Marlowe indaga
L’investigatore Philip Marlowe,americano in trasferta londinese viene convocato a casa del generale Sternwood che lo incarica di effettuare indagini
su una sordida storia di ricatti.
Così il cinico e disincantato investigatore si trova a procedere in un ambiente moralmente degradato;i primi sospetti sono Arthur Geiger,un libraio che sembra nascondere segreti innominabili,la sua bella segretaria Agnes e il di lei amante Joe.
Ancora più equivoche sono le figlie di Sternwood:la più giovane,Camilla,è anche apparentemente la più fragile,affetta com’è da una tossicodipendenza estrema mentre Charlotte,la figlia più grande, ha un comportamento ambiguo,legato anche alla misteriosa scomparsa di suo marito Rusty.
Una serie di omicidi porta Marlowe a chiudere,all’apparenza,la sua indagine,tanto che l’anziano generale decide di congedarlo.
Ma Marlowe non è convinto da quanto scoperto e prosegue le sue indagini,sotto pressione anche da parte dell’ispettore di Scotland Yard Carlson.
Si imbatte così in un altro losco individuo,Eddie,padrone di un ancor più losco club.
Nel frattempo Marlowe è richiamato dal generale,che ha deciso di scoprire la verità sulla scomparsa del marito di Charlotte;dopo una serie di colpi di scena Marlowe dipana la matassa…
Marlowe,l’immortale investigatore creato dalla penna di Raymond Chandler,torna sugli schermi per la seconda volta interpretato da Robert Mitchum,dopo Marlowe,il poliziotto privato del 1975 in questo secondo capitolo,Marlowe indaga.
Il film è diretto da Michael Winner,che gira il remake di The big sleep-Il grande sonno che a sua volta era stato diretto da Howard Hawks nel 1946 con l’interpretazione di Humphrey Bogart.
Senza fare paragoni al limite del blasfemo,vista l’enorme differenza qualitativa oltre che temporale dei due prodotti,si può però tranquillamente dire che il film di Winner perde abbastanza nettamente l’improponibile confronto.
A parte la differenza di ambientazione,americana nel caso di Hawks,londinese in quello di Winner,l’aderenza al romanzo omonimo originale di Chandler (1939) pur essendo pedissequa risulta farraginosa e irrisolta.
Alcuni passaggi del film,così mirabilmente espletati da Hawks diventano nel remake di difficile comprensione,spesso anzi contribuiscono a rendere il film incomprensibile.
Marlowe,al quale Bogey aveva fornito mirabilmente la sua espressione sofferta,cinica,dura in Mitchum resta inespressa;la dove Bogart aveva fornito un’interpretazione memorabile dell’investigatore,uomo solitario ma intimamente preda di debolezze che si intuiscono dalla mimica del grande attore di New York,in Mitchum,probabilmente stanco,ormai quasi settantenne,è limitata ad una interpretazione asciutta ma piatta.
Non un brutto film,per carità,ma un film che rappresenta una grande occasione sprecata.
Alla luce anche del grande cast assemblato,che include un’altra vecchia gloria come James Stewart e Richard Boone,Oliver Reed e John Mills,mentre le donne del film sono Sarah Miles,Joan Collins e Candy Clark.
Michael Winner,che negli anni precedenti aveva sbancato i botteghini con film come Professione assassino ,Scorpio,L’assassino di pietra e Il giustiziere della notte,si limita ad una regia diligente ma priva di qualsiasi picco che ne rialzi in qualche modo le sorti.
Tant’è vero che il film passò quasi inosservato nelle sale e ignorato da buona parte della critica,che evitò accuratamente una fin troppo facile pubblica lapidazione del film.
Detto di Mitchum,molto a disagio,si può tranquillamente glissare sul resto del cast che professionalmente fa il suo ma è stretto nel grigiore di una sceneggiatura e di una regia davvero appena sufficiente.
Un film che in pratica è finito nel dimenticatoio,a differenza dell’originale,da tempo divenuto un classico della cinematografia,tanto da essere conservato nella Biblioteca del Congresso.
Marlowe indaga
Regia di Michael Winner. Un film con Robert Mitchum, Joan Collins, James Stewart, Candy Clark, Sarah Miles, Richard Boone. Titolo originale: The Big Sleep. Genere Poliziesco – Gran Bretagna, 1978, durata 100 minuti
Robert Mitchum: Philip Marlowe
Sarah Miles: Charlotte Sternwood
Richard Boone: Lash Canino
Candy Clark: Camilla Sternwood
Joan Collins: Agnes Lozelle
Edward Fox: Joe Brody
John Mills: ispettore Jim Carson
James Stewart: Gen.Sternwood
Oliver Reed: Eddie Mars
Harry Andrews: Norris
Colin Blakely: Harry Jones
Richard Todd: Comandante Barker
Giorgio Gusso: Philip Marlowe
Noemi Gifuni: Agnes Lozelle
Bruno Alessandro: ispettore Jim Carson
Renzo Palmer: Eddie Mars
Mario Erpichini: Norris
Leo Gullotta: guardia del corpo di Eddie Mars
Regia Michael Winner
Soggetto Raymond Chandler (Romanzo)
Sceneggiatura Michael Winner
Fotografia Robert Paynter
Musiche Jerry Fielding
Scenografia Harry Pottle, John Graysmark
Erano pressappoco le undici di una mattina di metà ottobre, con il sole velato e sulle colline un bagliore che preannunciava pioggia a rovesci.
Mi ero messo l’abito azzurro polvere con camicia, cravatta e fazzolettino, scarpe nere e calze di lana nera con una fantasia di orologi blu.
Ero in ordine, pulito, rasato e sobrio, e non me importava che lo si notasse o no. Ero esattamente quello che ci si aspetta da un elegante investigatore privato.
Andavo a far visita a quattro milioni di dollari.
Raymond Chandler
Blow up
Una macchina fotografica e una pellicola, l’ingrandimento di un fotogramma (il cosiddetto Blow up) possono diventare una rappresentazione della realtà, di quanto visto oppure possono diventare manipolabili? E’ attendibile una sequenza di foto? Oppure comunque tutto dipende dall’osservazione? E poi, la realtà cos’è e in cosa consiste? Guardando Blow up di Michelangelo Antonioni ci si pone queste e molte altre domande; del resto si tratta di uno dei film più analizzati e commentati della storia del cinema, che offre molte interpretazioni e molti spunti di riflessione.
Il grande regista italiano utilizza un racconto di Julio Cortazar,La bava del diavolo che fa parte di un gruppo di 5 racconti inseriti in un libro uscito in libreria con il titolo Las armas segretas modificandolo a modo suo per creare un film assolutamente unico, di difficile interpretazione univoca.I temi affrontati ( e affrontabili dallo spettatore) passano indifferentemente dal tenue confine tra sogno e realtà, mescolato all’incomunicabilità e all’isolamento dell’individuo nello specifico nella opulenta e contraddittoria società inglese. Affrontare quindi la trama del film è impresa improba,proprio per la difficoltà di distinguere le reali azioni del protagonista,uno straordinario David Hemmings, da quell’immaginario che lui vede o crede di vedere. Un rapporto con il reale che il protagonista media con la sua macchina fotografica, occhio meccanico che coadiuva,sostituisce integra quello umano,creando di fatto una vita parallela con quella quotidiana.
David Hemmings,uno tra i volti più anglosassoni immaginabili per la parte (come del resto Caine o Moore) si muove in uno scenario quasi onirico,sospeso tra un mondo che appare reale solo a tratti;è uno stimato ed apprezzato fotografo,forse un po frivolo ma in realtà il mondo nel quale si muove,la swinging london lo è altrettanto.Un mondo fatuo, in cui i rapporti umani contano poco.Disumano e disumanizzato,alienato per certi versi.
Thomas (questo il suo nome) è diventato anche lui un elemento inerte di quel mondo; eppure ha sentimenti,è un fotografo molto attento a ciò che avviene sotto i suoi occhi.Ma è anestetizzato, è figlio parzialmente incolpevole e inconsapevole della società inglese della metà degli anni sessanta;sta per realizzare un investimento,l’acquisto di una bottega antiquaria.Tuttavia non è affatto contento di se stesso e della sua vita; pur non avendo problemi con il lavoro e con le donne è inquieto e sfoga questa sua inquietudine girando ossessivamente alla ricerca di uno scatto,di qualcosa che lo ispiri davvero.
Durante una passeggiata davanti ad un parco Thomas nota due persone intente a scambiarsi effusioni;preso da un’istintiva curiosità,scatta alcune foto cercando di non farsi notare.
Ma una donna si accorge della sua presenza e lo insegue;Thomas si allontana e si rifugia nel suo studio dove viene raggiunto dalla misteriosa Jane,la donna del parco che gli chiede insistentemente il rullino. Con una mossa a sorpresa, Thomas consegna a Jane un rullino non sviluppato e una volta che la stessa si è allontanata decide di esaminare gli scatti fatti.La sorpresa e lo sconcerto sono evidenti:nella foto a Thomas sembra di vedere qualcuno che ha commesso un omicidio.Così il fotografo decide di investigare personalmente; recatosi al parco trova il corpo inanimato dell’amante di Jane.
Tornato in studio, scopre che tutto il materiale riguardante Jane,il parco e il presunto omicidio è stato portato via.Una corsa al parco,dopo una notte a base di droga,rivela a Thomas una verità sconcertante:non c’è alcuna traccia del corpo dell’uomo…
Blow up si conclude quindi in modo enigmatico,lasciando molte più domande e poche risposte rispetto all’assunto iniziale.A cosa abbiamo davvero assistito?Spazio all’immaginazione.
Dopo aver letto la trama,dopo aver visto il film, ci si interroga.Fatalmente,inevitabilmente.Ad una prima visione ed analisi alcune cose sembrano oscure,con una seconda visione appare qualche sprazzo di luce.Ma non è abbastanza.Tuttavia si può azzardare qualche ipotesi semplicemente analizzando l’opera del grande maestro.Il 1966 è un anno del tutto particolare;Londra è la capitale della cultura europea con Parigi,sembra esplodere con tutti i suoi fermenti,con la musica rock e pop che impazzano tra i giovani,con gli echi della contestazione giovanile,con le mode dei giovani che sembrano fare a brandelli un mondo che era immobile da tanto troppo tempo.
Antonioni si muove in silenzio su questo sfondo,cercando di mediare il personale del protagonista con il reale della vita londinese.Thomas sembra non capire bene il mondo in cui si muove.Un mondo moderno ma anche alienante;tutta la sua arte sembra perdersi nell’estraneante vita che lo circonda.E’ un fotografo,ma quello che vede sembra non conciliarsi con quello che la fotografia,mezzo meccanico infallibile e che non ha problemi di percezioni diverse da quello che impressiona in effetti gli produce.La realtà dei dormitori sulla quale inizialmente Thomas punta l’obiettivo è una delle facce della swinging london;una realtà pesante,oggettivamente.
Poi per Thomas arriva il momento fatidico,quello in cui deve confrontarsi inevitabilmente con quello che la sua macchina vede e quello che vede lui.Una realtà che non gli piace,ma anche una realtà che ha dei limiti:dove inizia e dove finisce quello che lui vede o crede di vedere?
E allora eccolo studiare un fotogramma,con il blow up,la tecnica che permette di ingrandire un particolare,per cercare una spiegazione reale (perchè tale è un fotogramma) a quello che lui ha visto o che forse crede di aver visto.Nel fotogramma Thomas “crede” di scorgere un omicidio,ma è realmente così? Quanto la sua mente sta sostituendo la realtà del fotogramma con l’immaginazione?Siamo già di fronte ad un bivio.
Nulla può essere reale,neanche quello che sembrerebbe per leggi naturali doverlo essere per forza;come può una pellicola ingannare?Eppure…A questo punto ci si perde:se nulla è reale,cosa è irreale?Domande su domande.
Antonioni arriva a Blow up dopo L’avventura, La notte,L’eclisse e Deserto rosso e poco prima (quattro anni) di Zabriskie Point.
Il suo percorso sull’umano arriva ad un punto fermo,determinante.Il viaggio sembra compiuto,ma non ci sono risposte,solo altre domande.E come Diogene che cercava l’uomo con la lanterna senza riuscirci,Antonioni vaga alla ricerca dell’impossibile spiegazione del reale.
Blow up è un film criptico in alcuni momenti,chiaro come un’alba in altri.
In mezzo c’è un viaggio lunghissimo,affascinante.Una storia che storia non è,quanto piuttosto un assieme di fotogrammi con una logica ferrea eppure a tratti sfuggente.Un viaggio senza fine,come testimoniano le sequenze finali,con la partita di tennis immaginaria giocata senza palline,con quei mimi che guardano statuari e con Thomas che guarda smarrito l’immenso campo verde ripreso dall’alto,sconsolato.Bello,affascinante,difficile.
Alcune delle qualità (per alcuni critici difetti) di un film che contrariamente a quanto pensato dal solito solone che lo definisce datato è invece uno straordinario viaggio senza meta e senza fine sull’uomo.Ottimo il cast,belle le musiche,bella la fotografia,affascinante la location londinese.Splendide e bravissime Sarah Miles, Vanessa Redgrave, Jane Birkin e la modella Veruschka
Un film impeccabile.Blow up è una delle cose più belle del cinema italiano, e ben se ne accorsero i francesi che l’anno successivo lo premiarono con la Palma d’oro,riconoscimento venuto dall’estero perchè i critici nostrani,si sa, hanno sempre amato i film afgani e coreani,mozambicani o di Timbuctu.
Irresistibile leggerezza dell’essere,quella dei critici.
Il film è in versione malauguratamente (scelleratamente) priva del finale su You tube,per cui non vale la pena segnalarla.Chi vuole però può visionare il film stesso in streaming all’indirizzo http://www.nowvideo.li/video/442e2ec849d6d
Blow-up
Un film di Michelangelo Antonioni. Con David Hemmings, Sarah Miles, Vanessa Redgrave, Jane Birkin, Peter Bowles, John Castle, Gillian Hills, Tsai Chin, Veruschka von Lehndorff, Julian Chagrin, Claude Chagrin, Jeff Beck, Susan Broderick, Chris Dreja, Melanie Hampshire, Harry Hutchinson, Jill Kennington, Mary Khal, Chas Lawther, Jim McCarthy, Peggy Moffitt, Jimmy Page, Ronan O’Casey, Rosaleen Murray, Ann Norman, Keith Relf, Janet Street-Porter, Reg Wilkins Commedia, durata 108 min. – Gran Bretagna, Italia 1966.
David Hemmings: Thomas
Vanessa Redgrave: Jane
Sarah Miles: Patricia
John Castle: Bill, il pittore
Jane Birkin: una ragazza bionda
Gillian Hills: una ragazza bionda
Peter Bowles: Ron
Veruschka: modella
Julian Chagrin: mimo
Claude Chagrin: mimo
Regia Michelangelo Antonioni
Soggetto Michelangelo Antonioni, Julio Cortázar
Sceneggiatura Michelangelo Antonioni, Edward Bond, Tonino Guerra
Produttore Carlo Ponti, Pierre Rouve
Casa di produzione Bridge Films
Fotografia Carlo Di Palma
Montaggio Frank Clarke
Musiche Herbie Hancock
Scenografia Assheton Gorton
Costumi Jocelyn Rickards
Trucco Stephanie Kaye, Paul Rabiger
Le bave del diavolo
Non si saprà mai come raccontarlo, se in prima persona o in seconda, usando la terza del plurale o inventando continuamente forme che non serviranno a niente. Se si potesse dire: io videro salire la luna, oppure: ci mi duole il fondo degli occhi, e soprattutto così: tu la donna boinda erano le nubi che continuano a correre davanti ai miei tuoi suoi nostri vostri visi. Che diavolo.
Una volta cominciato a raccontare se fosse possibile andare a prendere una birra da qualche parte e che la macchina andasse avanti da sola (perchè scrivo a macchina), sarebbe la perfezione. E non è un modo di dire. La perfezione, si, perchè qui il buco che si deve raccontare è anch’esso una macchina (d’altro genere, una Contax I.I.2), e potrebbe darsi che una macchina ne sappia a proposito di un’altra macchina più di me, di te, di lei-la donna bionda- e delle nuvole. Ma dello scemo ho soltanto la fortuna, e so che se me ne vado questa Remington resterà pietrificata sopra il tavolo con quell’aspetto di doppiamente immobili che hanno le cose che si muovono quando non si muovono. Allora devo scrivere. Uno di noi tutti deve scrivere, se tutto ciò deve essere raccontato. Meglio che lo faccia io che sono morto, che sono meno compromesso del resto; io che non vedo altro che le nubi e posso pensare senza distrarmi, scrivere senza distrarmi (ecco, ne passa un’altra con un orlo grigio), e ricordarmi senza distrarmi, io che sono morto (e vivo, non si tratta di ingannare nessuno, lo si vedrà quando verrà il momento opportuno, perchè in qualche modo devo pur procedere e ho cominciato da questa punta, quella posteriore, quella dell’inizio, che dopotutto è la migliore delle punte, quando si vuole raccontare qualcosa).
All’improvviso mi domando perchè mai devo raccontrlo, ma se uno cominciasse a domandarsi perchè fa tutto quello che fa, (…) Che io sappia, nessuno ha spiegato il perchè di questo, sicchè la cosa migliore è piantarla con i pudori e mettersi a raccontare, perchè dopotutto nessuno si vergogna di respirare o di mettersi le scarpe; sono cose che si fanno, e quando succede qualcosa di strano, quando dentro la scarpa troviamo un ragno o al respirare si sente come un vetro rotto, allora bisogna raccontare quello che succede, raccontarlo ai ragazzi dell’ufficio oppure al medico. Ahi, dottore, ogni volta che respiro…Raccontarlo sempre, sempre togliersi quel noioso stuzzichio allo stomaco. E già che stiamo per raccontarlo, mettiamo le cose un pò in ordine, scendiamo le scale di questa casa fino alla domenica 7 di novembre, giusto un mese fa. Si scendono cinque piani e ci si ritrova nella domenica, con un sole inaspettato, per un novembre a Parigi, con moltissima voglia di andarsene un pò in giro, a vedere cose, a fare fotografie (perchè eravamo fotografi, siamo fotografo). So bene che la cosa più difficfile sarà trovare il modo di raccontarlo, e non ho timore di ripetermi. (…..)
“La mia vita privata è già un tale pasticcio: sarebbe un disastro se…
E allora? Un disastro è quello che ci vuole, per vedere chiaro nelle cose.”
“Non ne posso più di Londra questa settimana
-Perché?
Perché non fa nulla per me…”
“Non è colpa mia se non c’è pace. C’è chi fa il torero, il deputato. Io faccio il fotografo…”
L’opinione di Fabio 1979 dal sito http://www.filmtv.it
(…) Blow-up costituisce una delle opere più celebri del regista ferrarese, fonte d’ispirazione dichiarata, nelle sue metafisiche ed enigmatiche speculazioni sulla percezione della realtà, sulle possibilità del cinema di coglierne ogni sfumatura, sulla sconfitta dello sguardo e il trionfo dell’illusione e dell’immaginazione, di opere come La conversazione di Coppola o Blow out di De Palma: la realtà è inconoscibile, conclude Antonioni, profetico nel sancire il dominio assoluto dell’immagine nella cultura del tempo, perchè a forza di scomporla, frammentarla e sezionarla l’occhio umano ne smarrisce la comprensione, perdendo di vista l’oggetto della sua indagine e illudendosi di riuscire ad interpretarla. Pur con alcune forzature eccessivamente compiaciute, la controversa materia è governata da Antonioni con ambiziosa e brillante ispirazione, sorretta dalla raffinatezza delle scelte stilistiche ed immersa nelle suggestive locations londinesi dei mid-Sixties, spumeggiante cornice ambientale di un thriller metafisico risolto, per assurdo, proprio nella desolante consapevolezza dell’impossibilità di un’investigazione. Fotografia, magnifica, di Carlo Di Palma, colonna sonora, strepitosa, di Herbie Hancock e Palma d’Oro al festival di Cannes.
L’opinione di Alessandro dal sito www.mymovies.com
C’è una frase di Proust che recita “Il vero viaggio, il vero bagno di giovinezza sarebbe poter guardare il mondo con gli occhi di un altro”. Credo che in questa frase si possa racchiudere il senso di questo film di Antonioni. Hemmings alla fine si arrende. Lui abituato a fotografare, a rubare immagini, volti, sentimenti si rende conto che nè lui nè il suo strumento sono necessari per guardare e capire la realtà. La realtà è ciò che vedo? Ciò che registra la mia macchina fotografica? La fotografia di ciò che ho fotografato? No la realtà è altro, e saper guardare oltre, è imparare a veder l’invisibile, ad ascoltare l’inudibile. Ecco quindi l’altro, il mimo, e la scelta di Hemmings che raccoglie la palla da tennis. Non vedo ma credo ugualmente a questa realtà, accetto il tuo gioco, consapevole della mia finitezza e della mia transitorietà. Assuefatti ad una società strabordante di immagini dovremmo riflettere su questa lezione e fermarci. Forse semplicemente per ascoltare il vento
L’opinione di Albert dal sito www.mymovies.com
Blow-up è uno dei migliori – se non il migliore – film di Antonioni, poichè il tema che sviluppa, cioè il rapporto tra la realtà e l’apparenza e il ruolo preponderante dell’immagine nella nostra epoca, è attualissimo e di straordinaria importanza nella nostra civiltà telematica e della comunicazione “virtuale”. Per questo motivo, a differenza di quanto ha scritto un altro critico (Mereghetti), il film non è affatto “datato”, ma è attualissimo. Rispetto al 1967, noi ora sappiamo quanto la manipolazione televisiva, il ruolo della pubblicità, il potere subdolo dei media nell’orientare l’opinione pubblica e le sue preferenze politiche e nelle scelte di consumatore, siano determinanti e pervasivi oggi. Nel film si parla di un delitto occulto, avvenuto sotto gli occhi del fotografo protagonista (Thomas), ma ricostruito solo attraverso le tecnologie e gli ingrandimenti fotografici, e della sfiducia di Thomas di poter arrivare alla verità, una volta che le foto sono state rubate, e il cadavere è stato fatto sparire. Come non pensare, ad esempio, al “delitto del secolo”, all’assassinio di John Kennedy, qualche anno prima del film, che ha drammaticamente dimostrato come, perfino in un omicidio avvenuto in pubblico, filmato e fotografato da più persone, dopo oltre 40 anni ci si chieda ancora come siano andati i fatti, e se gli omicidi siano stati più di uno, contro la verità “ufficiale” e manipolata del governo e della commissione Warren, dell'”assassino solitario”. Il tema “filosofico” della realtà e dell’apparenza, e delle manipolazioni tecnologiche della verità, rendono quindi questo film ancor più bello e attuale, dopo 40 anni. Significativo il fatto che Thomas, nel suo spirito anarcoide e nella sua sfiducia nelle istituzioni, esiti a rivolgersi alla polizia, ma cerchi una soluzione personale, emblema del problema endemico del distacco tra cittadini e istituzioni, e dello scetticismo nella possibilità di arrivare alla verità e ottenere giustizia rivolgendosi al potere. L’unico appunto che si può muovere al film, riguarda la tipica “antonioniana” lunghezza e lentezza delle inquadrature, la mancanza di dialoghi, ma in considerazione del tema proposto, questa scelta espressiva tutto sommato accentua la tensione psicologica e il dramma personale del protagonista. Sarebbe invece sbagliato criticare la relativa “lentezza” del film inquadrandolo nella categoria dei “gialli”. Blow-up non è un thriller, è una riflessione filosofica ed esistenziale sull’isolamento dell’individuo nella società di oggi, e sulla sua impotenza di fronte alla manipolazione della realtà da parte della tecnologia e del potere.
Opinioni dal sito www.davinotti.com
L’opinione di Galbo
Profonda riflessione sul potere dell’immagine in uno dei film più riusciti del complesso percorso artistico di Michelangelo Antonioni. Il film vale anche come testimonianza del periodo in cui si svolge (1968) e soprattutto dell’ambiente (Londra) splendidamente e realisticamente fotografato, tanto che l’estetica delle immagini supera il potere concettuale dell’opera. Il film si segnala anche per la colonna sonora, assolutamente funzionale alle riprese.
Undying
Un pezzo, un brandello, uno spaccato di realtà, visto attraverso l’obiettivo d’una macchina fotografica. Londra è immersa nel clima del ’68, con giovani praticanti nuove ritualità (dalla droga ai nuovi temi musicali, senza trascurare la moda sinonimo d’eccentricità e modernismo). Tocca a Thomas (David Hemmings), cercare di decifrare – partento da piccoli dettagli, via via di enorme singolarità grazie all’uso dell’ingrandimento – indizi nascosti (e al tempo stesso raccolti) dall’occhio indiscreto di un macchina fotosensibile. Antonioni punta alla fallibilità dell’immagine e del suo replicarsi.
Il Gobbo
Feticcio del Gobbo, che confessa quindi subito la sua assoluta parzialità, e che a Londra è andato a scovare (all’estrema, squallidissima periferia, sbagliando treno e beccandosi una fraccata di pioggia) il Maryon Park, dove sono state girate le scene clou, e che è ancora identico a com’era nel film! Film capitale e fondativo di un’estetica, riuscita riflessione teorica ma – quel che più conta al cinema – catalogo di immagini indimenticabili, con uno dei più grandi finali di sempre. Prima colonna sonora di Herbie Hancock, eccellente. Altare
Pigro
Analizzando i suoi scatti un fotografo crede di scoprire un delitto. Nella ruggente ambientazione inglese dei favolosi Anni Sessanta, Antonioni costruisce una favola allucinata, onirica, sensuale e pop, che ci risucchia nel gorgo delle illusioni della società moderna. Bella l’atmosfera, sottile la storia raccontata, saccente l’intellettualismo. Un film ambivalente, insomma, che attrae e respinge. Un classico che rischia, oggi, di essere visto più perché entrato nei libri di storia del cinema che non per la sua reale capacità di convinzione.
Homesick
Titolo epocale, sia in quanto emblema cinematografico della Swinging London – gli artisti che coabitano in periferie degradate, i giovani contestatori, i complessi beat, le modelle – sia come sintesi dell’universo cinematografico di Antonioni: le tesi sull’incomunicabilità sono condotte agli eccessi con la scissione tra realtà oggettiva e percezione illusoria e la solitudine dell’uomo che ne è corollario, mentre l’erotismo è aggraziato e gentilmente penetrante come sempre sarà. Hemmings scorrazza frenetico, tirannico e stordito in armonia con una sceneggiatura eccentrica e a tratti surreale.
77 Pottery Lane, Notting Hill, Londra, Inghilterra, Regno Unito
Clevely Close, Greenwich, Londra, Inghilterra, Regno Unito
Consort Road, Peckham, Londra, Inghilterra, Regno Unito
Economist Plaza – 25 St James’s Street, Londra, Inghilterra, Regno Unito
El Blason Restaurant – 8-9 Blacklands Terrace, Chelsea, Londra, Inghilterra, Regno Unito
MGM British Studios, Borehamwood, Hertfordshire, Inghilterra, Regno Unito
Maryon Park, Woolwich Road, Charlton, Londra, Inghilterra, Regno Unito
Notting Hill, Londra, Inghilterra, Regno Unito
Regent Street, Londra, Inghilterra, Regno Unito
Stockwell, Londra, Inghilterra, Regno Unito
La figlia di Ryan
Il ponte sul fiume Kwai,Lawrence d’Arabia e Il Dottor Zivago;un trittico divenuto ormai leggendario diretto dal grande David Lean,regista inglese dalla produzione non fertile (solo 19 film diretti) ma dalle indubbie capacità e dalle grandi doti narrative.
E’ proprio Lean nel 1970 a dirigere La figlia di Ryan, affresco sentimental/drammatico che si snoda attraverso 175 minuti di cinema a tratti di gran classe, a tratti leggermente prolisso,come del resto nello stile del regista britannico.
Un film che ha il suo punto di forza nella stupenda location,l’Irlanda, terra tenebrosa e selvaggia,assoltata e brumosa,vero caleidoscopio di colori e suoni, di mare e boschi.
Grazie alla fotografia di Freddie Young che aveva collaborato con Lean a Lawrence d’Arabia e a Il dottor Zivago,lo stesso Lean realizza un film dal largo respiro,una storia incentrata su una figura femminile e su deu maschili;la prima è quella di Rosy Ryan,le altre due sono quelle del professor Charles Shaughnessy e del maggiore Randolph Doryan, protagonisti del tradizionale triangolo amoroso che sfocerà in tragedia e che segnerà le vite dei protagonisti in modo irreversibile.
La storia verte sulle vicende di Rosy Ryan,giovane e insoddisfatta figlia di Thomas,il proprietario dell’unico ritrovo di Kirrary,piccolo e squallido borgo della penisola di Dingle,in Irlanda,affascinante zona situata nel Kerry, contea sud-occidentale della Repubblica d’Irlanda.
Rosy è giovane,ha voglia di vivere e mal sopporta l’atmosfera opprimente e culturalmente arretrata di Kirrary.
Sogna un futuro lontano dal suo paese,ma è costretta dalle circostanze a tarpare le ali dei suoi sogni e accettare la placida e per certi versi noiosissima realtà del posto in cui vive.
L’unica novità è rappresentata dall’arrivo del maestro Charles Shaughnessy;presa dalla noia Rosy accetta la corte discreta del timido Charles e alla fine accetta di sposarlo.
Ma per Rosy si tratta di un’esperienza negativa;in fondo non è innamorata di lui e questo rende la situazione ancora più pesante.
Ma il temporale irrompe nella vita della donna sotto forma di un atletico ufficiale inglese,il maggiore Randolph Doryan,che sconvolge i sentimenti e i sensi di Rosy.
La relazione tra i due non passa certo inosservata.
E’ Michael, un uomo con deficit mentali a raccontare uno degli incontri dei due amanti e ben presto la relazione è sulla bocca di tutto il piccolo paese.
Rosy è a tutti gli effetti un’adultera;poco importa che ami profondamente Randolph e che per la prima volta senta di essere una donna realizzata.
Ad aggravare le cose c’è la palese simpatia verso la Germania opposta nella prima guerra mondiale (epoca in cui si svolgono i fatti) ai tanto odiati inglesi.
Dopo alcune vicende Rosy sarà accusata di aver tradito i patrioti anti inglesi,percossa e umiliata pubblicamente.
Dovrà perciò andar via dal paese anche perchè nel frattempo…
La figlia di Ryan è un film dal fascino discreto.
Unico neo è rappresentato dalle lunghe pause che Lean concede al racconto,compensate però dalle riprese suggestive dello splendido paesaggio irlandese.
Lean indugia tantissimo su alcuni aspetti della storia d’amore tra i tre protagonisti del racconto;a conti fatti però nessuno dei tre suscita particolari sentimenti di identificazione.Così come gli altri personaggi della storia,come il minorato Michael,padre Collins,Thomas Ryan non brillano per simpatia.
Il racconto si snoda quindi attraverso le vicende sentimentali di Rosy,Charles e Randolph sullo sfondo marginale almeno agli inizi della guerra mondiale.
Sarà nella parte centrale del film prima,nel finale dopo che esploderanno le contraddizioni,le ripicche le meschinità e verrà alla luce in maniera manifesta l’atmosfera di ipocrisia e morale piccola piccola di quasi tutti i protagonisti del film.
Bella la descrizione dell’ambiente.
Lean indugia proprio sul contrasto fra l’assolato paesaggio irlandese e la penombra della morale corrente.
Atmosfera tipica da paese isolato:pettegolezzi,invidie,ripicche e il pub all’ombra del quale si conuma la vita noiosa e pigra dei maschi del villaggio.
Un’atmosfera dolciastra,appiccicosa.
Ottima la scelta del cast, con attori perfettamente calati nelle parti.
Bravissima Sarah Miles,una delle indimenticabili interpreti di Il servo (The Servant) del 1963 per la regia di Joseph Losey;la figura irrequieta di Rosy è resa magistralmente dall’attrice inglese.
La figlia di Ryan
Un film di David Lean. Con Robert Mitchum, John Mills, Trevor Howard, Sarah Miles, Christopher Jones,Leo McKern, Barry Foster, Marie Kean, Arthur O’Sullivan, Evin Crowley, Douglas Sheldon, Gerald Sim, Barry Jackson, Des Keogh, Niall Toibin Titolo originale Ryan’s Daughter. Drammatico, durata 176 min. – Gran Bretagna 1970.
Sarah Miles: Rosy Ryan
Robert Mitchum: Charles Shaughnessy
Trevor Howard: padre Collins
Christopher Jones: maggiore Randolph Doryan
John Mills: Michael
Leo McKern: Thomas Ryan
Barry Foster: Tim O’Leary
Marie Kean: signora McCardle
Evin Crowley: Moureen
Arthur O’Sullivan: signor McCardle
Philip O’Flynn: Paddy
Gerald Sim: capitano
Maria Pia Di Meo: Rosy Ryan
Giuseppe Rinaldi: Charles Shaughnessy
Bruno Persa: padre Collins
Cesare Barbetti: maggiore Randolph Doryan
Stefano Sibaldi: Thomas Ryan
Ferruccio Amendola: Tim O’Leary
Regia David Lean
Sceneggiatura Robert Bolt
Produttore Anthony Havelock-Allan
Casa di produzione Metro-Goldwyn-Mayer
Fotografia Freddie Young
Montaggio Norman Savage
Effetti speciali Robert MacDonald
Musiche Maurice Jarre
Scenografia Stephen Grimes (production designer), Roy Walker (art director)
Costumi Jocelyn Rickards
Trucco Charles E. Parker
L’opinione di Lehava dal sito http://www.filmtv.it
“Non può essere tutto qui!”
Le parole vengono fuori veloci, accorate. E Rosy non sa se urlarle a squarciagola, come una liberazione, o sussurrarle, come una confessione di un peccato inconfessabile che Dio e gli uomini, in quella terra tragica e meravigliosa, in quel cielo sconosciuto e lontano, non le perdoneranno. “Sì. E’ tutto qui, che ci dovrebbe mai essere?” La risposta di padre Collins è dura, quasi arrabbiata e sottintende altro, un moto di stizza e di rimprovero. E’ allora che Rosy non trattiene le lacrime: “Ma che ne so? Io non lo so proprio, cosa possa esserci d’altro, ma qualcosa dev’esserci pure!” ora i singhiozzi non si fermano più, e che potrà mai fare padre Collins? Pak. Un schiaffo, ecco, le ci vuole uno schiaffo, pak, e Rosy cade in terra ed ingoia le sue paure, i suoi desideri, le sue fantasie e le angoscie. Ecco, ora, sulla spiaggia, è tornato il silenzio dal vociare umano. Restano gli uccelli, ed il fragore delle onde che si fa quasi rombo, ed il vento che soffia incessante e pare che fischi. Laggiù in quell’angolo sperduto di universo, dove la natura si fa passione, travolgente ed incontrollabile. “Non è bene, non è bene! Non far niente è un’attività molto pericolosa” questo era il rimbrotto del prete ad una svagata Rosy che, di tutto punto vestita, continua ad aggirarsi per le colline il cui verde è smorzato, qua e là, dai ciuffi porpora dell’erica e dalle fucsie spinose in fiore. Ma quelle lunghe solitarie passeggiate, che terminano sempre sulla spiaggia assolata, sono la sola consolazione di un cuore in fermento: non che sia un essere dotato di grande cultura! ma pur sempre troppo superiore per poter trovare conforto nell’amicizia di qualche miserabile giovane del villaggio. E’ graziosa ed educata Rosy. (…)
Dal sito http://www.davinotti.com
Daniela
Irlanda 1916. In un villaggio sulla costa, la figlia del locandiere, sposata ad un maestro, lo tradisce con un ufficiale inglese, attirandosi il disprezzo dei compaesani. Melodramma sentimentale di lunghezza eccessiva, con un trio di protagonisti non molto convincente: Mitchum fuori ruolo nella parte dell’uomo mite e comprensivo, Miles corretta ma un pò imbambolata, Jones anonimo. Risultano indimenticabili invece alcune figure di contorno (il prete Howard, il matto Mills) e soprattutto gli splendidi paesaggi, fotografati magistralmente.
Giuan
Specialista in kolossal autoriali, Lean rischiò di finir la sua carriera con quest’opera le cui “colpe” son così scoperte da lasciar fin troppo spago al destro critico. In effetti dal film (come da Mitchum) ci si aspetta che esploda potente e furibondo da un minuto all’altro; speranza castrata da reticenze storico-politiche, miscasting (soprattutto Jones) e magniloquenze inevitabili. Eppure spettacolo e tensione sono innegabili, come memorabili restan il Don Camillo irlandese di Howard, il controverso traditore McKern, l’ambigua inquietudine di Sarah Miles
Pigro
Avrà creduto di essere lirico o epico, e invece gli interminabili scorci dei paesaggi (bellissimi) o le lunghe sequenze diluiscono il nerbo della storia (lei tradisce lui con un militare: ma quest’ultimo è inglese e siamo in un villaggio di irredentisti irlandesi) rendendo estenuanti le oltre 3 ore di visione. La narrazione troppo basata su attesa e sospensione non si addice al melodrammatico Lean, che – non pago – ci aggiunge una musica inopinata di fanfare e accenti pseudo-felliniani. Un’ora di meno (minimo), e il film sarebbe decollato.
Galbo
Durante la prima guerra mondiale, in un villaggio irlandese, giovane Rosy, moglie del maestro locale, s’innamora di un ufficiale inglese. Penultimo film di David Lean, è un’opera di ambientazione rurale che si segnala per la fotografia di grande respiro degli splendidi paesaggi irlandesi. Dal punto di vista narrativo, l’attenzione è focalizzata sulla controversa figura della protagonista, a disagio negli angusti confini di un piccolo paese. Limite del film è l’eccessivo ricorso ai toni melodrammatici. Buona la prova del cast.
L’opinione di Lospaccone dal sito http://www.filmscoop.it
Se ne “Il dottor Zivago” non aveva inciso più di tanto la scelta di dare maggior peso alla parte melodrammatica del film, lo stesso non si può dire per “La figlia di Ryan”. Infatti, la scelta di abbandonare quasi totalmente l’analisi del contesto storico impoverisce il racconto e i suoi protagonisti, rende il film prolisso, o, nelle poche volte in cui è presente, non aggiunge nulla al racconto se non qualche sequenza paesaggisticamente suggestiva.
Alla luce di questo le quasi 3 ore di durata si fanno sentire maggiormente rispetto agli altri colossal di Lean; tuttavia in numerose scene eccessivamente dilatate giunge in soccorso una fotografia strepitosa che lascia senza fiato e che rende il film più digeribile di quello che sarebbe in realtà. Anche qui al centro della vicenda c’è un tradimento e i personaggi che lo consumano assomigliano molto a Yurij e Lara. Gli attori offrono una buona prova, solo Robert Mitchum mi lascia qualche dubbio (scegliere un “freddo” per la parte di un “freddo” forse è troppo)
Tirando le somme, è un film poco più che sufficiente che la fotografia e l’inconfondibile stile registico di Lean rendono discreto; queste, però, non riescono a stemperare del tutto quella sensazione di “occasione mancata” che si ha alla fine della visione.
Steaming-Al bagno turco
Il bagno turco gestito dalla simpatica e matura Violet a Londra è il punto di incontro preferito per un gruppo di donne di diversa estrazione sociale e di diversa età;è il posto ideale per rilassarsi accantonando i problemi giornalieri, le ansie e gli affanni, l’occasione per sorseggiare una tazza di tè, chiacchierare di cose più o meno futili con altre donne,una pausa ristoratrice per lasciare in un angolo le preoccupazioni del lavoro o degli affari domestici, figli e amanti, mariti e datori di lavoro.
Nancy e Sarah, Josie e la signora Meadows con sua figlia Dawn,Celia e la signora Goldstein si incontrano tra i vapori del bagno turco, rilassandosi e trovando finalmente una pausa temporale da dedicare a se stesse.
Nancy è una donna di una certa età, abbandonata dal marito che a lei ha preferito un’amante più giovane e che continua a piangersi addosso, non riuscendo a trovare una spiegazione (pure abbastanza semplice) all’improvviso abbandono del marito, dopo una vita dedicata alla famiglia coronata dalla nascita di tre figli mentre Sarah, che è una donna istruita (lavora come avvocato) e di classe agiata ha una vita professionale gratificante ma che si sente incompleta per non aver mai avuto un figlio.
Josie invece è di estrazione popolare;è una donna forte e rozza,con una sua primitiva bellezza e che lavora in un night è ossessionata dal sesso e racconta alle sue occasionali compagne delle sue avventure amorose e della sua relazione con il compagno del momento, una relazione sessualmente gratificante ma con un rovescio della medaglia, ovvero l’abitudine dell’uomo di picchiarla frequentemente.
Celia è una donna di colore tranquilla e abbastanza riservata,che abitualmente ascolta più che parlare mentre la signora Meadows è una donna ormai fuori dal tempo, petulante e di idee conservatrici, afflitta anche da una figlia,Dawn, lontanissima sia dai canoni estetici (è grassa e poco attraente) sia da quelli culturali, visto che sembra una bambina viziata afflitta anche da un’ingordigia vistosa.
L’ambiente ovattato è quindi il posto giusto per confidenze, per analisi sui propri comportamenti e giudizi sulla propria vita, tra vapori benefici e lunghi bagni nella piscina del bagno.
Un giorno Violet comunica al gruppo delle frequentatrici che il futuro del bagno turco è a rischio:il consiglio comunale ha infatti intenzione di sfrattare gli occupanti e cedere la struttura ad una società che la raderà al suolo e che al suo posto farà sorgere un grande magazzino.
La notizia getta nella più profonda costernazione il gruppo di donne, che dopo l’iniziale smarrimento decide di reagire; dopo aver preparato manifesti di protesta le donne incaricano la battagliera Josie di farsi loro portavoce presso il consiglio comunale e di esporre le loro ragioni.
La vivace e battagliera Josie così,con un intervento deciso e risolutore,riesce ad ottenere la revoca della delibera:non solo il bagno turco non chiuderà ma la città restaurerà il posto restituendolo a nuova vita.
La notizia della vittoriosa battaglia portata avanti da Josie riempie di felicità le donne del gruppo.
Viene organizzata una grande festa che culmina con un bagno in piscina e la liberazione di tanti palloni bianchi,sotto lo sguardo indulgente della signora Meadows.
Diretto da Joseph Losey nel 1985, Steaming,al bagno turco è un’opera di chiara impostazione e derivazione teatrale come del resto testimoniato dall’ambientazione con otto donne rinchiuse in pratica in un bagno turco.
Adattato da una piece di Nell Dunn, il film di Losey è l’ultimo lavoro del grande regista nato in America ma in pratica di chiara estrazione britannica;Losey muore nel 1984 e il film uscirà postumo nell’anno successivo e sarà presentato al festival di Cannes, accolto con simpatia sia dal pubblico che dalla critica.
Si tratta di un film fresco e simpatico, al quale il regista dedica molta attenzione sopratutto alla caratterizzazione dei dialoghi, assolutamente fondamentali in un film che sembra proporre come ambientazione il tradizionale luogo chiuso portato in scena in teatro.
Dialoghi a tratti frizzanti, a tratti nostalgici in una commedia in cui prevalgono le narrazioni delle vite vissute dalle protagoniste, vite ordinarie di rappresentanti delle varie classi sociali inglesi.
Da un lato la vita professionalmente appagante di Sarah, per esempio, con un lavoro che la gratifica come donna opposta come risultati a quella ordinaria e tradizionale di Nancy, la donna della classe media che ha sacrificato la sua vita alla famiglia e che in cambio ha ricevuto il tradimento del marito e l’ingratitudine dei figli.
A fare da elemento centrale ecco la figura di Josie, la popolana anticonformista e sessualmente emancipata, che però vive una dicotomia estraneante con la figura di un compagno manesco e violento opposta alle figure della signora Meadows e di sua figlia, elementi disturbanti l’armonia dell’assieme ma necessarie per completare il micro cosmo tutto al femminile che racconta la sua vita al tepore del bagno turco, creando una complicità tra le donne stesse che troverà un valore compiuto in un finale una volta tanto allegro e speranzoso.
Il regista di Il servo e Don Giovanni, di Una romantica donna inglese e di Modesty Blaise. La bellissima che uccide si congeda dal cinema con un’opera gradevole e ben costruita a dispetto della mediocre stesura originale fatta per il teatro, che ottenne più giudizi negativi che positivi.
Losey rivitalizza il testo con buona mano affidandosi ad un cast di grande valore nel quale figurano la vecchia gloria di Hollywood Doris day, la bravissima Vanessa Redgrave e la sempre affascinante Sarah Miles mentre Patty Love, che interpreta la vulcanica e combattiva Josie crea un personaggio che all’inizio è accolto dallo spettatore con diffidenza e che alla fine risulta essere il più positivo.
Un film in definitiva con un suo sottile fascino, che ha dalla sua molte frecce all’arco e poche cose negative del tutto trascurabili.
Il film è presente su You tube nella versione originale inglese visivamente poco accattivante perchè ridotta da una VHS mentre la versione digitale non sono riuscito a trovarla, tuttavia il DVD multilingue ha un costo davvero irrisorio,un minimo investimento per due ore di grande cinema.
Steaming – Al bagno turco
Un film di Joseph Losey. Con Sarah Miles,Vanessa Redgrave, Diana Dors, Patti Love,Brenda Bruce, Felicity Dean,Sally Sagoe,Anna Tzelniker Titolo originale Steaming. Commedia, durata 95′ min. – Gran Bretagna 1985.
Vanessa Redgrave … Nancy
Sarah Miles … Sarah
Diana Dors … Violet
Patti Love … Josie
Brenda Bruce … La signora Meadows
Felicity Dean … Dawn Meadows
Sally Sagoe … Celia
Anna Tzelniker … La signora Goldstein
Regia: Joseph Losey
Sceneggiatura:Robin Bextor,Nell Dunn,Patricia Losey
Produzione: Richard F. Dalton,Paul Mills
Musiche:Richard Harvey
Fotografia:Christopher Challis
Montaggio:Reginald Beck
Production Design:Maurice Fowler
L’opinione di Alan Smithee dal sito http://www.filmtv.it
Non potevo che chiudere questa mia entusiasmante avventura torinese con il grande regista che, come da tradizione, ogni anno il festival mette al centro della sua completa retrospettiva. Una rassegna che per forza di cose sono stato costretto anche quest’anno a tenere da parte (ma ho acquistato subito il completo volume monografico a cura di Emanuela Martini che affrontero’ già dai prossimi giorni), ma che non potevo davvero disertare almeno per chiudere l’esperienza festivaliera.
Losey e’ un autore complesso e dalla filmografia molto nutrita, che conosco solo in parte nelle sue opere piu’ note. Ricominciare a scoprirlo dalla fine, con l’ultimo suo film, ha, a mio giudizio, un suo senso: Steaming e’ certamente un’opera che, non penso solo fortuitamente, comunica un senso di “arrivo”, di termine finale: a parte la mia personale conclusione del festival, l’opera è pure l’ultimo film di Diana Dors, che interpreta la tenutaria del bagno turco, a sua volta destinato a scomparire per far posto al solito parcheggio o supermercato; Steaming segna anche la fine di un’epoca in cui la donna tradizionalista e tutta casa e famiglia (impersonata in questo suo ruolo dalla statuaria Vanessa Redgrave) lascia il posto a quella progressista e aperta alle mode e alle tendenze piu’ trasgressive (Sarah Miles, coetanea piu’ aperta, serenamente nuda e disinvolta in tutto il film); una donna che pensa finalmente un po’ anche a se stessa e un po’ meno alla famiglia di mocciosi irriconoscenti che nemmeno si ricordano del suo compleanno (come lamenta la Redgrave ad un tratto della vicenda). Ma Steaming, pur impersonificando la fine di molte cose, non comunica mai il senso “mortifero” o macabro che a prima vista gli si potrebbe appiccicare addosso. Anzi un finale sin troppo ottimista per risultare realistico, con quei palloncini bianchi che raggiungono il soffitto e le donne entusiaste e nude che si tuffano in piscina forti dei loro nuovi progetti solidali, e’ comunque un inno alla vita: dunque tutto il contrario delle tristi vicende che sono susseguite poco dopo la fine delle riprese. Un film che, da appassionato giovane cinefilo che fui (e lo sono tutt’ora) della Redgrave (nell’85 quando il film uscì tentai invano, appena diciassettenne, di vederlo assieme a quell’altro film difficilmente reperibile che è “Il mistero di Wetherby” di David Hare) vedo solo ora, a quasi trent’anni di distanza, con un’emozione che a questo punto ritengo piu’ che giustificata e pertinente.
L’opinione di Gian Carlo Bertolina, ‘Attualità Cinematografiche’
Fino a che punto può reggere, a livello di efficacia filmica, una storia di otto donne interamente ambientata in un bagno turco (steaming) nel quartiere londinese di Trigate? A questa domanda rischiosa ha risposto Joseph Losey, facendone il suo trentaduesimo ed ultimo film, di cui ha completato le riprese poco prima di morire e che è uscito postumo al festival di Cannes 1985. Si prova un leggero imbarazzo nel recensire l’opera estrema di un autore già da lungo tempo entrato nella storia del cinema, sia pure non tra l’Olimpo dei grandi in assoluto. La prima ragione di tale imbarazzo risiede nel fatto che, con tutti i suoi pregi, rimane pur sempre un esempio di genere minore, il cosiddetto teatro filmato. Il testo è della narratrice Nell Dunn, già co-sceneggiatrice con Kenneth Loach di ‘Poor Cow’, dal proprio romanzo omonimo, e qui al suo primo lavoro drammatico. Si tratta di fatto di un testo debole, sovraccarico di stilemi supersfruttati e irrimediabilmente datato, tanto da sembrare già vecchio al suo debutto sulle scene del West End nel 1981. Ci si può chiedere come mai Losey non abbia piuttosto scelto di adattare, se non altro per ragioni di fedeltà amichevole, il pinteriano Betrayal, affidato invece a David Jones; ma queste non sono che ipotesi accessorie, non riguardanti la sostanza del discorso.
I giorni impuri dello straniero
Rimasta vedova per una strana malattia che le ha portato via il marito, Anne Osborne vive ora con il figlio adolescente Jonathan in una grande casa con vista sulla baia.
E’ sola Anne, consumata dal ricordo del marito; passa le sue serate in solitudine, struggendosi nel ricordo del marito e indulgendo ogni tanto all’autoerotismo sia per supplire alla mancanza di affetto, sia per calmare i sensi di giovane donna rimasta troppo presto sola.
Attraverso un buco nel muro, Jonathan ogni tanto spia la madre: non è l’unica stranezza di questo ragazzo, che si è anche legato ad una banda di pari età che propaganda una strana fede di ispirazione nazista e che chiede fedeltà assoluta.
Il capo infatti insegna loro l’ideale dell’ordine puro e perfetto della vita, un comportamento assolutamente subalterno verso quelle che sono le sue idee e principalmente l’obbedienza assoluta.
Una prova del controllo assoluto che il capo ha sui suoi adepti è l’ordine che da a Jonathan, di portargli cioè il gatto di casa che verrà crudelmente vivisezionato e gettato nella baia.
Un giorno nella baia approda il Belle, una nave che proviene dall’Asia; Anne conduce Jonathan con se ad una visita del Belle e qui i due conoscono Jim Cameron, un marinaio che influenza immediatamente madre e figlio.
Se Anne è attratta fisicamente e sentimentalmente da Jim, Jonathan vede in lui un uomo misterioso e affascinante, un vero e proprio eroe che in qualche modo supplisce nella fantasia del ragazzo alla mancanza del padre.
I rapporti fra i tre si stringono; Anne finisce per diventare l’amante di Jim mentre Jonathan si affeziona all’uomo suscitando però nel capo della banda un forte rancore verso il ragazzo.
Il capo infatti non tollera che qualcuno possa sminuire la sua autorità.
Nel frattempo Jim deve ripartire e la cosa lascia il vuoto nella vita di Anne.
I due tuttavia si mantengono in contatto per via epistolare e la vita sembra scorrere in una animazione sospesa:la donna attende con ansia e con amore il ritorno dell’uomo che ama mentre Jonathan è sempre più succube della banda.
Jim torna e l’amore tra i due scivola verso la conclusione naturale, il matrimonio.
Ma per Jonathan la cosa ha un effetto devastante.
E’ finita, volatilizzata l’aura di mistero che avvolgeva Jim, il mito si è dissolto e l’uomo appare al ragazzo come una persona qualsiasi e da questo momento le cose prendono una direzione imprevedibile e drammatica…
I giorni impuri dello straniero, bizzarro titolo italiano dato al film di Lewis John Carlino, regista e sceneggiatore di The Sailor Who Fell from Grace with the Sea è tratto dal romanzo di Il sapore della gloria di Yukio Mishima, del quale riprende l’impianto narrativo cambiandone però l’ambientazione.
Si passa infatti dal Giappone alle coste dell’Inghilterra, da Yokohama ad una zona non meglio specificata mentre cambiano anche le descrizioni delle personalità dei due protagonisti del film.
Infatti mentre il protagonista del romanzo,Ryuji Tsukazaki è un uomo che ha seri problemi di ambientazione fuori dal contesto in cui vive, la sterminata azzurrità del mare e ha grosse difficoltà nell’inserimento sociale sulla terraferma, Fusako Kuroda ,la vedova, ha una vita agiata ma solitaria un po come la Anne descritta nel film.Terzo personaggio della storia è Noboru Kuroda, adolescente, rimasto orfano di padre a 9 anni e diventato completamente succube delle teorie di Jefe, un personaggio anarcoide con velleità da capo che teorizza una vita scevra da compromessi, del tutto insofferente dei miti della società adulta.
Questi personaggi sono quindi portati da Carlino in Occidente, in un mondo e in una cultura completamente differenti; il regista sceglie consapevolmente di evitare l’aria fortemente erotica del romanzo a favore di un impianto cinematografico più sfumato, nel quale la parte preponderante è costituita proprio dalla storia d’amore tra Anne e Jim mentre parallelamente assistiamo alla nascita dell’asocialità di Jonathan e dei suoi amichetti, allo sviluppo di un complesso edipico del ragazzo e infine, nella parte più drammatica della pellicola, alla decisione di eliminare fisicamente il povero Jim, reo di aver in qualche modo tradito l’ideale di Jonathan che vede Jim come uomo scevro dai compromessi tipici del mondo degli adulti.
Il film scorre tutto su questo doppio binario.
La parte sentimentale del legame fra i due adulti si contrappone fatalmente al perverso mondo di Jonathan e dei suoi amici; carlino dedica molto tempo, forse troppo, al legame tra Anne e Jim, alla loro storia d’amore, semplificando all’osso le motivazioni che spingono Jonathan ad allontanarsi da Jim, da quell’uomo e da quella amicizia che il ragazzo sente venir meno per motivi però che nel film restano solo abbozzati.
Film che tuttavia resta in buon equilibrio sino alla fine, quando il dramma si compierà e una volta tanto la tragedia soppianterà il tradizionale happy end di molte commedie sentimentali.Il dramma è in agguato e si staglia netto contro le immagini idilliache della baia, tra tramonti romantici e sogni di un futuro che per Anne e Jim non ci sarà mai.
In conclusione, un buon film, con un andamento oscillante che però tiene; a parti noiose il regista alterna momenti di macabra suspence immergendo il tutto in splendidi paesaggi naturali.Il cast è fondamentalmente di contorno ai tre personaggi principali, ovvero Anne interpretata da una bravissima e inaspettatamente sexy Sarah Miles, un tenebroso Kris Kristtoferson nel ruolo di Jim e Jonathan Kahn, che interpreta con misura Jonathan.
Un film davvero raro nella versione italiana; non ho trovato nulla in rete ne in streaming ne in download mentre è presente in una bella e vivida riduzione in divx da digitale sui p2p
I giorni impuri dello straniero
Un film di Lewis John Carlino. Con Kris Kristofferson, Sarah Miles, Jonathan Kahn Titolo originale The Sailor Who Fell from Grace with the Sea. Drammatico, durata 104′ min. – Gran Bretagna 1976
Sarah Miles: Anne Osborne
Kris Kristofferson: Jim Cameron
Jonathan Kahn: Jonathan Osborne – Numero Tre
Margo Cunningham: Mrs. Elizabeth Palmer
Earl Rhodes: Capo – Numero Uno
Paul Tropea: Numero Due
Gary Lock: Numero Quattro
Stephen Black: Numero Cinque
Regia Lewis John Carlino
Soggetto Yukio Mishima
Sceneggiatura Lewis John Carlino
Fotografia Douglas Slocombe
Montaggio Antony Gibbs
Musiche Johnny Mandel
Scenografia Ted Haworth, Brian Ackland-Snow e Lee Poll
L’opinione del Morandini
Una giovane donna inglese ha una relazione con un amabile marinaio. Con l’aiuto di quattro compagni, il geloso figlio adolescente, succubo di un morboso amico, castra l’intruso con un complicato rito macabro. La vicenda di Gogo no eiko (Il sapore della gloria), romanzo accesamente erotico del giapponese Yukio Mishima, è stata trasferita in una località costiera inglese. È un film diseguale, ma qua e là non privo di impressionante fascino macabro.
L’opinione di Buiomega 71 dal sito http://www.davinotti.com
Sinuoso e affascinante drammone, che mischia sottotese pulsioni incestuose, atmosfere echeggianti The wicker man, lontani sentori serradoriani della maladolescenza ferina e vendicativa. Bellissime location marinare, supportate dalla notevole fotografia di Douglas Slocombe e una certa morbosità che lascia il segno. A volte allucinato e febbrile, con alcuni momenti tediosi, ma crudele quanto basta per farsi apprezzare. Insopportabile la canzone cantata da Kris Kristofferson. Comunque da recuperare e da rivalutare. Buona la regia di Carlino.
L’opinione di Lucius dal sito http://www.davinotti.com
Ha un figlio perverso ma stenta a crederlo, perchè ogni scarrafone è bello a mamma soja. Il regista si concentra su questi, analizzandone la morbosa psicologia, il resto è ordinaria vita di coppia. Una pellicola curiosa incentrata sul piccolo saccentone che si crede adulto e agisce da adulto, ma con una mentalità deviata. Sprazzi di macabro aleggiano per tutta la durata. Il rientro nella normalità non è sempre facile.
L’opinione del sito http://www.cinemaepsicoanalisi.com
Il regista trasferisce il romanzo Il sapore della gloria di Yukio Mishima sulla costa inglese e dirige una pellicola a doppia velocità: anonima e piatta quando narra la sdolcinata storia d’amore tra Anne e Jon ed inquietante ogni qual volta entrano in campo Jonathan e gli altri componenti della setta segreta. Il regista ci mostra in più occasione come il loro piccolo capo, un ragazzino despota ed autoritario li maltratta e li umilia, li chiama per numero ed al loro minimo accenno di ribellione, minaccia di degradarli. Nel corso degli incontri il capo espone loro le sue farneticanti elucubrazioni e, per dimostrare che occorre arrivare sempre al centro delle cose, dopo aver avvelenato un gatto, lo disseziona chirurgicamente e gli estrae il cuore. Il regista lascia sullo sfondo i motivi che spingono Jonathan ad uccidere così crudelmente Jon e, l’atmosfera raggelante che circonda l’ignaro Jon, mentre beve del thè avvelenato, contrasta con lo splendido panorama che fa da scenario al macabro omicidio.
“Dormi bene, caro.”
La madre chiuse a chiave dall’esterno la camera di Noboru. Chissà cosa pensava di fare nel caso fosse scoppiato un incendio: certo, si riprometteva di riaprirla subito. E se, a causa del calore, il legno si fosse ingrossato e la vernice fosse colata nella toppa della serratura? Scappare dalla finestra? Ma il terreno di sotto era lastricato e il secondo piano di quella casa allampanata disperatamente alto.
Tutta colpa sua, di Noboru. Era sgattaiolato fuori di notte, istigato dal “capo”, di cui non aveva voluto rivelare il nome.
Quella casa di Yokohama – l’indirizzo preciso era: Nakaku, Yamatemachi, Yatozakaue – era stata costruita dal padre e poi rimodernata dalle forze d’occupazione americane che l’avevano requisita: ogni camera del secondo piano aveva uno stanzino da bagno, cosicchè essere rinchiuso in una di esse non era poi tanto scomodo. Ma per un tredicenne, diventava un’umiliazione tremenda.
Yukio Mishima