La figlia di Ryan
Il ponte sul fiume Kwai,Lawrence d’Arabia e Il Dottor Zivago;un trittico divenuto ormai leggendario diretto dal grande David Lean,regista inglese dalla produzione non fertile (solo 19 film diretti) ma dalle indubbie capacità e dalle grandi doti narrative.
E’ proprio Lean nel 1970 a dirigere La figlia di Ryan, affresco sentimental/drammatico che si snoda attraverso 175 minuti di cinema a tratti di gran classe, a tratti leggermente prolisso,come del resto nello stile del regista britannico.
Un film che ha il suo punto di forza nella stupenda location,l’Irlanda, terra tenebrosa e selvaggia,assoltata e brumosa,vero caleidoscopio di colori e suoni, di mare e boschi.
Grazie alla fotografia di Freddie Young che aveva collaborato con Lean a Lawrence d’Arabia e a Il dottor Zivago,lo stesso Lean realizza un film dal largo respiro,una storia incentrata su una figura femminile e su deu maschili;la prima è quella di Rosy Ryan,le altre due sono quelle del professor Charles Shaughnessy e del maggiore Randolph Doryan, protagonisti del tradizionale triangolo amoroso che sfocerà in tragedia e che segnerà le vite dei protagonisti in modo irreversibile.
La storia verte sulle vicende di Rosy Ryan,giovane e insoddisfatta figlia di Thomas,il proprietario dell’unico ritrovo di Kirrary,piccolo e squallido borgo della penisola di Dingle,in Irlanda,affascinante zona situata nel Kerry, contea sud-occidentale della Repubblica d’Irlanda.
Rosy è giovane,ha voglia di vivere e mal sopporta l’atmosfera opprimente e culturalmente arretrata di Kirrary.
Sogna un futuro lontano dal suo paese,ma è costretta dalle circostanze a tarpare le ali dei suoi sogni e accettare la placida e per certi versi noiosissima realtà del posto in cui vive.
L’unica novità è rappresentata dall’arrivo del maestro Charles Shaughnessy;presa dalla noia Rosy accetta la corte discreta del timido Charles e alla fine accetta di sposarlo.
Ma per Rosy si tratta di un’esperienza negativa;in fondo non è innamorata di lui e questo rende la situazione ancora più pesante.
Ma il temporale irrompe nella vita della donna sotto forma di un atletico ufficiale inglese,il maggiore Randolph Doryan,che sconvolge i sentimenti e i sensi di Rosy.
La relazione tra i due non passa certo inosservata.
E’ Michael, un uomo con deficit mentali a raccontare uno degli incontri dei due amanti e ben presto la relazione è sulla bocca di tutto il piccolo paese.
Rosy è a tutti gli effetti un’adultera;poco importa che ami profondamente Randolph e che per la prima volta senta di essere una donna realizzata.
Ad aggravare le cose c’è la palese simpatia verso la Germania opposta nella prima guerra mondiale (epoca in cui si svolgono i fatti) ai tanto odiati inglesi.
Dopo alcune vicende Rosy sarà accusata di aver tradito i patrioti anti inglesi,percossa e umiliata pubblicamente.
Dovrà perciò andar via dal paese anche perchè nel frattempo…
La figlia di Ryan è un film dal fascino discreto.
Unico neo è rappresentato dalle lunghe pause che Lean concede al racconto,compensate però dalle riprese suggestive dello splendido paesaggio irlandese.
Lean indugia tantissimo su alcuni aspetti della storia d’amore tra i tre protagonisti del racconto;a conti fatti però nessuno dei tre suscita particolari sentimenti di identificazione.Così come gli altri personaggi della storia,come il minorato Michael,padre Collins,Thomas Ryan non brillano per simpatia.
Il racconto si snoda quindi attraverso le vicende sentimentali di Rosy,Charles e Randolph sullo sfondo marginale almeno agli inizi della guerra mondiale.
Sarà nella parte centrale del film prima,nel finale dopo che esploderanno le contraddizioni,le ripicche le meschinità e verrà alla luce in maniera manifesta l’atmosfera di ipocrisia e morale piccola piccola di quasi tutti i protagonisti del film.
Bella la descrizione dell’ambiente.
Lean indugia proprio sul contrasto fra l’assolato paesaggio irlandese e la penombra della morale corrente.
Atmosfera tipica da paese isolato:pettegolezzi,invidie,ripicche e il pub all’ombra del quale si conuma la vita noiosa e pigra dei maschi del villaggio.
Un’atmosfera dolciastra,appiccicosa.
Ottima la scelta del cast, con attori perfettamente calati nelle parti.
Bravissima Sarah Miles,una delle indimenticabili interpreti di Il servo (The Servant) del 1963 per la regia di Joseph Losey;la figura irrequieta di Rosy è resa magistralmente dall’attrice inglese.
La figlia di Ryan
Un film di David Lean. Con Robert Mitchum, John Mills, Trevor Howard, Sarah Miles, Christopher Jones,Leo McKern, Barry Foster, Marie Kean, Arthur O’Sullivan, Evin Crowley, Douglas Sheldon, Gerald Sim, Barry Jackson, Des Keogh, Niall Toibin Titolo originale Ryan’s Daughter. Drammatico, durata 176 min. – Gran Bretagna 1970.
Sarah Miles: Rosy Ryan
Robert Mitchum: Charles Shaughnessy
Trevor Howard: padre Collins
Christopher Jones: maggiore Randolph Doryan
John Mills: Michael
Leo McKern: Thomas Ryan
Barry Foster: Tim O’Leary
Marie Kean: signora McCardle
Evin Crowley: Moureen
Arthur O’Sullivan: signor McCardle
Philip O’Flynn: Paddy
Gerald Sim: capitano
Maria Pia Di Meo: Rosy Ryan
Giuseppe Rinaldi: Charles Shaughnessy
Bruno Persa: padre Collins
Cesare Barbetti: maggiore Randolph Doryan
Stefano Sibaldi: Thomas Ryan
Ferruccio Amendola: Tim O’Leary
Regia David Lean
Sceneggiatura Robert Bolt
Produttore Anthony Havelock-Allan
Casa di produzione Metro-Goldwyn-Mayer
Fotografia Freddie Young
Montaggio Norman Savage
Effetti speciali Robert MacDonald
Musiche Maurice Jarre
Scenografia Stephen Grimes (production designer), Roy Walker (art director)
Costumi Jocelyn Rickards
Trucco Charles E. Parker
L’opinione di Lehava dal sito http://www.filmtv.it
“Non può essere tutto qui!”
Le parole vengono fuori veloci, accorate. E Rosy non sa se urlarle a squarciagola, come una liberazione, o sussurrarle, come una confessione di un peccato inconfessabile che Dio e gli uomini, in quella terra tragica e meravigliosa, in quel cielo sconosciuto e lontano, non le perdoneranno. “Sì. E’ tutto qui, che ci dovrebbe mai essere?” La risposta di padre Collins è dura, quasi arrabbiata e sottintende altro, un moto di stizza e di rimprovero. E’ allora che Rosy non trattiene le lacrime: “Ma che ne so? Io non lo so proprio, cosa possa esserci d’altro, ma qualcosa dev’esserci pure!” ora i singhiozzi non si fermano più, e che potrà mai fare padre Collins? Pak. Un schiaffo, ecco, le ci vuole uno schiaffo, pak, e Rosy cade in terra ed ingoia le sue paure, i suoi desideri, le sue fantasie e le angoscie. Ecco, ora, sulla spiaggia, è tornato il silenzio dal vociare umano. Restano gli uccelli, ed il fragore delle onde che si fa quasi rombo, ed il vento che soffia incessante e pare che fischi. Laggiù in quell’angolo sperduto di universo, dove la natura si fa passione, travolgente ed incontrollabile. “Non è bene, non è bene! Non far niente è un’attività molto pericolosa” questo era il rimbrotto del prete ad una svagata Rosy che, di tutto punto vestita, continua ad aggirarsi per le colline il cui verde è smorzato, qua e là, dai ciuffi porpora dell’erica e dalle fucsie spinose in fiore. Ma quelle lunghe solitarie passeggiate, che terminano sempre sulla spiaggia assolata, sono la sola consolazione di un cuore in fermento: non che sia un essere dotato di grande cultura! ma pur sempre troppo superiore per poter trovare conforto nell’amicizia di qualche miserabile giovane del villaggio. E’ graziosa ed educata Rosy. (…)
Dal sito http://www.davinotti.com
Daniela
Irlanda 1916. In un villaggio sulla costa, la figlia del locandiere, sposata ad un maestro, lo tradisce con un ufficiale inglese, attirandosi il disprezzo dei compaesani. Melodramma sentimentale di lunghezza eccessiva, con un trio di protagonisti non molto convincente: Mitchum fuori ruolo nella parte dell’uomo mite e comprensivo, Miles corretta ma un pò imbambolata, Jones anonimo. Risultano indimenticabili invece alcune figure di contorno (il prete Howard, il matto Mills) e soprattutto gli splendidi paesaggi, fotografati magistralmente.
Giuan
Specialista in kolossal autoriali, Lean rischiò di finir la sua carriera con quest’opera le cui “colpe” son così scoperte da lasciar fin troppo spago al destro critico. In effetti dal film (come da Mitchum) ci si aspetta che esploda potente e furibondo da un minuto all’altro; speranza castrata da reticenze storico-politiche, miscasting (soprattutto Jones) e magniloquenze inevitabili. Eppure spettacolo e tensione sono innegabili, come memorabili restan il Don Camillo irlandese di Howard, il controverso traditore McKern, l’ambigua inquietudine di Sarah Miles
Pigro
Avrà creduto di essere lirico o epico, e invece gli interminabili scorci dei paesaggi (bellissimi) o le lunghe sequenze diluiscono il nerbo della storia (lei tradisce lui con un militare: ma quest’ultimo è inglese e siamo in un villaggio di irredentisti irlandesi) rendendo estenuanti le oltre 3 ore di visione. La narrazione troppo basata su attesa e sospensione non si addice al melodrammatico Lean, che – non pago – ci aggiunge una musica inopinata di fanfare e accenti pseudo-felliniani. Un’ora di meno (minimo), e il film sarebbe decollato.
Galbo
Durante la prima guerra mondiale, in un villaggio irlandese, giovane Rosy, moglie del maestro locale, s’innamora di un ufficiale inglese. Penultimo film di David Lean, è un’opera di ambientazione rurale che si segnala per la fotografia di grande respiro degli splendidi paesaggi irlandesi. Dal punto di vista narrativo, l’attenzione è focalizzata sulla controversa figura della protagonista, a disagio negli angusti confini di un piccolo paese. Limite del film è l’eccessivo ricorso ai toni melodrammatici. Buona la prova del cast.
L’opinione di Lospaccone dal sito http://www.filmscoop.it
Se ne “Il dottor Zivago” non aveva inciso più di tanto la scelta di dare maggior peso alla parte melodrammatica del film, lo stesso non si può dire per “La figlia di Ryan”. Infatti, la scelta di abbandonare quasi totalmente l’analisi del contesto storico impoverisce il racconto e i suoi protagonisti, rende il film prolisso, o, nelle poche volte in cui è presente, non aggiunge nulla al racconto se non qualche sequenza paesaggisticamente suggestiva.
Alla luce di questo le quasi 3 ore di durata si fanno sentire maggiormente rispetto agli altri colossal di Lean; tuttavia in numerose scene eccessivamente dilatate giunge in soccorso una fotografia strepitosa che lascia senza fiato e che rende il film più digeribile di quello che sarebbe in realtà. Anche qui al centro della vicenda c’è un tradimento e i personaggi che lo consumano assomigliano molto a Yurij e Lara. Gli attori offrono una buona prova, solo Robert Mitchum mi lascia qualche dubbio (scegliere un “freddo” per la parte di un “freddo” forse è troppo)
Tirando le somme, è un film poco più che sufficiente che la fotografia e l’inconfondibile stile registico di Lean rendono discreto; queste, però, non riescono a stemperare del tutto quella sensazione di “occasione mancata” che si ha alla fine della visione.
La morte non ha sesso
Una serie di delitti sconvolge il mondo della malavita di Amburgo; sono tutti delitti riconducibili ad un losco personaggio,Shurmann, un trafficante di droga.
A indagare sulla catena di omicidi è l’ispettore Franz Bulov, che è assolutamente certo che dietro tutto ci sia proprio Shurmann.
Ma non ha prove o quantomeno gli manca la prova decisiva.
Gli informatori che potrebbero far luce sulla storia finiscono in qualche modo ammazzati e l’ispettore ha anche problemi personali.
La sua giovane e affascinante moglie, Lisa,ha probabilmente una relazione extraconiugale e Bulov, anche se non ha certezze, è convinto dell’infedeltà della moglie.
Improvvisamente però le cose sembrano andare per il verso giusto: un killer pagato da Shurmann subito dopo un omicidio perde un portafortuna, cosa che permette a Bulov di identificarlo.
L’ispettore corre ad arrestarlo ma durante il tragitto vede sua moglie alla guida di una fuoriserie.
Fuori di se dalla gelosia, Bulov chiede al killer di uccidere la moglie in cambio dell’impunità.
Ma Max (il killer) non rispetta i patti; stringe una relazione carnale con Lisa, cosa che Bulov scopre casualmente.
Da quel momento l’ispettore decide di dare una sterzata alle indagini, inserendosi direttamente nell’organizzazione…
La morte non ha sesso è un thriller/noir diretto da Massimo Dallamano nel 1968, con protagonista la splendida Luciana Paluzzi,reduce dal grande successo personale riscosso con il film Agente 007 Thunderball (Operazione tuono) girato accanto a Sean Connery.
Un film, diciamolo subito, dall’andamento molto lento, sicuramente più descrittivo che d’azione.
Molti dialoghi e tanta descrizione d’ambienti e di situazioni, quindi, che però alla lunga influiscono sul film che già di per se non ha una sceneggiatura di livello accettabile.
Un vero peccato, perchè Massimo Dallamano era un regista di ottime qualità, come del resto dimostrato da film come Il dio chiamato Dorian, La polizia chiede aiuto e Cosa avete fatto a Solange?
Va anche detto che il film non è certo brutto, perchè la mano del regista milanese si sente e si vede.
Il cast si muove discretamente, attorno alla figura centrale di Bulov, ispettore tormentato dalla dicotomia dedizione al lavoro-gelosia.
John Mills era un attore di razza, così come molto bravo è nel film Robert Hoffman; nel cast figura anche Jimmy il fenomeno, nel ruolo dell’informatore di polizia.
Un discorso a parte merita la bellissima e sensuale Luciana Paluzzi, all’epoca trentunenne, nel pieno della maturità artistica e fisica,l’attrice romana rende conturbante il personaggio di Lisa, una donna volubile e dal passato reso volutamente oscuro dalla sceneggiatura.
Un film comunque vedibile, che precorre le strade delle future fortune dei thriller all’italiana.
Il film è disponibile in un qualità eccellente su You tube ed è comunque facilmente reperibile in rete.
La morte non ha sesso
Un film di Massimo Dallamano. Con Luciana Paluzzi, John Mills, Carlo Hintermann, Renate Kasch, Enzo Fiermonte, Loris Bazzocchi, Tullio Altamura Giallo, durata 91 min. – Italia 1968
John Mills: Ispettore Franz Bulon
Luciana Paluzzi: Lisa
Robert Hoffmann: Max Lindt
Renate Kasché: Marianne
Tullio Altamura: Ostermeyer
Carlo Hinterman: Mansfeld (con il nome Carlo Hintermann)
Enzo Fiermonte: Siegert
Loris Bazzocchi: Kruger
Jimmy il Fenomeno:
Paola Natale:
Mirella Pamphili:
Vanna Polverosi: Ursula
Rodolfo Licari: Olaf
Bernardino Solitari: Muller
Carlo Spadoni: Eric
Giuseppe Terranova: Rabbit
Robert Van Daalen: Dr. Gross
Regia Massimo Dallamano
Soggetto Giuseppe Belli
Sceneggiatura Giuseppe Belli, Massimo Dallamano, Vittoriano Petrilli
Produttore Giancarlo Marchetti
Casa di produzione Filmes Cinematografica, PAN Film, Top-Film
Fotografia Angelo Lotti
Montaggio Daniele Alabiso
Effetti speciali Enrico Catalucci
Musiche Giovanni Fusco, Gianfranco Reverberi
Scenografia Giorgio Aragno
Costumi Bonizza Aragno
Trucco Raul Ranieri