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Colpo di spugna

Colpo di spugna locandina 1

Possedimenti coloniali francesi in Africa, sul finire degli anni 30.

Lucien Cordier è il poliziotto locale di una cittadina sotto amministrazione francese e dovrebbe rappresentare l’ordine costituito per la popolazione bianca e quella nativa, in precario equilibrio socio-legale per l’arroganza dei bianchi che trattano i neri come cose di nessun valore.
Purtroppo Lucien è la persona meno adatta al compito: è un uomo all’apparenza bonario e imbelle, quasi sempre sudato e con un’espressione di insopportabile bonomia mista a indecisione stampata sul volto.
Ad approfittare della sua debolezza sono un po tutti, ma in particolare Lucien è la vittima preferita di due magnaccia bianchi, che gestiscono il bordello del posto,
Anche a casa la situazione non è diversa: sua moglie Huguette lo umilia trattandolo come un inetto e non esitando a tradirlo spudoratamente con Nono, che dovrebbe essere il fratello della donna ma che in realtà altri non è che il suo amante.

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L’unica distrazione del nostro anti eroe è Rose, la bella moglie di Marcaillou,un tipaccio che la maltratta nello stesso modo in cui maltratta i neri del paese.
Lucien è pigro, in una maniera quasi patologica, è un indolente e la sua indolenza si tramuta in un eccesso di prevaricazione dei bianchi verso i neri che di riflesso colpisce anche lui.
I due ruffiani lo trattano come lo zimbello della corte con conseguente perdita totale di dignità di Lucien.
Che un giorno decide di recarsi da Chavasson, il suo diretto superiore per chiedere consiglio sull’atteggiamento da tenere;l’ufficiale come risposta gli appioppa dapprima un calcio nel sedere, suscitando l’ilarità anche dei neri che assistono alla scena e subito dopo due, spiegando a Lucien che in alcuni casi occorre reagire con forza, ovvero “Quando qualcuno ti fa del male, tu gliene rifai il doppio
Durante il viaggio di ritorno incontra sul treno che lo riporta a casa la giovane maestra Anne,con la quale fa subito amicizia e alla quale dimostra in un breve dialogo, che dietro l’apparente docilità e vacuità che lo distingue sembra esserci qualcosa che cova in attesa di esplodere.
Ed è così,in effetti.
Quasi che il colloquio con il superiore gli abbia aperto nuovi orizzonti, appena tornato a casa Lucien porta i due papponi di sera in riva al fiume e sotto la minaccia di una pistola prima li costringe a cantare e poi spara loro in rapida successione.

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E’ un uomo completamente diverso ora, Lucien.
A Chavasson venuto a vedere cosa sia accaduto, mente spudoratamente dichiarando di non sapere cosa sia accaduto, non suscitando in lui alcun sospetto che lo conosce come un tipo assolutamente inoffensivo; anzi, con un abile gioco Lucien riesce a far credere in giro che Marcel Chavasson che si è vantato di aver dato ai due papponi una lezione abbia qualcosa a che vedere con la loro sparizione.
Lucien si è trasformato all’improvviso, non è più l’imbelle e indolente uomo di poco tempo prima ma nessuno se ne accorge.
Uccide a fucilate il sordido Marcaillou, che aveva picchiato un povero nero che vendeva noccioline e subito dopo va a letto con sua moglie Rose, poi insegna a quest’ultima a sparare.
La scia di sangue ormai non si interrompe più: Lucien regola i conti con un altro prepotente bianco, lo uccide e contemporaneamente uccide il povero Venerdi, un nero che sapeva troppo e a cui verrà attribuita la morte del bianco, poi assiste impassibile alla morte di Huguette e di Nono uccisi da Rose a cui ha armato la mano e che abbandona senza rimpianti al suo destino.

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E’ l’epilogo.Durante una serata danzante che si svolge in uno strano clima visto che nel mondo è scoppiata la guerra, Anne la maestrina gli confessa di amarlo ma Lucien, che non ha più l’espressione indolente e ebete stampata sul volto le risponde che non può amarla perchè impegnato a difendere con la forza gli onesti dai farabutti.
E non hai paura di ciò che può accaderti?” domanda ansiosa Anne
Paura di che?In ogni caso sono già morto da tanto tempo” risponde amaramente Lucien
La dissolvenza finale inquadra l’uomo con la pistola in mano, con un’espressione assorta sul viso mentre guarda un gruppo di bambini intenti a giocare.
Punta la pistola, prende la mira ma…
Imprevedibile, allucinante, perverso, iperbolico.
Colpo di spugna (Coup de torchon nell’edizione originale)  è un pugno nello stomaco, è un film spiazzante e irriverente, cattivo e auto distruttivo, lesionista e irreale.
Un film in cui si muovono personaggi sporchi e sudati, appiccicosi e moralmente abietti sotto il sole abbacinante dell’Africa contornati dalla popolazione indigena ridotta al ruolo di comparsa o di vittima, se vogliamo.
Vittima della prepotenza e dell’arroganza dei bianchi, della loro violenza e del loro razzismo:
Cosa vi fa credere che i negri non abbiano un anima?” chiede Lucien a Chavasson, il suo superiore, che gli risponde
Perchè praticamente i negri non sono persone
Ma allora secondo te cosa sono?”
Ma sono dei negri, soltanto dei negri e la prova è che parlando di loro non si dice che sono persone ma solo dei negri

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Il ributtante cinismo, il razzismo totale e ignorante espresso da questo breve dialogo nasconde la chiave di lettura del film, diretto da Bertrand Tavernier nel 1981, tratto da Pop. 1280, romanzo di Jim Thompson uscito in origine nel 1964.
Un film cattivissimo, a tratti incostante, a tratti volutamente oltre le righe, popolato da personaggi odiosi e amorali, antipatici, caratteristiche peculiari a cui non si sottrae nemmeno l’improvvisato giustiziere Lucien, che per quasi tutta la durata del film ha un comportamento sdoppiato.
Da un lato imbelle e vile spettatore delle nefandezze dei bianchi, dall’altro, nella parte più dura del film giustiziere e carnefice di quegli stessi personaggi che popolano la storia.
Non piacciono per ovvi motivi i due ributtanti e razzisti fratelli Le Peron, due papponi che vivono sulle spalle di giovani prostitute locali troppo povere per procurarsi il sostentamento e che saranno i primi a cadere sotto il piombo di Lucien così come abietti sono Huguette e Nono, i due amanti spudorati che vivono la loro tresca sotto gli occhi di tutti e dello stesso Lucien, all’apparenza all’oscuro della cosa che invece è conosciuta da tutti i compaesani;non può ovviamente piacere Mercaillou, il vile e manesco marito di Rose così come alla fine piace poco anche quest’ultima, che vive la sua relazione con Lucien dapprima e con Hugette in seguito e che avrà un unico sussulto d’orgoglio quando capirà che il suo amante l’ha usata per i suoi fini, uccidere la moglie e l’amante.
E alla fine non piace nemmeno il personaggio all’apparenza più pulito della storia, la maestrina Anne, che assiste senza muovere ciglio alla furia omicida di Lucien, finendo anzi per innamorarsi della parte oscura di quest’ultimo, come ampiamente mostrato nelle sequenze finali, con l’ultimo memorabile dialogo tra lei e Lucien stesso.
Un piccolo micro cosmo abietto e amorale, quindi, che vive ( e muore) tra l’indifferenza dei nativi, troppo presi dalla quotidiana lotta per la sopravvivenza e schiavizzati oltremodo dai colonialisti bianchi che hanno rubato loro la terra e in fondo anche le anime.

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Tavernier frusta selvaggiamente qua e la, senza creare nessuna alternativa morale al degrado assoluto, alla disintegrazione dei valori che avvolge come un miasma putrido tutta la pellicola.
Il film procede nevroticamente ma con una logica spietata, avvolgendo di cupo cinismo ogni cosa.
L’arroganza del potere è assoluta,totale e ad esprimerla ci sono solo personaggi che a tratti appaiono caricaturati in modo forse eccessivo.
Marcel Chavasson, il diretto superiore di Lucien, il colonnello Tramichel, appaiono come macchiette tragicomiche, non fosse per lo scenario da incubo nel quale si muovono, un colonialismo selvaggio, crudele e amorale che mostra la sua faccia in pieno sole, senza pudore e senza apparente confine.
Tavernier sceglie l’arma dell’umorismo nero, più cinico e cupo possibile.
Un film forse eccessivo, votato all’esasperazione ma un film che di certo non lascia indifferenti.
Il cinema francese degli anni 70 e 80 ha regalato spesso gioielli come questo film di Tavernier;penso a Calmos di Blier o ai film di Lelouch, Malle ecc.

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Film che spesso hanno nella provocazione, nella dissacrazione il fulcro delle loro narrazioni; Colpo di spugna assomiglia nella narrazione (come pietra di paragone,of course) al nostro Brutti sporchi e cattivi, il film disperato, metropolitano di Scola.La stessa umanità alla deriva si agita senza soluzione di continuità, senza riferimenti morali e senza modelli sociali di ispirazione. Certo, i due film sono distanti come tematiche, in uno è il proletariato urbano della metropoli che vive in condizioni miserabili, qui è la popolazione nera a farlo.
Ma i punti di contatto ci sono.
Come dimenticare i bambini neri alle prese con la sabbia del deserto, nella quale scavano per tirare fuori i vermi che mangiano avidamente e come non paragonarli ai “neri” dalla pelle bianca che vivono nelle baracche al centro della opulenta metropoli occidentale?
Come non ridere sinistramente del colonialista che entra in una latrina e se la vede esplodere sotto gli occhi uscendo poi coperto di escrementi e come non paragonarlo al sotto proletario che vive in promiscuità assoluta in una baracca accoppiandosi furiosamente mentre gli altri dormono?
L’umanità malata di Tavernier fa contemporaneamente ribrezzo e pietà.

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Colpo di spugna vive anche sulle magistrali interpretazioni del cast che Tavernier assembla.
Si va dal grandissimo Noiret, sudato, sporco e ironico, indolente e pigro eppur spaventosamente lucido nel finale apocalittico nel ruolo di Lucien alla bellssima e seducente Isabelle Huppert che ricopre con tutta la sua bravura il ruolo di Rose, passando per la bravissima Stephane Audran fino al solito immenso Marielle e in ultimo alla bella e spaesata (nel film) Irène Skobline, nel ruolo di Anne la maestrina muta testimone della lucida follia di Lucien.
Splendida la fotografia, angosciante la location, per un film che non si dimentica.

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Colpo di spugna

Un film di Bertrand Tavernier. Con Isabelle Huppert, Philippe Noiret, Stéphane Audran, Jean-Pierre Marielle, Eddy Mitchell, Guy Marchand, Irène Skobline, Michel Beaune, Jean Champion, Victor Garrivier, Gérard Hernandez, Abdoulaye Diop, Daniel Langlet, François Perrot, Raymond Hermantier, Mamadou Dioum, Samba Mone, Irénée Martin, Max Ernst, Paul Grimault Titolo originale Coup de torchon. Drammatico, durata 128 min. – Francia 1981.

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Colpo di spugna banner protagonisti

Philippe Noiret …Lucien Cordier
Isabelle Huppert … Rose Mercaillou
Jean-Pierre Marielle … Doppio ruolo di Le Peron e di suo fratello Georges
Stéphane Audran … Huguette Cordier
Eddy Mitchell … Nono l’amante di ‘Huguette
Guy Marchand … Marcel Chavasson
Irène Skobline … Anne la maestrina
Michel Beaune … Vanderbrouck
Jean Champion …Il prete del villaggio
Victor Garrivier … Mercaillou
Gérard Hernandez … Leonelli
Abdoulaye Diop … Fête Nat il servitore nero di Lucien
Daniel Langlet … Paulo
François Perrot …Il colonnello Tramichel

Colpo di spugna banner cast

Regia Bertrand Tavernier
Soggetto Jim Thompson
Sceneggiatura Bertrand Tavernier e Jean Aurenche
Fotografia Pierre-William Glenn
Montaggio Armand Psenny
Musiche Philippe Sarde
Scenografia Alexandre Trauner

Colpo di spugna banner citazioni

Tiriamo sui cadaveri che passano, a loro non da fastidio e noi ci divertiamo” (Le Peron)

Oh,ma che bel mestiere;ci sono migliaia di africani che sono morti nella Francia senza saper parlare il francese;grazie al suo lavoro impareranno a leggere il nome dei loro papa sui monumenti ai caduti” (Lucien ad Anne)

Meglio un cieco che piscia dalla finestra che il burlone che gli fa credere che sia un cesso” (Lucien a Venerdi)

Il Signore mi ha ordinato di colpire Le Péron, Leonelli, Mercaillou e Venerdi. Io non ero completamente d’accordo. Gesù Cristo“. (scritto da Lucien sulla lavagna di Anne)

Uccidere è un dovere civico, un atto di carità“.(Lucien)

Colpo di spugna banner recensioni
L’opinione di Peppe Comune dal sito http://www.filmtv.it

(…)“Colpo di spugna” (dal romanzo “Pop 1280” di Jim Thompson) di Bertrand Tavernier è un amabile pamphlet filosofico tutto costruito sull’ailare rappresentazione del labile confine tra il bene e il male, quando l’assoluta indifferenza su quelle che sono le sorti del genere umano rende, non solo largamente impunita la sistematica propagazione della morte, ma anche tollerabile la sua sardonica progettazione. Tutto è rappresentato con soave leggerezza, facendo perno sulla superba caratterizzazione di un sedicente ingenuo per portarci a guardare coi suoi stessi occhi la deriva esistenziale di un intero mondo, un mondo dove imperano la sempiterna legge del più forte la razzistica convinzione che i neri non siano delle “vere persone”, un mondo retto sulla sopraffazione impunita di pochi “notabili” bianchi, quei bianchi che hanno eletto Lucien Cordier a scemo del villaggio e che ben volentieri lo fanno assurgere a capo espiatorio di tutte le falle di sistema. Emblematiche sono le parole che Lucien rivolge ad uomo che è venuto fino a Bourkassa per sapere che fine abbia fatto il fratello : “i crimini sono tutti collettivi. Si partecipa a quelli degli altri e gli altri partecipano ai tuoi. Tuo fratello è stato ucciso da tutti. Anche da me, e forse da me più che dagli altri”. Parole che suonano come una condanna senza appello, proferite da un uomo che sembra essere seduto sull’orlo di un apocalisse imminente, intento a registrare e farsi partecipe allo stesso tempo dell’effettiva propagazione del male, a constatare l’ormai acclarata inaffettività di ogni rapporto umano. Gli indigeni sono solo delle comparse silenti, Tavernier le pone sullo sfondo, come una speranza inascoltata. (…)

L’opinione di Mauro Lanari dal sito http://www.filmscoop.it

(…) “Orribile campione della specie umana”, come lo definisce Thompson, Cordier ha una coscienza, sorniona ma lucida e radicale, della realtà.
È un cavaliere senza macchia privato della principessa da salvare e relegato a testimone impotente di un male che si diffonde già la mattina attraverso il fetore delle latrine, per poi corrodere dentro nel buio. Di fronte a tale gravità, che richiederebbe un intervento all’altezza di un Salvatore, l’unico escamotage che la natura consegna è “il dormire e il mangiare”. In particolare il gastronomico, con la parodistica urgenza del cibo, è un tema del film debordante, che asfissia la giornata dei personaggi anche negli intermezzi di maggior tensione, i quali “sono costretti” a tavola, per colazioni o pranzi o tè o aperitivi o comunque sedute che paiono indilazionabili, in qualsiasi circostanza, anche la più delicata: dopo un delitto, o un funerale, o tra un litigio e l’altro, o durante una stessa sparatoria, avvicinandoli al parossismo culinario esistenziale di Ferreri. Non c’è nulla da stimare, non c’è niente per cui valga la pena vivere, ma solo da aspettare che questo mondo avvolto dalla morte vada nella completa rovina e nel minor tempo possibile. Però, come un miraggio, la principessa arriva e, come un giglio immacolato sbocciato all’improvviso tra i rovi e le serpi, si materializza nei panni di una giovane maestra francese: Anne. È il momento di muoversi, ribellarsi e riabilitare sé stessi e il mondo fino a innalzarlo al livello di tale purezza. Ma come agire? Lucien, dando ascolto alla propria invigorita voce interiore, si sente investito da una missione assoluta, iniziando così un cammino dove tutto è messo sottosopra, tutto oscilla tra logica e follia e, in una sorta di delirio spirituale, si proclama il nuovo Ges\ù Cristo. Ma si tratta pur sempre di un Cristo impietoso e depresso, monco nelle sue qualità, più vicino all’indole di un’umanità agonizzante che a quella divina. Non esistono soluzioni nuove a cui aggrapparsi, l’unica chance è di far collassare le leggi selvagge della natura umana. Così, dopo l’ennesima umiliazione, Lucien applica in modo rigoroso, diligente, scrupoloso il suggerimento dell’autorità laica di restituire duplicato il male subito, sorta di “lex talionis” al quadrato, mentre dall’autorità religiosa apprende la lezione dell’amore verso il prossimo. Dopo aver saggiato il valore morale delle sue vittime (“Non è perché io metto la tentazione a portata di mano che bisogna forzatamente lasciarsi tentare”, “Io mi arrangio soltanto perché la gente si mostra tale quale è”…), puntualmente le elimina in nome dell’amore e di Dio.
La morte sembra essere l’unica reale alleata dell’umanità e l’unica soluzione efficace nel teatrino tragico: “Uccidere è un dovere civico, un atto di carità”. Ma il compito che egli si è prefisso si rivela alla fine utopico, titanico quanto impossibile: “Non ne posso più di essere il solo a espiare unicamente per aver fatto quello che la gente voleva che facessi e che non ha il coraggio di fare”. Perciò, dopo un improbabile ballo con Anne, nell’atmosfera paradisiaca di una piazza addobbata a festa per l’entrata in guerra, di fronte al moltiplicarsi dei bambini nella sequenza finale, cioè alla reduplicazione incontrollabile e inarrestabile della vita malefica così com’è, un Lucien ormai fiaccato getta la spugna e non sa più cosa fare, se dirigere la pistola verso i bambini oppure verso se stesso, in un'”impasse” apparentemente definitiva.

L’opinione di buiomega71 dal sito http://www.davinotti.com

(…) Immerso in situazioni grottesche che rasentano la commedia più ludica (il bagno nella merda del signorotto locale), con schegge improvvise di devastante violenza (le esecuzioni a freddo dei due macrò, la fucilata improvvisa al marito manesco e ubriacone, il tiro a segno ai cadaveri dei neri che galleggiano sul fiume, il finale con la Huppert che spara e fà un massacro nella sua stanza da letto), un erotismo sudaticcio e carnale (la Huppert quasi sempre nuda e vogliosa, la Audran milfona, con bigodini, calze nere e ciabattine col tacco)
Momenti assoluti di gran cinema: L’eclisse iniziale, il cinema all’aperto che viene devastato da una violenta folata di vento(altro che Nuovo Cinema Paradiso!), la steadycam che segue di spalle la Huppert dalla strada, alle scale, fino alla cucina dove fà colazione Noiret, e l’agghiacciante finale dove Noiret punta la pistola sui bimbi neri che giocano nel deserto.
Tavernier sà fare gran cinema, mischia erotismo ruspante, commedia nera, esecuzioni lampo e feroci, dialoghi (moltissimi) taglienti e cinici oltre ogni dire, la semplicità del male nascosta nel volto e nelle movenze paciose di un Noiret in stato di grazia.
Splendida la fotografia di Pierre-William Glenn, e lo score di Philippe Sarde sottolinea beffarda la straniante e grottesca serie di eventi.
Forse qualcosa andava sfrangiato (il film dura 123 minuti)e quà e là si gira a vuoto (troppo lunga la scena del biliardo e alcune macchiette da commediaccia- tipo i calci nel sedere a Noiret-potevano essere evitate), ma rimane un film che non assomiglia a nessun altro. Vitale, carnale dove la morte sorride a denti stretti.

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Colpo di spugna incipit romanzo

Recensione del romanzo di Thompson dal sito http://www.carmillaonline.com

(…) Ambientato nei primi anni del novecento, “Colpo di spugna” racconta la storia di Nick Corey, lo sceriffo di Potts County, una piccolissima comunità del Texas occidentale. Fin dalle prime pagine, Corey viene presentato alla stregua di un imbecille: tiranneggiato dalla moglie megera, dileggiato dai concittadini, è sbeffeggiato anche dallo sceriffo Ken Lacey. Affiorano alcuni dubbi, sospetti concreti che il fratello ritardato della moglie non sia un consanguineo ma bensì un amante segreto dalle impressionanti doti virili. Sulle prime, Nick Corey appare un tonto fenomenale, o almeno fino al momento in cui non ammazza a sangue freddo due ruffiani: si tratta di un atto di violenza feroce e insensato, che al tempo stesso spiazza e sconcerta il lettore. E ancora: sorpreso Tom Hauck, un uomo con cui ha un conto in sospeso, Nick lo sventra con due colpi di fucile. Ma allora chi è veramente lo sceriffo Corey? Una scaltra mente criminale che si nasconde ostentando stupidità? Ammazza ancora Nick e spinge anche gli altri a farlo per lui. Mente, mette i propri nemici l’uno contro l’altro, li caccia nei pasticci, li costringe a commettere errori. Progressivamente Nick si svela per quello che è: un assassino spietato e amorale. «Cosa ti è successo? Quando sei diventato così?» chiederà nelle battute finali Rose, una delle sue amanti. Il racconto è scritto in prima persona, secondo il modulo narrativo privilegiato da Thompson, ed è quindi la stessa voce interiore di Nick che tenta di spiegare, di dare alle proprie azioni quel senso che non sembrano avere. La citazione più famosa del romanzo è quella in cui Nick dice: «Così ci pensai e ci ripensai, e poi ci pensai ancora un po’. E finalmente presi la decisione. Decisi che non sapevo che cavolo fare». Ma a proposito dell’omicidio dei due ruffiani e lo stesso Nick a dire: «C’erano un sacco di cose, quasi tutte insomma, per le quali non potevo fare niente. Però, invece, potevo fare qualcosa con loro, e alla fine … alla fine ho fatto qualcosa». Non è qualcosa, ma è la concezione stessa che Thompson ha dell’omicidio: in un mondo privo di qualsiasi opzione etica, uccidere resta l’unica possibilità di agire. Alla fine il discorso di Nick assumerà, più che un tono messianico, la forma di un vero e proprio delirio schizoide: «Devo andare avanti a fare il lavoro del Signore, e Lui non ha fatto altro che indicare, scegliere la gente sulla quale io devo sfogare la sua rabbia». In realtà, c’è qualcosa di ineluttabile e inevitabile, una sorta di legame di necessità che unisce vittima e assassino. Per Nick, la debolezza è di per sé una colpa e la vittima è colpevole quanto il suo uccisore: «voglio dire, be’ cos’è peggio, il tipo che sporca di merda la maniglia della porta o quello che suona il campanello?». Perché nessuno è innocente o moralmente sano nella contea di Potts: gli abitanti sono talmente razzisti che, quando qualcuno appicca il fuoco alle baracche del quartiere nero, i cittadini importanti si preoccupano soltanto che i “loro” neri non vengano spaventati troppo. Nel caso fuggissero non rimarrebbe più nessuno per raccogliere il cotone. Del resto, anche le relazioni sociali appaiono improntante al mero formalismo e alla più meschina ipocrisia. «Be’, sai. Adesso sei ufficialmente una vedova e non mi sembra decente andare a letto con una donna vedova da neppure un’ora» dice Nick a Rose, dopo averle ucciso il marito. Si tratta del cuore rurale degli Stati Uniti, di quella grande provincia del Mid West che Thompson ha più volte rappresentato come meschina, marcia e bigotta. Anche ciò che dovrebbe avere la parvenza di un sistema giudiziario non è che un ulteriore conferma della cronica stupidità che affligge gli abitanti di Pottsville: «invece di lavorare la gente perde tanto di quel tempo a linciare altra gente e spende tanti soldi in corde e petrolio che non gli rimane più tanto di quel denaro o di ore lavorative per scopi pratici».(…)

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gennaio 11, 2015 Posted by | Drammatico | , , , , , , , | Lascia un commento

Acque profonde (Eaux profondes)

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” Non credo di aver tradito Patricia Highsmith. Il libro e il film non sono lo stesso oggetto, hanno un percorso e un destino diverso. Una cosa è un libro, un’altra il film. Sono nati uno e l’altro in tempi diversi, possiamo dire che la genesi è differente. Non hanno lo stesso oroscopo. Se c’è manipolazione nei miei film non è colpa mia. Quando scrivo la sceneggiatura il gioco inizia, mi lascio andare. I miei personaggi mi chiedono di cambiare e io lo faccio.Istintivamente.”
Con queste parole Michel Delville parla della riduzione cinematografica del romanzo Eaux profondes di Patricia Highsmith dal quale nel 1981 il regista francese trae questa affascinante opera, lasciando inalterato il titolo ma modificando profondamente la psicologia dei personaggi.
Un film che sembra un sottile gioco psicologico tra due personaggi, marito e moglie e il gruppo di vicini e amici con i quali interagiscono, che però fanno da contorno visto che i coniugi assumono da subito un’importanza capitale che spinge lo spettatore a cercare motivazioni sul loro strano comportamento.

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E infatti è proprio la natura del comportamento dei due coniugi a ben vedere la parte più intrigante del film; il misterioso rapporto tra i due,l’alchimia che c’è tra loro, il gioco perverso che li unisce ma al temo stesso li distingue è una cortina fumogena che Delville esalta fino a rendere la vita coniugale un rebus fatto di tradimenti presunti, di seduzione e alla fine, quando meno te lo aspetti, di morte.
Victor è un creatore di profumi con l’hobby di coltivare lumache ed è sposato con Melanie, una giovane e apparentemente frivola donna con la quale ha avuto una bambina che ora ha dieci anni.
I due vivono nell’isola di Jersey, dove sono ben integrati e hanno una vita sociale intensa.
Che però è alimentata molto più da Melanie che da Victor; è la donna ad essere attratta e affascinata dalla vita sociale, specialmente dagli uomini, con i quali civetta in modo addirittura sfacciato, sotto gli occhi inespressivi del marito che non sembra ferito da questi comportamenti della donna.

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Sembra un gioco crudele quello che Melanie opera ai danni del marito, ma le cose stanno veramente così?
Man mano che il film si inoltra nel tempo, il sottile e perfido gioco assume connotazioni molto più complesse; da un lato vediamo Melanie sedurre uno dopo l’altro alcuni giovani conoscenti dall’altro vediamo Victor sempre impassibile; nel suo sguardo non riusciamo a cogliere la realtà dei suoi sentimenti.
E’ ferito dal comportamento della moglie?
Sembrerebbe di si, perchè ad un certo punto le cose cambiano.
Dopo aver messo in guardia gli spasimanti di Melanie,dicendo loro che per la moglie è disposto ad uccidere ( e che lo ha già fatto) all’improvviso Victor agisce mettendo in pratica i suoi ammonimenti.
Annega nella piscina proprio uno di questi e da quel momento le cose cambiano…
Cambiano anche per lo spettatore che inizia a prendere sul serio Victor, personaggio che fino a quel momento è risultato essere un autentico enigma.

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A quanto pare la sua apparente docilità nasconde emozioni forti, la sua imperturbabilità è solo di facciata.
Quello che sembrava fino a quel punto un crudele gioco messo in scena dalla volubile Melanie è qualcosa di ben più complesso e forse anche perverso.
Può essere che sia un gioco tra le parti, ovvero che sia Melanie che Victor si comportino nei loro rispettivi modi per un sottile e perverso gioco destinato a tener vivo il rapporto tra la coppia?
Può essere che Melania faccia la femme fatale solo per accontentare il voyeurismo del marito e che costui sia ben felice della cosa?
Lo sapremo, forse,solo alla fine, quando nelle ultime scene accade qualcosa che ovviamente non racconto per non guastarvi la sorpresa.
Si, perchè Acque profonde è un film straordinario, che va guardato fotogramma per fotogramma e che anche dopo la fine lascia un senso di irrisolto che però non deriva dalla qualità del racconto bensi dal bivio in cui le strade divergono ed ognuno è libero di scegliere la strada che preferisce.
Delville ci porta ad un finale enigmatico (fino ad un certo punto però) attraverso un film psicologico il che non significa sbadigli o noia, tutt’altro.

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Il regista di Boulogne-Billancourt è un fine indagatore, ironico e sottilmente sarcastico, fine ed elegante, come del resto aveva mostrato nei film fino ad allora diretti, ultimo dei quali Un dolce viaggio,girato prima di questo splendido Acque profonde.
La stessa eleganza formale unita a tanta, tanta sostanza la ritroviamo quindi in questo film, che parte quasi come una commedia, diventa un dramma e vira verso il thriller finendo nuovamente come un dramma.
Davvero da premi Oscar poi le interpretazioni dei due attori protagonisti, Isabelle Huppert e Jean-Louis Trintignant; con la Huppert Delville girerà un altro bellissimo film La lettrice.

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Come racconterà Delville in un’intervista,” Isabelle Huppert e Jean-Louis Trintignant non avevano mai lavorato insieme e presto sorse tra loro una complicità che era assolutamente necessaria per la credibilità del film. D’altra parte, mi piacciono i giocatori intuitivi . Con questi, non c’è bisogno di spiegazioni o lunghe ripetizioni . Ho fatto in modo di catturare la loro viva spontaneità di espressione
La coppia funziona in maniera perfetta e dona una credibilità del tutto particolare al film, che si avvale inoltre di una splendida fotografia e di una location piena di fascino.
Un film davvero bello.
Del quale esiste una versione italiana, purtroppo di difficilissima reperibilità in rete.
Un film da guardare, da assaporare, da amare.

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Acque profonde
Un film di Michel Deville. Con Jean-Louis Trintignant, Isabelle Huppert Titolo originale Eaux profondes. Giallo, durata 94′ min. – Francia 1981.

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Jean-Louis Trintignant … Vic Allen
Isabelle Huppert … Melanie
Sandrine Kljajic … Marion
Éric Frey … Denis Miller
Christian Benedetti … Carlo Canelli
Bruce Myers … Cameron
Bertrand Bonvoisin … Robert Carpentier
Jean-Luc Moreau … Joël
Robin Renucci … Ralph
Philippe Clévenot … Henri Valette
Martine Costes … La mamma di Julie
Evelyne Didi … Evelyn Cowan
Jean-Michel Dupuis … Philip Cowan
Bernard Freyd … Havermal

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Regia Michel Deville
Soggetto Patricia Highsmith
Sceneggiatura Florence Carez sotto lo pseudonimo Florence Delay, Michel Deville, Cristopher Frank, Patricia Highsmith
Produttore Denis Mermet
Fotografia Claude Lecomte
Montaggio Raymonde Guyot
Musiche Manuel de Falla

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L’opinione del Morandini

Nell ‘isola di jersey (Normandia) Vic, dirigente di un’impresa di profumi, è tradito in modo aperto dalla moglie Mélanie che adora finché uccide un suo amante. Il delitto passa per morte accidentale. Ne uccide un altro, ma l’inchiesta si arena. Sotto gli occhi della loro bambina, che assiste ai loro giuochi perversi, i due tornano a vivere insieme. Scritto da Florence Delay, Christopher Frank e da M. De Ville, tratto dal romanzo Deep Water (1957) di Patricia Highsmith. Regia rigorosa, di raffinata morbidezza. J. Trintignant inquietante, I. Huppert magistrale come donna di infantile crudeltà.AUTORE LETTERARIO: Patricia Highsmith

L’opinione del sito http://www.filmtv.it

Tratto da un romanzo di Patricia Highsmith il film di Deville è denso di sfumature e assolutamente non banale.

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Vic non ballava mai, ma non per le ragioni che di solito si danno gli uomini che non ballano. Vic non ballava mai semplicemente perché a sua moglie piaceva molto ballare. Cercava di razionalizzare questo suo atteggiamento, ma senza riuscirci, senza riuscire a convincere se stesso nemmeno per un istante, anche se ci provava tutte le volte che vedeva Melinda ballare. Sua moglie era insopportabilmente stupida, quando ballava. Riusciva a fare del ballo una cosa imbarazzante.
Melinda entrava e usciva piroettando dal suo campo visivo, ma lui se ne rendeva conto molto vagamente. Sapeva che si trattava di lei solo per via della familiarità che aveva con ogni minimo dettaglio della sua persona fisica. Alzò con calma il bicchiere di scotch allungato con acqua e lo sorseggiò. Sedeva scomposto, con un‟espressione neutra in faccia, sulla panca imbottita che seguiva i contorni del montante delle scale dei Meller, con gli occhi fissi sul movimento dei ballerini, e intanto pensava che quella sera, appena tornato a casa, sarebbe andato a dare un’occhiata alle cassette di erbe che teneva in garage, per vedere se fossero spuntate le digitali. Stava coltivando parecchi tipi di erbe: ne reprimeva la crescita privandole di metà della luce e dell‟acqua di cui avevano bisogno, allo scopo di intensificarne l‟aroma. Tutti i giorni all‟una, quando tornava a colazione, metteva le cassette fuori al sole, e tornava a riporle nel garage alle tre, prima di andare alla tipografia.
Victor Van Allen aveva trentasei anni, era di statura leggermente inferiore alla media, tendeva a una soda e diffusa rotondità piuttosto che alla pinguedine, e aveva un paio di sopracciglia folte e crespe che sporgevano sopra gli occhi azzurri dall‟espressione innocente. I capelli castani erano lisci, tagliati molto corti, e, come le sopracciglia, folti e tenaci. La bocca era di grandezza normale, ferma, l‟angolo destro solitamente piegato all‟ingiù in un‟espressione di asimmetrica risolutezza o di umorismo, a seconda di come si sceglieva di interpretarla. Era quella bocca a rendere ambigua la faccia di Vic perché era facile scorgervi una certa amarezza, anche dato che gli occhi azzurri, grandi, intelligenti e impassibili non lasciavano assolutamente capire cosa pensasse o sentisse.

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Acque profonde Michel Deville

Michel Delville,regista del film

Acque profonde Patricia Highsmith

Patricia Highsmith,scrittrice del romanzo

dicembre 13, 2014 Posted by | Drammatico, Thriller | , , | 3 commenti

Storia di Piera

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Il percorso di vita della piccola Piera, che nasce, cresce e diventa donna in una famiglia lontanissima dai canoni tradizionali; suo padre è un attivista politico del Pci, innamoratissimo della moglie Eugenia, che però, pur amando il marito, sembra affetta da pulsioni inafferrabili.
La donna ha una morale pressochè inesistente, non concepisce la fedeltà coniugale, forse perchè profondamente immatura o forse solo incapace di rispettare i limiti imposti dalla morale;Eugenia infatti svolazza di quà e di la perennemente insoddisfatta, sempre pronta a cedere alle tentazioni della carne.
La vediamo entrare nei letti di una pletora di sconosciuti, seguita come un’ombra dalla piccola Piera che man mano che avviene il processo naturale della crescita,sceglie la propria strada diventando una cantante di successo.
Poi dopo molti anni, la parabola della strana famiglia arriva alla parte fatale, quella in cui i protagonisti diventano anziani:il padre di Piera perde quasi il lume della ragione, consumato sia dall’amore per la folle moglie sia per la dolorosa scoperta di non aver mai potuto sfiorare l’anima di una donna inquieta e posseduta da strani demoni esistenziali come Eugenia.

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E’ in manicomio che quindi si consuma il dramma dell’uomo, che in un momento di lucida follia sussurra qualcosa a sua figlia Piera, chiedendole probabilmente di mostrare le sue parti intime, quasi volesse cercare nella figlia il ricordo della moglie tanto amata.
E Piera poi dovrà assistersi alla triste parabola discendente della madre, ormai anch’essa preda della follia: è in riva al mare che Piera, nuda come sua madre, capirà di essere diventata non la figlia ma una guida, quasi una madre della sua genitrice.
E abbraccerà in un tenero momento quella donna mai cresciuta e rimasta in un limbo impenetrabile e incomprensibile agli altri.
Storia di Piera è un film di Marco Ferrei, molto differente dai suoi precedenti perchè il regista questa volta sceglie di trasferire il suo sguardo indagatore sulla sfera privata dei sentimenti.
Ma da regista anticonvenzionale qual’è sceglie di raccontare non una storia qualsiasi, ma quella di una famiglia in cui i valori tradizionali sono ribaltati; non esiste una morale e se c’è va adeguata alle necessità quasi animali della protagonista assoluta, Eugenia, madre di Piera che dovrebbe essere se non l’io narrante quanto meno il fulcro della storia.
Invece tutto passa attraverso le gesta di una donna potentemente, quasi totalmente irrazionale, preda di pulsioni incontrollabili (quanto lo sono e quanto invece Eugenia le sfugge?) che vive una vita assolutamente e straordinariamente amorale, che attraverso il sesso e una follia imprendibile vaga di persona in persona, farfalla edonistica e libera che svolazza su un mondo che la circonda appena descritto.

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Ferreri non usa la sferza per castigare o sbeffeggiare la società come in La grande abbuffata; in Storia di Piera costruisce un quadro quasi intimista, delicato nonostante l’argomento fortemente scabroso trattato.
Dall’omonimo libro di Piera Degli Esposti e Dacia Maraini e con sceneggiatura delle stesse scrittrici Ferreri trae un’opera sostanzialmente fedele al racconto limitandosi a trasferire l’azione da Bologna alle terre attorno a Latina e Sabaudia, svuotandole di persone e elevando le figure di Piera e Eugenia ad assolute protagoniste e lasciando la figura del padre di Piera volutamente fuori quadro, quasi fosse un personaggio di contorno vittima di una donna come Eugenia che con la sua personalità si potrebbe dire asociale schiaccia la figura maschile, in una prepotente affermazione dell’essere donna.
L’immobilità quasi ascetica delle scene finali delle due protagoniste,quel loro essere sole su una immensa spiaggia deserta, con Eugenia e Piera sole e nude che si abbracciano quasi a scambiarsi i ruoli, in cui Eugenia ormai preda della follia sembra ritornare allo stato infantile segna il momento cruciale della storia.
Piera è diventata adulta, ha fatto le sue scelte e la sua vita ed ora diventa madre, madre di sua madre:la parabola è conclusa, il cerchio si chiude.
Il sax di Stan Getz suona quasi malinconico come sotto fondo di una storia in cui predominano immagini quasi shock, come l’incesto più che sottinteso nella sequenza fondamentale in cui Piera si reca a trovare suo padre che le chiede di spogliarsi, per cercare in lei il ricordo di sua moglie o le sarabande erotiche che Eugenia rincorre quasi fosse preda del demone della lussuria o semplicemente usasse la stessa per affermare se stessa.O forse solo perchè la sua natura è quella, profondamente legata alle radici animali della vita.

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Tornando alla scena fondamentale per l’economia del film, quella in cui Piera e suo padre si scambiano un bacio nient’affatto usuale, un bacio in cui il padre sembra quasi dimenticare che quella splendida donna seduta accanto a lui è sua figlia, bene quella sequenza svela il senso profondo dell’amore disperato del padre per sua madre.”Quelle di Eugenia sono più belle“, dice in tono malinconico l’uomo, guardando le gambe di Piera.
Quella di mia madre è meglio?” chiede in tono volutamente provocatorio Piera, sollevandosi la gonna e mostrando le parti intime, nude, a suo padre.”Non sono riuscito mai a soddisfarla“, dice l’uomo e subito dopo, con tenerezza dalla quale è sparito l’elemento erotico, i due tornano ad essere padre e figlia, consapevoli entrambi che la loro vita è stata e sarà condizionata per sempre da quella donna inafferrabile e sfuggente che è Eugenia.
Forse la frase più importante e rivelatrice è quella che dice Eugenia mentre è a letto con uno dei suoi tanti amanti, Massimo, che la maltratta mentre lei vien fuori con una frase urlata, sotto gli occhi di Piera:”Nessuno mi ama come dico io
Il film è dominato in lungo e in largo dalla straordinaria interpretazione della musa di Fassbinder, Hanna Schygulla, che restituisce allo spettatore tutto il senso della follia del personaggio di Eugenia; l’attrice convince tutti, critica e pubblico e merita così il premio per la miglior interpretazione femminile a Cannes.

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Bravissima anche Isabelle Huppert nel ruolo di Piera mentre piuttosto defilato, in una storia in cui predominano i due personaggi femminili è Marcello Mastroianni.
Bella la fotografia, belle e silenziose le location in un film che potrà non piacere per i dialoghi o per la figura quasi schizofrenica di Eugenia o per il ruolo di Piera ma che resta storia affascinante nel suo tratteggiare due figure potentemente anticonformiste.
Il film è disponibile in streaming, in un’ottima riduzione al link http://www.nowvideo.sx/video/2d273f502def1

Storia di Piera
Un film di Marco Ferreri. Con Isabelle Huppert, Marcello Mastroianni, Hanna Schygulla, Fiammetta Baralla, Angelo Infanti, Tanya Lopert, Laura Trotter, Serena Bennato, Maurizio Donadoni, Cristina Forti, Loredana Berté, Piera Degli Esposti, Aiché Nana, Bettina Gruhn, Lidia Montanari Drammatico, durata 101′ min. – Italia 1983. –

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Isabelle Huppert: Piera
Hanna Schygulla: Eugenia
Marcello Mastroianni: Lorenzo, padre di Piera
Angelo Infanti: Tito/Giasone
Tanya Lopert: Elide
Bettina Grühn: Piera da bambina
Lidia Montanari: Centomila lire
Laura Trotter: giovane levatrice
Aïché Nana: veggente
Loredana Bertè: sé stessa

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Regia Marco Ferreri
Soggetto Piera Degli Esposti, Dacia Maraini
Sceneggiatura Piera Degli Esposti, Dacia Maraini
Produttore Erwin C. Dietrich, Luciano Luna, Achille Manzotti
Fotografia Ennio Guarnieri
Montaggio Ruggero Mastroianni
Musiche Philippe Sarde

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L’opinione di Lor.cio dal sito http://www.filmtv.it

Da un libro-intervista in cui quel mostro d’attrice di Piera Degli Esposti si confidava con Dacia Maraini, Marco Ferreri ha cavato un film discutibile. Incentrato principalmente sulla figura della madre di Piera, figura incarnante la totalità disinteressata e candida, voluttuosa e travolgente dell’Amore, interpretata da una grande Hanna Schygulla, è soprattutto il racconto di un gruppo di famiglia atipico visto dagli occhi della giovane Piera, filtrato attraverso la sensibilità dura della ragazza immersa nel proprio percorso di formazione, influenzato irrimediabilmente dall’immagine di questa madre assoluta, invadente, ingombrante. È, quindi, un complesso ritratto femminile che si articola apparentemente su due voci, ma che è in realtà un romanzo per voce sola che in teoria avrebbe dovuto narrare una valanga di cose. Alla fine il film risulta lento e poco fluido, troppo ellittico e qua e là un po’ sciupato, e probabilmente Ferreri non era il regista più adatto alla versione cinematografica di una confessione così intima e smarrita, troppo impegnata all’autocompiacimento dei corpi nudi e del sesso (vera ossessione del regista) per dimostrare la stessa attenzione a tutto ciò che si muove nell’interno di Piera. Forse s’identifica con il padre, a cui Mastroianni conferisce certi toni vellutati molto malinconici. Certo è che non è il suo film migliore, e Loredana Bertè che intona la struggente Sei bellissima è una meteora. D’altro canto, bella la calda rappresentazione dei luoghi, infedele (la storia originale è bolognese, il film si svolge nell’arida Latina) ma adeguata.

L’opinione di will kane dal sito http://www.filmtv.it

Femmina e Maschio nel cinema di Ferreri si scontrano e si rendono conto che è impossibile arrivare a un punto in cui qualcuno non ci lasci le penne,metaforicamente e no:quasi sempre la Donna l’ha vinta sull’Uomo,e l’autore ne fa uno dei cardini della sua opera.”Storia di Piera”,tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Piera Degli Esposti,è uno degli ultimi lavori di Ferreri accolti bene dal pubblico, e un film che all’epoca della sua uscita fece discutere.Ci sono lungaggini non indifferenti,il quadro di Affetto che non basta però a spuntarla sull’istinto distruttore dell’umanità ferreriana ha a tratti una delicatezza senza pari,e gli interpreti aiutano,pur se lasciati,come al solito,a briglia sciolta,dando ai personaggi una naturalezza molto sentita,pur trovandosi spesso in situazioni al limite del morboso.Hannah Schygulla,figura materna dalla testa matta e dagli istinti insopprimibili è la protagonista vera e propria del racconto,Isabelle Huppert,che entra nel film dopo tre quarti d’ora,rimanendoci per un’ora,ha la misura e il carisma d’attrice necessari,e Mastroianni fa un dolente intellettuale che non sa gestire le cose.Chiusa su un abbraccio su una spiaggia tra madre e figlia ,quasi a simboleggiare un’utopia regressiva di azzeramento o una natività tardiva,il film ha momenti belli e altri più irritanti.Ma Marco Ferreri da Milano,barbuto senza baffi,era un poeta sincero.

L’opinione di amterme dal sito http://www.filmscoop.it

E’ senz’altro il film più coraggioso di Ferreri, quello che più facilmente può essere frainteso.
Fin dai primi film Ferreri ha sempre disegnato modelli di convivenza civile, in genere astraendo dalla realtà e proponendo modelli che riflettevano gli umori del presente o i disegni per un probabile futuro. Questo film in particolare si situa nella temperie culturale degli inizi degli anni ’80, nel momento di massima intensità del movimento di liberazione etica individuale, prima dell’arrivo dell’ondata moralizzatrice che stiamo vivendo tuttora. Il disegno/desiderio di poter vivere ed esprimere nella massima libertà tutto quello che è amore pacifico e consenziente, calore e contatto umano, senza prigionie di legami sociali o rigide norme morali arrivò allora al punto di poter immaginare una storia in cui pedofilia e incesto potessero essere visti come qualcosa di normale e non negativo.
Questo film disegna una piccola utopia di nuova “famiglia” o vita affettiva in cui non ci siano divieti di nessun genere all’amore, purché sia voluto e partecipato. Si vuole dimostrare che c’è amore, sentimento, coinvolgimento molto forte anche nella scoperta dell’eros da parte di un(a) adolescente nel suo rapporto con il mondo degli adulti, come pure il legame affettivo molto forte e sentito nei confronti dei genitori che non conosce alcun tipo di barriera.
L’accento è sulla parte sentimentale interiore, infatti in tutto il film non c’è nessuna scena scabrosa, morbosa e non è assolutamente un film volgare o disgustoso. Anzi è un film a volte molto delicato e intenso.
Il limite più evidente è l’astrazione quasi completa dalla realtà. La storia si svolge come fosse reale (è addirittura ambientata a Sabaudia) ma in verità taglia quasi tutto quello che è spiacevole o contrario. Il fatto è che una vicenda del genere non avrebbe mai potuto svolgersi in maniera così pacifica e tollerata. Assolutamente. E’ ovvio che tale esclusione del negativo è voluta, è come poter osservare un esperimento in vitro per dimostrare che può esistere e svolgersi se non gli si pone ostacoli.
La storia è tratta da un libro scritto da Dacia Maraini e da Piera degli Esposti (mica persone qualunque!) ed è tradotto su pellicola con stile francese (non va dimenticato che Ferreri è il più “francese” dei registi italiani della fine del XX secolo). Questo stile prevede di seguire gli avvenimenti dal punto di vista dei sentimentali interiori dei personaggi, astraendo da tempo, luogo e azione. Si assiste ad una serie di fatti banali, a volte insignificanti che si succedono senza apparenti legami logici fra di loro. La progressione è dettata esclusivamente dalla conoscenza e dall’espressione di sentimenti. Noi del 2010 abbiamo perso l’abitudine a questo metodo di rappresentazione basato sull’interiorità e quindi facilmente ci si smarrisce, ci si annoia e non si raccoglie niente da ciò che vediamo.
L’opinione di Cotola dal sito http://www.davinotti.com

Il più audace dei film di Ferreri (che in quanto a coraggio non ha mai scarseggiato) racconta la storia di una bizzarra famiglia e dei rapporti intercorrenti tra i suoi membri ed in particolare su quelli tra Piera (bambina già adulta) e la madre (donna dalla grande e folle vitalità) il cui amore l’una per l’altra è sincero e molto forte. Ne viene fuori una storia molto particolare e “scandalosa” che pur con qualche pausa di troppo, vive intensi momenti di lirismo e riesce così ad emozionare lo spettatore. Grande prova della Schygulla.

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Incipit libro

PIERA. Ecco, questa è la fotografia di mia madre, hai visto? così giovane, così imbronciata. Mi fa l’effetto di una persona morta, anche se lei è molto presente in me. Quel suo modo di tirarmi per la mano, non per affetto, come quando mi tirava le trecce forte forte.

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febbraio 19, 2014 Posted by | Drammatico | , , , | Lascia un commento

Violette Noziere

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Violette Noziere è una giovane parigina diciottenne, che vive la sua esistenza in una famiglia borghese e tranquilla.
Lei però tranquilla non lo è affatto.
Ad onta dell’affetto che sua madre Germaine nutre per lei e nonostante la figura rassicurante di suo padre Baptiste,Violette sente di voler ben altro dalla vita.
In realtà Baptiste non è suo padre, perchè sua madre Germaine l’ha concepita in una relazione extra coniugale con un banchiere e questo Violette lo sa.
Difatti ricatta suo padre e con il denaro che raccoglie si da alla bella vita nel quartiere latino.
Ha anche diversi amanti ai quali si concede per soldi salvo poi mantenere un gigolo, Jean Davin, che a lei piace e che è perennemente senza denaro.

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Ma i soldi non bastano mai e poichè Violette è anche una ragazza quasi amorale, che detesta la figura del padre surrogato Baptiste,che invece le vuole bene e appare forse troppo debole nei suoi confronti,decide di passare all’azione per eliminare i suoi genitori e ereditare i loro beni.
Violette utilizza un sonnifero per uccidere i genitori, ma a morire è il solo Baptiste;Germaine sopravvive e Violette, incolpata dell’omicidio del padre finisce in galera e processata.
Il processo diventa un avvenimento nazionale e poichè la ragazza risulta anche particolarmente antipatica sia per il carattere sia per la condotta di vita scandalosa finisce per essere condannata a morte.
Siamo nei primi anni trenta e la ghigliottina, strumento di giustizia risalene alla rivoluzione francese non viene usata per giustiziare le donne.
Il presidente francese Lebrun commuta la pena in un ergastolo, poi il maresciallo Petain la riduce a 12 anni mentre dopo la liberazione De Gaulle la fa scarcerare rimuovendo anche il divieto di soggiornare in carcere.
Dopo la detenzione, durata 12 anni, quindi avendo scontato la pena, Violette sposa una guardia carceraria e dal matrimonio avrà 5 figli.

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Basandosi sulla vera storia di Violette Noziere e sul romanzo a lei dedicato da Jean-Marie Fritère,Claude Chabrol ricava, nel 1978, un film sobrio ed elegante che ripercorre la vita di Violette Noziere, che tanto scalpore sollevò nell Francia degli anni trenta sopratutto per quello che emerse durante il processo che subì per aver tentato di avvelenare i genitori, riuscendo solo in parte nel suo scopo.
Il regista francese evita di prendere posizione sulla controversa figura della giovane omicida,limitandosi ad esporre i fatti e senza emettere giudizi morali.
Ne vien fuori così un film quasi documentaristico,che rispecchia la figura di Violette così come emerse in tutta la sua drammaticità nel corso del processo a cui fu sottoposta la ragazza nel 1933, quando aveva appena 18 anni.
Nella realtà storica il processo si concluse nel 1934 e appassionò la Francia per i torbidi retroscena che mersero durante la fase dibattimentale;Violette infatti accusò il suo defunto padre Baptiste di averla violentata sistematicamente da quando aveva 12 anni e accusò di conseguenza sua madre di aver sempre saputo cosa accadeva tra le mura domestiche ma di aver sempre taciuto per viltà e quieto vivere.

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La relazione con Davin, la sua condotta scandalosa, la sua antipatia e la reputazione dubbia che la accompagnarono durante il processo non le giovarono.
La ragazza infatti fu accusata di aver tentato il duplice omicidio solo per impossessarsi dei beni dei genitori e di conseguenza condannata a morte, condanna che non venne applicata per i motivi che ho raccontato prima.
Chabrol quindi ripercorre l’ultimo periodo della vita di Violette prima dei tragici fatti che la videro coinvolta, raccontando la sua relazione con Davin, gli squallidi incontri a pagamento e mostrando Baptiste come un uomo debole e sottomesso che per lei aveva un debole ma non certo di natura sessuale.
Quale che fosse la verità nella torbida storia,il film sembra non volerla o quanto meno non poterla appurare.
Le versioni antitetiche emerse nel processo non permettono un giudizio definitivo e quindi Chabrol resta sul vago, limitandosi ad esporre i fatti con un film elegante ma forse alla fine privo di una sua vera anima.
Ma a mantenere alto l’interesse c’è in primis la storia di Violette e sopratutto la splendida interpretazione della sua figura fornita da Isabelle Hupert, un’attrice capace di dare enorme spessore a tutti i personaggi che ha interpretato nel corso della sua lunga carriera.Candida e allo stesso tempo torbida,finta ingenua e al tempo stesso diabolicamente perversa,la Hupper fornisce una versione della figura della Noziere in perfetta linea con quanto richiestole da Chabrol.
Alla fine Violette resta un personaggio indecifrabile, così come quello reale, storico emerso dal processo.
Il finale del film rispecchia perfettamente la realtà dei fatti e,colpevole o no, Violette Noziere espiata la sua pena finirà per diventare una moglie ed una madre esemplare.
Fino al termine della sua vita, cessata all’età di 51 anni.
Film elegante, con una splendida fotografia e scorrevole, nonotante le oltre due ore di durata; Chabrol bada all’essenziale e il suo film si trasforma di riflesso in una descrizione ambientale molto accurata della Parigi degli anni trenta, della vita affascinante e sordida allo stesso tempo del quartiere latino, della morale imperante all’epoca; ottimi anche i protagonisti di contorno, come la bravissima Stephane Audran che interpreta Germaine e Jean Carmet che interpreta il padre della ragazza.

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Per la cronaca, la figura di Violette Noziere divise nettamente in due l’opinione pubblica francese;la parte intellettuale della società la vide come un esempio di ribellione alle regole borghesi e ne fece un emblema della liberazione sessuale e della liberazione dalla morale considerata ipocrita della famiglia tradizionale.
Poeti come Eluard o Breton le dedicarono scritti e poesie e numerose furono le biografie che tentarono di portare alla luce la vera figura della giovane parigina.
Non mi risultano esistere versioni in italiano disponibile del film mentre su You tube all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=P0aCx_qp8zk c’è la versione in lingua francese dello stesso.

Violette Nozière

Un film di Claude Chabrol. Con Isabelle Huppert, Stéphane Audran, Jean Carmet, Isabelle Huppert Drammatico, durata 130′ min. – Francia, Canada 1978

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Isabelle Huppert: Violette Nozière
Stéphane Audran: Germaine Nozière
Jean Carmet: Baptiste Nozière
Jean-François Garreaud: Jean Dabin

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Regia Claude Chabrol
Sceneggiatura Frédéric Grendel, Jean-Marie Fritere, Odile Barski e Hervé Bromberger e Claude Chabrol
Fotografia Jean Rabier
Montaggio Yves Langlois
Musiche Pierre Jansen
Scenografia Jacques Brizzio

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Opinione tratta dal sito http://www.forum.tntvillage.scambioetico.org
La storia di Violette Nozière è emblematica della condizione della donna nella pur civilissima (per gli standard contemporanei, si intende) Francia di inizio ‘900. Ma anche di quella delle giovani generazioni, ancora fortemente soggiogate dalla famiglia e costrette a vivere schizofrenicamente, fra timidi impulsi individualisti e una doverosa, cieca obbedienza alle convenzioni e ai dettami parentali. Chabrol, con una sceneggiatura di Odile Barski (per la prima volta: i due collaboreranno molto spesso, in seguito), Hervè Bromberger e Frederic Grendel, dalla biografia scritta da Jean-Marie Fritère, mette in scena questa triste vicenda di una vittima esasperata e divenuta carnefice dei suoi stessi persecutori, senza calcare la mano sulle emozioni o sulla spettacolarità dei fatti. C’è pur sempre un omicidio di mezzo: ma viene raccontato con cura cronachistica soltanto tramite un flashback nel finale, al momento della confessione; parimenti il regista non si sofferma più di tanto sulle accuse di violenza portate da Violette nei confronti del padre, quando ella era poco più che bambina: ciò che interessa alla pellicola non è lo scandalo suscitato dalla storia raccontata, ma l’esemplarità della stessa. Anche perchè la stampa le diede fortissimo risalto, generando da subito un partito di ‘sostenitori’ e uno di ‘detrattori’ della ragazza; forse un limite del copione può essere indicato nello scarso interesse verso il riflesso mediatico delle vicende, determinante — lo dice, sbrigativamente, la didascalia finale — anche per creare un precedente giudiziario molto importante. Isabelle Huppert è un’ottima protagonista: sarà premiata a Cannes; analogamente ai Cesar verrà riconosciuta la bella prestazione di Stephane Audran. Nello stesso 1978, curiosamente, gli Area pubblicarono un brano intitolato Hommage a Violette Nozières

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Nel 1933 una piccoloborghese di dubbia moralità avvelenò i genitori, procurando la morte del patrigno; rea confessa, fu condannata alla ghigliottina, pena commutata nell’ergastolo. Uscita dal carcere nel ’45, si sposò, ebbe cinque figli, morì nel 1963. Ispirandosi a una storia vera, Chabrol e i suoi 3 sceneggiatori evitano di prendere partito pro o contro l’avvelenatrice, sbattuta come un mostro in prima pagina, ma anche difesa dagli intellettuali di sinistra, specialmente surrealisti, come vessillo della polemica contro la famiglia borghese. Puntano sul resoconto dei fatti, la descrizione dei comportamenti, la cura dei particolari, ma non riescono a illuminare l’enigma: la storia rimane impenetrabile come un fatto di cronaca. In bilico tra l’eleganza puntigliosa e la squisita inutilità, il film ha nella Huppert, premiata a Cannes, la sua vera ragion d’essere.

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Claude Chabrol, noto regista della Nouvelle Vague francese, accostato grazie a film come questo al genere thriller, evita di innalzare un personaggio già fin troppo idolatrato.
Rendere avvincente e privo di psicologismi stereotipati un fatto di cronaca non è poi una impresa così semplice. Nella storia del cinema e della letteratura la tendenza a romanzare, marcando una opinione diretta dell’autore sulle vicende, è un rischio piuttosto comune.
Chabrol evita tutto questo. Dà al personaggio Violette quella profondità psicologica e enigmatica che traspare dal conosciuto senza aggiungere altro e lasciando quindi i punti interrogativi aperti ad interpretazione. L’accusa di stupro da parte di Violette nei confronti del padre è l’unico elemento a essere in parte giustificato da una rivalità da manuale freudiano nei confronti della madre. Stupro che non viene mai esplicitamente negato e che rimane quindi, come già detto, un enigma aperto.
Le inquadrature risultano in alcuni casi caratterizzanti. Il continuo uso degli specchi, oltre a produrre in alcuni momenti un leggero senso di disorientamento da parte dello spettatore, sottolinea l’idea di Violette come di un personaggio doppio e innamorato del suo riflesso e quindi della sua ipocrisia. Concetto che traspare nel gesto del bacio dello specchio.

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Le foto che seguono sono quelle della vera Violette Noziere

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dicembre 22, 2013 Posted by | Drammatico | , , | Lascia un commento

La merlettaia

La merlettaia locandina

Beatrice, una ragazza bella ma timida e discreta, ha una vita normale: lavora presso un parrucchiere come apprendista e vive un’esistenza senza sussulti accanto a sua madre.
La sua amica Marylene, lasciata dall’amante, la convince a fare una vacanza a Cabourg, in Normandia e qui Beatrice conosce Francois, uno studente affascinante figlio di una nobile famiglia.
Tra i due l’amore è improvviso e travolgente e da quel momento trascorrono le vacanza sempre insieme.
Ma anche il breve periodo di relax volge al termine e i due devono ritornare alle loro esistenze così differenti;

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nonostante il parere opposto delle rispettive famiglie, i due giovani innamorati decidono di andare a vivere assieme e per qualche tempo l’amore che li unisce sembra essere tanto forte da superare le barriere sociali e le convenzioni.
Ma dopo poco tempo Francois si stanca del legame e decide di lasciare la ragazza che accetta a capo chino la decisione dell’uomo, lascia l’appartamento e riprende la monotona esistenza precedente.
Ma qualcosa in lei si è rotto per sempre.
Beatrice si ammala gravemente di anoressia e in preda a turbe psichiche finisce per essere internata in un ospedale psichiatrico.
Ed è li che Francois la raggiunge e ……

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La merlettaia ( o La dentelliere nell’edizione francese, The lacemakers in quella inglese) prende il suo titolo da uno dei quadri più belli di Jan Vermeer ed è un film diretto da Claude Goretta nel 1977.
Il regista elvetico, specializzato in sceneggiati tv, gira un film malinconico e triste con un finale virato al pessimismo imbastendo una storia d’amore sullo sfondo delle evidenti contraddizioni tra sentimento e ragione, tra realtà amara e sogni disillusi.
Beatrice è una ragazza del proletariato, con un’esistenza tranquilla e anonima, una delle tante esistenze che si consumano all’ombra della capitale francese.
E’ una ragazza come tante, quieta e sognatrice, timida e tranquilla che in fondo non sogna altro che avere un lavoro e trovare un giorno il grande amore.

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Francois è all’opposto uno studente proveniente dall’aristocrazia parigina, ricco e viziato, che ignora ovviamente l’esistenza di routine del proletariato parigino non per colpa sua, ma semplicemente perchè la vita gli ha dato un ruolo sociale ben preciso e un’esistenza dorata e senza problemi.
I due mondi, paralleli e antitetici non potrebbero incontrasi mai, differenti e distanti come sono ma a fare da trait d’union c’è un sentimento, ovvero qualcosa che alle volte travalica convenzioni e regole sociali.
Ma il sentimento più antico e profondo, ovvero l’amore, ha delle regole precise: deve essere bilaterale e totale per poter abbattere secoli di convenzioni sociali, deve essere profondo ed assoluto.
In realtà Francois è solamente infatuato della sensibile Beatrice e per lui la relazione non è altro che un momento di distrazione, un’avventura come tante. Nonostante Beatrice sia la donna dei sogni di qualsiasi uomo, tenera ed appassionata com’è, il frivolo Francois sembra non cogliere gli aspetti pregnanti della psicologia della ragazza. I suoi discorsi e la bieca motivazione che addurrà per lasciare la fragile Beatrice mostrano come il rapporto tra i due in realtà sia stato visto come qualcosa di grande e assoluto solo dalla ragazza, che possiede sentimenti profondi a differenza del suo compagno.

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Non sarà infatti tanto la differenza di classe sociale a distruggere il rapporto quanto la noia e il desiderio di andare oltre di Francois, espressione classica di un ceto sociale arrogante e privo di valori, privo fondamentalmente di quel sentimento che Beatrice possiede per due ma che non può in alcun modo colmare il divario esistente nella coppia.
L’amore è il sentimento supremo, ma non è la bussola universale evidentemente; così alla passione che Beatrice mette nel rapporto, al suo amore così profondo Francois risponde con le convenzioni sociali e la rigidità delle regole che puntellano il suo mondo, creando le premesse per una tragedia che puntualmente si verificherà quando la ragazza vedrà i suoi sogni andare in fumo.

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Si può morire, per amore, e Beatrice questo farà delusa dal suo amante che in fondo altro non è che un bambino viziato e sconfitta da una società che ha delle regole precise e invalicabili.
Quando la dolce ragazza comprenderà che il suo è stato un sogno breve, avrà la forza di analizzare anche il contesto in cui tutto è avvenuto e si renderà conto che in fondo tutto ciò che ha vissuto aveva un epilogo scritto nelle premesse.
La favola di Cenerentola è quello che è, una favola e le favole nella vita quotidiana non esistono.
Goretta dipinge un quadro che assomiglia in modo impressionante all’originale pittorico di Vermeer; nel quadro la giovane ricamatrice è il soggetto principale ed assoluto, lavora in un luogo disadorno ed è il centro focale del dipinto, che illustra la cura e la meticolosità con cui il soggetto affronta il suo lavoro e Beatrice altro non è che un’apprendista di un lavoro altrettanto umile, una parrucchiera di umili origini.

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I due volti, quello della merlettaia di Vermeer e quello di Isabelle Huppert, splendida interprete del film, possono quasi sovrapporsi prima di prendere le strade che ognuna delle due prenderà Della merlettaia del dipinto abbiamo colto un attimo, un frammento della sua vita sospeso in eterno. Di lei non sappiamo nulla, non sappiamo chi è, da che famiglia viene, sappiamo solo che ricama con estrema attenzione. Di Beatrice alla fine conosciamo tutto, dalla sua profondità di sentimenti fino alla sua fragilità psichica, quella fragilità che la condurrà ad un triste destino.
Perchè lei è incapace di accettare un ruolo che altri hanno disegnato : il suo amore dovrebbe spezzare le catene ma le catene si riveleranno impossibili da scalfire e questo segnerà la sconfitta non solo dell’amore di Beatrice ma anche la fine dei sogni e l’irruzione prepotente di una realtà in cui i sogni muoiono all’alba.

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La merlettaia è un film bellissimo e triste. Con diverse chiavi di lettura in cui lo spettatore può addentrarsi se vuole e parteggiare per una tesi invece che a favore di un’altra (l’amore impossibile, le differenze sociali ecc.) oppure può semplicemente lasciarsi andare e osservare una storia che delicatamente racconta l’impossibilità della realizzazione di un sogno o di una favola.

Goretta traccia una storia quasi normale, vista al cinema molte volte e nella vita reale ancor di più con un linguaggio poetico di rara bellezza ed equilibrio.
Era facile cadere nella trappola del vittimismo, dipingendo Beatrice come un’eroina sfortunata ed era altrettanto facile dipingere la società parigina aristocratica e superba come un coacervo di antichi vizi e scarse virtù.
Il regista svizzero non fa nulla di tutto questo e ci consegna un dramma lineare nel suo percorso interpretato splendidamente da quella grande attrice che è Isabelle Huppert, che regala attimi intensi ogni qualvolta presta il suo volto magicamente malinconico ad un personaggio indimenticabile come quello di Beatrice.

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In fondo La merlettaia è anche una grande prestazione d’autore, in cui un ottimo regista,Goretta ed una bravissima attrice, la Huppert, esprimono il meglio del loro talento al servizio di una pellicola che finisce per diventare indimenticabile.
La merlettaia è un film quasi invisibile nelle programmazioni televisive, per cui consiglio caldamente ai lettori di questo blog di cercarlo in rete o in qualche versione dvx, che sono tratte da fonti digitali (il film è da tempo disponibile in dvd) e che quindi riescono a restituire l’aria di malinconica bellezza che il film stesso ispira.
La merlettaia
Un film di Claude Goretta. Con Isabelle Huppert, Yves Beneyton, Florence Giorgetti, Michel De Ré, Jean Obé, Monique Chaumette, Annemarie Düringer, Renata Schroeter Titolo originale La dentellière. Drammatico, durata 108′ min. – Svizzera 1977.

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La merlettaia banner protagonisti

Isabelle Huppert: Beatrice
Yves Beneyton: François
Florence Giorgetti: Marylène
Annemarie Düringer: Beatrice
Sabine Azéma: Corinne
Michel de Ré … Il pittore
Monique Chaumette …La madre di François
Jean Obé … Il padre di François

 La merlettaia banner cast

Regia Claude Goretta
Soggetto Pascal Lainé
Sceneggiatura Claude Goretta e Pascal Lainé
Fotografia Jean Boffety
Montaggio Joële Van Effenterre
Musiche Pierre Jansen
Scenografia Claude Chevant e Serge Etter

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agosto 14, 2012 Posted by | Capolavori | , , | Lascia un commento