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Scuola di nudisti (Mon curé chez les nudistes)

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Padre Daniel è il parroco di una piccola chiesa in un piccolo villaggio francese.
Convinto assertore del metodo (poco ortodosso, in verità) “comico”, ovvero fautore dell’uso di sketch comici per attirare fedeli, riesce ad avere un buon seguito proprio grazie alle sue non comuni doti di imitatore e di mimo.
I suoi sermoni sono seguiti quindi da un pubblico di parrocchiani abbastanz anutrito, sempre divertito dalle invenzione del buon Daniel.

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Paul Preboist è Padre Daniel

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La sua fama raggiunge così la curia e un suo superiore, chiamato semplicemente “Monsignore” gli affida un incarico assolutamente particolare.
Padre Daniel deve recarsi presso un villaggio di naturisti e cercare di riportare il gregge all’ovile.
Il povero padre Daniel così parte per il villaggio sulla sua scassatissima Citroen 2 CV; durante il viaggio, fermatosi per riposare, viene raggiunto da una secchiata d’acqua lanciata da un camper così lo sventurato prete è costretto a spogliarsi per far asciugare l’abito talare. Un ladruncolo in fuga si impossessa dei suoi abiti stesi ad asciugare,così a Don Daniel non resta che usare gli abiti del ladruncolo, che gli ha anche lasciato in eredità una papera.

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Giunto al campo, Daniel si ritrova nel bel mezzo di una vera guerra tra i naturisti e i vicini. Da quel momento una serie infinita di disavventure attendono il prelato ; circondato da splendide donne e da uomini che girano attorno a lui completamente nudi, lo sventurato parroco prova sulla sua pelle le tentazioni e le problematiche del naturismo.Costretto a liberarsi dell’abito talare, Daniel per evitare di dover girare nudo, si procura una tuta da lavoro di uno sgargiante color porpora con scritto su “en rodage”, ovvero agli inizi.

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Dopo una serie di disavventure tra il comico e il farsesco, padre Daniel…..
Diretto da Robert Thomas nel 1982, Scuola di nudisti, conosciuto in Francia come Mon curé chez les nudistes  (Il mio curato tra i nudisti) esce nel 1982 assolutamente in sordina sui nostri schermi.
Siamo di fronte ad una commediola costellata di gag tipiche del cinema francese, mentre il film stesso è costruito attorno alla simpatia di Paul Preboist, un attore da noi poco conosciuto, ma in possesso di una forte carica umoristica e sopratutto ottimo mimo.

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Scuola di nudisti presenta una pletora assolutamente eterogenea di nudi femminili, che però, inseriti in un contesto comico/farsesco tutto hanno tranne che la volgarità; così il film diventa una continua serie ininterrotta di gag e situazioni surreali, nelle quali il povero padre Daniel viene a trovarsi.
Tra donne nude che lo circondano, lo sbaciucchiano, lo toccano, lo sfiorano con i loro seni seducenti, il prelato è costretto a subire tentazioni che nemmeno un santo saprebbe respingere.

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Tuttavia il prete riesce a mantenersi casto, almeno fino ad un certo punto.
Un film assolutamente inoffensivo, in qualche modo tributario delle tante pellicole sexy della commedia all’italiana, che utilizza il naturismo non certo per stigmatizzarne o esaltarne le virtù, ma solo come fonte di gag e di equivoci.
Va detto che alcune trovate sono davvero comiche e se la sceneggiatura non è certo originale, tuttavia a tratti ci si diverte davanti alle disavventure di Padre Daniel, che però conserva una sorta di candore assolutamente inattaccabile davanti alle disavventure che sistematicamente gli si parano davanti.

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Paul Preboist poi è assolutamente straordinario nei panni di Padre Daniel; la veste talare sembra cucita addosso come una seconda pelle e il suo personaggio, pur nei limiti di una pellicola B movies è ottimamente interpretato.
Un film discreto, quindi, con momenti esilaranti e sopratutto con un gineceo femminile di prim’ordine, che se non si segnala per la recitazione quanto meno è apprezzabile sul piano di vista meramente fisico.

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Scuola di nudisti, (Mon curé chez les nudistes), un film di Robert Thomas, con Katia Tchenko, Paul Préboist, Georges Descrières, Jean-Marc Thibault, Marc de Jonge, Henri Génès, Philippe Nicaud Commedia, Francia 1982

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Paul Préboist     …     Padre Daniel
Georges Descrières         … Monsignore
Henri Génès          …     Truffard
Philippe Nicaud         …     Léon
Katia Tchenko          …     Gladys
Jean-Marc Thibault         …     Antoine
Ramiro Olivera          …     Alex ,il figlio d’Antoine
Brigitte Auber          …     Charlotte – la ragazza d’Antoine
Marc de Jonge         Oscar, il coiffeur
Sophie Boudet          …     Miquette
Max Elisee          …     Banania
Pétronille Moss          …     Sophie
Cathy Esposito          …     Jeannette – la ragazza di Léon

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Regia: Robert Thomas
Sceneggiatura: Robert Thomas
Produzione: Marcel Albertini, Jacques Leitienne, Gabriel Rossini
Musiche: Romuald
Editing: Jacqueline Thiédot
Costumi: Sylviane Combe
Trucchi: Béatrice Labuset

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febbraio 28, 2011 Posted by | Commedia | | Lascia un commento

Porky’s – Questi pazzi pazzi porcelloni

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In un liceo della Florida ad Angel Beach una banda di scatenati ragazzi divide il proprio tempo tra lo studio e la goliardia; i giovani organizzano scherzi e beffe e il bersaglio preferito è il giovane Pipino considerato ancora un adolescente anche perchè non ha avuto la prima esperienza sessuale.
Nel gruppo, per contraltare, c’è il giovane Pilone così soprannominato per le dimensioni del suo organo sessuale.
Gli scherzi, anche feroci, sono se non assecondati, visti con occhio complice dagli insegnanti, fra i quali c’è la giovane Miss Honeywell, soprannominata Lassie per l’abitudine parecchio imbarazzante di ululare come un collie quando ha un orgasmo dopo un rapporto sessuale.
I giovani alla fine decidono di far provare l’ebbrezza del primo rapporto a Pipino e decidono di portarlo in un locale per adulti di una vicina contea, il Porky’s.

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L’introduzione alla sequenza più esilarante del film; l’insegnante dal preside per la denuncia

Qua però avranno la disavventura di essere derubati e beffati dal laido proprietario del locale il quale grazie anche all’aiuto del fratello sceriffo lascia i giovani sconfortati e senza denaro.
Ma arriverà la riscossa, grazie anche all’aiuto del fratello di uno dei giovani, anche lui sceriffo, che porterà alla tanto agognata vendetta nei confronti del prepotente Porkys.
Nel finale, Pipino sarà iniziato al sesso dalla disponibile Wendy, che in realtà non è affatto la ninfomane che gli amici credevano.
Porky’s è l’antesignano di un certo tipo di commedia scolastica che tanto successo avrà poi nel corso del decennio ottanta sopratutto in America e che diverrà poi l’apripista della interminabile serie dei Decameron Pie.
Un film decisamente divertente e spassoso, anche perchè ebbe la fortuna di essere il primo a trattare tematiche adolescenziali/liceali unendo a queste uno humour un tantino greve ma di sicuro impatto.
Il film è a tratti davvero irresistibile; basti pensare alla scena più famosa del film, quella in cui un’insegnante afferra il pene di uno studente e si rivolge al preside per avere l’autorizzazione a identificarlo fra quello degli studenti, suscitando l’ilarità irresistibile sia degli altri insegnanti sia del preside stesso.

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La “sfilata delle pellicce”

Il film è ben congegnato, le battute fioccano e i momenti di ilarità si susseguono; la ricerca disperata di Pipino, il rapporto sessuale tra la scatenata “Lassie” e l’insegnate di ginnastica, la vendetta dei ragazzi ai danni di Porky’s sono momenti di cinema davvero spassoso.
Il film quindi è fresco e spontaneo pur nei limiti di una certa grevità delle situazioni; ma va anche detto che la comicità delle stesse non è legata come nel caso delle commedie sexy del filone studentesco italiano alle flatulenze e alle battute scurrili.

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La celebre sequenza con protagonista Kim Cattrall

Anche se la tematica di fondo è a base eminentemente sessuale, c’è tuttavia una certa eleganza nel trattare l’argomento, così come non ci sono scene di sesso se non quella menzionata tra Lassie e l’insegnante e le scene di nudo sono limitate all’esposizione in una doccia del corpo di alcune ragazze, scena peraltro assolutamente irresistibile.
Si ride tanto e di gusto, per una volta.
E sicuramente si prova un forte senso di invidia per i giovani protagonisti della storia, tutti belli atletici e simpatici, senza pensieri, che nel film si muovono sullo sfondo di un’America che all’epoca era la potenza numero uno al mondo, incontrastata e priva dei gravissimi problemi economici dei giorni nostri.
Un’America cinica e divertita, allegra e quasi goliardica; quella che vediamo emergere da Porky’s è una nazione che sembra non avere problemi.
Ovviamente non è di certo questo il “messaggio” del regista: tutto ciò lo immaginiamo vedendo i ragazzi muoversi in ambienti medio borghesi nei quali un certo tipo di problematiche sembra essere completamente assente.
Tuttavia Porky’s, aldilà della leggerezza di fondo e indipendentemente dal fatto che si tratti di una commedia adolescenziale, mantiene una freschezza invidiabile grazie anche alla buona mano del regista Bob Clark, che in pratica fece tutto da solo, inclusa la sceneggiatura e infine la produzione.

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Clark due anni dopo riproporrà il sequel del film, con risultati decisamente più modesti; la spontaneità, la simpatia, quell’aria di innocente goliardia di Porky’s si smarrirà in un confuso sequel in cui si ride molto meno e ci si annoia molto più.
Per finire, due note sul cast.

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Di tutti gli attori presenti, l’unica ad avere una certa fama era l’allora giovanissima Kim Cattrall.
La splendida attrice diverrà poi famosissima in America e anche da noi nella serie televisiva Sex and the City; in questo film è la simpaticissima Lassie, l’insegnante così soprannominata perchè ulula durante i rapporti sessuali, un’abitudine conosciutissima sia dai suoi colleghi che dai suoi studenti, cosa che ingenera ovviamente battute sconce di ogni genere.

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Porky’s – Questi pazzi pazzi porcelloni, un film di Bob Clark. Con Kim Cattrall, Scott Colomby, Kaki Hunter, Susan Clark, Art Hindle, Roger Wilson, Wayne Maunder, Jill Whitlow, Eric Christmas, Wyatt Knight, Tony Ganios, Douglas McGrath, Cyril O’Reilly, Alex Karras, Mark Herrier, Ilse Earl, Chuck Mitchell, Boyd Gaines, Nancy Parsons, Dan Monohan, John Henry Redwood, Jack Mulcahy, Rod Ball, Terry Guthrie, Lisa O’Reilly, Allen Simmons
Titolo originale Porky’s. Commedia, durata 94 min. – Canada 1981

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Dan Monahan    …     Pee Wee (Pipino)
Mark Herrier    …     Billy
Wyatt Knight    …     Tommy
Roger Wilson    …     Mickey
Cyril O’Reilly    …     Tim
Tony Ganios    …     Meat
Kaki Hunter    …     Wendy
Kim Cattrall    …     Honeywell (Lassie)
Nancy Parsons    …     Balbricker
Scott Colomby    …     Brian Schwartz
Boyd Gaines    …     Insegnante Brackett
Doug McGrath    …     Insegnante Warren
Susan Clark    …     Cherry Forever
Art Hindle    …     Ted Jarvis
Wayne Maunder    …     Cavanaugh

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Regia     Bob Clark
Soggetto     Bob Clark
Sceneggiatura     Bob Clark
Produttore     Bob Clark
Casa di produzione     20th Century Fox
Fotografia     Reginald Morris
Montaggio     Stan Cole
Musiche     Carl Zittrer, Paul Zaza
Scenografia     Reuben Freed, Paul Harding, Mark S. Freeborn
Costumi     Mary E. McLeod, Larry S. Wells

Le recensioni qui sotto appartengono al sito http://www.davinotti.com

TUTTI I DIRITTI RISERVATI

Antesignano (è stato girato nel 1981!) di tutte le commedie giovanilistiche tipo American Pie (che gli deve più di qualcosa), Porky’s è una perchetta macchina di comicità che funziona tutt’oggi a molti anni dalla sua realizzazione. Frutto dello straordinario ritmo con cui è stato girato e dell’avere osato il politicamente scorretto, fatto di tutto quello che al cinema non si dovrebbe mostrare e che viene invece spudoratamente esibito per far ridere. Mito giovanile.

Scollacciata e porcellosa (come da titolo) commedia giovanile diretta da un regista che aveva percorso ben altre vie (Black Christmas, ad esempio). L’ironia a volte scade nel cattivo gusto, ma non rifugge da un tipo di narrazione verosimile e facilmente accostabile alla realtà adolescenziale dell’epoca. Non è, di fatto, un caso se il film da origine ad un filone e ad una serie, restando – nel bene e nel male – impresso negli annali della cinematografia “leggera”…

Divertente, l’ho visto parecchie volte da ragazzino dato che era trasmesso con notevole regolarità sulle reti fininvest. Rispetto ai film odierni ambientati nelle high schools americane c’è una maggiore libertà nel trattare il sesso, con un’infinità di battutacce e doppi sensi molto divertenti. Forse c’è un leggero calo nel finale, quando i ragazzi organizzano la loro vendetta contro Porky, ma nel complesso il film regge bene fino alla fine.

Commediola “sporcacciona” che all’epoca ebbe un grande successo (tanto da dare vita a due seguiti e ad un vero e proprio filone) ma che rivista oggi appare ben più “innocua” di allora. Qualche risata la strappa ed i protagonisti sono simpatici ma alla fine non è nulla di memorabile. In ogni caso si lascia guardare ed è comunque superiore a tutti gli American pie messi insieme.

Visto per la prima volta con quasi trent’anni di ritardo dalla sua uscita, Porky’s non è certo quel campione di oltraggiosa volgarità cui si additava allora e nemmeno tutto questo spasso… Epperò: dietro l’irriducibile goliardia si nasconde una sorta di utopia eterosessuale adolescenziale dove sesso, botte e scherno, vissuti in assoluta spensieratezza, non producono conseguenze e traumi, discriminazioni o bullismo. La vera corruzione sta nel mondo adulto, esemplificato dal locale di Porky’s, non a caso demolito dai ragazzi: un’illusione che lo slasher anni ’80 decimerà a colpi d’ascia…

Purtroppo Bob Clark deve la sua (poca invero) notorietà più all’aver diretto i primi due episodi della serie “Porky’s” che non per quanto fatto, con esiti sicuramente migliori, nel campo horror (il suo Black Christmas è un piccolo gioiello del genere). Precisato questo parliamo di questo film che è divertente, anche se basato su situazioni e battute di grana veramente grossa. All’epoca della sua uscita non era comune come oggi veder trattati così espicitamente temi legati al sesso. Non certo impedibile ma un’occhiata si può dargliela.

Goliardico e simpatico. All’epoca fece scandalo, al giorno d’oggi appare abbastanza ingenuo (ma neanche troppo). Da segnalare il divertente cameo di Susan Clark nel ruolo della prostituta, per il resto adatto agli appassionati delle commedie goliardiche anni ’80.

Un buon film nel suo genere, portatore di sana allegria triviale e caratterizzazioni riuscite. Pipino (personaggio irripetibile), Pilone e i compagni di merende da una parte. Dall’altra i personaggi per così dire istituzionali: Professori, Pollastrelle e Poliziotti in tono con l’atmosfera scema ma ben costruita. Meno riuscita la disfida con Porky. Ha inaugurato un filone discutibile e ripetitivo ma ai suoi tempi fece scuola.

Rivisto oggi fa quasi tenerezza per come sono cambiati i costumi sessuali, ma ai tempi fu una delle più oltraggiose commedie mai fatte (basti ricordare la prima inquadratura dell’erezione di Pipino). Ma è sempre un film che si rivede volentieri, merito soprattutto di una sceneggiatura curata, pur se un po’ macchinosa, mai banale, che oltre alle goliardate di turno offre anche importanti spunti di riflessione(alcolismo, razzismo). Simpaticissimo tutto il cast degli studenti. Brillante regia di Clark.

Ma come ci si può dimenticare di Pipino e Pilone? Questa pellicola è passata alla storia. Una comicità puramente goliardica e situazioni comico-erotiche rendono godibilissimo il film soprattutto nella sua prima parte. Ci troviamo di fronte ad uno dei capostipiti della commedia goliardica (seconda solo ad Animal House), e per le situazioni e le scene trattate ha fatto da apripista alle innumerevoli pellicole postume. Da vedere assolutamente.

Primo film di una serie che ha praticamente creato un filone, quello delle commedie adolescenziali sexy che, purtroppo, continua ancora oggi e con gli stessi risultati. Di sceneggiatura manco a parlarne, visto che si tratta di una sequela di gag e battute che farebbero invidia pure ai nostri Vitali, Montagnani e compagnia bella. Regia meno che mediocre di Clark e attori decisamente inconsistenti. Da evitare.

Commedia sull’adolescenza e l’approccio dei giovani al mondo del sesso, un po’ come un American Pie e come tanti altri film goliardici. Ma questo è ambientato negli anni 50 (ottimamente ricostruiti) e riflette i costumi sessuali dell’epoca. Ben sceneggiato e con trovate piuttosto divertenti. Ben caratterizzati i personaggi, da Pilone a Pipino e Wendy. Tra uno scherzo e l’altro viene aperta anche una parentesi al razzismo. Un cast un po’ anonimo, qualche sequenza un po’ lenta, ma nel complesso la ricetta è vincente e negli 80 ebbe un successone.

Quante volte l’avrò visto… e quante volte ancora lo rivedrò. Tutto divertente, con i personaggi nel posto giusto e con le facce giuste, ma le scene di Lassie e del pene “da identikit” restano negli annali, con la risata che ti rende complice senza rendertene conto. Clark era un grande regista, capace di portare su schermo in maniera adeguata sia trattamenti seriosi od orrorifici che altri più faceti. Questo è un cult assoluto, immarcescibile.

Ricordavo perfettamente di averlo visto al cinema, a 13 anni, una domenica, di pomeriggio. Una seconda visione, posteriore di 28 anni, ha confermato i miei pensieri: dopo tanti anni, le cose cambiano! La perla di saggezza appena citata riguarda la goliardia del tempo, che ora non c’è (quasi) più. È rimasta però nel film, sboccato al quadrato e sexy come il villoso Trivex in minigonna. Praticamente un porno psicologico, dove la volgarità è costruita per divertire, non per offendere il guardone. Mi ero divertito prima e mi sono divertito anche adesso! ***

Angel Beach, 1954, un gruppo di studenti fanno il diavolo a quattro per riuscire a fare sesso, fare scherzi e vendicarsi dei prepotenti della città. Porky’s è proprio il nome del locale (e del proprietario) di spogliarelli nel quale si verificherà lo scherzo definitivo. Scorre bene, è piacevole; forse gli anni ’50 sono poco caratterizzati (la musica ad esempio è in secondo piano) ma questo è un dettaglio.

La prima scena riesce perfettamente a delinearne i tratti salienti: l’adolescente che si misura l’erezione e riporta preoccupato i dati nell’apposita tabella. Poi saltano fuori, una a una, tutte le macchiette di questo cult fatto di gag e situazioni. Non ha nulla di particolarmente riuscito o rilevante, solo un manifesto goliardico della sua epoca, un po’ ossessivo, un po’ eccessivo, ma godibile (in gruppo chiassoso e con birra a volontà).

Divertentissimo. Manifesto di un epoca d’oro della commedia e particolarmente irriverente nelle trovate comico-erotiche. La produzione è canadese e questo è un beneficio dal punto di vista del “politically incorrect”. Non ci sono ipocrisie nell’affrontare il sud provinciale degli Stati Uniti anni 50. Personaggi tutti indovinati e memorabili anche con brevi apparizioni e regia che riesce a non far calare mai il ritmo. Un classico.


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febbraio 23, 2011 Posted by | Commedia | , | Lascia un commento

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Il professor David Summer, neo vincitore di una borsa di studio per i suoi studi matematici si reca con la giovane moglie Amy in un piccolo paese di una contea inglese in Cornovaglia del quale la moglie è originaria.
Il giovane professore di indole mite, stenta da subito ad entrare in confidenza con gli abitanti del luogo, anche perchè distratto dai suoi studi mentre sua moglie, che non è tornata volentieri nel paese che l’ha vista nascere ben presto si annoia.
Durante i lavori di ristrutturazione della casa, Amy si mostra in topless ai lavoranti che tra l’altro sono le persone meno affidabili del paese.

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Dustin Hoffman interpreta il professor David Summer

Ben presto gli uomini, complice anche la distrazione di David, arrogantemente iniziano a mostrare pericolose mire sulla moglie di David arrivando  a minacciare la pricacy della coppia.
Il gruppo infatti penetra nella casa di David e Amy e dopo aver ammazzato la gatta di casa, la appendono per il collo nell’armadio della donna.
Nonostante la moglie protesti per la mancanza di reazione di David davanti ai soprusi, quest’ultimo non reagisce limitandosi ad andare a caccia con loro, attirandosi così il profondo disprezzo della moglie.
Durante la battuta di caccia, i teppisti lasciano solo David e si recano a casa sua, dove violentano la troppo disponibile Amy.

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Susan George è Amy, la moglie di David

La donna però decide di non raccontare l’accaduto al marito; le cose cambiano drammaticamente quando, durante una festa, Henry Niles abitante del posto con alcune turbe psichiche uccide involontariamente la giovanissima Sally.
Henry fugge sconvolto e finisce per essere quasi investito da David, che lo carica in macchina e lo porta a casa, deciso a soccorrerlo.

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David Warner è Henry, l’assassino

Nel frattempo, scoperto l’accaduto, il gruppo di prepotenti raggiunge casa di David decisi a farsi giustizia da soli.
Qui però incontrano il netto rifiuto dell’uomo, che da quel momento difende strenuamente l’ospite, battendosi come una furia per garantirne il diritto ad essere giudicato dalla legge….
Cane di paglia, diretto da Sam Peckinpah nel 1971 su riduzione del romanzo The Siege of Trencher’s Farm di Gordon Williams è uno dei più controversi film del regista californiano e dell’intero decennio settanta.
Un film in cui la forte tematica di fondo, i rapporti tra gli individui cosidetti normali e la violenza, il sopruso e la prevaricazione, la trasformazione da cane di paglia in vendicatore dei torti subiti e in difensore dei valori venne vista in un’ottica di estrema misoginia da parte del regista.
Se vogliamo un fondo di verità in tutto ciò c’è; Peckinpah utilizza la violenza per mostrare come nell’individuo esista una forma di auto difesa estrema che lo porta, in condizioni particolari, a ribellarsi a tutto ciò che metta in pericolo il suo piccolo universo.

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E a fare quindi uso della violenza per combatterne una forma subdola, che vuole e può annichilirne i diritti inalienabili.
Cane di paglia, aldilà del suo messaggio più o meno condivisibile sul teorema individuo/violenza “genetica”, è un film molto cupo, girato con mano assolutamente ferma e con uno sguardo cinico e misogino da parte di un regista abituato a portare sullo schermo una violenza che sembra l’espressione di un rituale tribale del quale l’umanità non ha ancora imparato a fare a meno.
Se nel 1969 il mondo aveva imparato a conoscere la parte estrema della violenza attraverso il capolavoro del regista, Il mucchio selvaggio, nel 1971 impara a conoscere una nuova forma di violenza, più subdola e più individuale.
Quella sull’individuo mite, tranquillo, impersonato da David; un uomo che in fondo sarebbe invisibile e che altro non chiede che di poter vivere la sua vita da studioso, immerso nella matematica, in quel mondo di numeri retto da regole precise e ordinate.

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Una violenza che costringe David a trasformarsi completamente, a diventare l’esatto opposto del cane di paglia a cui tutto si può fare.
Il bisogno trasforma David in un essere primordiale, in cui l’istinto oscura quasi completamente la ragione, anche se proprio la ragione verrà in aiuto del timido professore, ispirandogli le forme migliori di difesa.
Non esistono quindi i cani di paglia, esistono solo dei cani dormienti, pronti a svegliarsi quando le cose precipitano e vengono messi in discussione i loro valori.
Peckinpah va oltre, caratterizzando in negativo i personaggi del film, tra i quali spicca Amy, moglie del professore, una donna mal assortita in coppia con il tranquillo David, civettuola e in fondo anche un tantino sciocca e vanesia.
Il film è diviso nettamente in due parti; una prima parte descrittiva, introduttiva, nel quale vediamo l’avvicinarsi della tempesta segnalato dai numerosi atti vigliacchi del gruppo di teppisti e assistiamo contemporaneamente al comportamento ignavo di David, che sacrifica orgoglio e dignità al suo desiderio di vivere tranquillo.

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Lo stupro di Amy

La seconda è un crescendo rossiniano; l’uomo impara a difendere i suoi valori, la sua casa e perchè no, quella donna che lo disprezza e che non vorrebbe farsi coinvolgere, anzi, che chiede esplicitamente a David di consegnare Henry al gruppo di teppisti e ubriachi che li assediano.
Il finale è una drammatica esclation che mostra la metamorfosi di David fino alle estreme conseguenze.
La parte di David è affidata ad un Dustin Hofman che veniva dalle spettacolose performance di Un uomo da marciapiede di John Schlesinger e da  Piccolo Grande Uomo  di Arthur Penn; l’attore americano si conferma come uno dei più grandi attori tra le nuove leve e consegna alla storia del cinema una recitazione asciutta, rigorosa e impeccabile del professor David.

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L’attore cura il personaggio nei minimi particolari, fornendo una prova maiuscola attraverso l’interpretazione di David  caratterizzata dalla debolezza del carattere dello stesso fino alla resurrezione ( o involuzione?) finale.
Bene anche Susan George e bene Peter Vaughan.
Cane di paglia, come Arancia meccanica, uscito più o meno nello stesso periodo, sono due facce di una stessa medaglia:

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la società violenta, nichlista di Kubrick è formata anche da tanti individui come il David di Peckinpah. Il discorso sociale della violenza come affermazione dell’individuo non è altro che la punta dell’iceberg, alla base del quale c’è David e tutti quelli come lui, i cani di paglia con i quali però, è meglio non scherzare troppo.

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Cane di paglia, un film di Sam Peckinpah. Con Dustin Hoffman, Peter Vaughan, David Warner, Susan George Titolo originale Straw Dogs. Drammatico, durata 118 (113) min. – USA 1971.

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Cane di paglia banner personaggi

Dustin Hoffman David Summer
Susan George Amy Sumner
Peter Vaughan Tom Hedden
T.P. McKenna Major John Scott
David Warner Henry Niles
Del Henney Venner
Jim Norton: Chris Cawsey
Donald Webster: Riddaway
Ken Hutchison Scott
Sally Thomsett: Janice Hedden
Peter Arne: John Niles
Len Jones Bobby Hedden
Michael Mundell Bertie Hedden (scene eliminate)
Colin Welland: Rev. Barney Hood

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Regia     Sam Peckinpah
Soggetto     Gordon Williams (romanzo The Siege of Trencher’s Farm)
Sceneggiatura     Sam Peckinpah, David Zelag Goldman
Produttore     Daniel Melnick
Fotografia     John Coquillon
Effetti speciali     John Richardson
Musiche     Jerry Fielding
Scenografia     Ray Simm
Costumi     Tiny Nicholls
Trucco     Harry Frampton

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Ferruccio Amendola: David Summer
Vittoria Febbi: Amy Sumner
Gualtiero De Angelis: Tom Hedden
Glauco Onorato: Venner
Bruno Persa: Major John Scott
Vittorio Stagni: Chris Cawsey
Luciano De Ambrosis: Riddaway
Cesare Barbetti: Scott
Flaminia Jandolo: Janice Hedden
Manlio De Angelis: John Niles
Romano Ghini: Rev. Barney Hood

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Misogino, visto che le uniche due donne veramente presenti fanno entrambe una pessima figura. Rappresentazione di come i buoni sopportino, sopportino e sopportino, ma quando esplodono… Buon film (giudicato di destra da miopi e cisposi dell’epoca: al di là dell’ovvio fatto che si può fare un buon film di destra, questo è tutt’altra cosa), ma resta lontano dal capolavoro per un’eccessiva lentezza iniziale (per preparare bastava meno tempo: così tedia) e per la troppo calcata caratterizzazione del personaggio principale, che scade troppo da imbelle a imbecille. ***

Basato sul discutibile concetto morale dell'”occhio per occhio” e della difesa (a tutti i costi) del proprio territorio, il film di Sam Peckinpah vale sopratutto per la caratterizzazione (abilmente effettuata dalla sceneggiatura) del protagonista, classico uomo qualunque, anzi un tantino banale, che subisce una profonda trasformazione che culmina in un’escalation di violenza. Ottima la regia che riesce a creare un crescendo di tensione anche grazie all’ottima interpretazione di Dustin Hoffman.

Notevolissima incursione di Sam Peckinpah nel dramma a forti tinte (la chiusa, con furiosa ed inattesa vendetta, ha del memorabile) supportata dalla più che convincente immedesimazione nel ruolo da parte del grande Dustin Hoffman. A suo modo può essere considerato -previa eccezione de La fontana della Vergine (1960) – un precursore (d’alto rango) del “rape & revenge”, che raggiungerà picchi di cinismo estremi in L’ultima casa a sinistra (Wes Craven, 1975) e Non violentate Jennifer (Meir Zarchi, 1978). Finale ferocissimo, per l’epoca del girato.

Studioso si trasferisce in un villaggio dove la moglie è violentata dagli abitanti del luogo. Due ore ben realizzate di tensione psicologica in crescendo, farcita di violenza. Ma l’esaltazione della violenza (sia pure come legittima difesa), la contrapposizione tra il civilizzato colto e i rozzi e vigliacchi contadini, l’idea del territorio da difendere: tutto questo rischia di trascendere la cornice filmica per diventare discutibile paradigma etico di un comportamento naturale. Ottimo Hoffman. Ambiguo e spietato.

Straordinario e controverso film in cui Peckinpah tratta il tema a lui più caro: la violenza come sintesi di tutti i rapporti umani. Qui, infatti, essa esplode in un uomo normale e pacifico e lo fa in tutta la sua potenza e follia raggiungendo livelli di efferatezza notevoli ma comunque mai gratuiti. Incredibile il “filosofico” e caotico montaggio che si “riferisce al caos morale e materiale che domina le persone”. Assolutamente da vedere.

Discusso e discutibile nell’assunto, misogino, inevitabilmente datato nella rappresentazione della violenza (ne è passato di sangue sotto i ponti), possiede tuttavia uno spessore raro in gran parte degli epigoni, dovuto sia all’abilità del regista di costituire lentamente la tensione, sia all’interpretazione sfumata di Hoffman, mite intellettuale che si trasforma in belva per la difesa del suo territorio, a dimostrazione dell’immutabilità dell’animo umano sotto la vernice della civilizzazione. Importante più che bello.

Non certo tra le migliori opere del grande regista americano, ma pur sempre un Peckinpah movie. Ottima la prova di Dustin Hoffman, timido professorino che subisce tutto in totale silenzio ma che alla fine si trasforma letteralmente e farà valere le sue regole. Il film, che all’epoca fu molto osteggiato dalla critica ufficiale perché considerato di “destra”, ha un crescendo di tensione e di violenza che tiene ben desta l’attenzione dello spettatore. Sicuramente la sufficienza se la porta a casa.

Grande film. Incredibilmente pessimista e disperato, parte molto lentamente per poi diventare teso a appassionante come pochi altri lungometraggi. La regia è sapiente e crea un’ottima atmosfera (ricreata grazie all’eccellente fotografia e alle belle ambientazioni) e un clima di rabbia e follia che non lascia indifferenti. La violenza è presente ma non è compiaciuta. Ottimo anche il montaggio. Grande Hoffman, bellissima la George, bravo Warner. Da non perdere.

febbraio 21, 2011 Posted by | Drammatico, Senza Categoria | , , | Lascia un commento

La più bella serata della mia vita

La più bella serata della mia vita locandina

Un industriale romano, Alfredo Rossi, viaggia verso la Svizzera proveniente da Milano.
A bordo della sua auto ha una grossa somma di denaro, che l’uomo deve esportare in barba alle leggi valutarie.
L’arrivo in Svizzera riserba all’uomo una sgradita sorpresa; la banca dove deve depositare il denaro è chiusa, per cui Alfredo si ritrova nell’imbarazzo di dover occupare il suo tempo in attesa della riapertura della banca stessa.
Si mette quindi alla ricerca di un albergo, ma si imbatte in una motociclista e la segue lungo le montagne.
Un nuovo imprevisto lo blocca ancora: la sua Maserati si pianta di colpo, così alla fine si reca ad un vicino castello per chiedere ospitalità.

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Qui si imbatte in un “simpatico” gruppo di ex magistrati che vivono sotto lo stesso tetto dopo essere andati in pensione.
Per gioco, Alfredo accetta di farsi processare dai quattro, che sembrano sapere sul suo conto molto di più di quello che Alfredo racconta.
Così poco alla volta lo squallore morale del personaggio emerge, sotto le domande incalzanti dei quattro giudici.
Il rito si conclude con la sua condanna a morte: così Alfredo, dopo una serata di bagordi, va a letto e durante la notte sogna di andare a morte mentre la bella motociclista (che lo ha servito a tavola durante la serata precedente) gli gira attorno con la moto.

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La mattina, ancora spaventato dal sogno della notte, Alfredo si vede recapitare il conto della sua permanenza al castello.
I quattro giudici infatti usano il sistema di creare tutta la messinscena proposta ai danni di Alfredo a tutti i turisti facoltosi che hanno la ventura di capitare nel loro castello.
Alfredo paga e va via ma lo attende una bruttissima sorpresa….

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Tratto da un romanzo di Friedrich Dürrenmatt, La panne. Una storia ancora possibile edito nel 1956, La più bella serata della mia vita esce sugli schermi italiani nel 1972, diretto da Ettore Scola e su sceneggiatura dello stesso regista e di Sergio Amidei.
Il film si differenzia molto dal romanzo, e questo non aiuta di certo l’economia del film che si smarrisce per due motivi fondamentali
-Il primo è la presenza di un Alberto Sordi bravo ma strabordante, egocentrico che ingombra con il suo talento finendo per diventare l’elemento accentratore del film e lasciando in disparte tutto il resto; i quattro giudici, francesi non solo per nascita ma anche per flemma, sembrano annichiliti dalla vitalità dell’Albertone;

– il secondo è la mancanza di un ritmo lineare della pellicola, che accelera, decelera e poi sonnecchia per lunghi tratti.
Molte le differenze con il testo teatrale, troppe; se nel film troviamo ancora i quattro giudici che imputano ad Alfredo il delitto da lui commesso ai danni del suo ex principale, alla fine il film si discostra troppo dal finale del testo originale.
Mentre nel romanzo Alfredo sceglie in qualche modo di pagare i suoi errori con un suicidio rituale, nel film le cose cambiano radicalmente ed Alfredo trova la morte in ben altro modo, quindi non scegliendo personalmente l’espiazione, ma subendola dal caso.
Scola, uno dei maestri del cinema italiano, tenta di dare un percorso personale al film, ma alla fine se ne discosta troppo e trasforma la drammaticità del racconto di Dürrenmatt in qualcosa di completamente diverso; Sordi contribuisce in maniera determinante così alla fine manca proprio l’omogeneità al racconto.

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Pure il film non è da bocciare, perchè per alcuni tratti proprio le sue pecche conferiscono un tono di leggerezza al racconto che lo rendono quasi simile ad una commedia.
E qui vale il solito discorso sulle possibilità di adattare con accuratezza testi letterari nati per ben altri scopi; Scola fa come buona parte di coloro che riduce pieces per teatro o letterarie, modifica a suo piacimento senza badare all’aderenza con il testo originale.
Fa bene, fa male?

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Visto il risultato la risposta sarebbe scontata, ma va anche detto che perlomeno ci prova, discostandosi anche da buona parte della produzione del cinema di inizi anni settanta, quasi sempre poco attento a tematiche “profonde”
Per quanto riguarda i quattro giudici, Scola sceglie i mostri sacri del cinema francese: Michel Simon, Charles Vanel, il meno conosciuto Claude Dauphin e Pierre Brasseur lo ripagano con  interpretazioni quasi in carta carbone.
Poco liberi di muoversi a piacimento, i quattro subiscono lo strapotere di sordi e si limitano a svolgere il loro compitino.

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Bene invece l’affascinante Janet Agren in un ruolo che l’attrice sente e che svolge nel migliore dei modi.
In ultimo, segnalazioni di merito per le musiche di Armando Trovajoli e per la fotografia di Claudio Cirillo.
La più bella serata della mia vita, di Ettore Scola, con  Janet Agren, Alberto Sordi, Michel Simon, Charles Vanel, Pierre Brasseur, Jean-Claude Dauphin, Claude Dauphin, Bruno Boschetti, Giuseppe Maffioli
Commedia,  durata 108 min. – Italia 1972.

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Alberto Sordi: Alfredo Rossi
Michel Simon: Avvocato Zorn
Janet Agren: Simonetta
Charles Vanel: Giudice Dutz
Claude Dauphin: cancelliere Bouisson
Pierre Brasseur: Conte La Brunetiere
Giuseppe Maffioli: Pilet

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Regia     Ettore Scola
Soggetto     La panne. Una storia ancora possibile
Sceneggiatura     Ettore Scola, Sergio Amidei
Produttore     Dino De Laurentiis
Fotografia     Claudio Cirillo
Montaggio     Raimondo Crociani
Musiche     Armando Trovajoli
Scenografia     Luciano Ricceri

Citazioni dal romanzo:
“Noi quattro qui seduti a questo tavolo siamo ormai in pensione e perciò ci siamo liberati dell’inutile peso delle formalità, delle scartoffie, dei verbali, e di tutto il ciarpame dei tribunali. Noi giudichiamo senza riguardo alla miseria delle leggi e dei commi.”

“Il suo è un delitto perpetrato in modo così raffinato da essere brillantemente sfuggito, è ovvio, alla giustizia dello stato”

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febbraio 19, 2011 Posted by | Commedia | , , , , | 6 commenti

La cosa buffa

La cosa buffa locandina
Storia di un amore contrastato tra un maestro elementare (Antonio) e Maria Borghetto, figlia di un ricchissimo uomo d’affari veneziano.
Un amore impossibile, alla luce delle differenti provenienze sociali dei due; Antonio è figlio di gente comune, studia all’università ma senza nessuno stimolo mentre Maria vive la sua realtà fatta di un presente senza problemi particolari, nè economici nè d’altro tipo.
La ragazza ricambia subito l’affetto del ragazzo, ma incontra anche l’assoluta intransigenza dei genitori, nettamente contrari ad un’unione che loro mal vedono.
Per la figlia infatti hanno in serbo ben altri progetti.

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Una deliziosa Ottavia Piccolo è Maria

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Gianni Morandi è Antonio

Antonio sembra anche affetto da problemi con l’altro sesso: infatti dopo un incontro con una strana ragazza ungherese che ha a sua volta un problematico rapporto saffico con una sua cugina, esce frustrato dall’esperienza perchè non ottiene un orgasmo.
Non gli va meglio con Maria; la ragazza, nonostante sua madre vegli continuamente, va a trovare il giovane per concedersi anima e corpo.
Infatti proprio sul più bello arriva la terribile madre della giovane a interrempere l’idilio, con conseguenze prevedibili.
Antonio così riprova con la ragazza ungherese, nuovamente interrotto sul più bello questa volta proprio dall’amante della ragazza.

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Rosita Torosh e Veronique Darel, le cuginette

Sembra una nemesi, quella del giovane; nessuna donna sembra abbordabile, perchè c’è sempre un intoppo a rendere le cose impossibili.
Nel frattempo il padre di Maria decide di corrompere Antonio, arrivando ad offrirgli molti soldi pur di liberarsi dello stesso.

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Un colloquio impossibile

Con un sussulto di dignità, Antonio rifiuta il denaro e deluso ritorna alla sua vita piatta di provinciale.
Tratto dal romanzo di Berto (omonimo) La cosa buffa è realizzato da Aldo Lado nel 1972; lo score precedente a questo film del regista fiumano parla di opere altalenanti.
Passato dall’incerto  La corta notte delle bambole di vetro del 1971, opera d’esordio come regista a Chi l’ha vista morire? ottimo thriller dell’anno successivo, Lado si cimenta con una riduzione cinematografica di un romanzo graffiante di Berto.
Che non fosse aria lo si capisce immediatamente dalla sceneggiatura; laddove il romanzo di Berto punta l’indice sulle difficoltà di relazione tra giovani, divisi anche da cultura e ceto sociale, uniti solo dalle tempeste ormonali e dalla difficile ricerca di un equilibrio personale, Lado non si capisce bene dove vada a parare.

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Il film infatti a tratti diventa irritante, come il protagonista assoluto della storia, quell’Antonio che sembra il prototipo del vitellone di provincia che arriva in città convinto di fare strage e che finirà amaramente per tornarsene con le pive nel sacco.
Diventa irritante perchè Lado caratterizza in negativo il personaggio, ben più di quanto faccia Berto nel romanzo e in più affida il ruolo di interprete del maestro/studente a Gianni Morandi, passato dalle canzonette e dai musicarelli a ruoli cinematografici che mostra con chiarezza di non saper o poter padroneggiare.
Così il film si immalinconisce e ben presto perde efficacia e sopratutto smarrisce la rotta.

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La forte criticità e l’ironia di Berto vengono stravolte dal regista e trasformate in qualcosa di indistinto: la bravissima Ottavia Piccolo si trova a gestire un ruolo la cui sceneggiatura sembra tagliata più che con l’accetta con un Black and Decker.
Un film scollato, in pratica.

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Perchè l’atmosfera creata da Berto, la cosa buffa che poi buffa non è e che ha tutto il sapore della tragicità si trasforma sotto la regia di Lado in una cosa quasi comica, o sarebbe meglio dire tragicomica.
Si, d’accordo che un film non può mai rendere l’atmosfera di un romanzo per i motivi mille volte citati, ma stravolgerne completamente il significato limitandosi a riprendere solo i personaggi per renderli involontariamente (quanto involontariamente?) ridicoli è operazione poco lusinghiera.
Dal naufragio in cui ben presto viene a trovarsi il film si salva solo la brava e bellissima Ottavia Piccolo; il suo candore ben si mescola (parlo del film) ai primi pruriti sessuali , che sono quasi assenti nel romanzo.

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La Piccolo si adegua e tira fuori un personaggio ben caratterizzato e credibile, pur nel quadro poco credibile del film.
Naufragio ben più pesante per Morandi, impacciato e poco espressivo, alle prese con un personaggio non nelle sue corde (ma in realtà qual’era il personaggio adatto a lui, cinematograficamente?)
Bene Giusy Raspani Dandolo, bella e sexy Rosita Torosh ovvero la cugina lesbica di Marika, la ragazza ungherese.
In ultimo, citazione per la solita affascinante Venezia, una delle location più usate durante gli anni settanta (ripescata da Lado dopo il successo di Chi l’ha vista morire?), musiche non proprio memorabili del grande maestro Morricone.

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La cosa buffa, un film di Aldo Lado. Con Angela Goodwin, Gianni Morandi, Ottavia Piccolo, Dominique Darel, Giusi Raspani Dandolo, Fabio Garriba, Riccardo Billi, Luigi Casellato, Claudia Giannotti, Rosita Torosh
Commedia,  durata 108 min. – Italia, Francia 1972.

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Gianni Morandi     …     Antonio
Ottavia Piccolo          …     Maria Borghetto
Angela Goodwin          … La padrona della pensione
Fabio Garriba          …     Benito
Claudia Giannotti         … La sorella di Antonio
Nino Formicola         … Il padre di Antonio
Rosita Torosh         …     Vera , la cugina di Marika
Luigi Casellato          …     Amedeo il barbiere
Riccardo Billi         … Il papa di Maria
Ilario Borghetto – La sorella di Maria
Dominique Darel         …     Marika
Giusi Raspani Dandolo          … La madre di Maria

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Regia di Aldo Lado
Dal romanzo omonimo di Giuseppe Berto
Sceneggiatura di Alessandro Parenzo e Aldo Lado
Prodotto da Giovanni Bertolucci
Musiche di Ennio Morricone

La cosa buffa foto 1Il regista del film, Aldo Lado

La cosa buffa foto 2Il romanzo di Giuseppe Berto

La cosa buffa foto 4La soundtrack di Morricone

febbraio 18, 2011 Posted by | Commedia | , , , | Lascia un commento

Reazione a catena (Bay of blood)

Reazione a catena locandina

Una villa situata all’interno di una baia deserta e semi-selvaggia è teatro di una serie di tragici avvenimenti.
La struttura è di proprietà della  contessa Federica Donati, che vi vive in completo ritiro in compagnia del marito.
Una sera l’anziana contessa viene uccisa da una mano misteriosa; la donna è costretta a infilare la testa in un cappio, morendo così strangolata.
L’assassino ( lo sappiamo subito) è stato il marito, ma ben presto il quadro muta direzione, perchè anche l’uomo viene ucciso, colpito da un killer che lo accoltella.
Un nuovo cambio di scena introduce un altro personaggio; si tratta di Franco Ventura, un architetto speculatore che altro non attendeva che la morte della contessa Donati per poter avviare un processo di cementificazione a scopo turistico della baia, cosa alla quale la vecchia contessa si era sempre opposta.

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Laura Betti è Anna Fossati

Reazione a catena 13Claudine Auger interpreta Renata Donati

Ventura, dopo aver salutato la sua amante Laura, si avvia verso la baia, forte anche della mancanza di sospetti della polizia, che ha archiviato il caso come suicidio, avendo ritrovato un biglietto in cui la contessa annunciava il suicidio (evidentemente falso) e non avendo trovato traccia del marito.
Nel frattempo nella baia arrivano quattro ragazzi, due maschi e due ragazze straniere, venuti a passare una giornata di relax; una di queste giovani, mentre fa il bagno rimane incastrata in una corda alla sommità della quale è legato il corpo del marito della contessa Donati.

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Un altro efferato omicidio

La ragazza, spaventata a morte, fugge nuda per l’imbarcadero e poi verso la boscaglia, ma qui viene raggiunta dal misterioso assassino e uccisa brutalmente a colpi di falce.
Stessa sorte tocca i restanti ragazzi; l’assassino dopo essersi liberato uccidendolo di uno dei giovani, uccide gli altri due ragazzi con un tremendo colpo di lancia mentre i due sono impegnati in un rapporto sessuale.
Sulla tragica baia arrivano altri personaggi; sono Renata Donati, figlia dei due morti assassinati e suo marito Alberto con i due figli, un bambino e una bambina.

Alla donna viene immediatamente riservato uno choc.
Nella barca del pescatore Simone infatti trova il corpo del padre, coperto da un grosso polipo; il pescatore si giustifica dicendo di averlo appena pescato, ma le cose sono destinate a complicarsi ulteriormente.
Nella villa dell’architetto Ventura la giovane Renata scopre con orrore la presenza dei corpi dei quattro ragazzi massacrati, e riesce a sfuggire all’uomo che la assale con un’accetta.

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I due figli di Alberto e Renata, interpretati dai bravissimi Renato Cestiè e Nicoletta Elmi

Dopo averlo ferito con un paio di forbici, Renata fugge verso suo marito.
Ancora un arrivo imprevisto; è quello di Anna, moglie di Paolo Fossati (entomologo) una coppia che vive nella baia.
Per pura casualità Anna scopre i cadaveri nella villa di Ventura, ma finisce orrendamente decapitata, mentre suo marito Paolo viene ucciso dal marito di Renata per timore che chiami la polizia e riferisca ciò che ha visto.
Ad uccidere Anna infatti è stata Renata.
Perchè?
Lo apprendiamo da due brevi flashback.
Prima però assistiamo all’arrivo sulla scena del delitto di Laura, l’amante di Ventura, che la invita ad andare da Simone.
Simone in realtà è  il figlio naturale della contessa Federica Donati; è stato lui ad uccidere la madre e il patrigno simulando il suicidio della contessa e occultando il cadavere del patrigno stesso, uccidendo in seguito i quattro sventurati ragazzi che avevano scoperto il corpo dell’uomo.
Il tutto per poter vendere la licenza edilizia della baia a Ventura; ma Simone capisce che Laura e Ventura lo hanno manipolato.

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L’ormai celebre fotogramma della morte dei due ragazzi

Uccide così la donna, ma viene a sua volta abbattuto da Alberto.
I due diabolici complici sembrerebbero averla fatta franca, ma c’è l’ennesimo colpo di scena in arrivo….
Reazione a catena di Mario Bava (girato nel 1971) è un film complesso con una struttura a mosaico e una trama ampia e purtroppo a tratti anche farraginosa e confusa.
Se da un lato vanno esaltati quelli che sono i pregi del film, ovvero la sua crudezza nel mostrare i dettagli più efferati dei vari delitti che si susseguono, la solita accurata ricercatezza tipica di Bava nella fotografia, l’impeccabile recitazione del cast molto ben assortito, dall’altro non si può non notare una certa approssimazione nello svelare i retroscena che portano i vari protagonisti (tutti in qualche modo indissolubilmente legati fra loro) a scannarsi per il solito vil denaro.
Ma a Bava probabilmente la cosa interessava poco; il film mostra una misoginia, un’amarezza e una visione cinica della realtà che a ben vedere sono l’asse portante della pellicola.

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La morte della Contessa

nessuno dei personaggi che incontriamo nel film merita una lacrima o un banale “peccato” man mano che assistiamo all’orgia di sangue scatenata dalla morte della vecchia contessa.
Sono tutti personaggi negativi, il marito della contessa e l’avido Ventura, l’assassino Simone e i due terrificanti coniugi Renata e Alberto e in ultimo anche i due figli della coppia, che assicureranno una giustizia sommaria chiudendo il cerchio, con quei due sorrisi luciferini che spuntano sui loro volti infantili quando sparano ai genitori.
Un’umanità malata, quindi, vittima del desiderio di possesso e di ricchezza, un’umanità che paga però con la vita le proprie debolezze.
Sono tutte morti slasher, violentissime, con primi piani che in fondo hanno fatto la storia del cinema thriller/giallo, stabilendo dei canoni che saranno replicati all’infinito dai tantissimi epigoni che il film vanterà.

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Bava gioca con gli effettacci, distribuisce morti ammazzati a tutto spiano ;alla fine di tutti i protagonisti restano vivi solo i bambini che innocenti non sono, perchè ammazzano i loro genitori non sappiamo quanto per gioco e quanto per crudele e innata malvagità.
Memorabili le sequenze dell’impiccagione della vecchia contessa, della morte della ragazza uccisa da una falce (Brigitte Skay) con i particolari in primo piano e poi l’apoteosi dei due morti trafitti in un colpo solo mentre fanno l’amore. Da citare anche il rinvenimento del corpo del vecchio conte in una barca, con il volto coperto da un polpo.
Il finale  mostra un Bava amarissimo, come amaro era stato nello svolgimento del film stesso; per capire la rivoluzione copernicana del Bava di questo film basta pensare a quello che era stato il suo film precedente, 5 bambole per la luna d’agosto (1970) da lui poco amato e va detto, anche dal suo pubblico.

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Brigitte Skay

E’ un Bava ormai maturo, cinico e disincantato, che all’età di 56 anni ha ormai la possibilità di esprimersi come crede.
Ed è anche fortunato, il regista ligure perchè per una volta viene lasciato libero di comporre e scomporre, di adattare e riadattare senza il solito fiato sul collo del produttore che premeva per il lavoro finito.
In condizioni ideali, il regista produce uno dei primi 5 film thriller italiani di sempre, che ispirerà altri registi e che farà da caposcuola a tanti prodotti successivi.
Qualche nota sul cast: tutti decisamente bravi dalla Auger a Pistilli, passando per Laura Belli e Leopoldo Trieste.
Da segnalare la giovanissima Nicoletta Elmi, che interpreterà diversi film del genere giallo.

Reazione a catena,un film di Mario Bava. Con Luigi Pistilli, Claudine Auger, Isa Miranda, Claudio Volonté, Anna Maria Rosati, Leopoldo Trieste,Chris Avram, Brigitte Skay
Horror, durata 81 min. – Italia 1971

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Claudine Auger: Renata Donati
Luigi Pistilli: Alberto
Laura Betti: Anna Fossati
Claudio Volonté: Simone
Leopoldo Trieste: Paolo Fossati
Isa Miranda: Federica Donati
Chris Avram: Franco Ventura
Anna Maria Rosati: Laura
Brigitte Skay: ragazza che si tuffa
Paola Rubens: ragazza trafitta
Roberto Bonanni: Roberto
Guido Boccaccini: Luca
Giovanni Nuvoletti: conte Filippo Donati
Nicoletta Elmi: figlia di Alberto
Renato Cestiè: figlio di Alberto

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Regia     Mario Bava
Soggetto     Franco Barberi, Dardano Sacchetti
Sceneggiatura     Mario Bava, Filippo Ottoni, Joseph McLee, Sergio Canevari (non accreditato), Francesco Vanorio (non accreditato)
Produttore     Giuseppe Zaccariello, Fernando Franchi
Fotografia     Mario Bava
Montaggio     Carlo Reali
Effetti speciali     Carlo Rambaldi
Musiche     Stelvio Cipriani
Scenografia     Sergio Canevari
Costumi     Enrico Sabbatini
Trucco     Franco Freda

Le recensioni qui sotto appartengono al sito http://www.davinotti.com

TUTTI I DIRITTI RISERVATI


Ci sono cose notevoli (fotografia da urlo, musica godibile, inquadrature eccezionali, immagini indimenticabili), ma i passaggi della trama sono svolti in maniera talora confusa, o frettolosa, problema che una seconda visione non risolve più di tanto. Il celebrato finale mi sembra incollato (e pure male) col nastro adesivo. Cast godibile, con qualche presenza non proprio centrata (Brigitte Skay che fa la ragazzina…), ma col grande Leopoldo Trieste (doppiato da Amendola!). Certo è che entomologi e oggetti acuminati ricordano qualcosa di antico…

La “Reazione a Catena” è quella innescata dal desiderio di ereditare, che spinge un gruppo di loschi personaggi a compiere azioni inimmaginabili. Nessuno è quello che appare e soprattutto nessuno è meritevole di vivere. È un Bava nerissimo, quello che firma il primo splatter italiano, dietro suggerimento di Dardano Sacchetti (qua al suo primo vero lavoro -dopo Il gatto a nove code – in sede di sceneggiatura); dove non c’è scampo, dove l’economia della storia (“Ecologia del Delitto” ed “Antefatto” sono i titoli alternativi) porta inevitabilmente alla morte.

Bava scatenato in uno dei suoi capolavori. La trama è solo un pretesto per un efferato commentario sociale e, soprattutto, per un saggio di virtuosismo. Con nonchalance da gran signore il Maestro butta là una citazione di Borges (!) affidata a Chris Avram (!!), risolvendo in trenta secondi e due inquadrature un corto circuito fra cultura alta e popolare su cui altri hanno scritto tomi pallosissimi. Grandi Trieste e la Betti, peccato (si fa per dire) per il doppiaggio, tanto più che nella versione inglese Trieste si doppiò da sè.

Discreto thriller piuttosto splatter, girato con mestiere ma con qualche ingenuità, che fa dell’ambientazione e proprio delle scene più violente e sanguinarie i suoi punti di forza. La sceneggiatura invece, abbastanza sconclusionata, non aiuta lo spettatore, che può però contare su alcune caratterizzazioni interessanti e riuscite, come quelle dei coniugi, lui appassionato d’insetti e lei di occulto, che nonostante rasentino la macchietta, danno colore e carburante alla pellicola. Il finale lascia parecchio di stucco (una sorta di tragica burla). Un’occhiata, comunque, la merita di certo.

Misantropo e splatter, il vertice dell’arte più delirante di Bava, nonché prototipo del fortunato filone slasher. Zoom onnipresente, soggettive e primi piani a iosa e splendida fotografia. Omicidi efferatissimi e fantasiosi, poi ripresi pari pari in altri film, come Venerdì 13 e Tenebre. Finale spiazzante e cinico, all’insegna dello humour più nero. I personaggi sono insetti insignificanti e senz’anima, in balia della Morte, ma le caratterizzazioni dei rispettivi attori, comunque, molto buone.

Strepitoso thriller di Bava in cui il regista romano è al suo meglio. Un vero e proprio capolavoro del genere slasher, amato, imitato e straimitato da tantissimi registi americani e non. Basti vedere come la serie “Venerdi 13” (un esempio su tutti: l’assassinio della coppia che copula) saccheggi a piene mani da questo gioellino della nostra cinematografia del brivido. Per l’epoca fu un notevole choc visivo: il sangue, infatti, scorre a fiumi. In più, rispetto ai suoi epigoni, Bava colora il suo film con note di ironica e corrosiva cattiveria.

Faide familiar-commerciali attorno alla proprietà di un ameno laghetto, con morti a go-go, preferibilmente tramite accettate. Come spesso accade in film di questo tipo, i personaggi principali sono quasi tutti più o meno ambigui e/o antipatici, tanto da alimentare i sospetti nei loro confronti, mentre i comprimari/carne da macello assicurano la dose di tette nude e sesso facile. Alcuni omicidi sono piuttosto truculenti, ma la trama è inutilmente complicata, il livello della recitazione scarso (si salvano Betti e Trieste, coppia stramba)

Film fondamentale, ma non per questo riuscito al 100%. Fondamentale perché rappresenta il primo esempio di quello che negli anni a venire sarà un filone di grande successo di pubblico: il cosiddetto “slasher”. Una serie di omicidi legati uno all’altro da un esile sviluppo narrativo. Non riuscito al 100% perché proprio la trama è la parte debole del film, anche se indubbiamente, in pellicole di questo genere, non è la cosa fondamentale. Forse visto all’epoca della sua uscita poteva essere maggiormente apprezzato. Comunque da vedere.

Fondamentale. Il film che ha ispirato decine di successivi slasher movie americani, diretto dal nostro genio Mario Bava, che dirige un film sanguinosissimo con delitti feroci per l’epoca e che funzionano ancora (memorabile la testa tagliata alla Betti), ma che soprattutto gode della particolarissima costruzione della storia: una vera e propria reazione a catena. Ineccepibile anche il cast e lo score di Stelvio Cipriani. Essenziale.

Il più bel film di Bava e uno dei migliori thriller italiani. Regia e fotografia sono di livelli altissimi: non c’è un’inquadratura fuori posto e ogni singola scena riesce in qualche modo a dire qualcosa di interessante. La sceneggiatura, crudele ma innovativa, procede in un crescendo di cattiverie che culmina in un finale tanto ironico quanto cinico (e sicuramente imprevedibile). Perfetto il cast e bellissima la colonna sonora di Cipriani, ricca di temi e incredibilmente adatta al film.

Quanto a varietà di omicidi e componente visionaria siamo dalle parti di Argento. Bava ci aggiunge una guida degli attori degna di questo nome (vedi Pistilli e Trieste), location e musiche di sicuro effetto, un filo logico tirato ma che non si spezza. Difetta piuttosto nel montaggio e nella cura dei dettagli, tipo la Skay che muore e respira ancora (il pancino la tradisce). Diciamo che gestire tredici omicidi così poliedrici porta a trascurare cose più banali..

Film seminale, ma per una mala razza come Venerdì 13. Ciò non toglie che sia un film genialoide, con degli ammazzamenti magistrali e per l’epoca inediti (il polpo sulla faccia del defunto Nuvoletti…). Un tocco di ironia finale mette pace a tanti adulti cattivi e bramosi; può sembrare ridicolo ma in realtà è la strizzata d’occhio amara di un piccolo genio del cinema che, senza accorgersene, sarà padre di tanti altri autori (da Argento – il peggiore – fino ad Almodovar e Tarantino – il migliore).


Un Bava scatenato se ne infischia della logicità e nessi narrativi, per offrirci una sarabanda infernale di omicidi. È un film molto divertente e molto splatter, con effetti speciali (curati da Carlo Rambaldi) che ancora oggi lasciano stupiti per il loro realismo. Dalla sua ha anche un cast di tutto rispetto, impensabile per una produzione italiana di oggi. Ma dove è veramente magnifico è nella resa fotografica: carrelli e zoomate creano delle soluzioni quasi optical. È soprattutto un film da guardare, da “percepire” sulla pelle. È nato lo slasher.

Molto bello. Ha ispirato (si nota sopratutto la scena dell’amplesso finito… male) molti film d’oltreoceano ma come al solito ingiustamente ha avuto meno successo. Ottimo il cast, bella fotografia, ottime le scene degli omicidi… Unica pecca? Il finale.

Galeotta fu la baia. Delitto su delitto, per uomini e donne senza scupoli. Così tanto, da indurmi a rifiutare qualsivoglia verosimiglianza. Reazione a catena, una catena intricata, ma che conduce allo stesso lucchetto. Un destino beffardo, che premia l’inconsapevolezza e l’ingenuità, l’anti premeditazione a scopo di lucro. Ecologia di un delitto, l’interazione poco amichevole tra uomini e ambiente, ma soprattutto tra uomini e uomini, col danaro terzo incomodo. Delitti, mutilazioni e fendenti vari ammirevoli per fantasia. **1/2

Primo slasher della storia del cinema: banale nella trama, efferato e seriale nei delitti. Bava tiene a cuore l’aspetto moralistico. Sin dall’inizio crea analogie tra uomini e insetti, così che anche il secondo titolo del film (Ecologia del delitto) acquisti un senso. La pellicola presenta un forte utilizzo dello zoom, abbinato ad un continuo fuoco/fuori fuoco. In tal modo, Bava mostra e non mostra, afferma e poi nega, come nell’inquietante finale ribaltato. Film che dà la spinta a Venerdì 13 di Sean Cunningham e allo slasher in genere.

Cattivo e a tratti ironico; non si può per questo film non riconoscere a Bava di aver dato un contributo fondamentale ad un genere (o filone che sia) che col tempo ha mostrato sempre meno cose e che già qui ha messo in evidenza i punti deboli. Non si può non riconoscere un ottimo impianto visivo ma anche concettuale, in questa festa di omicidi dove il delitto brutale assume un aspetto raffinato ed elegante, tutto materiale che assorbirà Argento. Ma troppi sofismi e troppo pensiero rendono pesante e poco interessante una trama debole di suo.

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febbraio 16, 2011 Posted by | Thriller | , , , , , , , , | 5 commenti

La soldatessa alle grandi manovre

La soldatessa alle grandi manovre locandina

Il colonnello Fiaschetta e il generale Barattoli si apprestano alle grandi manovre; il primo comanda le armate Azzurre, il secondo le armate Verdi.
Mentre tutto è pronto per l’importante avvenimento, nella caserma comandata da Fiaschetta, militare più per tradizione e per volontà materna che per intima convinzione arriva la splendida dottoressa Eva Marini.

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Renzo Montagnani

La donna ha ricevuto dal comando un incarico inusuale e delicato; svolgere un’inchiesta segreta sui comportamenti sessuali dei  militari.
Coadiuvata da due militari decisamente inadatti al nuovo compito, Alvaro e Salvatore, la dottoressa Marini si appresta a svolgere il suo incarico.

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Gianfranco D’Angelo

Ben presto scopre anche alcuni altarini, come quello del militare Gianluca Capretti, dedito più alla vita da bohemienne che a quella del soldato.
La bella dottoressa si ritrova anche a dover aiutare Don Pagnotta, un volenteroso parroco del paese che aiuta nei limiti del possibile i ragazzi orfani del paese.
Nel frattempo iniziano le grandi manovre e il reparto degli azzurri, capitanati da Fiaschetta, hanno subito la peggio; Eva è convinta che qualcuno all’interno del reparto stia favorendo l’armata verde, e che questo qualcuno sia ovviamente il playboy Gianluca.

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“Elvira, ma che ti è successo che hai la faccia tutta gonfia?”

Inaspettatamente, proprio tra Eva e Gianluca nasce una love story.
I due, con un colpo di fortuna, riescono a catturare il generale Barattoli decretando la vittoria dell’armata azzurra, con somma costernazione di Fiaschetta che dall’inizio aveva sabotato la sua armata per evitare proprio di vincere.
L’uomo invece verrà promosso…..
La soldatessa alle grandi manovre, film del 1978 diretto da Nando Cicero segna il compimento della trilogia “militare” del regista nato ad Asmara.

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Edwige Fenech

Infatti, dopo La Dottoressa Del Distretto Militare (1976) e La soldatessa alla visita militare (1977) il regista torna a dirigere il collaudato cast che includeva la Fenech, Vitali e D’Angelo nel primo film, di nuovo la Fenech e Montagnani nel secondo completando la sua personale trilogia con un prodotto senza infamia e senza lode.
Prodotto sicuramente meno becero e triviale di tanti altri cloni del genere commedia sexy, in cui effettivamente qualche sprazzo di divertimento si riesce anche a goderselo.

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Cicero era un regista di buona mano e di discrete doti e ancora una volta dimostra di trovarsi a suo agio con un genere che lo vide sicuramente protagonista, prima della chiusura della sua carriera con il famoso W la foca.
In questo film, sorretto da una sceneggiatura accettabile (nei limiti di un film appartenente al genere commedia sexy, ovviamente), Cicero dirige la solita squadra di ottimi caratteristi riprendendo i due personaggi principali del precedente La soldatessa alla visita militare, ovvero la dottoressa Eva Marini e il colonnello Fiaschetta, con l’aggiunta della presenza del soldato Alvaro Quattromani.

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I tre, nell’ordine Edwige Fenech, Renzo Montagnani e Alvaro Vitali sono protagonisti di gag a volte scurrili (marchio di fabbrica di un certo tipo di commedia sexy) a volte esilaranti, mentre è da segnalare la presenza di Lino Banfi in un ruolo non usuale, quello del bravo parroco che tenta in tutti i modi di aiutare i bimbi del paese.

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Forse alla fine è proprio il personaggio interpretato da Banfi a riuscire più convincente, in virtù della simpatia che l’attore pugliese riesce a trasmettere a Don Pagnotta, prete di quelli veri, da trincea.

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Ovviamente è inutile immergersi in disquisizioni di qualsiasi genere sulla pellicola; questi film, spesso girati in poche settimane, con location spartane e con trame ridotte all’osso, non avevano alcuna ambizione particolare, se non quella di raccattare qualche lira.
Come già detto, La soldatessa alle grandi manovre non è nemmeno uno dei peggiori, come del resto dimostra la buona accoglienza che riservò il pubblico alla pellicola di Cicero;

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qualche risata scappa, come nell’occasione in cui Eva e Gianluca, divenuti amanti, fanno prigioniero lo sventurato generale Barattoli preda di imbarazzanti problemi viscerali.
In ultimo segnalo la presenza di due caratteristi davvero bravi, anche se diversissimi fra loro: Antonino Faa Di Bruno, che interpreta il generale Barattoli in maniera talmente prefetta da sembrare davvero un generale e Salvatore Baccaro, che sarebbe scomparso prematuramente sei anni dopo.

La soldatessa alle grandi manovre, un film di Nando Cicero. Con Edwige Fenech, Renzo Montagnani, Gianfranco D’Angelo, Alvaro Vitali, Nino Terzo,Tiberio Murgia, Enzo Maggio, Lino Banfi, Jacques Stany, Michele Gammino, Lucio Montanaro, Milly Corinaldi, Renato Malavasi, Renzo Ozzano
Erotico, durata 96 min. – Italia 1978.

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La soldatessa alle grandi manovre banner personaggi

Edwige Fenech     …     Dottoressa Eva Marini
Renzo Montagnani …     Colonnello Fiaschetta
Alvaro Vitali …                Alvaro
Michele Gammino …     Gianluca Capretti
Lucio Montanaro   …      Salvatore
Enzo Monteduro …     Calogero
Nino Terzo     …     Infermiere
Antonino Faa Di Bruno     …Generale Barattoli
Renzo Ozzano          … Il sergente
Rita Di Lernia         … La Leoparda
Salvatore Baccaro      … Crispino
Jacques Stany … Capitano
Lino Banfi     …     Don Pagnotta
Gianfranco D’Angelo     … Capitano medico
Grazia Di Marzà  …     Madre di Fiaschetta
Tiberio Murgia    …     Carmelo, il capostazione
Jimmy il Fenomeno    …     Soldato scemo

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Regia: Nando Cicero
Sceneggiatura: Annie Albert, Nando Cicero e Fiorenzo Fiorentini
Produzione: Luciano Martino    .
Musiche: Piero Umiliani
Editing: Daniele Alabiso

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Il Pasolini della commedia sexy, alias Nando Cicero, porta sullo schermo una comicità che potremmo definire viscerale quando non caricaturale: rappresentata da attori brutti, sporchi e squilibrati, ma risollevati (non solo nell’animo) dalla presenza di una dottoressa (finta tonta) di nome Eva Marini (la Fenech). Naturale proseguimento de La Dottoressa del distretto militare, si distingue per le presenze di Renzo Montagnani, Tiberio Murgia (il Capostazione), Nino Terzo (il balbuziente) e Michele Gammino (in seguito attivissimo doppiatore).

Evidentemente, l’unione fa la forza, almeno in questo caso, visto che, nonostante un copione che oscilla tra la barzelletta e la gag di livello medio basso, il fatto che ci siano molti caratterirti e che ognuno spari le sue cartucce (spesso esigue), permette allo spettatore di sorridere qua e là (e per un film come questo non è poco), grazie soprattutto a D’Angelo (medico militare), cinico e pazzoide, col suo aiutante (Nino Terzo), che sembra un po’ l’Igor, ma quasi afono, di Frankenstein. Anche Montagnani si sbatte, ma è meno divertente, mentre di Vitali, come di Jimmy, basta la faccia.

L’apoteosi ciceriana della sua trilogia militare. Un film rozzo, povero, sia di contenuti che di set (praticamente inesistenti), si respira per tutto il tempo un’aria di degrado a tutti i livelli. Quasi un film marcio, morboso, con personaggi sgradevoli, un’infinita galleria di freaks che trova nella Leoparda il suo climax. Oggetti scatologici assurdi (la pritera) per una comicità scatologica e malsana. Sembra quasi un annuncio di Ciprì e Maresco. “Scneggiatura” a stripes miracolosamente funzionante. Si ride, ma sono risate putrefatte. Cast ottimo. Sociologico.

Terzo e ultimo film del filone Soldatesse inaugurato dallo stesso Cicero. Si avvale come sempre di eccellenti caratteristi di buon nome quali Montagnani, Terzo, Murgia e Ozzano e di una bellezza mozzafiato qual era la Fenech. La storia, i personaggi e le gag sono le stesse, immutabili, ma almeno non ci si annoia e, anzi, alla fine ci si diverte pure (e questo è quello che conta).

Qualità delle gag solita, tra barzellette pessime e scenette di un umorismo imbarazzante; le battute di D’Angelo medico non mi piacciono e che dire degli spari dal sedere di Vitali… C’è però da precisare che al contrario di molte altre commedie del genere ambientate in campi militari, come quella del distretto dello stesso Cicero e di altri film, l’unione di caratteristi minori (alcuni quasi anonimi) come Nino Terzo, Tiberio Murgia ma soprattutto Baccaro e Jimmy (in una comparsa più lunga del solito) regala momenti esilaranti.

Commedia superiore a La soldatessa alla visita militare e una delle migliori della premiata ditta “Fenech, Vitali & co.”. Il tenente Eva Marini torna alla carica con tutta la sua sensualità pronta a farsi strizzare dal contendente di turno e a dimostrarci che una bella coppia di tette non sono un’opinione; lo splendido cast recita bene (si segnalano un Banfi “clericale” e un Dr. D’Angelo – mal sfruttato – ancor più sadico di prima) e anche Montagnani adesso funziona nel ruolo del Colonnello, a differenza di quanto accadde nel film di cui sopra.

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febbraio 15, 2011 Posted by | Commedia | , , , , | 1 commento

La ragazzina

Monica è una bellissima ragazza sedicenne, sogno proibito dei suoi coetanei ma non solo.
Nella zona di Lignano Sabbiadoro tutti conoscono quella ragazza così bella e all’apparenza disponibile.
Il più assiduo nel farle la corte è Leo, che però ha anche un secondo fine; il giovane infatti rimedia ragazzine ai maturi signori della zona, che “recluta” subito dopo averle sedotte.
Monica però ha altre mire; è segretamente attratta dal suo professore di storia dell’arte, che contemporaneamente ha una relazione con la bella moglie di un ricco avvocato.

Gloria Guida è Monica

Il quale a sua volta ha messo gli occhi su Monica e si rivolge a Leo per tentare di avere il suo sogno proibito; finale che accontenta tutti.
Trama esilissima per un film davvero debole, quella di La ragazzina, film diretto da Mario Imperoli nel 1974.
Il regista dirige la sexy star Gloria Guida alla sua prima apparizione cinematografica; la diciannovenne attrice di Merano è bella e sexy, ma anche decisamente acerba a livello recitativo e lo dimostra in questo esordio in cui non è neanche aiutata da una trama convincente.

Nei due fotogrammi, Colette Descombes, Sandra

Se il ruolo di minorenne ninfetta sembra cucito sulla sua pelle, la Guida, aiutata anche da un corpo voluttuoso e peccaminoso diventa l’ideale sexy dello spettatore, ma nient’altro.
Chi si reca a vedere film come questo lo fa solo per la sua presenza, vista la scadente qualità della pellicola e l’imbarazzante esiguità della trama.
Forse è vero che la Guida da sola valesse il prezzo del biglietto, ma viene da chiedersi anche il perchè di scelte così penalizzanti a livello di sceneggiatura.

Questo film non si segnala per alcuna dote, visto che non presenta alcun elemento di interesse ne tantomeno un cast che possa risollevare il prodotto finale.
A parte la Guida, nel film compaiono illustri carneadi come Colette Descombes e gli inespressivi Andrés Resino e Gianluigi Chirizzi.
Così alla fine si va via dal cinema ( o più frequentemente dalla visione televisiva) con un senso insopprimibile di noia; una sensazione che si ripeterà spesso davanti alla visione di buona parte delle commedie sexy degli anni settanta, rabberciate sia nel cast che nelle sceneggiature.
Mario Imperoli, regista di mediocre valore, destinato anche a scomparire prematuramente nel 1977 a soli 46 anni, non si segnala per nessun merito particolare.

L’unico film più o meno passabile lo girerà l’anno successivo; si tratta di Le dolci zie, altro prodotto della comedia sexy all’italiana.
Null’altro da segnalare, se non il velleitario tentativo da parte del regista di “colorare” con un accento critico il dorato e ipocrita mondo della provincia italiana.
Il tutto senza nerbo e senza vera convinzione, in fondo.

La ragazzina, un film di Mario Imperoli. Con Colette Descombes, Gloria Guida, Audres Resino, Paolo Carlini Erotico, durata 90 min. – Italia 1974.

Gloria Guida     … Monica
Colette Descombes … Sandra Moroni
Andrés Resino     …Prof. Bruno De Angelis
Gianluigi Chirizzi …Leo
Paolo Carlini    …     Avv. Massimo Moroni

Regia :Mario Imperoli
Sceneggiatura: Arpad DeRiso, Mario Imperoli
Musiche: Nico Fidenco
Editing: Sandro Lena

 

La locandina tedesca

La soundtrack del film


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La ragazzina (una sedicenne) del titolo è talmente graziosa che genera, tra i compagni di scuola e, non di meno, tra gli insegnanti, una certa rivalità, dettata dal desiderio di poterne entrare in “buona grazia”. Al di là dell’acerba e genuina bellezza della Guida, qua allo zenit della forma fisica, il lavoro di Imperoli non rifuge dal dramma, ben espresso in un finale con risvolti dalle tinte “maledette”. Il film, pur modesto, ha inoltre il pregio di “codificare” e lanciare (e a suo modo segnare) il ruolo che poi la bella attrice sarà costretta a ricoprire, ex novo, in rapida successione.

Modesto e superficiale, sia nelle scene erotiche che nella descrizione delle frivolezze dell’ozioso mondo borghese. Esordio di un’adolescenziale Guida in questo film di Imperoli dedicato alla scoperta della femminilità, subito presa di mira dalle voglie dei soliti personaggi infami ed approfittatori. La Guida condivide i suoi nudi con quelli della conturbante e bellissima Descombes. Imperoli saprà fare molto meglio l’anno dopo con Blue jeans.

Una storia piuttosto stereotipata sull’impatto di una fanciulla in fiore su una piccola comunità borghese, girata senza troppi vezzi formali, è il pretesto per lanciare la splendida Gloria Guida che in quegli anni muove i primi passi inematografici. Imperoli, come negli stessi anni Amadio, le cuce addosso il ruolo della giovane moderatamente estroversa e ribelle (oltre che nuda), nel contesto di un blando film erotico adolescenziale. È un cliché da cui Gloria non saprà quasi mai affrancarsi, anche perché raramente avrà l’opportunità di farlo.



 

febbraio 14, 2011 Posted by | Erotico | , | Lascia un commento

Io e Caterina

Io e Caterina locandina

Enrico Menotti, uomo d’affari italiano, ha una vita famigliare abbastanza problematica.
Ha una moglie, Marisa, con la quale vive un menage di coppia basato sul completo disinteresse, mentre ha come amante la bella segretaria Claudia.
Se Marisa lo tormenta da un lato con la sua presenza ossessionante, Claudia gli rimprovera le scarse attenzione che le dedica.
Così, durante un viaggio negli Usa, Enrico si confida con l’amico Arturo, rivelandogli tutti i problemi che ha con le donne che frequenta.
Arturo gli fa conoscere Catherine, un robot che svolge tutti i lavori in casa dell’uomo; l’automa non solo governa la casa senza discutere, è obbediente e silenziosa, una specie di donna-schiava sotto forma elettronica.

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Edwige Fenech è Elisabeth

Enrico decide così di acquistare un esemplare di robot domestico, che battezza Caterina; i primi tempi di coabitazione tra l’uomo e l’automa sono addirittura idilliaci, tanto che Enrico si sbarazza in rapida successione prima della moglie, poi della cameriera e infine dopo una lite originata da uno scambio di regali, anche dell’asfissiante amante.
Ma le cose iniziano lentamente a cambiare; il robot Caterina all’inizio si mostra impeccabile, poi inizia ad assumere comportamenti quasi umani.

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Alberto Sordi è Enrico

Si lamenta di essere sola e chiede ad Enrico di poter stare in sua compagnia mentre l’uomo la sera assiste ai programmi televisivi.
Il tanto agognato sogno di indipendenza di Enrico va in frantumi quando l’uomo incontra Elisabeth, una ex dipendente di sua moglie.
Da vero viveur, Enrico corteggia la splendida donna e alla fine riesce a convincerla a seguirlo a casa.
Ma l’ostilità di Caterina diventa immediatamente lampante; il robot assume caratteristiche quasi umane, mostrando gelosia e ostilità.
Così la sera quando il robot si accorge che Elisabeth intende passare la notte nel letto di Enrico, devasta la casa provocando la fuga della donna.

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Enrico si rende conto di aver sostituito le “sue” donne con un essere meccanico che lo tratta da padrone riverendolo e servendolo in ogni cosa, ma anche rendendolo prigioniero di una situazione non dissimile da un matrimonio umano.
Alberto Sordi regista valeva sicuramente molto meno del Sordi attore, e lo dimostra compiutamente con questo film del 1980, che segue la mediocre partecipazione alla regia nel film Dove vai in vacanza?, nel quale aveva diretto il segmento Le vacanze intelligenti.
Io e Caterina, pur avendo una trama di qualche interesse, sicuramente inusuale nel descrivere il rapporto tra uomo e donna sotto forma di robot, ma in questo caso talmente umanizzata da averne praticamente tutti i difetti tipici (o almeno imputati) della donna, finisce per diventare una fiera paesana non solo di luoghi comuni ma anche sonnolenta e sciatta.
Sordi tira fuori un film debolissimo, con una tematica di fondo che definire detestabile è davvero riduttivo; un maschilismo bieco e assolutamente non condivisibile permea ogni singola scena del film.

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Il robot Caterina

Le donne che vi vengono descritte sono gelose e possessive, grette e anche poco intelligenti, a cominciare dalla moglie, descritta come un essere avido e senza sentimenti passando per l’amante e finendo con Elisabeth, donna senza cervello ma dalle forme sinuose, tipico esempio di oca buona per una notte sola.
Ed è questo a irritare principalmente nel film, questo atteggiamento maschilista davvero inqualificabile, portato all’esasperazione nella simbologia robot donna/donna umana, quasi che il fatto di essere femmina implichi necessariamente una predisposizione “genetica” ad alcuni difetti.

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A parte il maschilismo imperante, il film è lento, non ha ritmo ed è assolutamente privo anche di humour, a meno che non si voglia considerare umorismo il rapporto di schiavitù che viene a crearsi tra i due universi, l’uomo e il robot e lo svolgimento dello stesso, con la fase penosa della distruzione della casa da parte di Caterina ormai diventata un totem, un feticcio femminile che  incarna tutti gli pseudo vizi che vengono spesso imputati alle donne.

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La tradizionale doccia di Edwige Fenech

Il tutto diventa così un mortificante esempio di cinema visto con un’ottica assolutamente fuorviante, quella di un Sordi misogino e antifemminista davvero sorprendente in un uomo che amava l’universo femminle e che ne vantava le qualità.
Un film quindi non solo povero di idee e discutibile nella tematica di base ma anche irritante come i suoi personaggi.
Non si salva davvero nessuno, a partire da Arturo, il primo dei maschilisti interpretato da un Rossano Brazzi poco convincente per passare a Catherine Spaak, che riesce però a rendere davvero odioso il personaggio di Claudia amante di Enrico.
Sordi è piatto e monotono, mentre la Fenech quanto meno è in smagliante forma fisica e lo dimostra nelle scene di nudo sotto la doccia, spiata dall’enigmatica Caterina che non ha ancora mostrato la sua ostilità verso la “rivale”.
Un film in cui davvero non si salva nulla, da evitare in tutti i modi.

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Io e Caterina,un film di Alberto Sordi. Con Alberto Sordi, Rossano Brazzi, Catherine Spaak, Edwige Fenech, Valeria Valeri, Elisa Mainardi, Victoria Zinny, Ugo Bologna, Sandra Mantegna, Andy Miller, Fiorella Buffa, Danuta Chwalek, Andrea Gracco, Susan Scheerer, Daniela Caroli
Commedia, durata 105 min. – Italia, Francia 1980.

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Io e Caterina banner personaggi

Alberto Sordi    …     Enrico Menotti
Edwige Fenech    …     Elisabeth
Catherine Spaak    …     Claudia Parise
Valeria Valeri    …     Marisa Menotti
Rossano Brazzi    …     Arturo
Ugo Bologna    …     Passeggero dell’aeroplano
Elisa Mainardi    …     Teresa
Victoria Zinny    …     Susan
Fiorella Buffa    …     Femminista
Susan Scheerer    …     Pamela

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Regia di Alberto Sordi
Scritto da Rodolfo Sonego e Alberto Sordi
Prodotto da Raimondo Castelli , Gianni Hecht Lucari e Alberto Sordi
Musiche originali di Piero Piccioni
Fotografia di Sergio D’Offizi
Montaggio di Tatiana Casini Morigi
Scenografie di Lorenzo Baraldi
Arredatore Osvaldo Desideri
Costumi di Bruna Parmesan
Effetti speciali di Giovanni Corridori e Germano Natali

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Una delle prove più opache del Sordi attore e regista, del quale inizia a vedersi un accenno di parabola discendente. La storia del robot che sostituisce in un colpo tutte le figure femminili della vita è buona, ma la sceneggiatura non la sfrutta adeguatamente, facendone derivare così una sorta di parabola maschilista, dalla facile quanto scontata morale. Sordi e simpatico, ma ciò non basta a salvare il film dal naufragio.

Il robot io ce l’ho e tu no. Parafrasando un altro film con la Spaak, la storiella è tutta qui. Il solito maschio italiano sordiano, che come noto ce lo meritiamo, alle prese con le donne che lo scocciano. Allora si compra un robot-domestica che si umanizza e diventa gelosa. Ritmo zero, gag invecchiatissime, il Sordi declinante e trombonesco delle peggiori occasioni, che recita dal suo piedistallo. Era scarso allora, rivisto oggi è francamente terribile.

Gli Anni Ottanta di Alberto Sordi si aprono con un film che definisco “conservatore” ed ovviamente maschilista (ma è una costante per Albertone…). L’idea della donna robot che sostituisce quella in carne ossa è geniale, anche se messa in scena in quel periodo sembrava quasi una risposta arrogante al pensiero femminista del decennio precedente; forse Sordi arriva un po’ tardi sull’argomento, visto che eravamo già ampiamente in periodo “riflusso”. Il film lo amo, perché amo Sordi e mi riconosco in molti suoi pensieri e movenze. Ottima, come sempre, la musica di Piero Piccioni.

Nonostante una brillante idea, la donna robot, che verrà più volte ripresa in futuro e nonostante l’Albertone nazionale, la Fenech ed una splendida Spaak, il film ha ben poco da dire. Cosa se ne ricorda? Un po’ di gigioneggiamenti del nostro, due bellissime donne, battute e situazioni mal sfruttate ed una colonna sonora orecchiabile, per quanto scioccherella. Perderselo non sarebbe un peccato!

Un vero peccato che Sordi si sia fatto prendere dalla megalomania, perché anche in questo film (tutt’altro che memorabile) vederlo recitare è sempre piacevole (benché sia sempre lo stesso Sordi, in fondo). Il problema è che alla fine il film si riduce a questo: una macchina da presa che segue Sordi per novanta minuti, scadendo forse nel puro autocompiacimento. La morale sordiana, poi, non è certo un mistero e, considerando che si parla del 1980, la sua posizione sulle donne pare “leggermente” anacronistica.

L’idea era buona, ma la realizzazione è scaduta in maniera farsesca e carente. Una robottina che sostituisce la donna nelle faccende domestiche senza avere pretese di sorta, ma il robot mostra gelosia ed impedisce al suo padrone avventure galanti con scontati risultati. Sordi aveva da tempo perso la vena creativa e lo ribadisce in questa pellicola, in cui vorebbe scavare nella psicologia femminile ma scade nel qualunquismo più assoluto.

Certo: la satira qui è banalotta e il ruolo della donna (siamo nel 1980) in anni immediatamente post-femministi viene dileggiato in modo superficiale. Tuttavia Sordi è abilissimo nel reggere praticamente da solo il peso di tutto il film, con la vicenda che si svolge quasi interamente nella lussuosa casa tra lui e la donna-robot. A sprazzi il protagonista, che si atteggia a maturo dongiovanni e uomo di mondo, lascia trasparire la malinconia del vivere da solo e senza veri affetti. Tardosordiano.

Caterina, una donna robot e dunque oggetto, è il sogno del Dottor Menotti che con una sola manovra si disfa di tutte le donne della sua vita che gli chiedono troppo. La sceneggiatura di Sonego sembra restare buona solo in potenza, Sordi regista non ne eleva il soggetto e il film arriva ad occupare una posizione mediocre nella sua  filmografia, sia per uno stile un po’ anonimo sia per la facile lezioncina sul maschilismo e la donna oggetto.

febbraio 12, 2011 Posted by | Commedia | , , , | Lascia un commento

Sheena, regina della giungla

Sheena locandina

I coniugi Betty e Philip Arnes, con la loro figlioletta Janet, si recano in Africa per alcuni studi; oggetto del loro interesse è la terra degli Zambuli, che ha delle particolari proprietà mediche.
Infatti nel villaggio degli stessi Zambuli la sciamana utilizza la terra come un potente farmaco, tanto che nei dintorni tutti chiamano il posto “la terra che guarisce”.
I due scienziati si apprestano quindi a indagare sulle strane proprietà della terra quando, inoltratisi in una caverna, vengono seguiti da Janet, allontanatasi per seguirli.
Le grida della bimba volte a richiamarli, provocano una frana con conseguenze letali per i due scienziati che muoiono schiacciati dai massi staccatisi dalla caverna.
La piccola Janet, rimasta orfana, viene così allevata dalla tribù e dalla sciamana, ribattezzata Shena e immersa in una realtà completamente nuova; i suoi compagni di giochi diventano leoni, scimmie, elefanti e serpenti.

Sheena 7
Tanya Roberts è Sheena

La sciamana del villaggio intanto si allontana verso la città; in un sogno ha visto il re Jabalani in pericolo di vita.
La scelta si rivelerà fatale perchè il principe Otwani con l’aiuto della principessa Zanda, riuscirà ad uccidere il re e a far ricadere la colpa sulla sciamana, facendo ritrovare l’arco di fabbricazione Zambuli dal quale è stata scoccata la freccia che ha ucciso il re.

Sheena 2

Sheena 3

Sono due giornalisti, Fletcher e Vic, che erano arrivati in Africa con l’intento di seguire proprio Otwani abilissimo giocatore di football, a scoprire che in realtà il re è stato ucciso da una balestra e non da un arco.
Nel frattempo Sheena con la’iuto dei suoi animali libera la sciamana, che però poco dopo muore.
Inseguita dagli uomini di Otwani e aiutata solo da Vic, Sheena ingaggia una battaglia mortale con Otwani….

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Sheena regina della giungla, di John Guillermin, film diretto nel 1984, è un epigono di Tarzan, il leggendario uomo scimmia creato da Edgar Rice Burroughs.
Guillemin, autore fra l’altro di buoni prodotti come Il ponte di Remagen (1969), Shaft e i mercanti di schiavi (1973),  L’inferno di cristallo (1974), King Kong (1976) e Assassinio sul Nilo (1978) torna sul set proprio dopo quest’ultimo film a distanza di sei anni per riproporre la bellissima Tanya Roberts nei panni dell’emula di Tarzan, Sheena.

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E lo fa con un film sciatto dalla sceneggiatura ridotta all’osso, oltre che già vista troppe volte.
Ad aggravare il tutto la recitazione assolutamente scolastica di tanya Roberts, bellissima top model e null’altro.
Pensare che il fumetto di Eiger e Asher, che risaliva agli anni trenta, si sarebbe prestato, con una sceneggiatura all’altezza, a ben altro risultato.
Nel film si salvano ovviamente la location e la fotografia; la prima perchè i paesaggi sono ben scelti, come del resto lecito attendersi nel continente africano, pieno zeppo di luoghi affascinanti e misteriosi, la seconda ben curata, opera di Pasqualino De Santis direttore della fotografia in film di ben altro livello come La caduta degli dei, Morte a Venezia e Romeo e Giulietta.
Quindi, se vogliamo, gli ingredienti giusti c’erano tutti; ma il film, opaco e senza nerbo, si trasforma ben presto in un didascalico elenco di foto in cui si possono apprezzare le già citate bellezze dell’Africa o le grazie della Roberts, generosamente esposte.

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A parte il bel vedere, la Roberts mette in mostra un campionario recitativo fatto del nulla più assoluto.
Non va certo meglio con i monocordi attori che la circondano, che non è il caso nemmeno di citare.
Un film decisamente brutto quindi, in cui è davvero difficile appigliarsi a qualcosa di salvabile.

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Sheena, regina della giungla, un film di John Guillermin. Con Ted Wass, Tanya Roberts, Trevor Thomas Titolo originale Sheena. Avventura,  durata 117 min. – Gran Bretagna, USA 1984.

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Sheena banner personaggi

Tanya Roberts    …     Sheena
Ted Wass    …     Vic Casey
Donovan Scott    …     Fletcher (“Fletch”)
Elizabeth of Toro    …     La sciamana
France Zobda    …     Principessa Zanda
Trevor Thomas    …     Principe Otwani
Clifton Jones    …     Re Jabalani
John Forgeham    …     Colonello Jorgensen
Errol John    …     Boto
Sylvester Williams    …     Juka
Bob Sherman    …     Grizzard
Michael Shannon    …     Phillip Ames
Nancy Paul    …     Betsy Ames
Kathryn Gant    …     Janet Ames (la piccola Sheena)
Kirsty Lindsay    …     La giovane Sheena
Nick Brimble    …     Wadman
Paul Gee    …     Blau
Dave Cooper    …     Anders
Tim Ward-Booth    …      Pilota dell’elicottero
Wilbur Nyabungo    …     Pilota
Oliver Litondo    …     Harcomba
Tom Mwangi    …     Nativo Africano
Margarita Ndisi    …     Receptionist
Joseph Olita    …     Primo poliziotto
Lenny Juma    …     Secondo poliziotto
William Allot    …      Sergente della prigione
Lucy Wangiu Gishomo    …     Vecchia signora
Mick Ndisho    …     Meccanico

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Regia di John Guillermin
Sceneggiatura di David Newman, Lorenzo Semple Jr.
Musiche di Richard Hartley
Fotografia Pasqualino De Santis
Montaggio Ray Lovejoy
Scenografie Peter Murton
Trucco Christine Allsopp    , Stefano Fava

Le recensioni qui sotto appartengono al sito http://www.davinotti.com

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Tratto da una storia a fumetti che ha per protagonista una sorta di Tarzan al femminile, il film di John Guillermin è una sorta di depliant illustrato del continente africano (oltre che delle indubbie grazie della protagonista) sul quale si innesta una storia più convenzionale che mai; il limite del film oltre che la prevedibilità della storia, è la fiacca sceneggiatura che produce un film noioso e privo di spunti davvero interessanti.

Se Dio vuole Mediaset da un po’ di tempo ha desistito dal propinarci questo obbrobrio quelle 2-3 volte l’anno. Lo spunto per mettere in scena questo filmaccio parte addirittura da un lontano fumetto datato 1938, che narrava le gesta di questa specie di Tarzan al femminile con poteri di comunicare con gli animali manco fosse San Francesco. Qui la resa cinematografica è stanca, piatta, eccessivamente lunga e banale, con l’eroina Sheena che la fa sempre franca contro i cattivoni dell’esercito che la braccano. Pessimo il cast zeppo di carneadi/desaparecidos.

Gli ingredienti per un buon film d’avventura c’erano tutti: suggestivi paesaggi africani, tribù indigene che si rivelano più civilizzate delle nostre, cattivi da combattere, uomini coraggioso da proteggere ed amare, animali feroci ma anche fedeli e, sopratutto, una bellissima ed angelica protagonista (era, infatti, l’ex-detective Julie Rogers dell’agenzia di Charlie), Tanya Roberts. Invece, Guillermin la butta sulla noia, in una trama che doveva essere d’azione e che d’azione non è mai! 1 e 1/2.

febbraio 11, 2011 Posted by | Avventura | , | Lascia un commento