Unfacebook
Unfacebook è il nuovo lavoro di Stefano Simone, giovanissimo regista di Manfredonia classe 1986 tratto da un romanzo breve di Gordiano Lupi; si ricostituisce quindi la coppia che aveva dato origine al lavoro precedente di Simone, il lungometraggio Cappuccetto rosso che ho recensito sul mio blog l’anno scorso.
Va detto subito che Unfacebook segna un salto di qualità importante per il giovane regista.
Non tanto per l’eccellente livello tecnico raggiunto, quanto piuttosto per la maturità mostrata grazie anche alla maggiore disponibilità di mezzi di cui ha goduto il regista, che gli ha permesso di utilizzare per esempio attori sicuramente più credibili e sopratutto maggiori mezzi tecnici a disposizione.
Guardare Unfacebook significa immergersi in un lavoro per molti versi affascinante, per altri coinvolgente.
il plot della storia è solido, e questa non è certo una novità.
Lupi, autore del romanzo breve, da profondo conoscitore di cinema sa come creare racconti semplici ed essenziali, sui quali poi è facile strutturare delle sceneggiature cinematografiche.
Lo scrittore di Piombino non usa una prosa piena di fronzoli e non allunga mai il brodo oltre il necessario; Stefano Simone ha semplicemente rispettato la regola basilare di una sceneggiatura rispettabile, ovvero non stravolgere il racconto cercando di essere fedele ad esso.
Ma, al tempo stesso, il regista lavora in maniera autonoma, utilizzando il suo estro per trasportare in imagini quello che è un racconto moderno a tutti gli effetti, che prende spunto dal fenomeno in vertiginosa crescita dei social network, nello specifico quel Facebook che oggi è in grado di coinvolgere centinaia di milioni di persone, che funziona da cassa di risonanza di avvenimenti locali e che li amplifica in modo esponenziale, come dimostrano le recenti rivoluzioni in Egitto e Tunisia, nate quasi casualmente proprio sul social network più diffuso.
Stefano Simone quindi trasporta nel modo più fedele possibile l’atmosfera ombrosa e da autentico mistery del romanzo breve Il prete in un linguaggio visivo privo di fronzoli e orpelli, badando decisamente al sodo e costruendo un’atmosfera particolarmente claustrofobica nonostante il film sia girato essenzialmente all’aperto.
I punti di forza di Unfacebook sono diversi e mostrano l’evidente tributo del regista ai maestri del thriller made in Italy (ma non solo) dei quali si è nutrito per la sua formazione artistica; Fulci, D’Amato e Bava per esempio, così come le atmosfere da primo Argento.
Simone si stacca però dai canoni tradizionali scegliendo di colorare il film con i simboli del social network facebook, il bianco e l’azzurro, che uniti alla solarità della location, abbacinante e tersa come solo i paesaggi pugliesi sanno esserlo, donano al film quell’aria vagamente country che trasportano la fantasia verso i piccoli centri di una nazione che potrebbe benissimo non essere più l’Italia, ma un qualsiasi paese africano per esempio.
Il film è strutturato con una logica impeccabile: personaggio principale, secondario, storia sobria e accennata, soluzione dell’enigma, finale aperto.
In mezzo, un paesaggio quasi lunare, perchè animato solo dai personaggi principali della storia, alcuni dei quali si muovono quasi come automi, dei fantasmi che si muovono in un paese/città dai quartieri periferici assolati e deserti, simbolo di un’alienazione che non è solo paesaggistica ma anche umana.
Lo spettatore prova un senso di disagio nel muoversi attraverso la MDP del regista che indugia su cumuli di detriti o su edifici in rovina o costruiti e abbandonati, tra vie deserte che testimoniano l’esistenza di vita solo attraverso i feticci della civiltà, le automobili e le case, le antenne satellitari e i negozi.
Questa l’atmosfera, quindi.
Nella quale si muovono come ombre i due protagonisti principali della storia, il sacerdote Don Carlo che Lupi descrive nelle parti iniziali del suo romanzo mentre legge attonito il quotidiano Il Tirreno che racconta la scarcerazione di un pluriomicida e il commissario Mario Saltutti, impenetrabile ed enigmatico come le vittime degli omicidi che costellano il romanzo stesso.
Simone sceglie invece un inizio diverso, mostrandoci la feroce esecuzione di una probabile vittima della camorra (lo intuiamo dai gesti e dalle modalità dell’esecuzione stessa) alla quale assite, non visto, un ragazzino.
Il terribile rumore dello sparo squarcia e buca la pellicola, come il sangue che schizza sul muro.
Ecco, ancora quel senso di estraneazione che coglie lo spettatore, quel senso di gelo davanti ad una scena che viene descritta con quotidiana frequenza dai telegiornali e che ci vede ormai testimoni assuefatti proprio dalla ripetitività delle azioni stesse.
Da quel momento seguiamo le vicende parallele di Don Carlo, nauseato da quei peccatori che è costretto ad assolvere nel confessionale e quelle dell’impenetrabile e impassibile commissario, che si troverà immerso in un’atmosfera degna dei quartieri ghetto di una città come New York, disumani e freddi, nei quali la vita umana e il suo rispetto sono ormai un semplice e trascurabile dettaglio.
Il giovane prete utilizza le sue conoscenze informatiche e i moderni sistemi tecnologici per iniziare una sua personale guerra al male, combattendo la violenza e il male stesso con la violenza e il crimine.
Che differenza c’è tra lui e le sue vittime, qual’è il confine tra la richiesta di giustizia e l’utilizzo di un sistema violento che porta all’eliminazione fisica del male attraverso la violenza stessa?
Non lo sappiamo, perchè la MDp di Simone si limita giustamente a mostrare i fatti nella loro crudezza, senza tentare improbabili se non impossibili disquisizioni socio/culturali.
Così i morti ammazzati passano sullo schermo senza soluzione di continuità; vediamo morire per suicidio un pedofilo che si evira, un’adultera che si squarcia la gola e poi uno dietro l’altro un altro suicida e i morti ammazzati per ordine di Don Carlo.
Che, utilizzando un libro sull’ipnosi e la chat Unfacebook si crea un piccolo esercito di giustizieri fedelissimi e ciechi ad ogni remora morale.
Sarà il commissario a dipanare il mistero prima del finale che spiazza.
Unfacebook è un film con tante luci e poche ombre, ombre che paradossalmente appartengono più al romanzo che al film stesso.
Opinabile è quanto scrive il buon Gordiano Lupi a proposito dei Cavalieri Templari visti come zombie obbedienti e privi di volontà autonoma, ma qui entriamo in un campo dove rischiano di predominare i sofismi.
Simone si allontana in modo autonomo dal racconto descrivendo in maniera differente i suicidi, sostituendo la location originale, la toscana Piombino, con quella più degradata, per certi versi di Manfredonia; la conoscenza del territorio e la scelta della periferia della cittadina sono alla fine un’arma vincente per il film.
Così come ben riuscita è la scelta di inserire brevi sequenze in bianco e nero in perfetto stile fumetto che interagiscono con la pellicola, accompagnata dalla angosciante musica di Luca Auriemma, che contribuisce a rendere ancora più claustrofobica ed estraneante la pellicola.
Un film da vedere che coinvolgerà lo spettatore, attraverso il percorso di vita di Don Carlo e quello del Commissario Saltutti, assolutamente antitetici; il primo si arroga il diritto di decidere in nome di Dio, ergendosi a suo braccio armato e decidendo di interpretare la sua volontà in un supremo atto di folle egoismo.
Il secondo muovendosi come un’ombra senza un sorriso, un segno di vitalità che non siano le scarne parole che rivolge al suo superiore o all’agente che collabora con lui.
In mezzo, i moderni giustizieri di Don Carlo, loro si veri zombie creati elettronicamente e tecnologicamente attraverso quello che sembra essere il futuro sociale di buona parte dell’umanità, il mondo tenebroso e affascinante di Internet.
Ecco, Simone ha il merito di aver mostrato questo in un film thriller, ovvero i rischi della tecnologia come supporto ad una storia di morti ammazzati.
Che spirano in modo orribile, sia che muoiano con la gola squarciata con il rumore netto del coltello che taglia e accappona la pelle, sia che muoiano colpiti da pallottole o piuttosto da coltellacci da cucina.
Unfacebook è quindi un film da assaporare, che non lascerà assolutamente indifferenti.
Così come possiamo già immaginare il 25 enne regista dauno alle prese con il suo prossimo film, che speriamo trovi finalmente un produttore davvero all’altezza, in modo da permettere al regista l’utilizzo di attori professionisti e location più articolate.
Perchè a Simone il talento non manca davvero, perchè per certi versi appare come crudele e insensata la decisione di finanziare vanzinate e non film affascinanti e controversi come questo Unfacebook.
Unfacebook, un film di Stefano Simone, con Paolo Carati, Giuseppe La Torre, Tonino pesante, Fabio Valente, Tonino Potito,Filippo Totaro, Sabrina Caterino, Pia Conoscitore, Mimmo Nenna, Ivano Latronica Thriller, Italia 2011
Regia: Stefano Simone
Sceneggiatura: Pia Conoscitore, Dargys Ciberio, Antonio Universi
Dal racconto Il prete di Gordiano Lupi
Fotografia e montaggio: Stefano Simone
Musiche: Luca Auriemma
Effetti speciali: Lorenzo Giovenga, Giuliano Giacomelli
Operatore: Marco La Torre
Produzione: Jaws entertainment
Il regista di Unfacebook, Stefano Simone

Lo scrittore Gordiano Lupi, autore del romanzo breve Il prete dal quale è tratto il film
Cappuccetto rosso
Come i lettori più attenti del mio blog sanno, generalmente non mi occupo di cinema contemporaneo, per la più volte citata legge sul copyright dei fotogrammi.
La dovuta e necessaria eccezione è rappresentata da un film breve, quasi un cortometraggio, di un giovane e talentuoso regista pugliese, Stefano Simone.
Cappuccetto rosso, tratto da un romanzo di Gordiano Lupi, rappresenta una ottima prova del giovane regista, capace di utilizzare gli scarsi mezzi a disposizione ricavando, dal romanzo stesso, una fiaba nera in cui i personaggi ribaltano completamente i ruoli canonici della fiaba a cui fa riferimento il film.
Cappuccetto rosso non è più la tenera e sperduta ragazzina che attraversa il bosco per andare a trovare la nonna, ma è un giovane all’apparenza ingenuo come la ragazzina, che si imbatte non nel lupo ma in una spietata killer.
Il ribaltamento della storia ha già qualche motivo di interesse e Simone ripercorre la storia dandole il giusto pathos, utilizzando cioè quello che più serve ad un giovane regista, ovvero la fantasia, l’intelligenza di capire come coinvolgere lo spettatore e sopratutto mostrando una buona conoscenza della macchina da presa.
Il risultato è sicuramente di buon livello, sempre considerando il fatto che lo scarso budget ha costretto il giovane autore all’utilizzo di attori amatoriali, all’utilizzo di effetti artigianali e via dicendo.
Ma quello che conta oggi è l’idea di fare un cinema in cui ci sia la capacità di attrarre lo spettatore senza utilizzare mirabolanti effetti o nomi di cartello; Stefano Simone ci riesce, e vien da chiedersi cosa avrebbe ottenuto se avesse avuto alle spalle i finanziatori dei film di celebrati autori, per intenderci quelli dei cinepanettoni, un’autentica offesa all’intelligenza degli spettatori.
Il cinema italiano risente proprio di questi problemi; qualche anno addietro venne proposto (qualcuno certamente ricorderà) il film Mutande pazze, finanziato dai contribuenti italiani,alla resa dei conti un’autentica presa per i fondelli, in cui venne sperperato denaro che avrebbe potuto aiutare registi come Simone ad emergere e farsi notare. E’ una vecchia storia, ahimè, che sembra ripetersi con puntualità.
La crisi economica poi non aiuta certo i giovani volenterosi come il nostro Stefano a mostrare le loro qualità, anzi; i produttori non rischiano più nulla, preferendo la sicurezza dellepappine preconfezionate tipiche del cinema dei Vanzina, Parenti ecc.
Nihil sub soli novi.
Tra le cose che ho apprezzato maggiormente nel film di Simone c’è il sapiente utilizzo di una soundtrack molto efficace, unita alla capacità dello stesso di mantenere il ritmo ad un livello accettabile.
Ovviamente il prodotto finale risulta penalizzato oltre modo dalla recitazione, ma come già detto senza soldi è davvero problematico ricavare un prodotto eccelso.
Simpatica anche l’idea da parte di Stefano di rendere tributo a 3 grandi della cinematografia italiana, ingiustamente relegati fra gli autori di B movies o di cinema di genere come Fulci, Massaccesi e Bava: generalmente il tributo arriva sempre nei titoli di coda, sopratutto alla fine.
Stefano per evitare il solito problema della scarsa lettura degli stessi anticipa le cose, sicuramente anche per esaltare quelli che sono i maestri a cui si ispira.
Un giovane con ottime doti, quindi; attendiamolo con fiducia alle prese con storie più complesse e sopratutto con mezzi adeguati.In ultimo una breve citazione per l’autore della storia breve, Gordiano Lupi, il cui racconto tratto da Cattive storie di provincia costituisce la parte fondamentale del film.
II critico cinematografico e scrittore, oltre che editore, ha sempre la capacità di dire cose semplici con parole semplici, il che oggi è merce rara.
Un bel duo, rien a dir, quello composto da Simone e Lupi, che vorrei rivedere all’opera.
Cappuccetto rosso, un film di Stefano Simone, con Luca Peracino, Soraia Di Fazio, Sara Ronco, Andrea Zamburlin, Giovanni Pipia-Horror- Italia 2009
Regia: Stefano Simone
Produzione: Foglio Cinema
Sceneggiatura: Emanuele Mattana
Musiche: Luca Auriemma
Fotografia e montaggio: Stefano Simone





















































