayers.
Coffy è diventato nel tempo una sorta di piccolo cult non solo per la gente di colore, ma anche per il resto del pubblico; ad esserne influenzato è stato anche Quentin Tarantino, che non ha mai nascosto la sua ammirazione per la blaxploitation tanto da girare proprio con la Grier il film Jackie Brown, che ha di fatto rinverdito la fama della brava attrice americana.

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Il regista Hill conferma le sue doti di artigiano di valore con una regia attenta e anche furba in cui cura tutto, dal soggetto alla sceneggiatura fino alla direzione del film stesso; inserisce quà e là qualche seno in più, pesta il piede sull’ acceleratore della violenza ottenendo così un prodotto che di certo non sfigura.
Bene anche il resto del cast.

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Coffy
Un film di Jack Hill. Con Pam Grier, Brooker Bradshow, Robert Doqui, Bill Elliott Drammatico, durata 91 min. – USA 1973.

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Pam Grier: Coffy

Booker Bradshaw: Howard Brunswick
Robert DoQui: King George
William Elliott: Carter
Allan Arbus: Arturo Vitroni
Sid Haig: Omar
Barry Cahill: McHenry
Lee de Broux: Nick
Ruben Moreno: Ramos
Lisa Farringer: Jeri
Carol Locatell: Priscilla
Linda Haynes: Meg
John Perak: Aleva
Mwako Cumbuka: Grover
Morris Buchanan: Sugarman

Regia Jack Hill
Soggetto Jack Hill
Sceneggiatura Jack Hill
Produttore Robert Papazian, Salvatore Billitteri
Casa di produzione American International Pictures
Fotografia Paul Lohmann
Montaggio Chuck McClelland
Effetti speciali Jack DeBron
Musiche Roy Ayers
Scenografia Chuck Pierce

gennaio 27, 2012 Posted by | Drammatico | , | Lascia un commento

La rossa dalla pelle che scotta

La rossa dalla pelle che scotta locandina

John Ward è un pittore di qualche talento, ma perennemente in bolletta; vive ad Istanbul e tira avanti alla men peggio vendendo ad antiquari e collezionisti alcuni dipinti che ritraggono la sua vulcanica ed esuberante amante soprannominata “La rossa” per via della splendida chioma.
La donna a modo suo lo ama, accettando anche di posare nuda per alcune sue creazioni, ma è anche estremamente volubile, tanto da concedersi avventure con un gallerista, con un giovane che conosce a mare e che seduce, con un cacciatore…

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Poco alla volta, grazie anche ai sensuali quadri che Ward realizza, lo stesso acquisisce una certa fama, ma nel frattempo la rossa diventa sempre più insofferente del legame con il pittore. Con il suo amante, il cacciatore, progetta una fuga ma il giorno prima di mettere in atto i suoi propositi, viene uccisa da John.
Il quale da quel momento entra in una pericolosa crisi personale, acuita dalla presenza in casa di una bambola a grandezza naturale che gli ha regalato un hippy conosciuto casualmente.
La bambola diviene quindi per John simbolo della moglie perfetta, quella che ama e resta in un angolo in attesa di suo marito: la dissociazione del pittore tra la realtà e la fantasia lo porta a vedere la bambola viva tanto che lo stesso John alla fine non distingue più la realtà dal mondo perfetto che si è creato.
Tuttavia per lui sta arrivando la resa dei conti, perchè….

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Krista Nell

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Erika Blanc

Bizzarro, a tratti palesemente sconclusionato pur tuttavia non privo di felici trovate La rossa dalla pelle che scotta è un thriller psicologico girato da Renzo Russo nel 1972, con l’ausilio di due attori di indiscusso talento come Farley Granger e Erika Blanc.
Se Granger, scomparso l’anno scorso, è sobrio ed elegante nella sua performance recitativa è dalla Blanc che arriva l’ennesima conferma.
La stupenda attrice lombarda incarna in modo assolutamente straordinario sia la donna reale ed affascinante che John Ward ama alla follia sia la bambola tramutatasi in donna reale sotto l’effetto della psiche alterata del pittore.
Erika Blanc è aiutata sia dalla sua bellezza assolutamente particolare sia dal suo talento così poco sfruttato per film più “importanti”; la rossa che interpreta può diventare il sogno proibito non solo del pittore ma anche dello spettatore, ammaliato dal suo volto non bellissimo ma espressivo e seducente e da un corpo voluttuoso e sensuale, anche se non da vamp.

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La Blanc è misurata e seducente, vulcanica e piena di vita e poi, al tempo stesso, misteriosa e sottomessa quando si trasforma da bambola in incarnazione reale dei sogni del suo assassino, il pittore John.
Se i due attori sono davvero all’altezza della situazione, lo stesso non può dirsi per la sceneggatura del film di Russo che a tratti è scoordinata e senza un logico filo conduttore.
L’altalenanza delle situazioni, l’immagine di disordine psicologico di Ward sono un autobus che va e viene, sorretto da un ritmo a sua volta non continuo;

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tuttavia la mano di Russo è indubbiamente abile e maschera le pecche e le lacune della sceneggiatura.
Molto ben fatte sono le scene che includono i dialoghi tra la rossa e John, quelle in cui il pittore si appresta a ritarre la sua sensualissima compagna: la mano c’è ed appare strano che questo sia l’ultimo film al quale abbia lavorato.
Da allora in poi infatti il nome del regista e sceneggiatore scompare da qualsiasi produzione cinematografica.

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Tornando al film, una delle cose migliori è la sequenza in cui John uccide con quattro colpi di coltello la rossa, che spira tra le braccia del pittore chiedendo “Perchè,John?” e con John stesso che vede per terra la famosa bambola, che riappare poco dopo dietro la porta di casa, in una delle scene meno comprensibili del film.
In ultima analisi, un film che possiede in egual misura pregi e difetti, questi ultimi racchiusi tutti nei punti deboli evidenzati prima.

In ultimo ricordo che di questo film, ad oggi non esiste una versione italiana in dvd, motivo per il quale ho dovuto recuperare le immagini da una vecchia VHS.

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La rossa dalla pelle che scotta
Un film di Renzo Russo. Con Krista Nell, Farley Granger, Erika Blanc, Venantino Venantini,Giorgio Dolfin Drammatico, durata 91 min. – Italia 1972.

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Farley Granger: John Ward
Erika Blanc: La rossa, la bambola
Venantino Venantini: Il cacciatore

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Regia Renzo Russo
Sceneggiatura Renzo Russo
Produttore Mario Maestrelli
Casa di produzione SaNa Film
Distribuzione (Italia) Rasfilm
Fotografia Luciano Trasatti
Montaggio Attilio Vincioni
Trucco Angelo Roncaioli

gennaio 26, 2012 Posted by | Thriller | , , , | Lascia un commento

La corta notte delle bambole di vetro

 La corta notte delle bambole di vetro locandina

Con la recensione di La corta notte delle bambole di vetro, inizia la collaborazione di Alessio Bosco con il blog Filmscoop. Mi auguro che i fedeli lettori del blog apprezzino il suo originale e affascinante metodo di presentazione e di recensione e che commentino questo suo primo articolo. A lui l’augurio di una collaborazione sempre più feconda.

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In un parco di Praga è rinvenuto il corpo di un giovane uomo (Jean Sorel). Ritenuto cadavere, viene condotto all’obitorio per un riscontro più attento che ne stabilisca i motivi del decesso. I medici sono perplessi: il corpo non ha ancora raggiunto il rigor mortis, non presenta traumi o ferite e la sua temperatura è insolitamente stabile. L’improvviso urlo in off  “Io morto? Non è possibile!” e il primo piano rivoltogli, conducono nella mente dell’uomo che, disteso, immobile, apparentemente inanime, cerca di ridestarsi, di emettere un suono, forse comunicando con se stesso da un metafisico spazio post mortem.
Non riuscendo a ricordare immediatamente come si sia potuto trovare in una tale situazione, arriverà a concludere che “Forse è sempre così quando si muore e non possiamo dirlo agli altri”. Nondimeno, tenta di ricostruire gli antefatti che l’hanno condotto fin lì.
E, lentamente, comincia a rimontare i frammenti degli eventi occorsi nella settimana subito precedente.

Introdotto da immagini stranianti ed enigmatiche, presaghe di turpi accadimenti, che ritorneranno insistentemente sino al disvelamento finale, ha inizio un lungo flashback. Flashback intervallato dalle scene all’interno dell’ospedale, dove il dottor Ivan, suo vecchio amico, ora chirurgo, tenta inutilmente di rianimarlo.

La corta notte delle bambole di vetro 7

Barbara Bach

Si saprà che Gregory è un giornalista politico americano, inviato nella città Ceca, che ha due colleghi, inviati anch’essi, Jessica e Jaques, coi quali pare affiatato, e che intrattiene una relazione con Mira, una ragazza del luogo che vive fuori città ma che sta per raggiungerlo.
L’arrivo di quest’ultima segnerà il corso degli eventi, preannunciati da una piccola scossa tellurica che sveglia Gregory nottetempo.
Dopo un giro per Praga, una cena, un po’ d’intimità, una festa (dove, peraltro, Jessica si rivela una sua vecchia fiamma), Mira scompare nel nulla, senza abiti, senza soldi o documenti, con la valigia ancora disfatta in casa dell’uomo. Il commissario incaricato di svolgere le dovute indagini è da subito scontroso e più propenso ad insistere su una fuga volontaria della giovane.
Ma Gregory non è intenzionato ad arrendersi. Cercando di ricostruire, con l’aiuto dei due amici, le ultime ore della ragazza, risale ad una serie di misteriose scomparse che hanno coinvolto anche altre giovani. Pedinato ed osteggiato; sempre più dubbioso e confuso; circondato da riluttanti testimoni e morti sospette e con i medici che, arresisi, nel mentre, meditano un’autopsia, tenta di venire a capo al mistero.
Tutto sembra ricondurre ad uno strano circolo per vecchi e ricchi benestanti: il Club 99.

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Jean Sorel

Con La corta notte delle bambole di vetro, Aldo Lado firma il suo esordio alla regia, dopo anni spesi come aiuto (Il conformista) e sceneggiatore (Un’anguilla da 300 milioni), e lo fa con un opera dal taglio atipico: confezionato come un italian giallo, ma dagli inattesi sviluppi esoterici. Inserendo, prima, una nota polemica nei confronti del regime polacco (sedicente socialista, ma la cui ricca e privilegiata elite può permettersi feste sfarzose in ville da sogno e i cui funzionari possono tranquillamente far espatriare soltanto chi vogliono) ed allargandosi, poi, ad una critica più ampia, di marca sessantottina, sintetizzabile nel programmatico: “Mai fidarsi di nessuno sopra i trent’anni”. In più costella la narrazione di segni e simboli (la cecità, i numeri, le farfalle) che fanno poco per volta assumere alla pellicola i toni dell’arcano.

Malgrado l’impianto da thriller, però, la vera tensione pare latitare: l’interesse di Lado è più rivolto a trasmettere un senso d’indefinibile straniamento, di attesa angosciosa.

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Ingrid Thulin

Tant’è vero che struttura un’ ubriacante vicenda a scatole cinesi: in cui far rivivere gli ultimi giorni della vita di un uomo, trascorsi a ricostruire le ultime ore della sua ragazza, la cui scomparsa confluisce in un caso più grande che coinvolge altre giovani donne. Una trama circolare, a più livelli, i cui elementi si ricollegano continuamente tra loro.
Il richiamo polanskiano è forte nella resa claustrofobica e quasi narrativa degli spazi, oltre che nella progressiva perdita di se del personaggio centrale. Arrivando ad anticipare lo stesso Polansky di Frantic (ma il modello hitchcockiano è lo stesso per entrambi).
E del resto la visione, invasiva e stritolante, dell’autorità del potere, dei poteri, potrebbe dirsi pienamente kafkiana. Non a caso a fare da collante, più che da semplice scenario, alla vicenda è proprio Praga. E, sempre non a caso, il titolo del film, in fase di produzione, era Malastrana, suggestivo nome di un quartiere antico della città, i cui comignoli appaiono in più di un’inquadratura.

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Mario Adorf

Non tutto funziona come dovrebbe: le riprese della capitala Ceca sono belle ma cartolinesche (anche se buona parte del film verrà girato a Zagabria); le corsette tra i luoghi turistici sono davvero risibili; i dialoghi spesso didascalici e poco verosimili; nella seconda parte la trama si sfilaccia e confonde; Jean Sorel è totalmente inespressivo, la Bach è la Bach ed anche per Ingrid Thulin i fasti bergmaniani sono distanti (Adorf però è ottimo come sempre). Anni ’70…

Di contro la fotografia di Giuseppe Ruzzolini è splendida, dall’attenzione al dettaglio fiamminga, con una cura maniacale per la prossemica e rivolta in particolare ai contrasti cromatici (il sangue rosso vivo per i tubi della sala operatoria dai colori chiari e neutri; le sagome nella stanza al buio). Ed anche il finale, crudele come pochi, cancella d’un tratto ogni debolezza.

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Lado tornerà al thriller soltanto col successivo e superiore, Chi l’ha vista morire?. E fu un peccato, perché il suo sguardo icastico, i suoi personaggi infidi e cinici, l’attenzione rivolta sempre agli aspetti più laidi dell’esistenza, che peraltro non lo abbandonerà mai e che sarà sempre riscontrabile in filigrana anche nei suoi film successivi, specialmente, ovvio, nel controverso e cattivissimo L’ultimo treno della notte, si attagliavano perfettamente al noir. Di cui fu interprete, a suo modo, unico ed originale.

La corta notte delle bambole di vetro
Un film di Aldo Lado. Con Mario Adorf, Barbara Bach, Ingrid Thulin, Jean Sorel Thriller, durata 92 min. – Italia 1971.

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Jean Sorel ….Gregory

Ingrid Thulin … Jessica
Mario Adorf … Jacques Versain
Barbara Bach … Mira Svoboda
Fabijan Sovagovic … Professor Karting
José Quaglio … Valinski
Relja Basic … Ivan
Piero Vida … Il commissario Kierkoff
Daniele Dublino …Il dottore
Luciano Catenacci …L’impiegato della camera mortuaria
Semka Sokolovic-Bertok …Nastassja, la vicina di Gregory

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Regia: Aldo Lado
Sceneggiatura: Aldo Lado,Ernesto Gastaldo
Produzione: Enzo Doria ,Luciano Volpato,Dieter Geissler
Musiche: Ennio Morricone
Editing: Jutta Brandstaedter, Mario Morra
Production Design: Gisella Longo, Zeljko Senecic
Costumi: Gitt Magrini

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La corta notte delle bambole di vetro flano

Flano del film

gennaio 24, 2012 Posted by | Thriller | , , , , | 2 commenti

Le diavolesse (Girl slaves of Morgana le fay)

Le diavolesse locandina

Cosa fare se ti trovi prigioniera in un castello con una tua amica e sei costretta a scegliere tra il diventare immortale e godere delle cose buone della vita (sesso in testa) e il morire incatenata nelle segrete del castello stesso?
La risposta al quesito esistenziale non può essere che una ed infatti le due amiche protagoniste del film scelgono di divenire immortali e di conseguenza schiave della Fata Morgana, come recitato nel titolo del film.
Film che nella versione originale si chiama infatti Girls slave of Morgana le fay, tradotto in maniera spiccia e decisamente approssimativa in italiano con Le diavolesse; cosa centri il principe dei demoni con questo film è cosa da inquietanti interrogativi, ma si sa che la fantasia dei distributori italiani era davvero fervida negli anni settanta.
Le diavolesse, opera di Bruno Gantillon, un discreto mestierante passato in seguito alla produzione e regia di opere tv è un film che si ispira a due cineasti a loro modo maestri nel cinema surreale a sfondo erotico e infarcito di scenette horror un tanto al chilo ovvero lo spagnolo Jesus Franco e il francese Jean Rollin.

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Uscito nelle sale nel 1971 e falcidiato dalla censura italiana (nel 1973) per la quantità industriale di nudi femminili, Le diavolesse mostra da subito di essere operazione mera di marketing cinematografico, che qualche critico cinematografico particolarmente arguto ha modificato in “marketting”.
Caratterizzato da una trama volutamente surreale e giocato principalmente sull’aspetto erotico, il film di Gantillon tuttavia non è da bocciare di sana pianta.
Se la trama è quanto di più semplice sia possibile immaginare c’è qualcosa, aldila dell’aspetto morboso del film stesso che riesce in qualche modo ad evitare che il film venga piantato a metà storia per evidente mancanza di idee.
Già la partenza del film stesso è da incubo; ancora una volta troviamo due ragazze, Yael e Francoise che restano in panne con l’auto priva di benzina.

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Un espediente talmente classico da risultare monotono così come classico è l’espediente di far dormire le due ragazze in un fienile; cosa fanno le due ragazze dopo essersi svegliate? Ovviamente si mettono alla ricerca di benzina e altrettanto ovviamente beccano il castello solitario dove questa volta, invece del solito maggiordomo sinistro troviamo un nano allupato, che le aveva notate da quando le due ragazze si erano fermate nell’inevitabile taverna sinistra e scura.
La novità è rappresentata dalla corsa nel bosco di Francoise che culmina nell’arrivo ad un lago immerso in una natura placida e silenziosa. Qui ci immergiamo in una natura meravigliosa che da sola vale il prezzo del biglietto pagato.
Ma questo non è un documentario sulla natura per cui seguiamo il passaggio in barca di Francoise e il descritto arrivo al castello diroccato con tanto di nano.

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Una volta tanto non c’è il cattivissimo di turno ad accogliere le ragazze, ma nientemeno che Morgana (ripresa pari pari dalla saga arturiana), che è una fata si, immortale anche ma sopratutto un’incantatrice con tendenze anche lesbiche.
Così le due giovani sono costrette ad una scelta esistenziale; accettare di diventare immortali in cambio di un tantino di sesso e di qualche ballo in costume pressochè adamitico oppure finire la propria vita incatenate in una cella buia del castello?
Poichè nel castello stesso c’è un gineceo di prim’ordine, si mangia e si beve a sbafo, ecco che tutto sommato Parigi val bene una messa.
Ma a Francoise questa vita dorata scoccia, e la sorpresa è dietro l’angolo….

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Non si illuda, lo spettatore di Le diavolesse, di vedere un film movimentato; siamo di fronte ad un vero e proprio clone delle opere di Rollin, quindi il ritmo è da sonno profondo aiutato anche dalla dimensione pseudo fantastica in cui si muovono le due ragazze protagoniste del film.
Le uniche scene di movimento sono quelle dei balli alla presenza di Morgana, la famosa sorellastra di Artu divenuta per l’occasione immortale e per giunta anche lesbica. Altre scene di movimento sono quelle sotto le lenzuola e qui quanto meno c’è interesse (lubrico) per lo stuolo di ragazzotte assoldate a tal pro.
Noia, quindi, a profusione.

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I due motivi per guardarsi quest’opera datata 1971 ( ma apparsa più tardi sugli schermi italiani) sono rappresentati dalla magnifica fotografia e dalla location e dalle citate bellezze che mostrano una palese allergia per i vestiti.
Il resto è assolutamente da dimenticare incluso il finale che non svelo solo per puro sadismo: per sapere dove va a parare il film sarete costretti a sorbirvi quasi due ore di sbadigli da sganasciarvi le mascelle.

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Le diavolesse, di Bruno Gantillon con Dominique Delpierre,Alfred Baillou, Mireille Saunin,Régine Motte. Erotico-Fantastico Francia 1971- Titoli alternativi: Girls slave of Morgana le fay,Morgane et ses nymphes

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Le diavolesse banner protagonisti

Dominique Delpierre … Morgane
Alfred Baillou … Gurth
Mireille Saunin … Françoise
Régine Motte … Yael
Ursule Pauly … Sylviane
Michèle Perello … Anna
Nathalie Chaine … Sarah

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Regia: Bruno Gantillon
Sceneggiatura: Jacques Chaumelle
Produzione: Gisèle Rebillon e Catherine Winter
Fotografia: Jean Monsigny
Montaggio: Michel Patient
Musiche: Jean Monsigny
Scenografie: François Dupuy

Le recensioni appartengono al sito http://www.davinotti.com

TUTTI I DIRITTI RISERVATI

Due ragazze, rimaste a piedi nella campagna francese per un guasto all’auto, trovano riparo in una casa abbandonata. Al mattino una delle due “viaggiatrici” è scomparsa e l’altra – su indicazione di un nano – finisce in un castello nel quale dimora un’affascinante signora (Dominique Delpierre), circondata dalle sue serve. Horror dalle atmosfere sognanti e fiabesche, simile, per sviluppo e (lesbo) tematica a taluni lavori siglati da Rollin. Le lungaggini narrative sono surclassate dalle immagini curate e d’impatto ed il finale contribuisce, enigmaticamente, a rendere prezioso il film.

Gustosissima tranche di cinema bis francese fra erotismo e gotico, languori decadenti e blande suggestioni esoteriche. Fanciulle ragguardevoli (d’altronde nel regno di Morgana la bellezza è confinata solo al muliebre, col nano mastelloniano in ruolo subalterno, mentre nel mondo reale gli uomini sono ancor più mostruosi). Per gourmets del bizzarro.

Pur potendo avvalersi di una confezione assolutamente decorosa, il film pecca invece sia dal punto di vista narrativo (la storia è abbastanza risaputa) che da quello del ritmo: succedono pochissime cose e per giunta per nulla coinvolgenti. La noia insomma domina ampiamente per lunghi tratti. Anche la regia, pur non essendo completamente pedestre, avrebbe potuto osare un po’ di più.

Inchiodato di fronte alla tivvù di notte a sedici anni capii cos’era per me il gotico. Ed era Le diavolesse, freak-movie che a definirlo strano gli si fa uno sgarro e chiamarlo naif si rende poco l’idea della morbosità che lo ammanta. Dà l’impressione d’essere stato girato nongià per risultar eccentrico bensì da uno con qualche greve tarla mentale. Fin dalla scena nel pagliaio, quando Françoise incontra il nano Gurt e comincia a seguirlo manco fosse il Bianconiglio si sgama l’andazzo onirico. Sia chiaro, il film è una lagna, il sesso appena accennato ma visivamente ha una sua ritorta potenza.

Dal titolo a mio parere davvero bello, questo film più sexy che horror racconta la storia di due fanciulle in vacanza, cadute nelle perfide mani della fata cattiva. Nel suo regno si cerca la vita eterna ai danni altrui. Dipinto con tratto decisamente francese, alterna il fascino della magia e delle belle donne, con l’evoluzione spesso risibile della storia. Tecnicamente scadente, lento e noioso, con una bella scenografia e costumi curati, è indicato solo per lo specialista del genere. Gli altri si astengano, pena noia e rivendicazione per il prezzo pagato.

Lento, trasognato, una via di mezzo fra un gotico e una favola nera, che potrebbe ricordare sia i film sexy-horror di Jean Rollin (con i quali condivide alcune interpreti femminili, come Ursule Pauly e Solange Pradel), sia altre bizzarre operazioni (a me rammenta un pochino anche l’italiano Il delitto del diavolo – Le regine). Certo, i suoi “pregi” possono essere al contempo difetti e potremmo allora parlare di eccessiva lentezza, persino di noia abissale. Dipende. Un film molto particolare. Per pochi, insomma…

 

gennaio 23, 2012 Posted by | Erotico | , | Lascia un commento

Guardami

Guardami locandina

Guardami di Davide Ferrario rappresenta un caso più unico che raro nella storia della cinematografia italiana; a mia memoria non era mai successo che un film contenente scene di sesso esplicite finisse per mettere d’accordo pubblico e critica superando per una volta l’ostracismo verso il sesso non simulato ma reale da sempre esistente verso pellicole confinate nell’hard.
Già il tema trattato è di per se molto scabroso: uno sguardo al modo dell’hard e della pornografia, popolato da un universo sconosciuto alla stragrande maggioranza delle persone.

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Due intense espressioni dell’attrice Elisabetta Cavallotti, che interpreta Nina

Un universo in cui si muovono persone che hanno scelto di vivere “vendendo” il proprio corpo allo sguardo lubrico di un sottobosco popolato da voyeur e guardoni e in cui gli attori e le attrici spesso sono costretti a vendere la propria dignità assieme a quel corpo che diventa un accessorio messo in mostra nelle maniere più oscene e più degradanti.

Ferrario va oltre questa rigida schematizzazione che ho indicato; lui analizza con occhio attento e freddo la vita di una delle protagoniste del mondo dell’hard, la bella e intelligente Nina seguendola nel suo quotidiano vivere tra privato e lavoro, che spesso finiscono per coincidere lasciando la persona priva di un’identità reale, quasi che il mondo dell’hard finisca per diventare l’unico mondo conosciuto dalle persone che lo frequentano, che all’interno di quel mondo stesso finiscono per trovare amicizie e amori, gioie e terribili disillusioni.

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La Nina di Ferrario è una donna colta, che ha scelto il suo lavoro e che quindi non ha subìto imposizioni da nessuno: forse è una donna con un disperato bisogno d’amore o forse è solo una donna terribilmente indipendente che sfida il mondo colpendo le convenzioni sociali e scegliendo di vivere la propria vita in modo totalmente anticonformista.
Nina vive un rapporto d’amore con Cristiana, frequenta club e amicizie di ogni genere ed è quindi una donna assolutamente emancipata.

Guardami 4

La donna ama il proprio lavoro o quanto meno lo accetta forse perchè la sua è stata una scelta non imposta; la seguiamo mentre si esibisce in spettacoli live in cui nulla è lasciato all’immaginazione, inclusa una fellatio ripresa in primo piano.
Ma il mondo di cristallo di Nina è destinato a mutare radicalmente il giorno in cui dopo un esame clinico scopre di avere un cancro; la malattia ovviamente influisce in maniera determinante sul carattere della donna che scopre la propria fragilità e che con il passare dei giorni e dopo i trattamenti chemioterapici vede il proprio corpo mutare.
Ora Nina non può lavorare come prima e poco alla volta lo spettro della malattia e l’icognita di un male che ti può portare alla tomba segnano inevitabilmente il suo passaggio ad una fase di dolorosa e sofferta presa di coscienza di se stessa.

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La donna si mette in discussione ma accade anche un avvenimento che muterà ancora una volta il corso degli eventi.
Durante una seduta di chemioterapia, Nina conosce l’insegnante Fabio, anch’esso malato ma in maniera molto più grave.
Tra i due sembra nascere qualcosa di più profondo, ma la donna sa che il suo lavoro è un ostacolo quasi invalicabile per un rapporto di coppia.
Così invita Fabio a seguirla sul lavoro e l’uomo scopre i suoi reali sentimenti: a lui non interessa in fondo quello che la donna fa, la ama e tanto sembra bastargli.

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Ma la malattia lo porta alla morte, mentre per Nina ci sarà il raggio di luce dell’uscita dal tunnel del cancro.
Davide Ferrario gira Guardami nel 1999, portandolo alla 56ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove il film suscita polemiche più per la rappresentazione già citata di alcune scene di sesso dal vivo che per la tematica del film, che a giudizio unanime è assolutamente ben affrontata e diretta.
Il regista di Casalmaggiore affronta il film con occhio freddo e indagatore, evitando il facile pietismo in agguato quando la storia scende sul personale con la descrizione della malattia di Nina; l’inevitabile crisi personale di Nina è affrontata senza sentimentalismi e Nina stessa viene ripresa nel tentativo di superare gli ostacoli che il cancro inevitabilmente le pone davanti con l’atteggiamento che la donna assume, ossia con la consapevolezza che ha da affrontare una battaglia da vincere.

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Ispirato in qualche modo alla figura di Moana Pozzi, la pornostar più famosa del cinema hard italiano, Guardami riflette le doti della sfortunata attrice ligure morta ufficialmente per un cancro al fegato a soli 33 anni.
Moana Pozzi, donna intelligentissima e colta, di buona famiglia, scelse liberamente la sua professione come più volte raccontato ai cronisti cHe le chiedevano il perchè di scelte di vita così radicali.
Il personaggio di Nina per certi versi riflette proprio quelle che erano le caratteristiche peculiari di Moana Pozzi; la differenza è solo fisica e non potrebbe essere più netta.
Elisabetta Cavallotti, la Nina di Guardami è fisicamente distante anni luce dalla Pozzi; è bruna mentre Moana era bionda, fisicamente minuta mentre Moana aveva un fisico da pin up.

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L’esibizione in uno spettacolo hard dal vivo

L’interpretazione della Cavallotti è intensa e assolutamente professionale; messa di fronte a scene che avrebbero turbato molte sue colleghe, la Cavallotti si cala nella parte senza remore psicologiche caratterizzando il suo personaggio al meglio.
Interpreta con coraggio le scene più difficli, che avrei voluto riproporre per coloro che non hanno visto il film ma che per ragioni di opportunità preferisco non mostrare.
C’è ancora un fortissimo disagio per le scene di sesso, pur in tempi in cui lo stesso è mostrato in tutte le salse su una pletora di siti internet; in fondo non è cambiato molto dai tempi di Ultimo tango a Parigi nonostante siano passati 40 anni.
Il film di Ferrario è coraggioso e ben fatto, rappresentando un tentativo assolutamente non velleitario di guardare il mondo del porno dall’interno.

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Per certi versi anche se molto alla lontana ricorda Hardcore, il film di Paul Schrader edito nel 1978 che racconta una storia ambientata proprio nel mondo dell’hard.
Film assolutamente diversissimi tra loro che però hanno il pregio di essere scomodi nella loro visione dell’universo hard.
In ultimo, segnalazione per Flavio Insinna che interpreta Fabio: se la cava bene, con misura.
In quanto alla Cavallotti, secondo me ha pagato un tributo altissimo alle scene hard del film; pur essendo attrice di spessore, ha avuto un proseguimento di carriera con il freno a mano tirato.

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Guardami
Un film di Davide Ferrario. Con Elisabetta Cavallotti, Flavio Insinna, Stefania Orsola Garello, Yorgo Voyagis, Angelica Ippolito,Luigi Diberti, Claudio Spadaro, Augusto Zucchi, Giorgio Gobbi, Luis Molteni, Gianluca Gobbi, Marco Minetti, Pierpaolo Lovino, Vladimir Luxuria, Alex Mantegna, Alessandro Riceci, Antonello Grimaldi Drammatico, durata 95 min. – Italia 1999

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Elisabetta Cavallotti: Nina
Stefania Orsola Garello: Cristiana
Flavio Insinna: Flavio
Gianluca Gobbi: Dario
Claudio Spadaro: Baroni
Angelica Ippolito: madre Nina
Luigi Diberti: Castellani
Yorgo Voyagis: padre Nina
Antonello Grimaldi: Joe
Luca Damiano: se stesso
Vladimir Luxuria: presentatrice
Luis Molteni: Max

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Regia Davide Ferrario
Soggetto Davide Ferrario
Sceneggiatura Davide Ferrario
Fotografia Giovanni Cavallini
Montaggio Claudio Cormio
Musiche Giorgio Canali
Scenografia Alessandro Marrazzo

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gennaio 21, 2012 Posted by | Drammatico | , , | Lascia un commento

Mandingo

Mandingo locandina

Alabama, 1840
Warren Maxwell, ricco proprietario terriero razzista e schiavista, obbliga sua figlio Hammond a sposare la bella Blanche per interesse.
Ma tra i due non c’è amore, così Hammond si consola con la bella schiava di colore Ellen.
Nella tenuta di Maxwell l’attrazione principale è Ganymede, detto Mede un nero robustissimo di razza Mandingo.
L’uomo è costretto a lottare con altri neri per divertimento dei suoi proprietari e dei suoi ospiti.
L’uomo finisce però per catturare l’attenzione della trascurata Blanche, che il marito non ha mai toccato avendo scoperto che non era vergine al momento del matrimonio.

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Una schiava della piantagione

Blanche in pratica si prende Mede come amante, ma alla fine la relazione tra lei e lui verrà scoperta quando la donna darà alla luce un figlio di colore, con tragiche conseguenze per tutti.
In estrema sintesi è questo il plot di Mandingo, diretto nel 1975 da Richard Fleischer, che sfruttò il romanzo omonimo di Kyle Onstott scritto sul finire degli anni 50.
Un film di grandissimo successo, come del resto il romanzo; il tema della schiavitù della gente di colore in America era molto sentito, sopratutto negli anni settanta che furono gli anni della presa di coscienza da parte degli americani dei vistosi errori commessi in passato e che avevano provocato funeste conseguenze.

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James Mason è lo schiavista Maxwell

Dallo sterminio dei nativi americani, i pellerossa, passando per l’arruolamento forzato della gente di colore, strappata alla patria nativa per lavorare nelle piantagioni del sud America, l’americano medio si interrogava sul suo passato ma anche sul suo presente.

Erano gli anni della sporca guerra, quella del Vietnam che finalmente stava per arrivare alla conclusione con l’inglorioso ammaina bandiera a Saigon e la conseguente fuga degli ultimi occupanti del Vietnam stesso.
Fleischer, autore di cassetta che in passato aveva diretto ottimi film come il bellico Tora! Tora! Tora! (1970) e 2022: i sopravvissuti (Soylent Green) (1973), utilizza una sceneggiatura che riduce il romanzo di Onstott fornitagli da Jack Kirkland e Norman Wexler.
Proprio Kirkland aveva utilizzato il romanzo ottenendo una piece teatrale di successo, così quando il grande produttore Dino De Laurentis decise di finanziare il film si andò quasi sul sicuro sulla risposta dei botteghini.

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La relazione proibita tra Blanche e Mede

Il gran successo del film dipese da diversi fattori, non ultimo il riuscito amalgama tra le varie componenti del romanzo originario, fatto di episodi brutali di sangue e violenza mescolato con furbizia al tema della sessualità inter razziale che era molto sentito dagli americani.

Il film è abbastanza fedele all’originale, ma non suscitò, nonostante il successo ricevuto, il clamore che aveva suscitato il best sellers di Kyle Onstott.
Diversi i tempi e diverse le situazioni; il romanzo era uscito nel 1957, in un’epoca in cui i diritti sociali e civili della gente di colore erano pura utopia.

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Susan George è Blanche

A scriverlo era stato l’ottantenne Onstott, che aveva promesso di raccontare la schiavitù partendo esattamente dal primo timido tentativo di mettere in scena una saga sul fenomeno, quel Via col vento diventato nel corso degli anni un’autentica leggenda.
Onstott scrisse tre libri incentrati sulla vita e la storia della gente di colore, sui padroni “bianchi” e sugli schiavi “neri”; il primo, Mandingo ebbe come seguito Drum tradotto cinematograficamente (anche se senza lo stesso successo del predecessore) in Drum, l’ultimo Mandingo mentre ‘ultimo capitolo della saga, Il padrone di Falconhurst, non ha avuto mai una riduzione cinematografica.
Il film ha un andamento abbastanza lento ma che non annoia; quella che è a tutti gli effetti la saga della famiglia Maxwell coinvolge anche per la descrizione del mondo moralmente corrotto dei latinfondisti dell’America del sud, uniti ad una descrizione molto forte delle condizioni di vita della schiavitu di colore.

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Preparata per il padrone

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Il rapporto tra Hammond e Ellen

Decisamente disturbanti le sequenze del mercato degli schiavi e delle lotte tra Mede e i suoi avversari, messi l’uno contro l’altro ad esclusivo privilegio del divertimento dei bianchi; ugualmente disturbante la scena in cui Maxwell usa un piccolo di colore come poggiapiede o le scene nelle miserevoli case degli schiavi.

Il cast del film è di prim’ordine, con James Mason arrogante e indisponente (come personaggio ovviamente) nei panni del latifondista Warren Maxwell, un uomo spregevole fin nel midollo, con Perry King in evidenza nel ruolo del giovane Hammond, forse l’unico con un minimo di sentimenti contrastanti verso i neri dominato però dalla fortissima personalità del padre.
Molto brava al solito Susan George che interpreta Blanche, una donna sola che alla fine trova sfogo nei rapporti carnali con lo schiavo Mede con il quale avrà un figlio destinato ad una fine miserevole e bene anche l’esordiente Ken Norton, il pugile che ruppe la mascella al grande Cassius Clay.

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Con Radici, Mandingo ha portato al centro dell’attenzione il problema storico della schiavitù di colore negli Stati Uniti; pur essendo un film troppo incline al sensazionalismo e con scene di sesso spesso gratuite, Mandingo è un buon prodotto capace di far riflettere e di appassionare nonostante il tema spinoso.
Vale sicuramente una visione attenta; il film è stato rieditato in digitale riacquistando i colori e la brillantezza naturale..

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Un film di Richard Fleischer. Con James Mason, Susan George, Perry King, Ken Norton, Richard Ward, Lilian Hayman Drammatico, durata 127 min. – USA 1975

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James Mason: Warren Maxwell
Susan George: Blanche Maxwell
Perry King: Hammond Maxwell
Paul Benedict: Brownlee
Richard Ward: Agamennone
Brenda Sykes: Ellen
Ken Norton: Ganymede, detto Mede
Lillian Hayman: Lucrezia Borgia
Roy Poole: Doc Redfield
Ji-Tu Cumbuka: Cicero
Ben Masters: Charles
Ray Spruell: Wallace
Louis Turenne: De Veve
Duane Allen: Topaz
Earl Maynard: Babouin
Beatrice Winde: Lucy
Debbi Morgan: Dite
Sylvester Stallone: un giovanotto

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Regia Richard Fleischer
Soggetto Kyle Onstott
Sceneggiatura Jack Kirkland, Norman Wexler
Produttore Dino De Laurentiis
Montaggio Frank Bracht
Musiche Maurice Jarre
Costumi Ann Roth

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Mandingo flano

Flano del film

gennaio 20, 2012 Posted by | Drammatico | , , , , | Lascia un commento

Sirens-Sirene

Sirene locandina

Il pastore anglicano Anthony Campion sbarca con la sua giovane e timida moglie Estella a Blue Montains, in Australia.
Convocato dal vescovo di Sidney, si vede appioppare un incarico imbarazzante e non certo facile quello cioè di indagare sui progetti di Norman Lindsay, un discusso pittore e artista noto per essere anticlericale e dissacratore.
Nei progetti dell’artista sembra esserci la raffigurazione pittoria di una venere nuda che viene crocefissa.
Anthony ed Estella si recano quindi a casa del pittore, dove hanno una sgradita sorpresa; l’uomo infatti è sposato con Rose e ha due figlie e ospita tre modelle estremamente disinibite, Sheela , Prue e Giddy.

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Delle tre, Giddy è quella meno provocante e più attenta a non mettersi in mostra, mentre le altre due non fanno mistero di avere una condotta sessuale estremamente aperta.
Per il pastore e sua moglie inizia così un periodo difficilissimo; la promiscuità delle donne, unita all’atmosfera apertamente libertina della casa di Lindsay, la presenza tra gli occupanti della casa stessa di un giovane ex pugile ridotto alla cecità, prestante e molto bello, che posa per il pittore creano tra i coniugi un’atmosfera di tensione.
Ad aggravare la situazione c’è il netto rifiuto da parte di Lindsay di modificare alcun che del suo dipinto; l’uomo, che ha una visione del ruolo della chiesa assolutamente in chiave anticlericale, accusa Anthony di rappresentare un mondo oscurantista e chiuso sia all’arte che ai veri bisogni dell’uomo.

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Se la disputa tra i due assume tratti tragicomici, ecco che Estella, dapprima pudica e moralmente inibita inizia a provare un sottile piacere nell’assistere alle orge che le ragazze organizzano con i giovani del luogo e alla fine decide di concedersi al pugile che la attrae fatalmente.
Non contenta, alla fine si inventa anche un ruolo da maitresse organizzando un incontro tra Giddy, che è segretamente ma non troppo, attratta dal muscoloso pugile e l’uomo stesso.
Arriva per i due coniugi il momento di congedarsi dal loro anfitrione; sul treno del ritorno Estella mostra di aver appreso qualcosa sulla sottile arte della seduzione, proponendo un nuovo modo di fare l’amore all’imbarazzatissimo marito, che però alla fine stuzzicato ricambia con trasporto.

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Gradevole commedia di stampo British, con la conseguente spruzzata di humour prettamente britannico, Sirene di John Duigan uscito nelle sale nel 1993 cerca un equilibrio tra la commedia di stampo classico e la sottile denuncia dell’arretratezza dei costumi sessuali di persone avvezze a frequentare il mondo ecclesiastico.
Questa volta il protagonista è un pastore sposato con una donna che ha in se il germe prepotente della sessualità che però reprime per il suo ruolo sociale e per una forma di rispetto verso suo marito, esponente del clero e quindi fautore di una sessualità di stampo prettamente moralista.
I due coniugi, costretti loro malgrado a vivere in una realtà completamente aliena alla loro vita di tutti i giorni, finiranno per scontrarsi con la mentalità libertina della casa del pittore Lindsay, guardando con preoccupazione alla vita assolutamente immorale ( a loro modo di vedere) degli ospiti della casa stessa.

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Inseriti in un contesto in cui la sessualità è libera e priva di remore, i coniugi finiranno per capire in modo differente gli aspetti segreti della propria sessualità; la prima a “liberarsi” anche in senso biblico sarà Estella che grazie all’esperienza vissuta vedrà aprirsi davanti a se un universo in cui la sessualità non è più un qualcosa da vivere con la concezione del peccato bensì una delle manifestazioni più belle dell’essere umano.
In fondo la commedia di Duigan gioca proprio con questo eterno dualismo, tra la concezione sana della sessualità e il suo opposto, la concezione peccaminosa del corpo e del piacere che per secoli è stata inculcata sopratutto nelle donne proprio dall’organizzazione auto deputatasi alla custodia della morale.

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Non è un caso che i coniugi vengano inviati a casa di Lindasy per tentare di dissuaderlo dal dipingere un’opera giudicata blasfema; una crocefissione con una donna nuda è il massimo dell’oltraggio all’istituzione ecclesiale e come tale va fermata.
Ma alla fine la cosa entra in secondo ordine per i coniugi; anche Anthony è rimasto turbato dall’atmosfera maliziosa e sottilmente erotica della casa e dei suoi abitanti, però sarà proprio Estella a capire la portata di ciò che ha vissuto e da allora in poi cambierà radicalmente anche l’approccio sessuale verso suo marito.

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John Lawless Duigan, il regista inglese autore anche della sceneggiatura è poco conosciuto in Italia; a fronte di 25 film diretti la sua notorietà è legata principalmente a questa gradevole commedia e al film Gioco di donna del 2004 che vede protagoniste due splendide attrici, Charlize Theron e Penelope Cruz.
Il film scivola via abbastanza agevolmente, anche per la presenza di un cast di attori di ottimo livello; il più british degli attori inglesi, Hugh Grant interpreta l’impacciato Anthony con ottima espressività, mentre la bella Tara Fitzgerald è la sua inizialmente inibita mogliettina Tara Fitzgerald.

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Un ironico e sottilmente diabolico Sam Neill è Lindsay, parte che l’attore assolve perfettamente dando un tocco di eccentricità ironica aggiuntiva così come da segnalare sono anche le parti assolte da Elle Macpherson (la più disinibita delle tre modelle), da Portia de Rossi che interpreta la più “tranquilla” delle tre modelle ovvero Giddy e da Kate Fischer che veste i panni (succinti) dell’altra disinibitissima modella Prue.

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Nei limiti ovvi della commedia di costume, Sirens tradotto letteralmente in Sirene in italiano, quasi a rimarcare il ruolo di femmes fatales delle tre modelle si rivela un prodotto gustoso e dal sottile fascino peccaminoso, assolutamente però nei limiti della malizia più innocente.

Sirens – Sirene
Un film di John Duigan. Con Sam Neill, Hugh Grant, Tara Fitzgerald, Elle Macpherson, Portia De Rossi, Kate Fischer, Pamela Rabe, Ben Mendelsohn, John Polson, Mark Gerber, Julia Stone, Ellie MacCarthy, Vincent Ball, John Duigan, Lexy Murphy Titolo originale Sirens. Commedia, durata 94 min. – Australia, Gran Bretagna 1993

Sirene banner gallery

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Sirene banner personaggi

Hugh Grant … Anthony Campion
Tara Fitzgerald … Estella Campion
Sam Neill … Norman Lindsay
Elle Macpherson … Sheela
Portia de Rossi … Giddy
Kate Fischer … Prue
Pamela Rabe … Rose Lindsay
Ben Mendelsohn … Lewis
John Polson … Tom
Mark Gerber … Devlin
Julia Stone … Jane
Ellie MacCarthy … Honey
Vincent Ball … Vescovo di Sydney

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Regia: John Duigan
Sceneggiatura: John Duigan
Produzione: Justin Ackerman,Hans Brockmann,Robert Jones
Musiche: Rachel Portman
Editing: Humphrey Dixon
Art direction: Laurie Faen

Sirene locandina 2

gennaio 18, 2012 Posted by | Commedia | , , , , , , , | Lascia un commento

The reader- A voce alta

The reader locandina 2

C’è un nervo scoperto, c’è un passato che molti vorrebbero venisse definitivamente sepolto, c’è una storia che non lo permette perchè in quella storia milioni di esseri umani hanno perso tragicamente la vita, spesso in modo tanto orribile da rendere assolutamente necessario il perpetuarsi di ricordi pur dolorosi per tutti.
C’è in tutto l’ombra del male, quello assoluto e c’è anche la sua estrema razionalizzazione ovvero l’ergersi su tutto della sua banalità, per quanto orrenda possa sembrare una frase che parla di un orrore senza fine ridotto alla stregua di una radice parallela al male con la M maiuscola.
La banalizzazione del male è uno dei temi di The reader, a voce alta, che racconta anche una storia che molti vorrebbero sepolta, ovvero l’orrore che molti sapevano esistere e che facevano finta di non vedere.
Il nazismo è stato il male, quello senza logica e senza pudore esercitato su milioni di innocenti, per cui parlare di banalizzazione potrebbe sembrare uno schiaffo proprio a quei milioni di morti che hanno pagato un prezzo inumano alla follia di un gruppo di criminali.

The reader 1

Ma c’è stata anche parallelamente la responsabilità intera di un popolo che vide arrivare la follia e se ne innamorò a tal punto da dimenticare la propria cultura, la propria umanità in una sbornia collettiva che pagò a duro prezzo con milioni di morti e distruzioni ma che lasciò anche strascichi pesantissimi sulle proprie responsabilità.
Perchè in molti, in troppi nella Germania nazista sapevano delle leggi razziali e della loro tragica applicazione; Mathausen e Dachau, Auschwitz e Birkenau sono nomi che in Germania conoscevano, ma che preferivano ignorare.

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Perchè? Forse perchè il lustro e la potenza che il Fuhrer aveva promesso ( e in qualche modo dato) alla Germania portarono la nazione tedesca a prendersi una rivincita sul passato, su quella prima guerra mondiale che aveva lasciato strascichi pesantissimi, forse perchè oscuramente le leve sulle quali faceva forza il regime nazista avevano troppi sostenitori.
E’ un discorso storico affrontato ormai in ogni sua angolazione e quindi è inutile riesumare in questo spazio una storia che purtroppo tutti conosciamo.

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Due fotogrammi con la splendida protagonista del film Kate Winslett

The reader è uno dei tantissimi film dedicati all’argomento, ma per una volta con un’angolazione assolutamente particolare.
Nel film c’è la banalizzazione del male, vista attraverso la storia di un’oscura kapò, Hanna Schmitz, una donna ignorante e analfabeta che finirà per assurgere a emblema di quel male fatto dalla maggioranza silenziosa, quella stessa maggioranza che diceva di non sapere o che sapeva ed eseguiva gli ordini, solo perchè “gli ordini non si discutono, si eseguono”, la frase che in migliaia pronunciarono davanti ai tribunali chiamati a condannare i misfatti del nazismo.
Un film che racconta proprio questo, il male esercitato da gente che accettò il nazismo forse senza nemmeno condividerne in assoluto le motivazioni aberranti attraverso una storia che ci mostra come il male stesso possa annidarsi in una donna qualsiasi,una donna che a fine guerra rimuove tutto l’accaduto come se nulla fosse e che finirebbe i suoi giorni in maniera anonima non fosse per quel senso di giustizia che anche se con enorme ritardo travolse la Germania ponendola di fronte agli errori e agli orrori commessi.

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The reader narra le due storie parallele di Hanna Schmitz e di Michael Berg, due vite qualsiasi che finiscono per incrociare i propri destini casualmente.
Lei è una donna trentacinquenne solitaria e silenziosa che lavora su un tram mentre lui è un ragazzo quindicenne, uno studente di buona famiglia; i due si incontrano per pura fatalità quando Michael viene soccorso da Hanna mentre torna da scuola con un attacco di scarlattina.
Quando lui si reca a cercare la donna per ringraziarla, la scopre mentre sta vestendosi ma scappa via.
Tornerà da Hanna, e da quel momento inizierà per lui la conoscenza della strada affascinante e misteriosa della sessualità.

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Il giovane Michael Berg interpretato da David Kross

Hanna infatti in qualche modo lo seduce chiedendo in cambio al giovane di leggergli delle poesie o dei brani di romanzi; per un po la loro relazione prosegue in questo modo, tra gite in bicicletta e incontri amorosi.
Poi un giorno Hanna scompare; Michael non sa perchè e la cerca, inutilmente.
Siamo nel 1958 e dovranno passare 8 anni prima che il giovane riveda la sua ex amante.
La rivede nell’ultimo posto in cui avrebbe voluto incontrarla ovvero seduta tra le imputate in un processo contro delle sorveglianti naziste, accusate di aver lasciato morire 300 detenute in una chiesa bombardata e incendiatasi a causa del bombardamento stesso.
Hanna viene in pratica accusata dalle sue ex colleghe di essere l’unica responsabile della vicenda; Michael apprende dal racconto delle testimoni che la donna aveva l’abitudine di farsi leggere storie e poesie, com’era accaduto a lui durante la breve stagione del loro rapporto.

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Michael da adulto interpretato splendidamente da Ralph Fiennes

Ad accusare la donna in maniera determinante è anche un documento in cui Hanna ammette davanti ai suoi superiori le sue responsabilità; il documento è firmato da lei ma Michael sa bene che ciò è impossibile essendo Hanna analfabeta.
Il giovane capisce che Hanna non vuole confessare il proprio analfabetismo e che perciò finirà per essere condannata come unica responsabile, cosa che puntualmente accade.
Passano gli anni e Hanna vive in carcere da detenuta modello mentre Michael si è sposato, ha divorziato ed ha una figlia.
L’uomo decide di riallacciare i rapporti con la donna e le invia registrazioni in cui legge interi libri allegando anche copie dei libri stessi.
Hanna, con molta forza di volontà impara a scrivere e a leggere e così passa il suo tempo fino al giorno in cui ha scontato la sua pena.
Michael, avvisato dalla direzione del carcere si reca a trovare la donna ma alla domanda sul suo passato, sul rimorso per essere stata una nazista e una kapò e di aver contribuito a far morire tante esseri umani riceve una gelida risposta : ” I morti sono morti. Quello che ho imparato? A leggere“.
Così Michael va via e il giorno prima di essere liberata Hanna si uccide nella sua cella.

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Lena Olin interpreta la bambina, ormai adulta, scampata all’eccidio nella chiesa

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Anni dopo l’uomo racconterà a sua figlia la sua breve e intensa storia d’amore con Hanna, che non aveva raccontato a nessuno eccezion fatta per una donna che era riuscita a fuggire dalla chiesa mentre era ancora una bambina e alla quale aveva portato tutti i risparmi di Hanna che in qualche modo aveva tentato di riparare in minima parte al male commesso.
Alla luce di quanto descritto, The reader può essere visto in diverse ottiche; come una storia d’amore impossibile, come una storia di riscatto e penitenza da parte di una delle tantissime persone che contribuirono alla follia nazista, come il percorso di redenzione e presa di coscienza del male fatto, come il racconto di una persona che non fosse stata ignorante avrebbe avuto un altro destino e in svariati altri modi.
Un film girato con abilità da Stephen Daldry che adatta per lo schermo il romanzo di Bernhard Schlink del 1995 A voce alta – The Reader (Der Vorleser) su sceneggiatura di David Hare; il regista di Billy Eliot e The hours crea un film tecicamente perfetto e senza sbavature, affrontando il tema spinoso del romanzo senza emettere giudizi personali ma lasciando parlare i fatti.
Tuttavia è evidente nel regista il tentativo di giustificare anche se in maniera minima l’operato di Hanna, suggerendo l’idea che l’ignoranza sia stata la causa principale delle azioni di Hanna e che l’amore che la donna in qualche modo prova per Michael (che ricambia) sia superiore o quanto meno possa fungere da contrappeso alle azioni commesse.

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Il che ha fatto infuriare un bel mucchio di persone; critici, storici e intellettuali hanno creduto di ravvisare nel film un eccessivo buonismo e un revisionismo storico che francamente non mi sono sembrati nell’ottica del regista.

Daldry racconta i fatti. Forse è indulgente con il personaggio di Hanna per i motivi che ho descritto ma è anche vero che se il personaggio stesso  è colpevole di essere stata una nazista non è però responsabile per aver provocato la morte dei prigionieri , accusa infamante lanciatale durante il processo e della quale è innocente.
Questo non sposta ovviamente il discorso sul non aver fatto nulla per aiutare le persone prigioniere, ma allora alla sbarra ci sarebbe dovuto essere l’intero popolo tedesco.
Inutile proseguire con discorsi che si farebbero lunghissimi per cui parliamo del cast.
Gigantesca, bravissima, sensuale, bella: sono aggettivi per omaggiare Kate Winslett autrice di una prova maiuscola premiata nel 2009 con l’Oscar come miglior attrice protagonista.
La Winslett riesce a trasmettere il senso fortissimo di ambiguità del suo personaggio rendendolo però allo stesso tempo umano e degno di comprensione.
Benissimi i due attori che interpretano rispettivamente Michael da giovane e in età adulta e cioè David Kross e Ralph Fiennes entrambi autori di prove maiuscole e segnalazione per il nostro ottimo Bruno Ganz.
4 nomination e l’Oscar per la Winslet sono stati il giusto tributo ad un film scorrevole, intelligente e ben fatto; un film che riesce a far riflettere e che appassiona.

The Reader – A voce alta
Un film di Stephen Daldry. Con Kate Winslet, Ralph Fiennes, David Kross, Lena Olin, Bruno Ganz, Alexandra Maria Lara, Alissa Wilms, Florian Bartholomäi, Friederike Becht, Frieder Venus, Marie-Anne Fliegel, Rainer Sellien, Karoline Herfurth, Linda Bassett, Hannah Herzsprung, Jeanette Hain, Susanne Lothar, Kirsten Block, Volker Bruch, Matthias Habich Titolo originale The Reader. Drammatico, durata 124 min. – USA, Germania 2008.

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Michael in visita ai luoghi dell’olocausto

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Ralph Fiennes: Michael Berg

Kate Winslet: Hanna Schmitz
David Kross: Michael Berg da giovane
Alexandra Maria Lara: Ilana Mather da giovane
Lena Olin: Rose Mather / Ilana Mather
Bruno Ganz: Professor Rohl
Karoline Herfurth: Martha
Sylvester Groth: consigliere

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Regia Stephen Daldry
Soggetto Bernhard Schlink
Sceneggiatura David Hare
Produttore Anthony Minghella, Sydney Pollack, Donna Gigliotti, Redmond Morris
Produttore esecutivo Bob Weinstein, Harvey Weinstein
Distribuzione (Italia) 01 Distribution
Fotografia Roger Deakins, Chris Menges
Montaggio Claire Simpson
Musiche Nico Muhly
Scenografia Brigitte Broch

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Angelo Maggi: Michael Berg
Chiara Colizzi: Hannah Schmitz
Emiliano Coltorti: Michael Berg da giovane
Melina Martello: Rose Mather / Ilana Mather
Franco Zucca: Professor Rohl

The reader locandina romanzo

Il romanzo da cui è tratto il film

The reader locandina

gennaio 16, 2012 Posted by | Drammatico | , , , , , | 5 commenti

Milano odia: la polizia non può sparare

Milano odia locandina

Il personaggio di Giulio Sacchi, creato da Umberto Lenzi per il suo Milano odia: la polizia non può sparare è uno dei  più famosi del cinema poliziottesco e più in generale di quella branca particolare del genere stesso che veniva definita noir per i moltissimi punti di collegamento con il genere creato dai francesi.
E’ il personaggio centrale del film opposto al suo alter ego Walter Grandi, uomo rigorosamente di legge che pur alla fine verrà meno ai suoi principi scegliendo di farsi vendetta da se; perchè Giulio è un delinquente irrecuperabile, un sadico e un pervertito, privo di qualsiasi scrupolo morale, come vedremo nella descrizione del plot del film.
Con Milano odia: la polizia non può sparare Lenzi passa definitivamente dal cinema giallo, ormai sfruttato secondo lui fino all’osso e al quale aveva dato un contributo fondamentale attraverso film come Così dolce… così perversa (1969), Orgasmo (1969), Paranoia (1969) e Sette orchidee macchiate di rosso (1972) contribuendo in maniera determinante al successo del genere, passa dicevo al genere poliziottesco che riscuoteva un deciso successo nelle sale grazie anche alla sinistra corrispondenza tra le storie narrate sullo schermo e quanto accadeva nella vita di tutti i giorni.
Lenzi era reduce dal buon successo di Milano rovente, che aveva seguito nelle sale il travolgente successo di Milano calibro 9 di De Leo, forse il miglior poliziottesco girato in Italia; il risultato gli darà ancora una volta ragione, dimostrando che il fiuto cinematografico del regista era senza pari.

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Anita Strindberg e Thomas Milian

Lenzi utilizza una sceneggiatura creata da Ernesto Gastaldi per fare un film violentissimo, cupo e a tratti nichilista sopratutto nella parte finale; siamo nel cuore degli anni di piombo e il regista toscano si mostra attento osservatore della realtà quotidiana, riuscendo a cogliere i fermenti e le paure della società e a trasportarle cinematograficamente con un linguaggio che parla allo stesso modo della società stessa.
Milano odia: la polizia non può sparare parte in maniera violenta, quasi a voler far capire da subito che quello che vuol mostrare altro non è che il riflesso della vita di tutti i giorni, fatta di soprusi e violenze, sia politiche che di criminalità comune.

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Henry Silva

Il tempo di leggere il titolo e assistiamo ad una rapina in cui Giulio Sacchi si macchia le mani di sangue senza un valido motivo, uccidendo cioè un vigile urbano solo perchè voleva multarlo; eppure Sacchi potrebbe vivere bene, visto che ha anche una splendida fidanzata di nome Jole che lo ama.
Lui però sogna di diventare famoso, importante e come tutti i mediocri, non potendo usare i sistemi legali, utilizza il crimine per prendersi una rivincita sulla vita; così il passo successivo è l’organizzazione e il rapimento di Marilù , figlia del commendatore Porrino che è poi il datore di lavoro della bella Jole.
Ma da delinquente istintivo e poco intelligente, commette degli errori madornali, tipo quello di usare per il rapimento la macchina della sua donna e quello di servirsi di due teppistelli come Vittorio e Carmine per eseguire il rapimento.

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Gino Santercole

I tre pedinano e intercettano Marilu e il fidanzato mentre si sono appartati ma di fronte alla reazione del ragazzo perdono la testa e lo uccidono; la ragazza riesce a fuggire e a trovare riparo presso l’abitazione di una ricca famiglia, che però non afferra immediatamente la situazione.
Così i tre, che hanno seguito le tracce della ragazza, irrompono nella villa nella quale c’è Marilu e sottopongono a sevizie inenarrabili gli occupanti della casa.

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Le sevizie inflitte da Giulio alla sventurata famiglia

Alla fine Giulio, ebbro di violenza, alcool e droga stermina la famiglia inclusa una bambina che era all’interno della casa.
Sulle tracce della banda e dello spietato Sacchi si mette il commissario Grandi, che è anche l’unico ad aver identificato Giulio; dopo aver visto i delitti compiuti dall’uomo, si rende conto di aver a che fare con un uomo malato, psicopatico e privo di remore morali.
Ma se Sacchi è indubbiamente uno psicopatico, è anche un uomo astuto e per prima cosa, dopo aver chiesto il riscatto al padre di Marilu si premura di costruirsi un alibi.
Intanto, ormai completamente impazzito, elimina la sua fidanzata Jole subito dopo averle confessato gli omicidi; la donna muore precipitando con la sua Mini da una scogliera.
Poi, in una sequenza con un crescendo infernale, dopo varie vicissitudini uccide i suoi complici e anche l’ostaggio.
La farebbe franca, ma….
Un film caratterizzato da una carica di violenza fortissima, dunque; un crescendo rossiniano nel quale non vengono risparmiate sequenze crude, come quella in cui le due sventurate padroni di casa dove si è rifugiata Marilù vengono torturate ed appese ad un lampadario.
Non c’è tregua, nel film, che è costruito tutto attorno a Giulio Sacchi, un uomo completamente folle nella sua totale paranoia, psicopatico e assassino, bugiardo e ladro, caratterizzato quindi da tutti i peggior difetti riscontrabili in un criminale.
Attorno a lui, personaggi deboli e ammaliati dalla sua personalità psicopatica, come i due delinquenti di mezza tacca Vittorio e Carmine, la fidanzata Jole.

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La confessione a Jole

Il merito principale del film di Lenzi è quello di esasperare volutamente i caratteri negativi dei personaggi; qui i cattivi sono davvero tali, Giulio Sacchi è il prodotto di una società violenta che alla fine riuscirebbe anche a farla franca non fosse per l’ostinazione del commissario Grandi, deciso a vendicare le vittime anche a costo di porsi aldilà della legge.
Che è poi quello che farà.
Caratterizzato da un cast di comprimari di assoluto livello, con le debite eccezioni dei due protagonisti principali,Milano odia: la polizia non può sparare presenta un Thomas Milian in stato di grazia.
Perfido, istrionico, crudele e sociopatico, il personaggio di Giulio è interpretato dall’attore cubano con una capacità espressiva che lascia stupefatti; che Milian fosse uno dei migliori attori in circolazione lo si sapeva già e questo film sarà per lui un trampolino di lancio per i personaggi futuri legati sempre al mondo del poliziottesco.

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Ray Lovelock

La sorpresa è anche costituita da Henry Silva; l’attore statunitense, lasciati i ruoli di “cattivo” o di gangster si ricicla nei panni del commissario Walter Grandi in maniera misurata e oserei dire dolente. Il suo personaggio sembra acquisire spessore proprio grazie all’aria malinconica che lo distingue.
Tutte ineccepibili le protagoniste femminili, dalla splendida Anita Strindberg che interpreta la sortunata fidanzata di Giulio, Jole a Laura Belli, che veste i panni di Marilù Porrino, la ragazza scelta per il rapimento per finire con Rosita Toros, una delle attrici di contorno più affascinanti del cinema italiano, sfruttata però pochissimo per ruoli di primo piano.

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Laura Belli

Sua è l’interpretazione della sventurata Marta, la ragazza seviziata e appesa dal folle Giulio ad un lampadario.
Da segnalare anche le interpretazioni di Ray Lovelock e Gino Santercole nei ruoli rispettivamente di Carmine e Vittorio ovvero i due sciagurati compagni di Giulio.
Le musiche appropriate sono di Ennio Morricone, per un film che con La mala ordina e Milano calibro 9 è da considerarsi come uno dei prodotti migliori del noir italiano del passato.

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Milano odia: la polizia non può sparare
Un film di Umberto Lenzi. Con Henry Silva, Tomas Milian, Mario Piave, Laura Belli, Nello Pazzafini, Guido Alberti, Pippo Starnazza, Lorenzo Piani, Ray Lovelock, Luciano Catenacci, Elsa Boni, Gino Santercole, Rosita Torosh, Anita Strindberg,  Poliziesco, durata 100 min. – Italia 1974.

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Milano odia 7

La prima vittima della spirale di sangue

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Il corpo dello sventurato fidanzato di Marilu

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Le sevizie continuano

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Il tragico epilogo dell’irruzione in casa della famiglia che ha accolto Marilu

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Un’altra morte inutile

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Un intenso primo piano di Thomas Milian

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Milano odia banner personaggi

Tomas Milian: Giulio Sacchi
Anita Strindberg: Jole Tucci
Laura Belli: Marilù Porrino
Guido Alberti: commendator Porrino
Lorenzo Piani: Gianni
Henry Silva: commissario Walter Grandi
Mario Piave: agente di polizia
Gino Santercole: Vittorio
Ray Lovelock: Carmine
Luciano Catenacci Ugo Maione
Francesco D’Adda: Romano
Rosita Toros: Marta
Annie Carol Edel: sua amica
Pippo Starnazza: papà
Nello Pazzafini: cliente del bar

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Milano odia banner cast

Regia Umberto Lenzi
Sceneggiatura Ernesto Gastaldi
Fotografia Federico Zanni
Montaggio Daniele Alabisio
Effetti speciali Giuseppe Carozza
Musiche Ennio Morricone
Tema musicale Rapimento
Costumi Luciano Sagoni
Trucco Fausto De Lisio

 

 

 

 

 

 

gennaio 13, 2012 Posted by | Drammatico | , , , , , , | 4 commenti