Colpo di spugna
Possedimenti coloniali francesi in Africa, sul finire degli anni 30.
Lucien Cordier è il poliziotto locale di una cittadina sotto amministrazione francese e dovrebbe rappresentare l’ordine costituito per la popolazione bianca e quella nativa, in precario equilibrio socio-legale per l’arroganza dei bianchi che trattano i neri come cose di nessun valore.
Purtroppo Lucien è la persona meno adatta al compito: è un uomo all’apparenza bonario e imbelle, quasi sempre sudato e con un’espressione di insopportabile bonomia mista a indecisione stampata sul volto.
Ad approfittare della sua debolezza sono un po tutti, ma in particolare Lucien è la vittima preferita di due magnaccia bianchi, che gestiscono il bordello del posto,
Anche a casa la situazione non è diversa: sua moglie Huguette lo umilia trattandolo come un inetto e non esitando a tradirlo spudoratamente con Nono, che dovrebbe essere il fratello della donna ma che in realtà altri non è che il suo amante.
L’unica distrazione del nostro anti eroe è Rose, la bella moglie di Marcaillou,un tipaccio che la maltratta nello stesso modo in cui maltratta i neri del paese.
Lucien è pigro, in una maniera quasi patologica, è un indolente e la sua indolenza si tramuta in un eccesso di prevaricazione dei bianchi verso i neri che di riflesso colpisce anche lui.
I due ruffiani lo trattano come lo zimbello della corte con conseguente perdita totale di dignità di Lucien.
Che un giorno decide di recarsi da Chavasson, il suo diretto superiore per chiedere consiglio sull’atteggiamento da tenere;l’ufficiale come risposta gli appioppa dapprima un calcio nel sedere, suscitando l’ilarità anche dei neri che assistono alla scena e subito dopo due, spiegando a Lucien che in alcuni casi occorre reagire con forza, ovvero “Quando qualcuno ti fa del male, tu gliene rifai il doppio”
Durante il viaggio di ritorno incontra sul treno che lo riporta a casa la giovane maestra Anne,con la quale fa subito amicizia e alla quale dimostra in un breve dialogo, che dietro l’apparente docilità e vacuità che lo distingue sembra esserci qualcosa che cova in attesa di esplodere.
Ed è così,in effetti.
Quasi che il colloquio con il superiore gli abbia aperto nuovi orizzonti, appena tornato a casa Lucien porta i due papponi di sera in riva al fiume e sotto la minaccia di una pistola prima li costringe a cantare e poi spara loro in rapida successione.
E’ un uomo completamente diverso ora, Lucien.
A Chavasson venuto a vedere cosa sia accaduto, mente spudoratamente dichiarando di non sapere cosa sia accaduto, non suscitando in lui alcun sospetto che lo conosce come un tipo assolutamente inoffensivo; anzi, con un abile gioco Lucien riesce a far credere in giro che Marcel Chavasson che si è vantato di aver dato ai due papponi una lezione abbia qualcosa a che vedere con la loro sparizione.
Lucien si è trasformato all’improvviso, non è più l’imbelle e indolente uomo di poco tempo prima ma nessuno se ne accorge.
Uccide a fucilate il sordido Marcaillou, che aveva picchiato un povero nero che vendeva noccioline e subito dopo va a letto con sua moglie Rose, poi insegna a quest’ultima a sparare.
La scia di sangue ormai non si interrompe più: Lucien regola i conti con un altro prepotente bianco, lo uccide e contemporaneamente uccide il povero Venerdi, un nero che sapeva troppo e a cui verrà attribuita la morte del bianco, poi assiste impassibile alla morte di Huguette e di Nono uccisi da Rose a cui ha armato la mano e che abbandona senza rimpianti al suo destino.
E’ l’epilogo.Durante una serata danzante che si svolge in uno strano clima visto che nel mondo è scoppiata la guerra, Anne la maestrina gli confessa di amarlo ma Lucien, che non ha più l’espressione indolente e ebete stampata sul volto le risponde che non può amarla perchè impegnato a difendere con la forza gli onesti dai farabutti.
“E non hai paura di ciò che può accaderti?” domanda ansiosa Anne
“Paura di che?In ogni caso sono già morto da tanto tempo” risponde amaramente Lucien
La dissolvenza finale inquadra l’uomo con la pistola in mano, con un’espressione assorta sul viso mentre guarda un gruppo di bambini intenti a giocare.
Punta la pistola, prende la mira ma…
Imprevedibile, allucinante, perverso, iperbolico.
Colpo di spugna (Coup de torchon nell’edizione originale) è un pugno nello stomaco, è un film spiazzante e irriverente, cattivo e auto distruttivo, lesionista e irreale.
Un film in cui si muovono personaggi sporchi e sudati, appiccicosi e moralmente abietti sotto il sole abbacinante dell’Africa contornati dalla popolazione indigena ridotta al ruolo di comparsa o di vittima, se vogliamo.
Vittima della prepotenza e dell’arroganza dei bianchi, della loro violenza e del loro razzismo:
“Cosa vi fa credere che i negri non abbiano un anima?” chiede Lucien a Chavasson, il suo superiore, che gli risponde
“Perchè praticamente i negri non sono persone”
“Ma allora secondo te cosa sono?”
“Ma sono dei negri, soltanto dei negri e la prova è che parlando di loro non si dice che sono persone ma solo dei negri”
Il ributtante cinismo, il razzismo totale e ignorante espresso da questo breve dialogo nasconde la chiave di lettura del film, diretto da Bertrand Tavernier nel 1981, tratto da Pop. 1280, romanzo di Jim Thompson uscito in origine nel 1964.
Un film cattivissimo, a tratti incostante, a tratti volutamente oltre le righe, popolato da personaggi odiosi e amorali, antipatici, caratteristiche peculiari a cui non si sottrae nemmeno l’improvvisato giustiziere Lucien, che per quasi tutta la durata del film ha un comportamento sdoppiato.
Da un lato imbelle e vile spettatore delle nefandezze dei bianchi, dall’altro, nella parte più dura del film giustiziere e carnefice di quegli stessi personaggi che popolano la storia.
Non piacciono per ovvi motivi i due ributtanti e razzisti fratelli Le Peron, due papponi che vivono sulle spalle di giovani prostitute locali troppo povere per procurarsi il sostentamento e che saranno i primi a cadere sotto il piombo di Lucien così come abietti sono Huguette e Nono, i due amanti spudorati che vivono la loro tresca sotto gli occhi di tutti e dello stesso Lucien, all’apparenza all’oscuro della cosa che invece è conosciuta da tutti i compaesani;non può ovviamente piacere Mercaillou, il vile e manesco marito di Rose così come alla fine piace poco anche quest’ultima, che vive la sua relazione con Lucien dapprima e con Hugette in seguito e che avrà un unico sussulto d’orgoglio quando capirà che il suo amante l’ha usata per i suoi fini, uccidere la moglie e l’amante.
E alla fine non piace nemmeno il personaggio all’apparenza più pulito della storia, la maestrina Anne, che assiste senza muovere ciglio alla furia omicida di Lucien, finendo anzi per innamorarsi della parte oscura di quest’ultimo, come ampiamente mostrato nelle sequenze finali, con l’ultimo memorabile dialogo tra lei e Lucien stesso.
Un piccolo micro cosmo abietto e amorale, quindi, che vive ( e muore) tra l’indifferenza dei nativi, troppo presi dalla quotidiana lotta per la sopravvivenza e schiavizzati oltremodo dai colonialisti bianchi che hanno rubato loro la terra e in fondo anche le anime.
Tavernier frusta selvaggiamente qua e la, senza creare nessuna alternativa morale al degrado assoluto, alla disintegrazione dei valori che avvolge come un miasma putrido tutta la pellicola.
Il film procede nevroticamente ma con una logica spietata, avvolgendo di cupo cinismo ogni cosa.
L’arroganza del potere è assoluta,totale e ad esprimerla ci sono solo personaggi che a tratti appaiono caricaturati in modo forse eccessivo.
Marcel Chavasson, il diretto superiore di Lucien, il colonnello Tramichel, appaiono come macchiette tragicomiche, non fosse per lo scenario da incubo nel quale si muovono, un colonialismo selvaggio, crudele e amorale che mostra la sua faccia in pieno sole, senza pudore e senza apparente confine.
Tavernier sceglie l’arma dell’umorismo nero, più cinico e cupo possibile.
Un film forse eccessivo, votato all’esasperazione ma un film che di certo non lascia indifferenti.
Il cinema francese degli anni 70 e 80 ha regalato spesso gioielli come questo film di Tavernier;penso a Calmos di Blier o ai film di Lelouch, Malle ecc.
Film che spesso hanno nella provocazione, nella dissacrazione il fulcro delle loro narrazioni; Colpo di spugna assomiglia nella narrazione (come pietra di paragone,of course) al nostro Brutti sporchi e cattivi, il film disperato, metropolitano di Scola.La stessa umanità alla deriva si agita senza soluzione di continuità, senza riferimenti morali e senza modelli sociali di ispirazione. Certo, i due film sono distanti come tematiche, in uno è il proletariato urbano della metropoli che vive in condizioni miserabili, qui è la popolazione nera a farlo.
Ma i punti di contatto ci sono.
Come dimenticare i bambini neri alle prese con la sabbia del deserto, nella quale scavano per tirare fuori i vermi che mangiano avidamente e come non paragonarli ai “neri” dalla pelle bianca che vivono nelle baracche al centro della opulenta metropoli occidentale?
Come non ridere sinistramente del colonialista che entra in una latrina e se la vede esplodere sotto gli occhi uscendo poi coperto di escrementi e come non paragonarlo al sotto proletario che vive in promiscuità assoluta in una baracca accoppiandosi furiosamente mentre gli altri dormono?
L’umanità malata di Tavernier fa contemporaneamente ribrezzo e pietà.
Colpo di spugna vive anche sulle magistrali interpretazioni del cast che Tavernier assembla.
Si va dal grandissimo Noiret, sudato, sporco e ironico, indolente e pigro eppur spaventosamente lucido nel finale apocalittico nel ruolo di Lucien alla bellssima e seducente Isabelle Huppert che ricopre con tutta la sua bravura il ruolo di Rose, passando per la bravissima Stephane Audran fino al solito immenso Marielle e in ultimo alla bella e spaesata (nel film) Irène Skobline, nel ruolo di Anne la maestrina muta testimone della lucida follia di Lucien.
Splendida la fotografia, angosciante la location, per un film che non si dimentica.
Un film di Bertrand Tavernier. Con Isabelle Huppert, Philippe Noiret, Stéphane Audran, Jean-Pierre Marielle, Eddy Mitchell, Guy Marchand, Irène Skobline, Michel Beaune, Jean Champion, Victor Garrivier, Gérard Hernandez, Abdoulaye Diop, Daniel Langlet, François Perrot, Raymond Hermantier, Mamadou Dioum, Samba Mone, Irénée Martin, Max Ernst, Paul Grimault Titolo originale Coup de torchon. Drammatico, durata 128 min. – Francia 1981.
Philippe Noiret …Lucien Cordier
Isabelle Huppert … Rose Mercaillou
Jean-Pierre Marielle … Doppio ruolo di Le Peron e di suo fratello Georges
Stéphane Audran … Huguette Cordier
Eddy Mitchell … Nono l’amante di ‘Huguette
Guy Marchand … Marcel Chavasson
Irène Skobline … Anne la maestrina
Michel Beaune … Vanderbrouck
Jean Champion …Il prete del villaggio
Victor Garrivier … Mercaillou
Gérard Hernandez … Leonelli
Abdoulaye Diop … Fête Nat il servitore nero di Lucien
Daniel Langlet … Paulo
François Perrot …Il colonnello Tramichel
Regia Bertrand Tavernier
Soggetto Jim Thompson
Sceneggiatura Bertrand Tavernier e Jean Aurenche
Fotografia Pierre-William Glenn
Montaggio Armand Psenny
Musiche Philippe Sarde
Scenografia Alexandre Trauner
“Tiriamo sui cadaveri che passano, a loro non da fastidio e noi ci divertiamo” (Le Peron)
” Oh,ma che bel mestiere;ci sono migliaia di africani che sono morti nella Francia senza saper parlare il francese;grazie al suo lavoro impareranno a leggere il nome dei loro papa sui monumenti ai caduti” (Lucien ad Anne)
“Meglio un cieco che piscia dalla finestra che il burlone che gli fa credere che sia un cesso” (Lucien a Venerdi)
” Il Signore mi ha ordinato di colpire Le Péron, Leonelli, Mercaillou e Venerdi. Io non ero completamente d’accordo. Gesù Cristo“. (scritto da Lucien sulla lavagna di Anne)
“Uccidere è un dovere civico, un atto di carità“.(Lucien)
L’opinione di Peppe Comune dal sito http://www.filmtv.it
(…)“Colpo di spugna” (dal romanzo “Pop 1280” di Jim Thompson) di Bertrand Tavernier è un amabile pamphlet filosofico tutto costruito sull’ailare rappresentazione del labile confine tra il bene e il male, quando l’assoluta indifferenza su quelle che sono le sorti del genere umano rende, non solo largamente impunita la sistematica propagazione della morte, ma anche tollerabile la sua sardonica progettazione. Tutto è rappresentato con soave leggerezza, facendo perno sulla superba caratterizzazione di un sedicente ingenuo per portarci a guardare coi suoi stessi occhi la deriva esistenziale di un intero mondo, un mondo dove imperano la sempiterna legge del più forte la razzistica convinzione che i neri non siano delle “vere persone”, un mondo retto sulla sopraffazione impunita di pochi “notabili” bianchi, quei bianchi che hanno eletto Lucien Cordier a scemo del villaggio e che ben volentieri lo fanno assurgere a capo espiatorio di tutte le falle di sistema. Emblematiche sono le parole che Lucien rivolge ad uomo che è venuto fino a Bourkassa per sapere che fine abbia fatto il fratello : “i crimini sono tutti collettivi. Si partecipa a quelli degli altri e gli altri partecipano ai tuoi. Tuo fratello è stato ucciso da tutti. Anche da me, e forse da me più che dagli altri”. Parole che suonano come una condanna senza appello, proferite da un uomo che sembra essere seduto sull’orlo di un apocalisse imminente, intento a registrare e farsi partecipe allo stesso tempo dell’effettiva propagazione del male, a constatare l’ormai acclarata inaffettività di ogni rapporto umano. Gli indigeni sono solo delle comparse silenti, Tavernier le pone sullo sfondo, come una speranza inascoltata. (…)
L’opinione di Mauro Lanari dal sito http://www.filmscoop.it
(…) “Orribile campione della specie umana”, come lo definisce Thompson, Cordier ha una coscienza, sorniona ma lucida e radicale, della realtà.
È un cavaliere senza macchia privato della principessa da salvare e relegato a testimone impotente di un male che si diffonde già la mattina attraverso il fetore delle latrine, per poi corrodere dentro nel buio. Di fronte a tale gravità, che richiederebbe un intervento all’altezza di un Salvatore, l’unico escamotage che la natura consegna è “il dormire e il mangiare”. In particolare il gastronomico, con la parodistica urgenza del cibo, è un tema del film debordante, che asfissia la giornata dei personaggi anche negli intermezzi di maggior tensione, i quali “sono costretti” a tavola, per colazioni o pranzi o tè o aperitivi o comunque sedute che paiono indilazionabili, in qualsiasi circostanza, anche la più delicata: dopo un delitto, o un funerale, o tra un litigio e l’altro, o durante una stessa sparatoria, avvicinandoli al parossismo culinario esistenziale di Ferreri. Non c’è nulla da stimare, non c’è niente per cui valga la pena vivere, ma solo da aspettare che questo mondo avvolto dalla morte vada nella completa rovina e nel minor tempo possibile. Però, come un miraggio, la principessa arriva e, come un giglio immacolato sbocciato all’improvviso tra i rovi e le serpi, si materializza nei panni di una giovane maestra francese: Anne. È il momento di muoversi, ribellarsi e riabilitare sé stessi e il mondo fino a innalzarlo al livello di tale purezza. Ma come agire? Lucien, dando ascolto alla propria invigorita voce interiore, si sente investito da una missione assoluta, iniziando così un cammino dove tutto è messo sottosopra, tutto oscilla tra logica e follia e, in una sorta di delirio spirituale, si proclama il nuovo Ges\ù Cristo. Ma si tratta pur sempre di un Cristo impietoso e depresso, monco nelle sue qualità, più vicino all’indole di un’umanità agonizzante che a quella divina. Non esistono soluzioni nuove a cui aggrapparsi, l’unica chance è di far collassare le leggi selvagge della natura umana. Così, dopo l’ennesima umiliazione, Lucien applica in modo rigoroso, diligente, scrupoloso il suggerimento dell’autorità laica di restituire duplicato il male subito, sorta di “lex talionis” al quadrato, mentre dall’autorità religiosa apprende la lezione dell’amore verso il prossimo. Dopo aver saggiato il valore morale delle sue vittime (“Non è perché io metto la tentazione a portata di mano che bisogna forzatamente lasciarsi tentare”, “Io mi arrangio soltanto perché la gente si mostra tale quale è”…), puntualmente le elimina in nome dell’amore e di Dio.
La morte sembra essere l’unica reale alleata dell’umanità e l’unica soluzione efficace nel teatrino tragico: “Uccidere è un dovere civico, un atto di carità”. Ma il compito che egli si è prefisso si rivela alla fine utopico, titanico quanto impossibile: “Non ne posso più di essere il solo a espiare unicamente per aver fatto quello che la gente voleva che facessi e che non ha il coraggio di fare”. Perciò, dopo un improbabile ballo con Anne, nell’atmosfera paradisiaca di una piazza addobbata a festa per l’entrata in guerra, di fronte al moltiplicarsi dei bambini nella sequenza finale, cioè alla reduplicazione incontrollabile e inarrestabile della vita malefica così com’è, un Lucien ormai fiaccato getta la spugna e non sa più cosa fare, se dirigere la pistola verso i bambini oppure verso se stesso, in un'”impasse” apparentemente definitiva.
L’opinione di buiomega71 dal sito http://www.davinotti.com
(…) Immerso in situazioni grottesche che rasentano la commedia più ludica (il bagno nella merda del signorotto locale), con schegge improvvise di devastante violenza (le esecuzioni a freddo dei due macrò, la fucilata improvvisa al marito manesco e ubriacone, il tiro a segno ai cadaveri dei neri che galleggiano sul fiume, il finale con la Huppert che spara e fà un massacro nella sua stanza da letto), un erotismo sudaticcio e carnale (la Huppert quasi sempre nuda e vogliosa, la Audran milfona, con bigodini, calze nere e ciabattine col tacco)
Momenti assoluti di gran cinema: L’eclisse iniziale, il cinema all’aperto che viene devastato da una violenta folata di vento(altro che Nuovo Cinema Paradiso!), la steadycam che segue di spalle la Huppert dalla strada, alle scale, fino alla cucina dove fà colazione Noiret, e l’agghiacciante finale dove Noiret punta la pistola sui bimbi neri che giocano nel deserto.
Tavernier sà fare gran cinema, mischia erotismo ruspante, commedia nera, esecuzioni lampo e feroci, dialoghi (moltissimi) taglienti e cinici oltre ogni dire, la semplicità del male nascosta nel volto e nelle movenze paciose di un Noiret in stato di grazia.
Splendida la fotografia di Pierre-William Glenn, e lo score di Philippe Sarde sottolinea beffarda la straniante e grottesca serie di eventi.
Forse qualcosa andava sfrangiato (il film dura 123 minuti)e quà e là si gira a vuoto (troppo lunga la scena del biliardo e alcune macchiette da commediaccia- tipo i calci nel sedere a Noiret-potevano essere evitate), ma rimane un film che non assomiglia a nessun altro. Vitale, carnale dove la morte sorride a denti stretti.
Recensione del romanzo di Thompson dal sito http://www.carmillaonline.com
(…) Ambientato nei primi anni del novecento, “Colpo di spugna” racconta la storia di Nick Corey, lo sceriffo di Potts County, una piccolissima comunità del Texas occidentale. Fin dalle prime pagine, Corey viene presentato alla stregua di un imbecille: tiranneggiato dalla moglie megera, dileggiato dai concittadini, è sbeffeggiato anche dallo sceriffo Ken Lacey. Affiorano alcuni dubbi, sospetti concreti che il fratello ritardato della moglie non sia un consanguineo ma bensì un amante segreto dalle impressionanti doti virili. Sulle prime, Nick Corey appare un tonto fenomenale, o almeno fino al momento in cui non ammazza a sangue freddo due ruffiani: si tratta di un atto di violenza feroce e insensato, che al tempo stesso spiazza e sconcerta il lettore. E ancora: sorpreso Tom Hauck, un uomo con cui ha un conto in sospeso, Nick lo sventra con due colpi di fucile. Ma allora chi è veramente lo sceriffo Corey? Una scaltra mente criminale che si nasconde ostentando stupidità? Ammazza ancora Nick e spinge anche gli altri a farlo per lui. Mente, mette i propri nemici l’uno contro l’altro, li caccia nei pasticci, li costringe a commettere errori. Progressivamente Nick si svela per quello che è: un assassino spietato e amorale. «Cosa ti è successo? Quando sei diventato così?» chiederà nelle battute finali Rose, una delle sue amanti. Il racconto è scritto in prima persona, secondo il modulo narrativo privilegiato da Thompson, ed è quindi la stessa voce interiore di Nick che tenta di spiegare, di dare alle proprie azioni quel senso che non sembrano avere. La citazione più famosa del romanzo è quella in cui Nick dice: «Così ci pensai e ci ripensai, e poi ci pensai ancora un po’. E finalmente presi la decisione. Decisi che non sapevo che cavolo fare». Ma a proposito dell’omicidio dei due ruffiani e lo stesso Nick a dire: «C’erano un sacco di cose, quasi tutte insomma, per le quali non potevo fare niente. Però, invece, potevo fare qualcosa con loro, e alla fine … alla fine ho fatto qualcosa». Non è qualcosa, ma è la concezione stessa che Thompson ha dell’omicidio: in un mondo privo di qualsiasi opzione etica, uccidere resta l’unica possibilità di agire. Alla fine il discorso di Nick assumerà, più che un tono messianico, la forma di un vero e proprio delirio schizoide: «Devo andare avanti a fare il lavoro del Signore, e Lui non ha fatto altro che indicare, scegliere la gente sulla quale io devo sfogare la sua rabbia». In realtà, c’è qualcosa di ineluttabile e inevitabile, una sorta di legame di necessità che unisce vittima e assassino. Per Nick, la debolezza è di per sé una colpa e la vittima è colpevole quanto il suo uccisore: «voglio dire, be’ cos’è peggio, il tipo che sporca di merda la maniglia della porta o quello che suona il campanello?». Perché nessuno è innocente o moralmente sano nella contea di Potts: gli abitanti sono talmente razzisti che, quando qualcuno appicca il fuoco alle baracche del quartiere nero, i cittadini importanti si preoccupano soltanto che i “loro” neri non vengano spaventati troppo. Nel caso fuggissero non rimarrebbe più nessuno per raccogliere il cotone. Del resto, anche le relazioni sociali appaiono improntante al mero formalismo e alla più meschina ipocrisia. «Be’, sai. Adesso sei ufficialmente una vedova e non mi sembra decente andare a letto con una donna vedova da neppure un’ora» dice Nick a Rose, dopo averle ucciso il marito. Si tratta del cuore rurale degli Stati Uniti, di quella grande provincia del Mid West che Thompson ha più volte rappresentato come meschina, marcia e bigotta. Anche ciò che dovrebbe avere la parvenza di un sistema giudiziario non è che un ulteriore conferma della cronica stupidità che affligge gli abitanti di Pottsville: «invece di lavorare la gente perde tanto di quel tempo a linciare altra gente e spende tanti soldi in corde e petrolio che non gli rimane più tanto di quel denaro o di ore lavorative per scopi pratici».(…)
Sul far della notte
Charles Masson è un dirigente di un’azienda che si occupa di pubblicità;ha una bella famiglia, una bellissima moglie ma sopratutto ha un’amante, Laura Tellier che è sposata però con il miglior amico di Charles, Francois.
I due si incontrano in un appartamento, come clandestini e non rifuggono da rapporti sessuali estremi, masochistici.
Durante uno di questi rapporti, Charles arriva a strangolare la donna.
Da quel momento l’uomo è costretto a costruire attorno a se un muro di difesa, che però lo ingabbia a tal punto da soffocarlo.
Così decide di raccontare tutto alla moglie, che per difendere lo status sociale, fa finta di ignorare l’accaduto.
Dal romanzo Sul far della notte di Edward Atiyah, Claude Chabrol trae il film omonimo dirigendolo su un binario di fredda tecnica e creando un prodotto che viaggia glacialmente sull’indagine della vita di un uomo, il protagonista, che è costretto, per difendere la sua vita irreprensibile, a nascondersi, a mimetizzarsi, protetto in qualche modo dall’aria di rispettabilità che ha lui e il suo ruolo sociale.
La polizia non sospetta di lui, ma la cattiva coscienza fa vedere il pericolo anche dove non c’è: così la vita di Charles si complica maledettamente tanto da spingerlo, forse preda del rimorso, forse in cerca di un appoggio a confidare l’accaduto a sua moglie.
Che è preda anch’essa delle convenzioni borghesi e che vuol difendere la sua famiglia da uno scandalo.
Così tutto viene nascosto, taciuto.
E la vita può riprendere regolarmente.
O quasi.
Chabrol indaga con discrezione sulle convenzioni, sfiorando il senso del rimorso dell’uomo che evidentemente cova in se ma non può esprimere.
Un’altra scena importante in questo senso è quella in cui mima la sua confessione,di ritorno sulla strada che lo porta indietro dal funerale di Laura. Charles parla ma nessun suono esce dalla sua bocca. Ci sono emozioni e sentimenti che non osano e non possono essere espressi. Hélène è più fredda e calma nel controllare i suoi sentimenti. La sua reazione alla confessione del marito – il sesso, omicidio,il tradimento – è fredda e estremamente razionale. Lei sceglie con calma di perdonarlo e prosegue la recita di facciata di quella vita tranquilla che in fondo ha e che non intende mettere a repentaglio.
Un film che usa il bisturi per sezionare le personalità che man mano affollano la vicenda, tutte quasi rinchiuse in se stesse:come la giovane donna che lo riconosce da lontano come l’amante di Laura, lo guarda ma tiene per se la cosa, disinteressandosi di tutto presa com’è a farsi i fatti propri.
Su tutto la sequenza notturna della confessione di Charles: la scena cruciale si verifica di notte, è diretta con pochissima luce e si può a malapena a vedere i volti degli attori. Ma per chi guarda la pellicola la cosa non è importante, così come non è importante.l’espressione dei protagonisti.Le loro parole valgono per tutto, come quella confessione, agghiacciante di Charles che dice “Se tu sapessi quello che ho fatto, se solo tu sapessi..” mentre la moglie lo rassicura, quasi complice di un gesto così efferato.
Il cast scelto da Chabrol sposa alla perfezione le intenzioni del regista:bravissimi tutti, in particolare la sempre bellissima Stephane Audran che interpreta la moglie di Charles,Michel Bouquet che interpreta Charles, Anna Douking (Laura) che resta in scena pochissimo ma con gran mestiere e François Périer, che riveste il ruolo di Francois, l’amico di Charles.
Un film molto bello, freddo e elegante al tempo stesso e che purtroppo è pressochè introvabile nella versione italiana.
Chi volesse vederne la versione originale può farlo seguendo questo link su You tube: http://www.youtube.com/watch?v=F3ugdFqcfr4
Sul far della notte
Un film di Claude Chabrol, con Stéphane Audran,François Périer,Michel Bouquet,Jean Carmet,Dominique Zardi,Anna Douking Drammatico, Francia-Ucraina 1971 Titolo originale Just avant la nuit
Stéphane Audran Hélène Masson
François Périer François Tellier
Michel Bouquet Charles Masson
Jean Carmet Jeannot
Henri Attal Cavanna
Dominique Zardi Prince
Celia Jacqueline
Marina Ninchi Gina Mallardi
Anna Douking Laura Tellier
Regia Claude Chabrol
Soggetto-romanzo Edouard Atiyah
Sceneggiatura Claude Chabrol
Fotografia Jean Rabier
Montaggio Jacques Gaillard
Musiche Pierre Jansen
L’opinione di Undying dal sito http://www.davinotti.com
Laura Tellier (Anna Douking) ha una relazione con Charles Masson (Michel Bouquet) nonostante quest’ultimo sia felicemente coniugato. L’omicidio di Laura potrebbe intaccare la rispettabilità della famiglia e sarà dunque la moglie a punire il “reo confesso”, in virtù dell’apparenza (il decoro civile) che surclassa la sostanza (la relazione extraconiugale e il delitto). Notevole dramma dai risvolti tragici, orientato alla denuncia sociale. Chabrol rifugge dal sensazionalismo per concentrarsi invece sui pensieri di una mente borghese (la moglie) adagiata sulla rispettabilità e sull’appar(ten)enza.
Violette Noziere
Violette Noziere è una giovane parigina diciottenne, che vive la sua esistenza in una famiglia borghese e tranquilla.
Lei però tranquilla non lo è affatto.
Ad onta dell’affetto che sua madre Germaine nutre per lei e nonostante la figura rassicurante di suo padre Baptiste,Violette sente di voler ben altro dalla vita.
In realtà Baptiste non è suo padre, perchè sua madre Germaine l’ha concepita in una relazione extra coniugale con un banchiere e questo Violette lo sa.
Difatti ricatta suo padre e con il denaro che raccoglie si da alla bella vita nel quartiere latino.
Ha anche diversi amanti ai quali si concede per soldi salvo poi mantenere un gigolo, Jean Davin, che a lei piace e che è perennemente senza denaro.
Ma i soldi non bastano mai e poichè Violette è anche una ragazza quasi amorale, che detesta la figura del padre surrogato Baptiste,che invece le vuole bene e appare forse troppo debole nei suoi confronti,decide di passare all’azione per eliminare i suoi genitori e ereditare i loro beni.
Violette utilizza un sonnifero per uccidere i genitori, ma a morire è il solo Baptiste;Germaine sopravvive e Violette, incolpata dell’omicidio del padre finisce in galera e processata.
Il processo diventa un avvenimento nazionale e poichè la ragazza risulta anche particolarmente antipatica sia per il carattere sia per la condotta di vita scandalosa finisce per essere condannata a morte.
Siamo nei primi anni trenta e la ghigliottina, strumento di giustizia risalene alla rivoluzione francese non viene usata per giustiziare le donne.
Il presidente francese Lebrun commuta la pena in un ergastolo, poi il maresciallo Petain la riduce a 12 anni mentre dopo la liberazione De Gaulle la fa scarcerare rimuovendo anche il divieto di soggiornare in carcere.
Dopo la detenzione, durata 12 anni, quindi avendo scontato la pena, Violette sposa una guardia carceraria e dal matrimonio avrà 5 figli.
Basandosi sulla vera storia di Violette Noziere e sul romanzo a lei dedicato da Jean-Marie Fritère,Claude Chabrol ricava, nel 1978, un film sobrio ed elegante che ripercorre la vita di Violette Noziere, che tanto scalpore sollevò nell Francia degli anni trenta sopratutto per quello che emerse durante il processo che subì per aver tentato di avvelenare i genitori, riuscendo solo in parte nel suo scopo.
Il regista francese evita di prendere posizione sulla controversa figura della giovane omicida,limitandosi ad esporre i fatti e senza emettere giudizi morali.
Ne vien fuori così un film quasi documentaristico,che rispecchia la figura di Violette così come emerse in tutta la sua drammaticità nel corso del processo a cui fu sottoposta la ragazza nel 1933, quando aveva appena 18 anni.
Nella realtà storica il processo si concluse nel 1934 e appassionò la Francia per i torbidi retroscena che mersero durante la fase dibattimentale;Violette infatti accusò il suo defunto padre Baptiste di averla violentata sistematicamente da quando aveva 12 anni e accusò di conseguenza sua madre di aver sempre saputo cosa accadeva tra le mura domestiche ma di aver sempre taciuto per viltà e quieto vivere.
La relazione con Davin, la sua condotta scandalosa, la sua antipatia e la reputazione dubbia che la accompagnarono durante il processo non le giovarono.
La ragazza infatti fu accusata di aver tentato il duplice omicidio solo per impossessarsi dei beni dei genitori e di conseguenza condannata a morte, condanna che non venne applicata per i motivi che ho raccontato prima.
Chabrol quindi ripercorre l’ultimo periodo della vita di Violette prima dei tragici fatti che la videro coinvolta, raccontando la sua relazione con Davin, gli squallidi incontri a pagamento e mostrando Baptiste come un uomo debole e sottomesso che per lei aveva un debole ma non certo di natura sessuale.
Quale che fosse la verità nella torbida storia,il film sembra non volerla o quanto meno non poterla appurare.
Le versioni antitetiche emerse nel processo non permettono un giudizio definitivo e quindi Chabrol resta sul vago, limitandosi ad esporre i fatti con un film elegante ma forse alla fine privo di una sua vera anima.
Ma a mantenere alto l’interesse c’è in primis la storia di Violette e sopratutto la splendida interpretazione della sua figura fornita da Isabelle Hupert, un’attrice capace di dare enorme spessore a tutti i personaggi che ha interpretato nel corso della sua lunga carriera.Candida e allo stesso tempo torbida,finta ingenua e al tempo stesso diabolicamente perversa,la Hupper fornisce una versione della figura della Noziere in perfetta linea con quanto richiestole da Chabrol.
Alla fine Violette resta un personaggio indecifrabile, così come quello reale, storico emerso dal processo.
Il finale del film rispecchia perfettamente la realtà dei fatti e,colpevole o no, Violette Noziere espiata la sua pena finirà per diventare una moglie ed una madre esemplare.
Fino al termine della sua vita, cessata all’età di 51 anni.
Film elegante, con una splendida fotografia e scorrevole, nonotante le oltre due ore di durata; Chabrol bada all’essenziale e il suo film si trasforma di riflesso in una descrizione ambientale molto accurata della Parigi degli anni trenta, della vita affascinante e sordida allo stesso tempo del quartiere latino, della morale imperante all’epoca; ottimi anche i protagonisti di contorno, come la bravissima Stephane Audran che interpreta Germaine e Jean Carmet che interpreta il padre della ragazza.
Per la cronaca, la figura di Violette Noziere divise nettamente in due l’opinione pubblica francese;la parte intellettuale della società la vide come un esempio di ribellione alle regole borghesi e ne fece un emblema della liberazione sessuale e della liberazione dalla morale considerata ipocrita della famiglia tradizionale.
Poeti come Eluard o Breton le dedicarono scritti e poesie e numerose furono le biografie che tentarono di portare alla luce la vera figura della giovane parigina.
Non mi risultano esistere versioni in italiano disponibile del film mentre su You tube all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=P0aCx_qp8zk c’è la versione in lingua francese dello stesso.
Violette Nozière
Un film di Claude Chabrol. Con Isabelle Huppert, Stéphane Audran, Jean Carmet, Isabelle Huppert Drammatico, durata 130′ min. – Francia, Canada 1978
Isabelle Huppert: Violette Nozière
Stéphane Audran: Germaine Nozière
Jean Carmet: Baptiste Nozière
Jean-François Garreaud: Jean Dabin
Regia Claude Chabrol
Sceneggiatura Frédéric Grendel, Jean-Marie Fritere, Odile Barski e Hervé Bromberger e Claude Chabrol
Fotografia Jean Rabier
Montaggio Yves Langlois
Musiche Pierre Jansen
Scenografia Jacques Brizzio
Opinione tratta dal sito http://www.forum.tntvillage.scambioetico.org
La storia di Violette Nozière è emblematica della condizione della donna nella pur civilissima (per gli standard contemporanei, si intende) Francia di inizio ‘900. Ma anche di quella delle giovani generazioni, ancora fortemente soggiogate dalla famiglia e costrette a vivere schizofrenicamente, fra timidi impulsi individualisti e una doverosa, cieca obbedienza alle convenzioni e ai dettami parentali. Chabrol, con una sceneggiatura di Odile Barski (per la prima volta: i due collaboreranno molto spesso, in seguito), Hervè Bromberger e Frederic Grendel, dalla biografia scritta da Jean-Marie Fritère, mette in scena questa triste vicenda di una vittima esasperata e divenuta carnefice dei suoi stessi persecutori, senza calcare la mano sulle emozioni o sulla spettacolarità dei fatti. C’è pur sempre un omicidio di mezzo: ma viene raccontato con cura cronachistica soltanto tramite un flashback nel finale, al momento della confessione; parimenti il regista non si sofferma più di tanto sulle accuse di violenza portate da Violette nei confronti del padre, quando ella era poco più che bambina: ciò che interessa alla pellicola non è lo scandalo suscitato dalla storia raccontata, ma l’esemplarità della stessa. Anche perchè la stampa le diede fortissimo risalto, generando da subito un partito di ‘sostenitori’ e uno di ‘detrattori’ della ragazza; forse un limite del copione può essere indicato nello scarso interesse verso il riflesso mediatico delle vicende, determinante — lo dice, sbrigativamente, la didascalia finale — anche per creare un precedente giudiziario molto importante. Isabelle Huppert è un’ottima protagonista: sarà premiata a Cannes; analogamente ai Cesar verrà riconosciuta la bella prestazione di Stephane Audran. Nello stesso 1978, curiosamente, gli Area pubblicarono un brano intitolato Hommage a Violette Nozières
L’opinione del Morandini
Nel 1933 una piccoloborghese di dubbia moralità avvelenò i genitori, procurando la morte del patrigno; rea confessa, fu condannata alla ghigliottina, pena commutata nell’ergastolo. Uscita dal carcere nel ’45, si sposò, ebbe cinque figli, morì nel 1963. Ispirandosi a una storia vera, Chabrol e i suoi 3 sceneggiatori evitano di prendere partito pro o contro l’avvelenatrice, sbattuta come un mostro in prima pagina, ma anche difesa dagli intellettuali di sinistra, specialmente surrealisti, come vessillo della polemica contro la famiglia borghese. Puntano sul resoconto dei fatti, la descrizione dei comportamenti, la cura dei particolari, ma non riescono a illuminare l’enigma: la storia rimane impenetrabile come un fatto di cronaca. In bilico tra l’eleganza puntigliosa e la squisita inutilità, il film ha nella Huppert, premiata a Cannes, la sua vera ragion d’essere.
L’opinione del sito http://www.iridenonevadibile.wordpress.com
Claude Chabrol, noto regista della Nouvelle Vague francese, accostato grazie a film come questo al genere thriller, evita di innalzare un personaggio già fin troppo idolatrato.
Rendere avvincente e privo di psicologismi stereotipati un fatto di cronaca non è poi una impresa così semplice. Nella storia del cinema e della letteratura la tendenza a romanzare, marcando una opinione diretta dell’autore sulle vicende, è un rischio piuttosto comune.
Chabrol evita tutto questo. Dà al personaggio Violette quella profondità psicologica e enigmatica che traspare dal conosciuto senza aggiungere altro e lasciando quindi i punti interrogativi aperti ad interpretazione. L’accusa di stupro da parte di Violette nei confronti del padre è l’unico elemento a essere in parte giustificato da una rivalità da manuale freudiano nei confronti della madre. Stupro che non viene mai esplicitamente negato e che rimane quindi, come già detto, un enigma aperto.
Le inquadrature risultano in alcuni casi caratterizzanti. Il continuo uso degli specchi, oltre a produrre in alcuni momenti un leggero senso di disorientamento da parte dello spettatore, sottolinea l’idea di Violette come di un personaggio doppio e innamorato del suo riflesso e quindi della sua ipocrisia. Concetto che traspare nel gesto del bacio dello specchio.
Le foto che seguono sono quelle della vera Violette Noziere
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