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Zeder

Zeder locandina

Chartres (Francia), 1956
Il professor Meyer svolge ricerche su una teoria elaborata dal dottor Paolo Zeder; secondo quest’ultimo, che ha analizzato le sepolture dei popoli antichi, esistevano alcuni punti particolari della terra dove gli stessi popoli del passato seppellivano i morti con la convinzione che sarebbero tornati dall’aldilà. Questi terreni, chiamati K, avrebbero quindi la facoltà di mantenere in uno stato di animazione sospesa i corpi.
Meyer rinviene, grazie ad una ragazza usata come un radar, la tomba dello stesso Zeder, ma durante la ricerca la ragazza viene assalita da un’entità misteriosa e mutilata di una gamba.
La scena cambia e arriviamo ai giorni nostri.
Alessandra, giovane moglie di uno scrittore, Stefano, regala al marito in occasione del loro primo anniversario di nozze una macchina per scrivere.
Stefano, che fa lo scrittore, trova scritto sul nastro carbografico della macchina un inquietante racconto fatto da un ex prete, Luigi Costa, che racconta in maniera oscura di aver localizzato un terreno K, presso la necropoli di Spina, in prossimità di Rimini.

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Il falso Luigi Costa

Stefano, incuriosito, inizia delle indagini private che si riveleranno da subito molto pericolose; difatti un’organizzazione segreta francese, a cui appartiene il professor Meyer, che dopo 30 anni è ancora alla ricerca di un terreno K particolarmente “fertile”, segue i suoi progressi nelle indagini.
Lo scrittore, sulle tracce di Don Costa, che negli ultimi anni della sua vita aveva abbandonato l’abito talare, si imbatte in una serie di personaggi equivoci e legati in qualche modo alla vicenda, a cominciare dal suo più caro amico, il tenente Guido, per proseguire con la sorella cieca di Costa.

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La scoperta della tomba di Paolo Zeder

Proprio a casa di quest’ultima, Stefano apprende dalla donna della morte del ex sacerdote, avvenuta un mese prima.
Aiutato dalla moglie, Stefano scopre su indicazione di un primario della clinica dove è morto Costa, il luogo di sepoltura di quest’ultimo; nel cimitero di Spina Stefano rinviene la sepoltura dell’uomo ma non il suo corpo.
Con un’intuizione che sarà anche la sua rovina, Stefano arriva così alla colonia per bambini che il religioso seguiva anni prima.
Qui lo scrittore scopre che la misteriosa organizzazione francese ha installato un laboratorio segreto che monitorizza il corpo del sacerdote, seppellito a due metri di profondità nel famoso terreno K.
Stefano vede anche il sacerdote vivo passeggiare all’interno della stuttura che ospitava la colonia.

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L’inizio dell’enigma: un regalo mortale

Entrato nel laboratorio, Stefano si impadronisce di un nastro sul quale ci sono le prove degli esperimenti condotti dall’organizzazione e lo affida alla moglie, incaricandola di consegnarlo ad un amico esperto di storia.
Ma lo scrittore non ha fatto i conti con le potenti amicizie dell’organizzazione, a cui appartengono le persone di cui Stefano si fida; costoro si impadroniscono del nastro e uccidono la sventurata Alessandra.

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Don Mario e Stefano a colloquio

Nel frattempo l’ignaro Stefano, tornato all’interno della colonia, scopre con orrore che Don Costa, ritornato dalla morte, ha ucciso due degli appartenenti all’organizzazione.
L’effetto collaterale del ritorno dall’aldilà si concretizza quindi in un emergere di istinti bestiali i coloro che hanno osato sfidare la morte.
Tornato nell’hotel dove ha creato la sua base, Stefano scopre il cadavere della moglie.
Disperato, decide di seppellirla nel terreno K.
Alessandra torna dall’aldilà, e abbraccia Stefano, ma….

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La finta sepoltura di Costa

Zeder, diretto da Pupi Avati nel 1983, è il più bello tra gli horror girati negli anni 80;caratterizzato da una trama molto convincente non esente però da alcune contraddizioni, i distingue principalmente per la regia asciutta e a tratti assolutamente claustrofobica.
Zeder sembra composto da scatole cinesi, che il protagonista, lo scrittore Stefano, apre per trovarsi ogni volta di fronte ad un nuovo enigma.
L’atmosfera cupa del film ricorda La casa dalle finestre che ridono, opera meglio riuscita proprio in virtù di una sceneggiatura senza pecche.

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La necropoli di Spina

In questo film alcune forzature sono evidenti; tutte le persone che conosce Stefano diventano parte di una specie di complotto del silenzio e in qualche modo hanno a che fare con la storia; il che è abbastanza risibile, tenuto conto che il tutto nasce dal casuale acquisto da parte di Alessandra della macchina per scrivere acquisita ad un’ata.
Come sia possibile che Guido, l’amico poliziotto di una vita, che il professore a cui si rivolge Stefano, che il primario della clinica amico del padre di Alessandra abbiano tutti a che fare con la storia resta davvero un espediente poco credibile.

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La strana morte di Luigi Costa, spiato nella bara da una telecamera

Ma Avati riesce a far dimenticare queste stonature grazie al suo indiscutibile mestiere.
La tensione del film non si allenta mai, nemmeno nelle scene apparentemente più tranquille.
Così, man mano che la storia prosegue e introduce nuovi personaggi, si aspetta la soluzione dell’enigma, che arriva in un finale particolarmente intelligente, anche se inficiato da una certa fretta.
Altra caratteristica di Zeder è la quasi totale assenza dell’elemento splatter; le scene di sangue sono molto limitate e concentrate tutte nel finale.
Sul film aleggia quindi un’aria di mistero, di complotto in cui tuti gli elementi sono legati fra loro, quasi che Stefano sia rimasto invoschiato in una tela di ragno senza possibilità d’uscita.

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L’orrenda morte di Don Mario

Particolarmente indovinato il contrasto tra l’ombrosità di Stefano, personaggio interpretato dall’ottimo Gabriele Lavia e la solarità della moglie Alessandra, interpretata dalla sorprendente Anne Canovas, due figure contrapposte ma complementari che arricchiscono il film di un tocco di romanticismo, che avrà nel finale la sua esaltazione e al tempo stesso la sua tragica conclusione.

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La giusta punizione

Le musiche inquietanti di Riz Ortolani contribuiscono a rendere il film cupo e tenebroso, giungendo puntuali nei momenti topici della pellicola, ad esempio quando si sobbalza sulla poltrona in contemporanea all’incotro notturno tra Stefano e il sacerdote che ha sostituito Costa alla direzione della parrocchia, o anche nelle ultime sequenze, quando l’abbraccio mortale di Alessandra a Stefano riunisce i due amanti nella morte e quindi in un destino atroce, quello di essere dei non morti in un posto lugubre come l’ex colonia infantile.

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Abbraccio mortale

In rete Zeder sta acquisendo, sopratutto dopo l’uscita di un ottimo dvd rimasterizzatà, le dimensioni di un autentico cult.
All’epoca della sua uscita, pur riscuotendo un buon successo di critica e di pubblico, Zeder non fece molti proseliti.
Sembra un destino beffardo, quello di Avati, essere riconosciuto, dopo quasi 30 anni, come un autentico maestro del cinema. La stessa sorte è toccata al più fortunato La casa dalle finestre che ridono, ritenuto già all’epoca della sua uscita un piccolo capolavoro.

Zeder, un film di Pupi Avati. Con Cesare Barbetti, Gabriele Lavia, Anne Canovas, Marcello Tusco, Bob Tonelli, Adolfo Belletti, Andrea Montuschi
Horror, durata 100 min. – Italia 1983.

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Morte di Alessandra…

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..
.e del vecchio Benni

Zeder 14Un falso amico

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Zeder banner personaggi

Gabriele Lavia – Stefano
Anne Canovas – Alessandra
Paola Tanziani – Gabriella Goodman
Cesare Barbetti – Dr. Meyer
Bob Tonelli- Mr. Big
Ferdinando Orlandi – Don Luigi
Enea Ferrario – Mirko
John Stacy -Professor Chesi
Alessandro Partexano – Guido Silvestri
Marcello Tusco – Dottor Melis
Aldo Sassi- Don Mario
Veronica Moriconi-  Gabriella giovane
Enrico Ardizzone – Benni
Maria Teresa Tofano – Anna
Andrea Montuschi – Ispettore Bouffet
Adolfo Belletti- Don Emidio
Paolo Bacchi- Segretario di Mr. Big
Pina Borione – Helena
Imelde Marani – Nurse
Carlo Schincaglia- Guardiano del cimitero

Zeder banner cast

Soggetto PUPI AVATI

Sceneggiatura PUPI AVATI, MAURIZIO COSTANZO, ANTONIO AVATI

Scenografie GIANCARLO BASILI e LEONARDO SCARPA

Direttore di produzione FRANCESCO GUERRIERI

Costumi STENO TONELLI

Direttore della fotografia FRANCO DELLI COLLI

Colore TELECOLOR

Montaggio AMEDEO SALFA

Musiche composte e dirette da RIZ ORTOLANI

Edizioni musicali NEW POINT

Prodotto da GIANNI MINERVINI e ANTONIO AVATI

per la A.M.A. FILM

in collaborazione con ENEA FERRARIO

e la RAI – Radiotelevisione Italiana

Aiuto regista CESARE BASTELLI

Segretaria di edizione FIORELLA LUGLI

Operatore ANTONIO SCHIAVO-LENA

Assistente Operatore ANDREA BARBIERI

Fonico RAFFAELE DE LUCA

Microfonista PAOLO COTTIGNOLA

Ispettore di produzione LUCA BITTERLIN

Segretaria di produzione ROSA MERCURIO

Amministratore RAFFAELLO FORTI

Assistente cassiera FRANCESCA MONETA

Assistente scenografa LAURA CASALINI

Attrezzista FALIERO REGGIANI

Truccatore ALFONSO CIOFFI

Sarte LUISA CAVAZZA e CLARA MASINA BERTI

Fotografo di scena PIERMARIA FORMENTO

Assistente al montaggio PIERA GABUTTI

Aiuto assistente al montaggio LORETTA MATTIOLI

Mezzi Tecnici EL.MA.

Girato in TECHNOVISION

Negativi KODAK

Teatri di posa R.P.A. ELIOS

Studio fotografico ROBERTO RUSSO

Consulenza assicurativa CINESICURTA’

Colonne sonore effetti LUCIANO e MASSIMO ANZELLOTTI

Sonorizzazione COOPERATIVA DI LAVORO FONO ROMA

Con la collaborazione della C.V.D.

Mixage ROMANO CHECCACCI

Titoli e truke PENTA STUDIO

Immancabile. Nonostante alcuni rivoli non chiarissimi (la partenza di Mirco e madre [un altro complotto?], il “deus ex machina” del vecchio, la penultima morte) la pellicola sprigiona fascino, pure perché molte facce sono perfette ed alcune scene (le false tombe, Costa che scende le scale, lo scheletro dell’edificio) indimenticabili nella loro sobrietà. Avati non sbandiera, ma suggerisce e quel che un po’ si perde in chiarezza lo si guadagna nell’incanto. Non alle vette de La casa, ma un buon film, che cresce alla seconda visione. Citazione da Tourneur. La Marani (portafortuna avatiana) fa l’infermiera.

Da molti considerato un capolavoro (e in parte lo è), spesso il film è soggetto a lecite critiche su alcuni punti poco chiari (specialmente nel finale) della sceneggiatura. Quello che è certo è che resta impresso nella mente per la buona interpretazione di Gabriele Lavia, Anne Canovas e di tutto il resto del cast. Le indovinate locations (soprattutto il complesso di Cattolica nel quale è girato il suggestivo e memorabile finale) rendono questa pellicola unica nel suo genere. Molti punti di contatto con Pet Sematary…

Già la musica angosciante, durante i titoli di testa, è di buon auspicio. Per non parlare dell’inizio con la vecchina. Il respiro affannoso, simile a un vento maligno, che attraversa le mura della villa, è quasi raggelante. Le assi del pavimento si piegano. C’è qualcosa, qualcuno, o più di uno… Un horror di alto livello, con la giusta ambientazione, reso tale da un regista di qualità e intelletto, che ha saputo miscelare horror e thriller in giuste dosi. Il risultato appaga chi si gusta la pellicola, meglio in un luogo isolato, senza disturbi.

Lovecraftiano e zombesco. Dopo La casa dalle finestre che ridono, un altro saggio dell’inimitabile gotico padano di Avati, che ripropone le sue classiche tematiche horror in location romagnola: la possibilità di un contatto tra vivi e morti, uno stregonesco personaggio legato all’occulto, misteri, esoterismo, omertà, messaggi criptici, inquietanti dimore, sacerdoti spretati. Il risultato è eccellente e la paura assicurata.

Sette anni dopo La casa dalle finestre che ridono  Pupi Avati torna a dirigere un horror di ambientazione padana, ma stavolta dà più spazio al soprannaturale rispetto al film precedente. La storia, infatti, verte sui misteriosi esperimenti fatti per far tornare in vita i morti. Ancora una volta grazie ad una buona regia e ad una bella sceneggiatura la tensione e gli spaventi sono garantiti ed il tutto senza violenza ed effettacci da baraccone. Finale beffardo che verrà, probabilmente, ripreso da Cimitero vivente della Lambert.

Non male. Le stupende scenografie dove sorgono i famigerati terreni k risultano funzionali alla storia e molto inquietanti. Cast ricco (c’è anche il bravissimo doppiatore Cesare Barbetti), buoni momenti di terrore. Lavia una volta tanto offre una buona interpretazione in campo cinematografico, gradevole la partecipazione di Tonelli seduto dietro la scrivania.

Un buon film di genere, diretto con il consueto stile da Avati, che ambienta il film, come spesso càpita, nella sua Emilia-Romagna. Gli eventi orrorifici si susseguono lentamente, ma in un’atmosfera inquietante, e sono commentati dalle efficaci note musicali di Riz Ortolani. Inutile negarlo: il confronto con La casa dalle finestre che ridono è obbligato e certamente Zeder ne esce parzialmente perdente: gli manca quel qualcosa in più che ha reso il precedente film un cult inossidabile.

Horror soprannaturale avatiano al 100%, graziato dalla sempre affascinante e falsamente rassicurante ambientazione padana, si fa ricordare come uno dei migliori prodotti filmici del regista e in generale dell’horror italiano. Interpreti in parte, sceneggiatura macchinosa ma anche avvincente, belle musiche di Ortolani, regia sobria ma di classe. I momenti di paura ci sono eccome, incastonati tra atmosfere che riescono ad essere inquietanti non solo di notte, ma anche alla luce del sole. Assolutamente imperdibile!

Ottimo ritorno al thriller gotico per Avati. A livello di scrittura e di regia risulta anche nettamente superiore a La casa, questo grazie ad una sceneggiatura di ferro che non lascia spazio a tempi morti e ad una maturazione registica non indifferente. Non una scena risulta essere sbagliata o fuori posto. Tuttavia l’atmosfera malsana del suo film cult qui è assente. Col senno di poi lo si può considerare come un anello di congiunzione tra Argento e Fulci. Azzeccatissima di nuovo l’ambientazione.

Rivistolo, me ne sono innamorato. Forse anche grazie al magnifico dvd della Fox che restituisce in pieno le atmosfere di un film macabro e freddo, che passa dalle misteriose scene francesi a Chartres alle indagini di Lavia tra Cervia e Milano Marittima, mentre le figure di Paolo Zeder, ma soprattutto di don Costa, acquistano spessore fino a raggiungere un finale gelido, che l’immagine dello spretato in movimento tra le strutture in cemento consegna direttamente alla storia del cinema. Ottima prova di tutto il cast, diretto magistralmente.

È quantomeno buffo come nello stesso anno siano usciti questo film e “Pet Sematary” di King. Strano per la forte somiglianza. Invece del cimitero indiano abbiamo il terreno K, invece del figlio, la compagna. A me non entusiasma Pupi versione horror, nemmeno in La casa dalle finestre che ridono, e quindi non ne sono rimasto entusiasta. Le atmosfere ricordano Argento (altro di cui non vado pazzo) e le musiche di Ortolani sono al di sotto del suo standard. L’idea alla base è notevole e la realizzazione buona. Consiglio, ma non caldamente.

Ottimo horror di Avati anche se con qualche sbavatura di troppo. Scene colme di suspance e angoscia. L’idea sembra prendere spunto dal romanzo di King “Pet sematary”, riuscendo nell’impresa di sbalordire lo spettatore dinanzi allo schermo. Il cast non mi è sembrato molto all’altezza dell’opera (il protagonista sembra fatto di cera). Qualche minima similitudine con la trilogia di Fulci nell’idea dei territori K.

Non c’è che dire, Avati consolida la sua personale via “emiliana” all’horror con un lavoro denso, dall’atmosfera carica di paura (e di paure dei protagonisti), riprendendo ed ampliando il suo sfondo tipico, Bologna, coi suoi personaggi “qualunque”. Per suspence ricorda il Fulci di quegli anni. La storia si incentra sulle zone K, il film si poggia su un Lavia che a dispetto dell’immenso talento (manifestato inequivocabilmente a teatro) qui è monocorde, con un personaggio sciocco fino all’inverosimile e poco credibile. Finale beffardo. 3 pallini.

Nonostante una certa lentezza e alcune forzature nella sceneggiatura, a distanza di tanti anni rimane integra la forza suggestiva della storia, con un finale che regala un paio di sequenze molto brevi ma tra le più agghiaccianti nella storia del cinema horror. Reso ancora più inquietante dalle viscerali musiche di Riz Ortolani, è un film imperdibile per chi ha amato La casa dalle finestre che ridono.

Avati torna all’horror, ma non vi è nulla dell’atmosfera magica di La casa dalle finestre che ridono; qui, al contrario, tutto è ostico e freddo ed è difficile farsi coinvolgere. Buona la parte finale girata a Milano Marittima tra lo scheletro della vecchia colonia estiva. Storia strana, Lavia non emoziona, musica dissonante, finale con zombie ma d’autore. A mio parere è un mezzo passo falso.

Dopo La casa dalle finestre che ridono, Avati ci riprova con esiti non certo disprezzabili. La trama si snoda sulle prime come un curioso giallo dalle atmosfere solari che parte da un pretesto banale per poi approdare sui lidi del terrore e del pericolo. La mano di Avati si nota, soprattutto nell’aver creato atmosfere che pullulano di tensione (alcuni spaventi sono assicurati) e nella buona caratterizzazione dei protagonisti; buona la direzione degli attori (con la Canovas in testa) e la vispa fotografia di Delli Colli. Notevole.

settembre 27, 2010 Posted by | Horror | , , | 2 commenti

Inferno

Inferno locandina

Rose Elliot, una graziosa scrittrice di poesie, acquista un libro da un antiquario ,Kazanian; il libro, scritto da un italiano, Emilio Varelli, parla delle Tre madri dell’inferno, Mater Suspiriorum, la madre dei sospiri, Mater Lacrimarum, la madre delle Lacrime e Mater Tenebrarum, la madre delle Tenebre, che l’uomo racconta di aver conosciuto personalmente.

Inferno 1
Il libro sulle tre madri

Per loro Varelli ha costruito tre dimore, situate in tre punti geografici differenti: la prima casa è a Friburgo, la seconda a New York e la terza a Roma.
Rose leggendo il libro inizia a collegare alcuni oscuri presagi alla casa in cui abita, e alla fine si convince di abitare proprio nella casa della seconda madre, Mater Tenebrarum, casa costruita a New York, dove la ragazza vive.
Così la giovane donna inizia una pericolosa quanto movimentata esplorazione del sottosuolo; qui la donna scopre che le fondamenta dell’edificio sono completamente sommerse dall’acqua, oltre a rinvenire un cadavere ormai decomposto.

Inferno 2
La bottega antiquaria di Kazanian

Inferno 18
Rose nei sotterranei della casa

Sconvolta dall’esperienza, la ragazza scrive una lettera angosciata a suo fratello Mark, scongiurandolo di venire a trovarla; contemporaneamente chiede lumi a Kazanian, l’antiquario zoppo e ambiguo, che però la rassicura dicendole che ha costruito troppo con la fantasia.
Ma la ragazza sta per andare incontro a una terribile morte; dopo essere riuscita miracolosamente a scampare ad un agguato nel suo appartamento, la donna si rifugia nei sotterranei, entrando così in una stanza addobbata con strani oggetti. Mentre si guarda intorno, impaurita e stupefatta, viene afferrata da una mano con delle dita scheletriche e gettata sul pavimento, dove un istante dopo una pesante lastra la decapita orrendamente.

Inferno 3
La misteriosa ragazza dell’università (l’attrice Ania Pieroni)

Mentre accadono questi tragici fatti, Mark riceve la lettera della sorella; durante una lezione di musica, il giovane prova a leggerla, ma non ci riesce, soggiogato dallo sguardo di una bellissima e inquietante ragazza che stringe tra le braccia un gatto.
Il giovane la insegue, dimenticando la lettera, che viene presa da Sara; la ragazza, incuriosita dalla storia raccontata nella  missiva, si reca in biblioteca per cercare una copia del libro di Varelli, ma quà viene aggredita da un misterioso individuo.

Inferno 4
Morte dell’incolpevole Sara (Eleonora Giorgi)….

Inferno 5
… e di Carlo (Gabriele Lavia)

Sara riesce a scappare e a tornare a casa; nell’ascensore incontra Carlo, un suo vicino, al quale la donna chiede di farle compagnia.
Sulla città si è scatenato un furibondo temporale, così l’uomo accetta di passare qualche ora in compagnia della ragazza.
Decisione fatale, perchè entrambi verranno orrendamente assassinati.
Quando Mark arriva è troppo tardi; c’è la polizia e i due giovani sono morti.
Della lettera giacciono per terra solo frammenti.

Così il giovane si reca a New York per indagare di persona, e giunge nell’ultimo domicilio di sua sorella Rose.
Nel palazzo abita gente molto ambigua, a cominciare dalla portiera Carol, passando per il professor George Arnold , un uomo che è costretto a vivere su una sedia a rotelle, che comunica con un piccolo amplificatore di suoni e che è portato in giro da un’infermiera assolutamente sinistra, la contessa Elise Stallone Van Adler, una donna dall’equilibrio fragile accompagnata da un maggiordomo equivoco.

Inferno 6
La casa della Mater Tenebrarum di giorno

Elise è la prima a trovare la morte; assalita da un gruppo di gatti inferociti, viene pugnalata dalla solita figura nera.
Tocca poi all’antiquario Kazanian, straziato orrendamente dai topi a Central Park mentre tenta di liberarsi di un sacco contenente gatti da lui catturati all’interno della propria casa.
Le morti proseguono: muore il maggiordomo John, che vorrebbe impadronirsi dei gioielli della sua defunta padrona, muore la custode Carol, bruciata viva mentre scopre il cadavere del maggiordomo.
La donna, avvolta dalle fiamme, precipita da una delle finestre della casa maledetta.
Mentre avvengono questi fatti, Mark scopre casualmente una serie di cunicoli che portano all’appartamento del professor Arnold.
Qui il giovane apprende la vera identità dell’uomo: si tratta di Varelli, l’uomo schiavo delle tre madri che ha costruito per loro le tre case, inclusa ovviamente quella in cui si svolge l’azione.
Varelli tenta di uccidere Mark iniettandogli del veleno, ma muore strangolato dal filo del microfono che gli serve per parlare.

Inferno 7
Mark incontra il professor Arnold

Mark fugge, per ritrovarsi nella famosa stanza in cui sua sorella ha perso la vita.
Qui trova la sinistra infermiera di Varelli e scopre la sua vera identità: si tratta di Mater Tenebrarum, la madre delle tenebre.
Ma è destino che il giovane debba salvarsi: il palazzo prende fuoco, e Mark riesce ad allontanarsi miracolosamente.
Mater Tenebrarum resta intrappolata nel sottosuolo della casa, che crolla seppellendola.

Inferno arriva dopo il buon successo di Suspiria, film decisamente innovatore del regista del brivido Dario Argento, che era passato dal giallo/thriller tradizionale ad una cinematografia in cui l’elemento thriller si amalgama indissolubilmente all’horror gotico.
Riprendendo gli elementi che avevano caratterizzato Suspiria, ovvero una trama in cui il sopranaturale è predominante rispetto al resto, Argento passa a raccontare la storia della seconda delle tre madri degli inferi, dopo che la prima ,Mater Suspiriorum, ha trovato la sua fine a Friburgo nell’incendio della prima delle tre case costruite da Varelli.

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Daria Nicolodi, la contessa Elise Stallone Van Adler

Inferno quindi riprende la tematica del primo film, che Dario Argento amplifica e spiega meglio in questa seconda parte.
Lo fa con un linguaggio visivo molto forte, in cui predominano i colori accesi, quasi tutti saturati sul rosso, sul porpora e sul viola, tanto che le parti diurne, davvero poche, appaiono come delle isole remote in un linguaggio visivo forte e frastornante.
L’azione non è predominante, nel senso che il ritmo non incalza, quasi che Argento voglia seguire più un nesso descrittivo per tensione che affidato alla potenza del colpo di scena o allo splatter.
All’atto pratico il film regge, anche se con fatica.
Per lo spettatore che non ha visto Suspiria, i riferimenti alle vicende delle tre madri, di Varelli ecc. appaiono decisamente ostici.
Ma Inferno può reggere una trama a se stante, sopratutto dopo che il finale ha rivelato i retroscena del film stesso e del precedente.

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Mark incontra l’antiquario Kazanian

Tant’è vero che tra Inferno, girato nel 1980 e La Terza madre, opera conclusiva della trilogia, passeranno ben 27 anni, a simboleggiare la difficoltà del regista di riproporre  un thriller gotico fuori tempo massimo, ovvero dopo che il cinema si è evoluto su binari ben distinti.
Inferno lascia parecchi dubbi, legati in primis alla scellerata decisione di Argento di affidare la parte di Mark all’incredibile Leigh McCloskey, che massacra il personaggio di Mark Elliot, con un’interpretazione degna delle Pernacchie d’oro americane, riservate al peggior attore dell’anno.
Legnoso, inespressivo, monocorde, McCloskey rovina gran parte del film arrancando penosamente tra una scena e l’altra, togliendo tensione e forza al suo personaggio.
Viceversa Irene Miracle ovvero Rose Elliot nel film, mantiene alta la tensione mostrando espressività, come del resto fa la bella e brava Eleonora Giorgi (Sara), l’ottimo Sacha Pitoeff (Kazanian) e il resto del cast.
Due camei vanno segnalati su tutto: quello della bella e misteriosa Ania Pieroni, la ragazza dell’università, inquadtrata solo per poche sequenze, ma capace di bucare lo schermo con la sua bellezza e quello di Gabriele Lavia, che interpreta lo sventurato Carlo (una reminescienza di Profondo rosso, in cui l’attore aveva interpretato un personaggio con lo stesso nome).
Come in Suspiria, c’è la brava Alida Valli, mentre va segnalato Leopoldo Mastelloni nel ruolo dell’ambiguo maggiordomo John.

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L’orribile morte di Kazanian

Sempre brava la Nicolodi, musa di Argento, questa volta destinata ad una orribile fine.
Per la colonna sonora Argento, orfano questa volta dei suoi Goblin, ci si affida a Keith Emerson, che compie un prodigio con il tema centrale del film, Mater Tenebrarum, assolutamente perfetto nella più bella sequenza del film.
Spazio anche a Verdi e al suo Nabucco, che ascoltiamo dalle cuffie del giovane Mark impegnato nelle lezioni all’università.
Se Inferno non può essere definita opera completamente riuscita, va tuttavia riabilitata rispetto alle critiche feroci di parte della critica.
Argento ha il coraggio di uscire dal clichè del “regista del brivido” capace di far sobbalzare lo spettatore sulla sedia con gli effettacci splatter o con il classico colpo a sorpresa.
Lo fa con un film diverso, coraggioso come era stato coraggioso Suspiria, con uso del colore innovativo anche se rischioso.
Una scommessa vinta con sufficienza, a mio giudizio.
Quando quasi 30 anni dopo il regista metterà mano al capitolo conclusivo della saga, lo farà realizzando davvero un’opera discutibile, in cui ritornerà a piene mani l’effetto splatter, senza più le cupe e livide atmosfere dei primi due capitoli.
Inferno è una buona opera, come Suspiria, del resto.
Sopratutto tenendo conto che siamo nel primo dei famigerati anni ottanta, anni in cui la crisi del cinema italiano appare davvero di portata colossale.

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L’enigma svelato….

Inferno, un film di Dario Argento. Con Eleonora Giorgi, Alida Valli, Leopoldo Mastelloni, Gabriele Lavia, Feodor Chaliapin jr, Daria Nicolodi, Fulvio Mingozzi, Paolo Paoloni, Veronica Lazar, Irene Miracle, Sacha Pitoëff, Ania Pieroni
Horror, durata 107 min. – Italia 1980.

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Leigh McCloskey: Mark Elliot
Eleonora Giorgi: Sara
Daria Nicolodi: Elise
Irene Miracle: Rose Elliot
Sacha Pitoeff: Kazanian
Alida Valli: Carol, la portinaia
Veronica Lazar: Infermiera/Mater Tenebrarum
Gabriele Lavia: Carlo
Feodor Chaliapin Jr.: Professor George Arnold /Dr. Varelli
Leopoldo Mastelloni: John, il Maggiordomo
Ania Pieroni: Studentessa di musica/Mater Lacrimarum
James Fleetwood: Cuoco
Rosario Rigutini: Uomo
Ryan Hilliard: Ombra
Paolo Paoloni: Insegnante di musica
Fulvio Mingozzi: Tassista
Luigi Lodoli: Rilegatore
Rodolfo Lodi: Uomo anziano
Dario Argento: Narratore

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Regia     Dario Argento

Soggetto     Dario Argento
Sceneggiatura     Dario Argento
Produttore     Claudio Argento
Produttore esecutivo     Salvatore Argento, William Garroni
Casa di produzione     Produzioni Intersound
Fotografia     Romano Albani
Montaggio     Franco Fraticelli
Effetti speciali     Germano Natali, Mario Bava (effetti visivi)
Musiche     Keith Emerson, Giuseppe Verdi
Scenografia     Giuseppe Bassan
Costumi     Massimo Lentini
Trucco     Pierantonio Mecacci

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“Noto, celebrato, imperfetto, con un protagonista che riesce nell’impresa di essere presto scordato. Lo si può adorare “in toto”, ma mi pare logico ritenerlo un film dotato di momenti vigorosissimi (fantastico, pure in senso etimologico, il finale) alternati a momenti un po’ così, con il pur minimo barlume di logica che ricopre il ruolo del grande assente. Grande l’uso di note e di voci verdiane, ottime pure nella creazione di Keith Emerson, che qualcuno ha paragonato ai tonanti “Carmina Burana”.

Tra i vertici della filmografia di Dario Argento, Inferno va visto come un magnifico esercizio di stile. Il regista tralascia ogni pretesa di verosimiglianza e la sceneggiatura risulta in realtà piuttosto ingarbugliata (e a tratti francamente incoerente). Colpisce invece il sapiente gioco di luci e colori e l’efficacia di sequenze iperviolente che si sposano bene con le belle musiche di Emerson.

In questo grande horror gli attori passano quasi in secondo piano, rispetto alle scenografie, alle fantastiche riprese e all’utilizzo delle luci. Sono queste le tre forze dirompenti del film. Visivamente, è tutto da gustare (colori pazzeschi: predominano il rosso e il blu). Dà l’idea di un esercizio di stile (c’è un certo compiacimento nel colpire lo spettattore con bellezza e efferata violenza: la coltellata al collo). Unici nei: una sceneggiatura un po’ incasinata e un finale, piuttosto grossolano, non all’altezza di una simile pellicola.

Personalmente, dopo lo stupendo Suspiria, giudico questo film l’inizio della fine di Dario Argento. Di positivo rimane una fotografia splendida con colori superbi e la buona orchestrazione delle singole scene, manca però la coesione del tutto e la trama è praticamente inesistente. Alla fine rimane un po’ di amaro in bocca per quella che sembrava un’occasione sprecata ma che poi si rivelerà come il primo passo verso prodotti sempre meno pregiati

Un buon horror (secondo capitolo della trilogia cominciata con Suspiria), che però non raggiunge la bellezza del primo capitolo. Certo, nel cast vi sono bravi attori (anche se quasi tutti fanno brevi partecipazioni): Alida Valli, Daria Nicolodi, la Giorgi, Michele Soavi (!) e un discreto McCloskey. Belli i giochi di luce e le scenografie; inquadratura finale evitabile. Buono, ma non un capolavoro.

Capolavoro visionario, più radicale e irrazionale del precedente Suspiria. Lontano dagli stereotipi dell’horror, un’insieme di sensazioni visive e sonore, potente e fascinoso, dove trama e recitazione passano volutamente in secondo piano. Regia, fotografia e musiche spesso al limite del sublime. Peccato per qualche evitabile difetttuccio (l’effetto speciale del teschio ad esempio) ma il livello rimane altissimo. Imprescindibile.”

 

Inferno locandina 2

luglio 19, 2010 Posted by | Thriller | , , , , , , | 1 commento