Senza movente
Nizza,Costa azzurra
Tre misteriosi omicidi,opera di un inafferrabile killer munito di fucile di precisione sconvolgono l’estate;Tony Forest e Pierre Barroyer,due rispettabili uomini d’affari e Hans Klainberg,un astronomo sono le vittime.I tre si conoscevano fra loro,ma il movente dell’omicidio appare sconosciuto.
E’ il commissario Stephane Carella il detective incaricato delle indagini,ma all’inizio tutto appare assolutamente nebuloso.
Il primo labile indizio è una vecchia conoscenza del commissario,Joceline Rocca,che conosceva bene i tre assassinati,ma ben presto anche lei cade vittima del killer.
Grazie a Sandra Forest,figlia della prima vittima,Carella accerta un legame comune ai quattro morti,tutti assieme avevano fatto parte del cast di un dramma teatrale scritto da un professore di università quando ancora i quattro erano studenti.Fortuitamente,il commissario impedisce che Julien Sabirnou,presentatore tv,venga anche esso assassinato e scopre cosi che la giovane e bella Juliette Vaudreuil,un’altra componente del gruppo teatrale aveva subito violenza carnale,ricavandone un trauma irreversibile.A questo punto per Carella è facile arrivare alle conclusioni e…
Senza movente,distribuito anche con il titolo Senza motivo apparente è un buon giallo poliziesco diretto nel 1971 da Philippe Labrò,regista,scrittore e attore di buon livello che appare nella piccola parte di un giornalista in una pellicola ben diretta,
caratterizzata principalmente da una trama essenziale.Senza grossi colpi di scena,ma avvincente e recitata da professionisti del calibro di Jean Louis Trintignant (il commissario),Dominique Sanda,bella e misteriosa (Sandra Forest),Stéphane Audran oltre alle italianissime e fascinose
Carla Gravina e Laura Antonelli.C’è anche lo chansonnier Sacha Distel,con un buon passato attoriale in un film francese fino al midollo,caratterizzato anche da un ritmo non eccelso ma calibrato.
Da segnalare la bella location della perla della Costa azzurra Nizza e le musiche adeguate del nostro Morricone.
Fino a una decina di anni addietro il film era trasmesso con regolarità,oggi è praticamente scomparso dagli schermi ed è di difficile reperibilità.
Senza movente
Un film di Philippe Labro. Con Jean-Louis Trintignant, Dominique Sanda, Sacha Distel, Carla Gravina, Paul Crauchet, Laura Antonelli, Jean-Pierre Marielle, Stéphane Audran, Gilles Ségal, Pierre Dominique Titolo originale Sans mobile apparent. Giallo, durata 97 min. – Francia 1971.
Jean-Louis Trintignant: Ispettore Stéphan Carella
Dominique Sanda: Sandra Forest
Carla Gravina: Jocelyn Rocca
Stéphane Audran: Hélène Vallée
Paul Crauchet: Francis Palombo
Erich Segal: Hans Kleinberg
Sacha Distel: Julien Sabirnou
Laura Antonelli: Juliette Vaundreuil
Jean-Pierre Marielle: Perry Rupert-Foote
Michel Bardinet: Tony Forest
Esmeralda Ruspoli: signora Forest
Alexis Sellan: Pierre Barroyer
Jean-Jacques Delbo: Commissario Capo
André Falcon: Prefetto
Regia Philippe Labro
Soggetto Ed McBain
Sceneggiatura Vincenzo Labella, Philippe Labro, Jacques Lanzmann
Produttore Jacques-Eric Strauss
Fotografia Jean Penzer
Musiche Ennio Morricone
Un uomo,una donna
E’ stata la richiesta dell’amica Luciana,nel topic Link di Filmscoop a riportarmi alla mente questo film di Lelouch,targato 1966.
Un film bello e poetico,del quale parlo ben volentieri e che sopratutto dedico alla nostra amica,sempre gentile ed educata nei suoi commenti sul nostro sito.A lei quindi un grazie e un affettuoso saluto.
“Una versione televisiva e pubblicitaria del melodramma classico,la cui storia zuccherosa e finta è un concentrato di tutti i luoghi comuni possibili sull’amore e la solitudine“.
Sono le parole utilizzate dal Dizionario Mereghetti (Edizione 2008) per stroncare Un uomo,una donna,pellicola diretta da Claude Lelouch nel 1966.
Non voglio essere da meno del celebre dizionario e mi affido alle parole del grande Guccio che,nella sua L’avvelenata,ebbe a dire a proposito di un suo critico:
“tanto ci sarà sempre,lo sapete,un Bertoncelli un prete a sparare cazzate…”
Una citazione forte,ma d’altro canto quando si pontifica come il Mereghetti su un film,senza comprenderne l’intima essenza,ci si può andar giù duro.
Prima di parlarvi del film,ricordo qualche recensione del Mereghetti di film considerati capolavori,alla stregua della famigerata Corazzata Potiemkin di Einsenstein,che Fantozzi apostrofa come “cagata pazzesca”
Alcuni critici hanno sempre avuto la puzza sotto il naso quando hanno dovuto recensire film d’amore o comunque a sfondo sentimentale;le storie di sentimenti generalmente sono viste come fumo negli occhi,quasi che il parlare dell’intimo sia cosa sconveniente o degna al massimo di fare da spunto a feuilleton o romanzi d’appendice.
Così eccoli esaltare film armeni e coreani,tailandesi e mongoli,capaci di ridurre le parti intime degli spettatori in entità microscopiche.
Vizio del tutto italico,questo.
La nostra esterofilia ha avuto sempre qualcosa di patologico;in questo caso all’opposto si arriva allo sciovinismo più bieco nei confronti di una pellicola come Un uomo,una donna,rea agli occhi dei pennivendoli di aver avuto un successo straordinario,di aver in qualche modo commosso o divertito le platee di tutto il mondo.
L’assioma è sempre lo stesso:se il film ha troppo successo non può essere un bel film.
Per essere un capolavoro deve piacere ai critici,alla loro cerchia o al massimo a pochi eletti.
E allora via nell’osannare oscuri film dell’Europa dell’est o della Lapponia.
Purtroppo per loro,è il grande pubblico a pagare il biglietto e questo alla fine è quello che conta.
Dopo questa filippica,d’obbligo dopo aver letto in rete bestialità firmate da grandi critici e cose bellissime scritte invece dal pubblico,parliamo un po dell’oggetto del contendere.
Lelouch,con scarsi finanziamenti ma tante idee che frullano in testa,scrive nel 1966 il soggetto di Un uomo,una donna con Pierre Uytterhoeven senza prendersi nemmeno la briga di accreditarsi come sceneggiatore.
Lo gira in poco più di tre settimane,quasi di getto.
Il che porterebbe a credere che il prodotto finale sia poco curato.
Incredibilmente non è così.
Perchè la pellicola,aldilà dello straordinario successo avuto,può tranquillamente essere usato come compendio di un nuovo modo di fare cinema;l’uso della handy cam,la camera a mano,del flashback,del colore sapientemente mescolato al bianco e nero sfumato o al viraggio seppia trova nella pellicola il massimo della esaltazione e dell’abilità d’impiego.
Al punto che molti futuri cortometraggi presero esempio dalla lezione di Lelouch,che diventò un maestro per coloro che da quel momento in poi
misero mano a short pubblicitari o a corti d’autore.
Un film in cui proprio la trama è la parte meno essenziale mentre è l’immagine la vera protagonista,resa potentemente viva grazie ad un uso magistrale dell’effetto morbido della fotografia stessa.
Ad aggiungere fascino al film,una colonna sonora ormai celebre,quella composta da Francis Lai,destinata a diventare in seguito un classico con in aggiunta le note di Samba Saravah,la bellissima canzone di Baden Powell de Aquino e Vinícius de Moraes,cantata da Pierre Barouh.
*Faire une samba sans tristesse c’est aimer une femme qui ne serait que belle.”,dice Barouh.
Ma la tristezza in questo caso,in questo film,se c’è è solo nelle vite dei protagonisti antecedenti al loro incontro.
Perchè dopo essersi casualmente conosciuti,tutto cambierà,anche quel passato pesante che si portano dietro,come una seconda pelle e con la quale dovranno convivere,ma senza più la paura e il senso di impotenza che caratterizza la loro vita fino al momento fatale.
In breve la trama:
Anne Gauthier è una giovane vedova;suo marito,uno stuntman,è morto da poco in un tragico incidente.
Vive nel ricordo del suo amore scomparso del quale l’unica cosa rimasta,di reale,è sua figlia.
Sarà proprio per merito involontario di sua figlia che farà la conoscenza di Jean-Louis Duroc,un pilota di auto da corsa,
anch’egli rimasto vedovo dopo il suicidio di sua moglie,che aveva fatto il gesto estremo di uccidersi il giorno in cui Jean Louis aveva avuto un incidente
nel quale lei temeva fosse morto.
Anche lui ha un filo fisico che lo lega alla moglie;un figlio che frequenta una scuola nella quale studia anche la figlia di Anne.
Come dicevo,i due figli diventano involontari artefici del loro destino;frequentano la stessa scuola,così il giorno che Anne ha problemi a tornare a casa,lui si offre di accompagnarla.
E’ l’inizio di una tenera amicizia che sfocia ben presto in amore.
Ma il coinvolgimento di entrambi avviene in maniera dissimile.
Per Jean Louis è più facile immergersi nella love story;con la tipica superficialità maschile da per scontato il coinvolgimento della donna,anche a livello fisico.
Nella realtà le cose non stanno affatto così.
Pur amandolo,Anne ha ancora un legame simbiotico con il marito e non è pronta del tutto ad affrontare una nuova storia d’amore.
Cosa succederà ai due novelli amanti?
Tralascio il finale,anche se a mio giudizio è la parte più bella e coinvolgente della pellicola.
Lelouch ha il grande merito di non affrontare la storia con cipiglio drammatico,anzi.
La leggerezza diventa sovrana,anche se non siamo certo di fronte ad un’opera superficiale.
A differenza di altre storie d’amore portate sullo schermo come Fantasma d’amore,Love story,Come eravamo,lo stesso Giulietta e Romeo di Zeffirelli fino al recente Titanic, manca il finale triste,angosciante.
Lelouch opta per un finale aperto,lasciando allo spettatore il compito di intuire quale sarà il futuro dei due amanti.
E lo fa a ragion veduta,perchè Un uomo,una donna è un film che affonda le radici nel passato della coppia,si nutre del presente e tralascia del tutto il futuro.
A cosa serve parlare di futuro se l’attimo da cogliere è nel presente che i due vivono?
Carpe diem.
Vivi la storia,l’amore,senza pensare a domani.
Messaggio chiaro,inequivocabile.
E poichè i sentimenti in fondo sono la molla che governa la parte più importante della vita,ecco che il film
assume una valenza doppia,raccontando con delicatezza quella che è una storia qualsiasi,quasi un’assieme di quadri o di bellissime fotografie
fatte per rappresentarne l’evoluzione,senza scomodare Freud o inventarsi futuri ombrosi e incerti.
Un uomo una donna è quindi un film delicato,come un intarsio o un origami.
In equilibrio tra passato e presente,con un flashback mai invadente ma al contrario vera innovazione del film,ci trasporta in uno scenario quasi sognante,fra il rimpianto per la vita precedente e l’affetto che i protagonisti hanno per i loro sfortunati partner e il bisogno di dover fare di necessità virtù.
La vita va avanti,il dolore non muore mai.
Però si può almeno fingere di dimenticarlo e ricostruire le basi per un presente difficile,si,ma da affrontare sempre e comunque con coraggio e volontà.
A voler citare la frase più famosa della storia del cinema,ci andrebbe bene un “Dopotutto domani è un altro giorno”
Ed è quello che i protagonisti faranno,scegliendo di vivere il proprio essere arrendendosi ai sentimenti.
Di sicuro un’altra componente importante del film è la straordinaria bravura di Anouk Aimee e di Jean Louis Trintignant.
Sfuggente,ieratica,quasi enigmatica lei,ironico ma anche dolce e premuroso lui.
Ma anche tanto altro ancora.
Due attori in stato di grazia,un regista innovativo e delicato,una colonna sonora spettacolosa.
Cosa chiedere di più ad un film?
Un uomo e una donna ebbe un successo straordinario,suggellato dal “triplete” Oscar,Palma d’oro e Golden Globe,
al quale va aggiunto anche il BAFTA per la Aimee.
Un film senza tempo e senza confini.
Un uomo, una donna
Un film di Claude Lelouch. Con Jean-Louis Trintignant, Anouk Aimée, Pierre Barouh, Valérie Lagrange, Antoine Sire, Souad Amidou, Henri Chemin, Yane Barry, Paul Le Person, Simone Paris, Gérard Sire Titolo originale Un homme et une femme. Drammatico, durata 102 min. – Francia 1966.
Anouk Aimée: Anne Gauthier
Jean-Louis Trintignant: Jean-Louis Duroc
Pierre Barouh: Pierre Gauthier
Valérie Lagrange: Valerie Duroc
Antoine Sire: Antoine Duroc
Souad Amidou: Françoise Gauthier
Regia Claude Lelouch
Sceneggiatura Claude Lelouch (non accreditato), Pierre Uytterhoeven (collaborazione ai dialoghi)
Produttore Claude Lelouch (non accreditato)
Casa di produzione Les Films 13
Fotografia Claude Lelouch
Montaggio Claude Barrois, Claude Lelouch (non accreditato)
Musiche Francis Lai
Tema musicale Un homme et une femme, musica di Francis Lai e testi di Pierre Barouh, cantata da Nicole Croisille e Pierre Barouh
Scenografia Robert Luchaire
Costumi Richard Marvil
Premio Oscar 1967 come Miglior film straniero (Francia) e come Migliore sceneggiatura originale a Claude Lelouch e Pierre Uytterhoeven
Palma d’oro 1966 a Claude Lelouch al festival di Cannes
Golden Globe 1967 come Miglior film straniero (Francia)e come Miglior attrice in un film drammatico a Anouk Aimée
Premio BAFTA 1968 come Migliore attrice straniera a Anouk Aimée
Nastro d’argento 1967 come Regista del miglior film straniero a Claude Lelouch
Claude Lelouch
L’opinione di Dalton dal sito http://www.filmtv.it
Una gradevole telenovela dall’originale piglio regist(r)ico. Ottenne un inaspettato successo internazionale anche grazie all’intramontabile colonna sonora di Francis Lai, poi autore delle musiche di LOVE STORY. Montaggio dinamico (piuttosto anomalo per un’opera europea) ed una coppia di attori, Trintignant/Aimée, in stato di grazia. Frase chiave: “Non posso rovinarmi la vita per una persona che si impossibilita di sentirsi felice”
L’opinione di fidelio78 dal sito http://www.filmscoop.it
Splendido film di Lelouch che ha il sapore e il ritmo della vita. E’ il classico film francese in cui però i personaggi sono così ben delineati e descritti che riescono ad incantare, anche quando la storia forse arranca. Questo tipo di cinema spesso annoia perchè non tutti sono capaci di raccontare una storia con tale garbo. E’ un film intimo su un rapporto, un film minimalista che riesce a rapire completamente.
Bellissimo
L’opinione di atticus dal sito http://www.filmscoop.it
Quintessenza del minimalismo romantico francese degli anni ’60.
Lelouch dirige il suo film più celebre e fortunato, forte di un bella tessitura psicologica sui personaggi (due facce di una stessa solitudine) e di un affascinante struttura a flashback. Una fotografia straordinaria e l’immortale tema musicale di Francis Lai fanno il resto. Magari potrà lasciare un senso di vaga inconsistenza, ma è un film così raffinato e chic! Protagonisti sublimi, fermo immagine finale che è un vero colpo di genio. Da rivedere.
Opinioni tratte dal sito http://www.davinotti.com
Il Gobbo
Due vedovi ancora giovani si incontrano al collegio dei figli. Inizia il più fortunato, immarcescibile, patinato tira e molla amoroso della storia del cinema, un apocalittico successo di pubblico sulle note celeberrime di Francis Lai. Oggi si fa fatica a comprendere il perché di tanta fortuna, ma non si può negare l’abilità diabolica di Lelouch, l’esattezza matematica della costruzione, e – per chi apprezza – l’essenzialità come documento d’epoca. Un film che resiste a ogni parodia. “Sciabadabadà, sciabadabadà”…
Homesick
Una storia risaputa di amour fou e di solitudine, resa tuttavia più che affascinante dallo stile registico di Lelouch, che ai dialoghi preferisce la potenza evocativa delle immagini e dei silenzi, dei primi piani e dei gesti, nonché dei numerosissimi flashback. Professionali e misurate le interpretazioni di Trintignant e della Aimèe, ai quali fa eco la celeberrima colonna sonora di Francis Lai.
Deepred89
Discreto film. Leggero, affascinante ma anche parecchio lento. Comunque la regia è di buon livello e i due protagonisti sono azzeccati. Buona la fotografia che alterna colore e bianco e nero. Ottima (e famosissima) la colonna sonora.
Lucius
A mio parere la colonna sonora (tranne il main theme che tanto successo ha avuto a livello internazionale) è troppo francese e a tratti poco indicata. Per il resto siamo al cospetto di una pellicola con immagini potenti, in grado di emozionare lo spettatore come poche altre. La regia, attenta, consta di movimenti di macchina da scuola del cinema e la fotografia risulta incredibilmente suggestiva. Con tale peculiarità il film non può che considerarsi riuscito. Il risultato finale sarebbe stato amplificato meglio da un autore come Thomas Dolby.
Giacomovie
Bel film per il quale conta principalmente l’atmosfera piuttosto che la densità della storia. In un clima di sofisticata delicatezza Lelouch fa lievitare lentamente la dimensione romantica, la lascia sospesa e la contorna di un erotismo implicito. Ma il fluire distensivo, quasi tranquillante, degli eventi, il soave accompagnamento della colonna sonora e il riuscito cocktail tra colore e bianco/nero lasciano alla fine del film un senso di soddisfazione per l’avvenuta visione. Anouk Aimee è bravissima ed incantevole.
Acque profonde (Eaux profondes)
” Non credo di aver tradito Patricia Highsmith. Il libro e il film non sono lo stesso oggetto, hanno un percorso e un destino diverso. Una cosa è un libro, un’altra il film. Sono nati uno e l’altro in tempi diversi, possiamo dire che la genesi è differente. Non hanno lo stesso oroscopo. Se c’è manipolazione nei miei film non è colpa mia. Quando scrivo la sceneggiatura il gioco inizia, mi lascio andare. I miei personaggi mi chiedono di cambiare e io lo faccio.Istintivamente.”
Con queste parole Michel Delville parla della riduzione cinematografica del romanzo Eaux profondes di Patricia Highsmith dal quale nel 1981 il regista francese trae questa affascinante opera, lasciando inalterato il titolo ma modificando profondamente la psicologia dei personaggi.
Un film che sembra un sottile gioco psicologico tra due personaggi, marito e moglie e il gruppo di vicini e amici con i quali interagiscono, che però fanno da contorno visto che i coniugi assumono da subito un’importanza capitale che spinge lo spettatore a cercare motivazioni sul loro strano comportamento.
E infatti è proprio la natura del comportamento dei due coniugi a ben vedere la parte più intrigante del film; il misterioso rapporto tra i due,l’alchimia che c’è tra loro, il gioco perverso che li unisce ma al temo stesso li distingue è una cortina fumogena che Delville esalta fino a rendere la vita coniugale un rebus fatto di tradimenti presunti, di seduzione e alla fine, quando meno te lo aspetti, di morte.
Victor è un creatore di profumi con l’hobby di coltivare lumache ed è sposato con Melanie, una giovane e apparentemente frivola donna con la quale ha avuto una bambina che ora ha dieci anni.
I due vivono nell’isola di Jersey, dove sono ben integrati e hanno una vita sociale intensa.
Che però è alimentata molto più da Melanie che da Victor; è la donna ad essere attratta e affascinata dalla vita sociale, specialmente dagli uomini, con i quali civetta in modo addirittura sfacciato, sotto gli occhi inespressivi del marito che non sembra ferito da questi comportamenti della donna.
Sembra un gioco crudele quello che Melanie opera ai danni del marito, ma le cose stanno veramente così?
Man mano che il film si inoltra nel tempo, il sottile e perfido gioco assume connotazioni molto più complesse; da un lato vediamo Melanie sedurre uno dopo l’altro alcuni giovani conoscenti dall’altro vediamo Victor sempre impassibile; nel suo sguardo non riusciamo a cogliere la realtà dei suoi sentimenti.
E’ ferito dal comportamento della moglie?
Sembrerebbe di si, perchè ad un certo punto le cose cambiano.
Dopo aver messo in guardia gli spasimanti di Melanie,dicendo loro che per la moglie è disposto ad uccidere ( e che lo ha già fatto) all’improvviso Victor agisce mettendo in pratica i suoi ammonimenti.
Annega nella piscina proprio uno di questi e da quel momento le cose cambiano…
Cambiano anche per lo spettatore che inizia a prendere sul serio Victor, personaggio che fino a quel momento è risultato essere un autentico enigma.
A quanto pare la sua apparente docilità nasconde emozioni forti, la sua imperturbabilità è solo di facciata.
Quello che sembrava fino a quel punto un crudele gioco messo in scena dalla volubile Melanie è qualcosa di ben più complesso e forse anche perverso.
Può essere che sia un gioco tra le parti, ovvero che sia Melanie che Victor si comportino nei loro rispettivi modi per un sottile e perverso gioco destinato a tener vivo il rapporto tra la coppia?
Può essere che Melania faccia la femme fatale solo per accontentare il voyeurismo del marito e che costui sia ben felice della cosa?
Lo sapremo, forse,solo alla fine, quando nelle ultime scene accade qualcosa che ovviamente non racconto per non guastarvi la sorpresa.
Si, perchè Acque profonde è un film straordinario, che va guardato fotogramma per fotogramma e che anche dopo la fine lascia un senso di irrisolto che però non deriva dalla qualità del racconto bensi dal bivio in cui le strade divergono ed ognuno è libero di scegliere la strada che preferisce.
Delville ci porta ad un finale enigmatico (fino ad un certo punto però) attraverso un film psicologico il che non significa sbadigli o noia, tutt’altro.
Il regista di Boulogne-Billancourt è un fine indagatore, ironico e sottilmente sarcastico, fine ed elegante, come del resto aveva mostrato nei film fino ad allora diretti, ultimo dei quali Un dolce viaggio,girato prima di questo splendido Acque profonde.
La stessa eleganza formale unita a tanta, tanta sostanza la ritroviamo quindi in questo film, che parte quasi come una commedia, diventa un dramma e vira verso il thriller finendo nuovamente come un dramma.
Davvero da premi Oscar poi le interpretazioni dei due attori protagonisti, Isabelle Huppert e Jean-Louis Trintignant; con la Huppert Delville girerà un altro bellissimo film La lettrice.
Come racconterà Delville in un’intervista,” Isabelle Huppert e Jean-Louis Trintignant non avevano mai lavorato insieme e presto sorse tra loro una complicità che era assolutamente necessaria per la credibilità del film. D’altra parte, mi piacciono i giocatori intuitivi . Con questi, non c’è bisogno di spiegazioni o lunghe ripetizioni . Ho fatto in modo di catturare la loro viva spontaneità di espressione ”
La coppia funziona in maniera perfetta e dona una credibilità del tutto particolare al film, che si avvale inoltre di una splendida fotografia e di una location piena di fascino.
Un film davvero bello.
Del quale esiste una versione italiana, purtroppo di difficilissima reperibilità in rete.
Un film da guardare, da assaporare, da amare.
Acque profonde
Un film di Michel Deville. Con Jean-Louis Trintignant, Isabelle Huppert Titolo originale Eaux profondes. Giallo, durata 94′ min. – Francia 1981.
Jean-Louis Trintignant … Vic Allen
Isabelle Huppert … Melanie
Sandrine Kljajic … Marion
Éric Frey … Denis Miller
Christian Benedetti … Carlo Canelli
Bruce Myers … Cameron
Bertrand Bonvoisin … Robert Carpentier
Jean-Luc Moreau … Joël
Robin Renucci … Ralph
Philippe Clévenot … Henri Valette
Martine Costes … La mamma di Julie
Evelyne Didi … Evelyn Cowan
Jean-Michel Dupuis … Philip Cowan
Bernard Freyd … Havermal
Regia Michel Deville
Soggetto Patricia Highsmith
Sceneggiatura Florence Carez sotto lo pseudonimo Florence Delay, Michel Deville, Cristopher Frank, Patricia Highsmith
Produttore Denis Mermet
Fotografia Claude Lecomte
Montaggio Raymonde Guyot
Musiche Manuel de Falla
L’opinione del Morandini
Nell ‘isola di jersey (Normandia) Vic, dirigente di un’impresa di profumi, è tradito in modo aperto dalla moglie Mélanie che adora finché uccide un suo amante. Il delitto passa per morte accidentale. Ne uccide un altro, ma l’inchiesta si arena. Sotto gli occhi della loro bambina, che assiste ai loro giuochi perversi, i due tornano a vivere insieme. Scritto da Florence Delay, Christopher Frank e da M. De Ville, tratto dal romanzo Deep Water (1957) di Patricia Highsmith. Regia rigorosa, di raffinata morbidezza. J. Trintignant inquietante, I. Huppert magistrale come donna di infantile crudeltà.AUTORE LETTERARIO: Patricia Highsmith
L’opinione del sito http://www.filmtv.it
Tratto da un romanzo di Patricia Highsmith il film di Deville è denso di sfumature e assolutamente non banale.
Vic non ballava mai, ma non per le ragioni che di solito si danno gli uomini che non ballano. Vic non ballava mai semplicemente perché a sua moglie piaceva molto ballare. Cercava di razionalizzare questo suo atteggiamento, ma senza riuscirci, senza riuscire a convincere se stesso nemmeno per un istante, anche se ci provava tutte le volte che vedeva Melinda ballare. Sua moglie era insopportabilmente stupida, quando ballava. Riusciva a fare del ballo una cosa imbarazzante.
Melinda entrava e usciva piroettando dal suo campo visivo, ma lui se ne rendeva conto molto vagamente. Sapeva che si trattava di lei solo per via della familiarità che aveva con ogni minimo dettaglio della sua persona fisica. Alzò con calma il bicchiere di scotch allungato con acqua e lo sorseggiò. Sedeva scomposto, con un‟espressione neutra in faccia, sulla panca imbottita che seguiva i contorni del montante delle scale dei Meller, con gli occhi fissi sul movimento dei ballerini, e intanto pensava che quella sera, appena tornato a casa, sarebbe andato a dare un’occhiata alle cassette di erbe che teneva in garage, per vedere se fossero spuntate le digitali. Stava coltivando parecchi tipi di erbe: ne reprimeva la crescita privandole di metà della luce e dell‟acqua di cui avevano bisogno, allo scopo di intensificarne l‟aroma. Tutti i giorni all‟una, quando tornava a colazione, metteva le cassette fuori al sole, e tornava a riporle nel garage alle tre, prima di andare alla tipografia.
Victor Van Allen aveva trentasei anni, era di statura leggermente inferiore alla media, tendeva a una soda e diffusa rotondità piuttosto che alla pinguedine, e aveva un paio di sopracciglia folte e crespe che sporgevano sopra gli occhi azzurri dall‟espressione innocente. I capelli castani erano lisci, tagliati molto corti, e, come le sopracciglia, folti e tenaci. La bocca era di grandezza normale, ferma, l‟angolo destro solitamente piegato all‟ingiù in un‟espressione di asimmetrica risolutezza o di umorismo, a seconda di come si sceglieva di interpretarla. Era quella bocca a rendere ambigua la faccia di Vic perché era facile scorgervi una certa amarezza, anche dato che gli occhi azzurri, grandi, intelligenti e impassibili non lasciavano assolutamente capire cosa pensasse o sentisse.
Michel Delville,regista del film
Patricia Highsmith,scrittrice del romanzo
Col cuore in gola
Girato nel 1967, Col cuore in gola appartiene al periodo più creativo e fertile di Tinto Brass, un periodo in cui la sperimentazione, unita ad una grande capacità visiva facevano pensare al regista veneziano come uno dei prossimi maestri della cinematografia.
Sappiamo com’è andata a finire, la svolta erotica di Caligola e La chiave e il conseguente ridimensionamento proprio di quella carica trasgressiva che il regista possedeva e che aveva messo in mostra con L’urlo,Nerosubianco e con questo Col cuore in gola.
Che è anche l’unico thriller, del resto molto anomalo, diretto da Brass che per l’occasione può contare su un’attrice giovane ma capace come Eva Aulin e su uno dei nomi più importanti del cinema francese,Jean Louis Trintignant.
La storia ha come protagonisti un attore francese, Bernard e una ragazza,Jane che Bernard trova casualmente una sera vicino ad un cadavere, quello di Prescott, proprietario di un locale notturno.
Immediatamente affascinato dalla bella ragazza,Bernard decide di aiutarla e si introduce in casa di prescott dove però viene sorpreso da un sicario.Bernard riesce a sbarazzarsi dell’uomo e a recuperare la foto compromettente che ritrae il fratello di Jane e Prescott stesso.
Inizia così un’avventura estremamente pericolosa che si concluderà tragicamente quando Bernard…
Ispirato alla lontana dal romanzo “Il sepolcro di carta” di Sergio Donati Brass dirige un thriller di buona fattura, in cui unisce temi a lui cari, come l’amore per la pop art, per la musica e per il fumetto, tanto da chiamare il grande Guido Crepax a illustrare le tavole per il film.
Pur nel contraddittorio svolgersi della trama, a tratti molto confusa, Brass mette a segno alcuni buoni colpi, con il risultato che il film non delude.
Funziona bene la strana coppia Aulin-Trintignant, che un biennio dopo avremmo rivisto nell’enigmatico la morte ha fatto l’uovo di Questi,così come attraente è l’atmosfera quasi beatlesiana, da swinging london della capitale albionica.
Un neo è sicuramente la tendenza di Brass a sperimentare ad ogni costo, a volte infischiandosene della trama e della necessità dello spettatore di farsi largo nel delirio visivo tipico del primo Tinto Brass, quello dei citati L’urlo o Nerosubianco.Gli inserimenti del bianco e nero, le scene a tratti frenetiche a tratti narcolettiche, lisergiche sono davvero ostiche anche se alla fine il risultato resta di buon livello.
Il film è disponibile in streaming all’indirizzo http://www.nowvideo.at/video/70b0209178777 o anche su You tube all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=KoBIAbZ9b9E
Col cuore in gola
Un film di Tinto Brass. Con Jean-Louis Trintignant, Roberto Bisacco, Ewa Aulin, Vira Silenti Giallo/thriller, durata 107′ min. – Italia 1967.
Jean-Louis Trintignant: Bernard
Ewa Aulin: Jane
Vira Silenti: Martha
Roberto Bisacco: David
Charles Kohler: Jerome
Luigi Bellini: Jelly-Roll
Enzo Consoli: un barista
Monique Scoazec: Veronica
Regia Tinto Brass
Soggetto Tinto Brass
Sceneggiatura Tinto Brass, Francesco Longo, Pierre Levy Corti
Casa di produzione Panda Cinematografica
Fotografia Silvano Ippoliti
Montaggio Tinto Brass
Musiche Armando Trovajoli
Scenografia Carmelo Patrono
Costumi Bice Brichetto
L’opinione del sito http://www.bmoviezone.wordpress.com
Sebbene Col cuore in gola venga spesso considerato dalla critica appartenente al filone del giallo all’italiana, è in realtà un film molto più vicino al noir. L’azione infatti gioca infatti un ruolo preponderante all’interno della vicenda (per esempio i protagonisti vengono continuamente pedinati e rincorsi da sicari ignoti, Bernard impugna una pistola non appena se la trova sottomano e non esita ad usarla quando ne ha l’occasione, e via dicendo). Gli omicidi inoltre non vengono mostrati e la mdp si sofferma solo per pochi secondi sui cadaveri delle vittime – esiste forse un giallo all’italiana che non indugi sui particolari più efferati dei delitti e in particolare sulla loro messa in atto? In ogni caso per tutta la durata del film non c’è una vera tensione: spesso si rischia anche di dimenticare perché i protagonisti fuggano o perché si trovino in un luogo – appare evidente che i motivi che li muovono da una parte all’altra della città sono sono un contorno delle scene d’azione su cui si fonda il film ed una pretesa per moltiplicare i primi piani sui Jane e Bernard.
La pellicola infatti, più che sulla scarsa complessità della trama, si esalta dal punto di vista dell’impatto visivo. La fotografia di Silvano Ippoliti è di prima classe, la sua mdp cambia continuamente angolazione, vengono inserite anche parecchie scene in bianco e nero per richiamare l’atmosfera tipica dei noir americani. Talvolta lo schermo si divide anche in due o tre quadranti nei quali vengono mostrate riprese differenti della stessa scena da angolazioni diverse per rendere meglio l’idea della frenetica velocità d’azione. Inoltre, svolgendosi la vicenda nella Swinging London, il regista abusa di immagini a sfondo psichedelico (locandine di eventi musicali, di film della cultura beat, di pubblicità variopinte) e di opere d’arte contemporanee riconducibili alle correnti della pop-art e della op-art. Anche la colonna sonora (a cura di Armando Trovajoli), sebbene non convinca nella sua interezza, vanta la ballata romantica tipicamente sixties “Love Girl” ed alcune jam di blues-rock psichedelico in grado di competere con quelle di The Trip e di Psych-Out.
L’opinione di Ezio dal sito http://www.filmtv.it
Giallino infarcito di sperimentazioni varie e filmati di repertorio.Il Tinto Brass pre-erotico era questo-Prendere o lasciare.La coppia Trintignant-Aulin io la preferivo in un’alto film prodotto un paio di anni dopo e cioe'” La Morte Ha Fatto L’uovo,”almeno li’ c’era una trama ben piu’ precisa.
L’opinione di The Gaunt dal sito http://www.filmscoop.it
Brass rilegge la Swinging London dell’Antonioni di Blow up usando l’esile struttura di un giallo evidenziandone le venature noir in uno stile variopinto e folle tipico delle storie a fumetti. Dell’intreccio a Brass non importa molto, ciò che è importante è l’esperienza lisergica dei protagonisti in un delirio visivo che giunge al suo culmine nella fase finale. Non è certo un film adatto per coloro a cui piacciono i gialli classici o con una messinscena accurata degli omicidi. In questo film non troverà nulla di tutto ciò, giacchè i momenti di pausa sono eccessivi e la trama è farraginosa. E’ interessante comunque da un punto di vista visivo, quasi sfrontato nel suo sperimentalismo.
Il conformista
Il conformista, film del 1970 diretto da Bernardo Bertolucci rappresenta un caso rarissimo in cui la trasposizione cinematografica è di gran lunga migliore della fonte scritta da cui proviene, in questo caso l’omonimo romanzo di Alberto Moravia.
Bertolucci ambienta il film ( come del resto il romanzo) nella Roma fascista e per rendere il tutto più credibile sceglie l’Eur, il complesso urbanistico e architettonico di Roma nato negli anni trenta in previsione dell’Esposizione Universale di Roma che in realtà poi non si tenne.
Il quartiere, costruito nell’imponente stile impero caratteristico del fascismo, fa così da scenario a parte del film, quella ambientata a Roma e che vede l’inizio della storia di Marcello Clerici.
Siamo nel 1938 e l’uomo, che è un docente di filosofia che segretamente è anche una spia del regime fascista, ha una situazione personale estremamente complessa.Figlio di un uomo manesco e violento e di una donna alcolizzata all’estremo stadio, ha un segreto nascosto dal e nel tempo: da ragazzino, quando aveva 13 anni, ha ucciso un autista che aveva tentato di stuprarlo.
Con questo oscuro passato Marcello ha dovuto in qualche modo convivere ma da uomo ha comunque saputo costruirsi una vita normale: è infatti fidanzato con la bella e allegra Giulia, che lo ama con passione che in qualche modo è il rovescio della medaglia dell’uomo, decisamente meno propenso all’allegria e alla solarità.
Essere spia del governo fascista significa anche dover obbedire ad ordini a volte crudeli e che ti mettono a contatto con il tuo passato, che torna sotto forma del professor Luca Quadri che nel passato era stato professore di filosofia di Marcello.
L’uomo vive da esule e da dissidente a Parigi, dove è riparato per sfuggire al regime; secondo gli ordini ricevuti Marcello dovrà raggiungerlo e sopprimerlo.
Così, approfittando del viaggio di nozze con Giulia, che nel frattempo ha sposato, Marcello giunge a Parigi,dove ha modo di contattare il professor Quadri.
Marcello conosce anche la bellissima e ambigua Anna, con la quale allaccia una relazione, mentre la donna sembra essere attratta in maniera fatale principalmente da Giulia.
Seguito come un’ombra da Manganiello, un agente dei servizi segreti fascisti, Marcello riesce a portare in un luogo solitario il professore; quest’ultimo viene ucciso proprio da Manganiello perchè Marcello non riesce a sparare il colpo fatale e purtroppo a perire è anche Anna, che è presente all’attentato e che disperatamente cerca di salvarsi la vita, sotto lo sguardo un po impotente e un po indifferente di Marcello.
Passano 5 anni e la notte del 25 luglio 1943 Marcello si ritrova per strada mentre in giro circola la voce dell’avvenuto armistizio tra l’Italia e le potenze alleate:per puro caso l’uomo incontra l’autista che aveva tentato di abusare di lui e che credeva di aver ucciso.
Il grande equivoco che Marcello aveva costruito attorno a se stesso, alla sua personalità, diventando un conformista che si è adeguato per tutta la vita agli altri lo porta a urlare la sua rabbia all’autista, accusandolo di quello che ha commesso di turpe nella vita.
Elegante, affascinante e tecnicamente perfetto, Il conformista è uno dei film più importanti della cinematografia italiana;Bertolucci, che ne cura anche la sceneggiatura fonde mirabilmente il linguaggio visivo fondendo il romanzo originario di Moravia con la sua straordinaria capacità descrittiva, estrinsecata attraverso la ricerca continua della purezza formale.
Bertolucci narra più storie mantenendo l’alchimia del romanzo in maniera eccezionale: la vita di Marcello,il suo viaggio di nozze e il delitto di stato,la descrizione dell’odissea di un uomo che sembra non desiderare altro che diventare parte della maggioranza oscura e amorfa della gente e che solo alla fine sembra trovare lo spiraglio di luce per capire che ha vissuto una vita all’insegna della menzogna e del conformismo per nulla.
Una fotografia praticamente perfetta, curata da Vittorio Storaro e un cast strepitoso concorrono a rendere Il conformista un film da ricordare;grandissimo Jean Louis Trintignant, che interpreta Marcello, un uomo sconfitto da un errore di gioventù, che pagherà a caro prezzo vivendo una vita da conformista adeguandosi al pensiero comune alla ricerca di approvazione dagli altri.
Bravissima la vitale Stefania Sandrelli che interpreta il lato solare di Marcello, l’alter ego umano e vivo dell’uomo cupo e tormentato che diventerà il suo compagno di vita così come bravissima è Dominique Sanda, l’ambigua moglie del professore che sarà l’amante di Marcello e ancora segnalazione per Gastone Moschin, il viscido Manganiello, per Pierre Clémenti che interpreta Lino Semirama e infine Yvonne Sanson ( la madre di Giulia) e la grande attrice e cantante Milly, che interpreta la madre di Marcello.
Il conformista
Un film di Bernardo Bertolucci. Con Jean-Louis Trintignant, Stefania Sandrelli, Dominique Sanda, Gastone Moschin, Enzo Tarascio,Yvonne Sanson, Fosco Giachetti, Giuseppe Addobbati, Carlo Gaddi, Massimo Sarchielli, Alessandro Haber, Christian Alegny, Benedetto Benedetti, José Quaglio, Pierre Clémenti, Luciano Rossi, Milly, Orso Maria Guerrini Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 116 min. – Italia 1970.
Jean-Louis Trintignant: Marcello Clerici
Stefania Sandrelli: Giulia
Dominique Sanda: Anna Quadri
Gastone Moschin: agente speciale Manganiello
Pierre Clémenti: Lino Semirama
Enzo Tarascio: Luca Quadri
José Quaglio: Italo Montanari
Fosco Giachetti: il colonnello
Yvonne Sanson: la madre di Giulia
Milly: la madre di Marcello
Giuseppe Addobbati: il padre di Marcello
Antonio Maestri: Don Lattanzi
Christian Aligny: Raoul
Pasquale Fortunato: Marcello a 13 anni
Alessandro Haber: Senigallia, il cieco ubriaco
Sergio Graziani: Marcello Clerici
Rita Savagnone: Anna Qaudri
Giuseppe Rinaldi: Italo Montanari
Arturo Dominici: il colonnello
Lydia Simoneschi: la madre di Giulia
Regia Bernardo Bertolucci
Soggetto Alberto Moravia (romanzo)
Sceneggiatura Bernardo Bertolucci
Produttore Maurizio Lodi-Fè
Produttore esecutivo Giovanni Bertolucci
Casa di produzione Mars Film, Marianne Productions, Maran Film
Fotografia Vittorio Storaro
Montaggio Franco Arcalli
Musiche Georges Delerue
Scenografia Ferdinando Scarfiotti
Costumi Gitt Magrini
“Nel tempo della sua fanciullezza, Marcello era affascinato dagli oggetti come una gazza. Forse perché, a casa, più per indifferenza che per austerità, i genitori non avevano mai pensato a soddisfare il suo istinto di proprietà; o, forse, perché altri istinti più profondi e ancora oscuri si mascheravano in lui da avidità; egli era continuamente assalito da voglie furiose per gli oggetti più diversi.”
“Ma, tornò a domandarsi, sarebbe forse stato possibile che le cose avessero potuto andare altrimenti? No, non sarebbe stato possibile, pensò ancora, a guisa di risposta. Lino aveva dovuto insidiare la sua innocenza e lui, per difendersi, aveva dovuto ucciderlo, e poi, per liberarsi dal senso di anormalità che ne era derivato, aveva dovuto ricercare la normalità nel modo che l’aveva cercata; e per ottenere questa normalità aveva dovuto pagare un prezzo corrispondente al fardello di anormalità dal quale aveva inteso liberarsi; e questo prezzo era stata la morte di Quadri”. In questo senso la normalità “era proprio questo affannoso quanto vano desiderio di giustificare la propria vita insidiata dalla colpa originaria”.
” …se la montagna venisse rimossa, il sole farebbe sorridere le acque; ma la montagna è sempre là e il lago è triste “.
” Tutti, pensò, dovevano recitare la loro parte e soltanto in questo modo il mondo poteva durare “.
” La malinconia, egli l’aveva addosso, come una seconda pelle, più sensibile di quella vera… “.
” …io sono come quel fuoco, laggiù nella notte… divamperò e mi spegnerò senza ragione, senza seguito… “.
” …ed egli, in un solo sguardo, ebbe il senso della sua bellezza come di qualche cosa che gli era destinata da sempre… “.
” Il desiderio non era in realtà che l’aiuto decisivo e potente della natura a qualcosa che esisteva prima di essa e senza di essa “.
” Quando si dice fatalità si dicono appunto tutte queste cose, l’amore e il resto… “.
” Si sentiva stanco e stranamente trasognato, come se in mezzo a quella folla e a quel tumulto, egli si fosse portato dietro una sfera di solitudine trasparente e invisibile ma infrangibile, dalla quale non gli era possibile uscire “.
L’opinione di Antonio Canzoniere dal sito http://www.mymovies.com
Nella Roma fascista del ’38, Marcello Clerici, professore di filosofia e promesso sposo di Giulia, piccolo borghese solare e civettuola, ottiene una missione per conto dell’OVRA: uccidere il suo vecchio professore, dissidente politico residente a Parigi. S’innamorerà di Anna, la moglie del vecchio docente, attraente quanto ambigua, che intreccerà rapporti morbosi con Marcello e consorte. Alla fine scoprirà la verità su un risvolto del suo passato. Tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, che viene sovvertito nei temi e nel contenuto, il film segna l’inizio della serie dei capolavori del grande Bertolucci. Diviso tra una grigia Roma mussoliniana e una Parigi luminosa ed esistenzialista illuminate dalle luci di stampo espressionista del grande Vittorio Storaro, questo opus n.8 è, nonostante il protagonista voglia essere un conformista, un inno all’anticonformismo, alla libertà di amore, pensiero e dell’essere sé stessi. E’ il dramma di un’esistenza tormentata che non trova appoggi e che sembra perfino rifiutarli in un certo senso: Marcello, sconvolto da un trauma infantile, non riesce a non ricordare l’autista che tentò di violentarlo e sfogandosi sparandolo, trova nella violenza un’ancora disperata, fuori dalla religione e dagli affetti. L’unico sprazzo di vita e di libertà che gli passerà davanti sarà l’infatuazione per la moglie del professore, che però lascerà morire per mano dei sicari fascisti nell’imboscata in Savoia. Opera cinefila in ogni senso, omaggia l’espressionismo tedesco da Stenberg fino ad Ophuls ed immancabilmente, Il disprezzo di Godard. Trintignant straordinario, Sandrelli fantastica, Sanda celestiale, ammirevole Moschin. Nomination al Golden Globe come miglior film straniero e all’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale. La magnifica sequenza del ballo è girata nei sobborghi di Parigi.
L’opinione di Crimson dal sito http://www.filmscoop.it
Il regista torna a lavorare sull’identità dopo ‘Partner’; stavolta il riferimento letterario è l’omonimo romanzo di Moravia e non c’è un chiaro omaggio a Dostoevskij, ciononostante è pur presente l’ennesimo lavoro sulle ombre e perché no, sul doppio – la coscienza del protagonista ha la possibilità di redimersi non nella fede e neppure nella società come lui confessa candidamente di aspirare a giungere, ma nella fiducia dei due coniugi che contribuisce ad uccidere in modo agghiacciante. Omertoso e vigliacco fino in fondo, precipita al livello più basso della dignità, banderuola priva di personalità.
Ancora un lavoro sottile e acuto su realtà e ombra, sulla falsa riga dell’intramontabile “uomo della caverna” del citato Platone. La stessa ombra che scompare col primo raggio di sole metaforico che nella realtà appartiene all’evento cardine della fine della dittatura fascista. In quel preciso momento Marcello si dissolve e da delatore cerca disperatamente, ormai nel baratro, di riappropriarsi dell’immagine di normalità che ha tanto rincorso con tutte le sue forze.
Stavolta Bertolucci sul piano formale non strizza l’occhio a Godard ma mostra già di aver raggiunto una cifra stilistica matura di tutto rispetto. Il film è tecnicamente ineccepibile e la sequenza del brutale omicidio di Quadri totalmente mancante di emozione, scioccante come poche.
Rispetto alla prima visione ho ritrovato le stesse sensazioni ma avevo rimosso la figura indispensabile di Anna – lei che è a conoscenza, più a fondo del marito, del ruolo di Marcello ma che sembra non voler considerare, ingenuamente, che questa attrazione animale e irrazionale la condurrà inevitabilmente alla morte. E’ una donna che vive sul presentimento ma non comprende la crudeltà fino alle pugnalate ricevute dal marito e alla successiva corsa per la salvezza. L’incrocio di sguardi con Marcello è indescrivibile, la punta di diamante che eleva questo film da bellissimo a capolavoro.
‘Il Conformista’ non solo racconta dello smarrimento dell’identità e della possibilità che gli altri ci danno per renderci conto in extremis del reale valore della parola ‘normalità’ contrapposta a ‘individualità’, non solo rende conto che in determinati periodi storici in cui si afferma una mentalità egemone c’è sempre chi è pronto a inabissarsi tra le piaghe della mancanza di ideali, riflessione e confronto, ma pone le basi per considerare più genericamente quanto la cieca uniformità ad un Credo (politico, religioso) possa svilire l’uomo e renderlo ignobile.
Magistrale la sequenza della confessione di Marcello. Egli mostra di essere ateo non come risultato di una riflessione approfondita, ma come abitudine. Diffida della Chiesa perché intende essere assolto dalla società. Ciò che ricorda essere stato un omicidio è l’episodio che ha cambiato per sempre la propria vita. Il rifiuto della propria omosessualità latente lo ha spinto verso l’insoddisfazione e la conseguente ricerca ossessiva della “normalità”. Famiglia, stabilità, a tutti i costi. Paradigma che accomuna chi ha come unico obiettivo nella vita quello di essere qualcuno agli occhi degli altri. Marcello è tale. Non ha sentimenti di amore, la relazione con Giulia è assolutamente priva di calore. Egli la considera piccolo-borghese meschina e mediocre, e non a torto. Sua moglie è una ragazzina viziata e conformista quanto lui, ma a basso profilo. Si auto compiace del ruolo di donna che vive all’ombra del marito, che deve assuefarsi economicamente e filosoficamente ai valori che quel tipo di società che la culla le impone. E soccombe senza mai porsi la domanda. Il suo è un conformismo che non prevede la lotta per accaparrarsi un ruolo nella società, essendo fin dall’infanzia stata educata ad autolimitarsi conformemente alla concezione che solo al futuro marito pertiene quell’ambizione. E la sua bassezza morale si conferma in toto quando racconta a Marcello che in fondo aveva capito che l’omicidio dei coniugi Quadri era stata ordita da lui, eppure confessa candidamente che avendo pensato che potesse servirgli per fare carriera ha implicitamente e vergognosamente taciuto. Imputa a coloro che festeggiano la caduta di Mussolini di essere ipocriti dimenticando di eseguire un esame di realtà su se stessa e sul marito. La stabilità prima di tutto.
Anna vuole Marcello, lo scuote, forse lo ama. Marcello vorrebbe che lei non parta perché sa che Luca Quadri morirà. Quando scopre che anche lei è partita ordina a Manganiello di accelerare perché intende salvarla. Il disorientamento che Marcello prova nei sentimenti per ‘merito’ di Anna è il medesimo che prova sul piano intellettuale per filantropico candore del professore (che sfocia nell’eccesso di sprovvedutezza che gli costerà la vita). Non è un fascista fino in fondo e non lo sarà mai, ma non è neppure un uomo che riesce a guadagnare una dimensione etica, individuale. Resta una figura a metà, nulla, ignava.
La parvenza del cambiamento è sempre dietro l’angolo. Una mano tesa che si infrange contro il muro eretto dalla corruzione morale, cronica e irrimediabile; dall’incapacità di diventare un essere umano uscito dalla caverna. Marcello resta lì, a fissare le ombre.
Jean Louis Trintignant è una maschera. Anima un personaggio raccapricciante, vittima ma colpevole.
Un film sconvolgente, profondo, longevo.
L’opinione di Chinaskj dal sito http://www.filmtv.it
Un uomo si deve recare a Parigi per uccidere il suo ex professore di filosofia, fuggito dall’Italia quando il fascismo ha preso il potere. Questo uomo, ambiguo e mediocre, si chiama Marcello Clerici ed è il simbolo della ricerca di quella normalità borghese cara a tanta parte della nostra popolazione. Rivedere a quaranta anni di distanza Il Conformista di Bertolucci è come accorgersi che il tempo non è passato, che nulla è cambiato. Che quella mediocrità esistenziale è diventata uno stile di vita, che quel servilismo al potere è diventato la morale dei nostri giorni. E in più c’è il rimpianto per la grandezza di un cinema (nelle idee, nello stile, nella forza espressiva, nella denuncia aperta) che da decenni ha smesso di vivere.
Bertolucci esaminava il fascismo e lo combatteva dall’interno, negli istinti, nelle pulsioni (omo)sessuali represse, come se la vera liberazione potesse arrivare solo attraverso la presa di coscienza del proprio istinto, dei propri desideri, Dominique Sanda e Stefania Sandrelli che ballano, la distruzione delle gabbie borghesi doveva avvenire attraverso l’esplosione erotica, ci penserà un paio di anni dopo Marlon Brando, sempre a Parigi, in un appartamento in affitto in Rue Jules Verne.
I luoghi e i volti del fascismo si astraggono, diventano grotteschi (quello di Gastone Moschin che interpreta Manganiello) e metafisici (le sequenze girate nel Palazzo dei Congressi a Roma) come i ricordi di un sogno, Parigi evoca la nostalgia di un mondo perduto eppure ancora vitale, dove le fantasie sessuali possono diventare reali, l’attrazione fisica elimina le distanze, supera le barriere ideologiche, elude lo scontro politico, la lotta diventa quella dei corpi per il raggiungimento del piacere, dell’orgasmo.
I boschi dove verrà ucciso il professor Quadri, il respiro degli alberi, il montaggio di Franco Arcalli, il cambiamento continuo della visuale, gli uomini in nero che arrivano, i coltelli, il fiato che si condensa, la corsa folle di una donna che diventa una preda animale che fugge.
Il mito della caverna di Platone, il professor Quadri che rimprovera a Marcello Clerici l’illusorietà della vita sociale italiana durante il fascismo, siamo ancora incatenati in quella caverna e le ombre non passano più su una delle sue pareti, ma su uno schermo televisivo e noi continuiamo a credere che quanto vediamo sia la realtà, l’unica e la sola possibile.
“Ma che t’aspetti dal matrimonio?Vedi, l’impressione della normalità.”
“La normalità… Voglio costruire la mia normalità, faticosamente…”
“È strano, però… Tutti vorrebbero sembrare diversi dagli altri e tu invece vuoi somigliare a tutti.”
La donna della domenica
Torino.
E’ una caldissima giornata estiva e la città è quasi deserta.
In un appartamento cittadino si compie un dramma: l’architetto Garrone, un viscido e traffichino frequentatore dei margini della società bene torinese viene ucciso brutalmente.
L’arma del delitto è quantomeno inusuale.
All’architetto infatti è stato sfondato il cranio con un pesante fallo di pietra.
A dirigere le indagini viene chiamato il romano Santamaria che da subito si rende conto di ritrovarsi tra le mani una brutta gatta da pelare.
L’uomo infatti frequentava il salotto buono della città, in particolare quello dei coniugi Dosio che lo disprezzavano apertamente.
L’esclusivo gruppo lo tollerava pur ritenendolo un uomo gretto e meschino;sopratutto Anna Carla Dosio, l’annoiata moglie dell’industriale Dosio era in prima linea tra i detrattori del losco architetto.
Marcello Mastroianni (Santamaria) e Jean Louis Trintignant (Massimo Campi)
Quando i superiori di Santamaria apprendono i nomi di coloro che sono indagati per il delitto, iniziano a premere sull’inquirente per raccomandargli prudenza.
Le indagini iniziano così proprio nella cerchia dei frequentatori del salotto, fra i quali c’è la coppia omosessuale composta da Massimo Campi, erede di una ricchissima e antica famiglia torinese e da Lello Riviera, un giovane timido e riservato che ama Massimo profondamente.
Claudio Gora, il viscido architetto Garrone
L’unica traccia che ha Santamaria è la descrizione sommaria dell’assassino fatta da colui che ha scoperto il cadavere, il geometra Bauchiero, che descrive la presenza sul luogo del delitto di una donna bionda che indossava un impermeabile, che aveva con se una borsa sportiva arancione e nelle mani un tubo porta disegni.
Muovendosi con circospezione in un ambiente che mostra di avere tanti segreti, alcuni dei quali innominabili e sopratutto una morale gretta e meschina tipica di un ambiente esclusivo poco propenso all’apporto esterno di persone considerate socialmente “al di sotto”, Santamaria arriverà alla soluzione dell’enigma trovando l’insospettabile colpevole e sopratutto allacciando una fugace relazione con la bella signora Dosio che alla fine lo pianterà per riprendere la solita oziosa e inutile vita da ricca borghese.
La bottega dei falli di pietra
Tratto dal bellissimo romanzo di Carlo Fruttero e Franco Lucentini edito nel 1972, La donna della domenica è la quasi fedele trasposizione del romanzo stesso operata da Luigi Comencini nel 1975, con esiti assolutamente felici.
Il grande regista di Salò mette la sua ironia, una volta tanto non pesante in eccesso e sopratutto non colorata di nero al servizio di un’opera cinematografica che si segnala per tutta una serie di peculiarità.
Prima di tutto per la splendida sceneggiatura curata dagli stessi scrittori del romanzo ampliata dalla presenza di due fini sceneggiatori come Age e Scarpelli, poi per la presenza di un cast di grandissimo livello e infine per l’abilità di Comencini di riprendere le atmosfere del romanzo riportandole con grande fedeltà sullo schermo.
Sono cose che contribuiscono in maniera determinante alla credibilità del film stesso, che per lunghi periodi appassiona, diverte, fa riflettere anche se sempre in maniera leggera, così come leggera e la vicenda che seguiamo sullo schermo.
Pino Caruso ( Commissario De Palma) e Lina Volonghi (Ines Trabusso)
Leggera, si, nonostante il delitto iniziale; prima di tutto per la scelta dell’arma da parte dell’assassino, un fallo di pietra, poi per la mancanza totale dell’elemento sangue.
C’è stato un delitto, è vero, ma la cosa ha poca importanza.
Prima di tutto perchè il defunto è un essere spregevole, uno di quelli che l’umanità non piange di certo poi perchè le vicende dei vari sospettati prendono immediatamente il sopravvento su tutto.
L’ambiente indolente, a tratti vizioso, principalmente afflitto da una morale piccolo borghese ed esclusiva che lo avvolge come una cortina impenetrabile ci suona così antipatico che non parteggiamo per nessuno dei protagonisti.
Forse l’unico a suscitare un piccolo moto di simpatia è l’innamoratissimo Lello, che diverrà poi la seconda vittima della vicenda quando verrà ucciso al mercato del Balun dopo aver capito chi è l’assassino.
Jacqueline Bisset è Anna Carla
Seguiamo così il buon Santamaria alle prese con i superiori che da un lato lo spingono ad usare la massima circospezione ( un vero e proprio tentativo di insabbiamento, in effetti) e alle prese anche con un movente che all’inizio sembra più passionale che venalmente economico.
Così, dopo una vasta carrellata di tutti i personaggi implicati nella storia, ci ritroviamo immersi in un giallo in cui l’ironia di Comencini fa da musa invisibile.
Splendida la visita di Santamaria e di Anna Carla Dosio alla fabbrica di falli di pietra che si conclude con la distruzione di un bel mucchio degli stessi, destinata al mercato degli stranieri, con Anna Carla tutta eccitata dalla novità rappresentata sia dagli eventi che scuotono il torpore dorato in cui vive, sia dall’attrazione che prova per il bel commissario romano.
Lello confessa la sua relazione con Massimo
Quando il film si conclude, restiamo con un tantino di amaro in bocca non certo per la delusione nello scoprire le motivazioni del colpevole, quanto perchè sono passate due ore di sano divertimento e vorremmo usufruirne ancora.
Grazie sopratutto a Marcello Mastroianni che disegna splendidamente la figura del cinico ma sorridente Santamaria, uno che affronta la vita come un gioco a cui partecipare con il distacco più grande possibile; merito di una bellissima Jacqueline Bisset che è naturalmente predisposta al ruolo della donna di classe, ricca elegante e bella e sopratutto annoiata dalla sua vita dorata fatta del nulla più totale, ovvero cene, parrucchiere e pettegolezzi.
A sinistra: Aldo Reggiani (Lello Riviera)
E merito anche del cast variegato di caratteristi e non che affollano la pellicola; a partire da Pino Caruso, il Commissario De Palma anche lui furbo e cinico, per proseguire con la coppia omosessuale Jean Louis Trintignant e Aldo Reggiani (Massimo Campi e Lello Riviera), entrambi credibilissimi nel ruolo degli amanti impossibili.
Claudio Gora è inscindibile dal suo personaggio interpretato, quel Garrone viscido come una lumaca senza guscio, Lina Volonghi si cala perfettamente nel ruolo di Ines Tabusso, la donna che si lamenta del via vai di prostitute che ha sotto casa (memorabile la sequenza della caccia ai frequentatori di lucciole, che produrrà alcune grosse sorprese, non tutte piacevoli)
La splendida Jacqueline Bisset
Spazio anche a grandi caratteristi come Gigi Ballista, Antonino Faà di Bruno, Omero Antonutti e segnalazione per il visagista delle dive, Gil Cagnè che interpreta se stesso rifacendosi ironicamente il verso.
Insomma, una commedia tinta di giallo, gustosa, fresca e divertente che permette di passare due ore davanti allo schermo in perfetta sintonia con quello che accade sullo schermo, impigrendosi al caldissimo sole di Torino, sorridendo dei tanti vizi che costellano la vita sociale dell’alta borghesia della città stessa.
Sopratutto riconciliandosi con un certo tipo di cinema, quello della commedia, che nella metà degli anni settanta doveva fare i conti da un lato con la triste realtà degli anni di piombo, dall’altro con un cinema in cui la volgarità e il sesso avevano purtroppo largo spazio.
Infine, menzione d’onore per la precisa e puntuale colonna sonora di Ennio Morricone
Al centro della foto l’indimenticabile Franco Nebbia
La donna della domenica, un film di Luigi Comencini. Con Claudio Gora, Jacqueline Bisset, Jean-Louis Trintignant, Marcello Mastroianni, Aldo Reggiani,Pino Caruso, Gigi Ballista, Tina Lattanzi, Lina Volonghi, Clara Bindi, Giuseppe Anatrelli, Ennio Antonelli, Omero Antonutti, Renato Cecilia, Mauro Vestri, Antonio Orlando, Franco Nebbia
Commedia/Giallo, durata 105 min. – Italia 1975.
La retata sotto casa della Trabusso
Le indagini dei due commissari
La seconda vittima, Lello Riviera
Gigi Ballista (la location è il mercato Balon di Torino)
Marcello Mastroianni: Commissario Santamaria
Jacqueline Bisset: Anna Carla Dosio
Jean-Louis Trintignant: Massimo Campi
Aldo Reggiani: Lello Riviera
Pino Caruso: Commissario De Palma
Lina Volonghi: Ines Tabusso
Franco Nebbia: Bonetto
Maria Teresa Albani: Virginia Tabusso
Omero Antonutti: Benito
Claudio Gora: l’architetto Garrone
Gigi Ballista: Vollero
Fortunato Cecilia (col nome di Renato Cecilia): Nicosia
Tina Lattanzi: la madre di Massimo
Antonino Faà di Bruno: il padre di Massimo
Gil Cagné: il parrucchiere
Mauro Vestri: ragioner Cerioni:
Giuseppe Anatrelli: commissario
Antonio Orlando: Salvatore
Ennio Antonelli: ceramista Zabataro
Dante Fioretti: ragioner Buccero
Regia Luigi Comencini
Soggetto Fruttero e Lucentini
Sceneggiatura Fruttero e Lucentini, Agenore Incrocci, Furio Scarpelli
Produttore Marcello D’Amico
Fotografia Luciano Tovoli
Montaggio Antonio Siciliano
Musiche Ennio Morricone
Scenografia Mario Ambrosino arredamento di Claudio Cinini
Costumi Mario Ambrosino
Il romanzo di Fruttero & Lucentini
Le recensioni qui sotto appartengono al sito http://www.davinotti.com
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
Bissetiano. Impossibile non innamorarsi di Jacqueline Bisset, che sposa bellezza ed eleganza in modo splendido. Grandissimo cast, con una Lina Volonghi fantastica, da urlo. Ma tutti sono bravissimi. Ci sono anche, fra i tanti, Gigi Ballista (antiquario disonesto), Antonutti, Anatrelli puttaniere. In picccolo ruoli, ma con una bella battuta, Mauro Vestri e Antonino Faà di Bruno. Non per provare tensione, ma per provare divertimento intelligente. “Deus ex machina” risolutivo un po’ diverso dal libro di Fruttero e Lucentini: già perdonato.
Tratto da un bel romanzo di Fruttero & Lucentini, il film si avvale dell’ottima sceneggiatura di Age & Scarpelli, che rimangono fedeli al romanzo, adattandolo in maniera ottimale ai tempi cinematografici. Ottima la ricostruzione dell’ambiente alto borghese di Torino, rispetto al quale il commissario Santamaria (romano trapiantato in Piemonte) mostra sempre un elegante distacco (Mastroianni appare attore ideale per il ruolo). Buona la caratterizzazione psicologica dei personaggi e cast (non solo il protagonista) all’altezza.
Age & Scarpelli, particolarmente attivi con Totò, imbastiscono una sceneggiatura dalle sfumature grottesche (quasi da commedia), ma che poi approdano – con millimetrica precisione – al giallo. Ottima la regia di Comencini, che riesce a valorizzare un cast significativo, partecipe e coinvolto con professionalità nella realizzazione del film. Titolo memorabile, per via d’un “modus operandi” del killer che sembra avere influenzato future produzioni (ora mi sovvengono solo L’Osceno Desiderio e La Sorella di Ursula).
Era inevitabile perdere per strada molte delle finezze del classico romanzo di Fruttero & Lucentini (basti per tutte l’inestinguibile cruccio dell’americanista Bonetto per lo sprezzante “taluno” sparato da un conferenziere rivale… ), ma un film è un film, e questo è buono. Mastroianni è un credibile Santamaria, la Bisset una dea, notevolissimo il cast secondario, col miglior ruolo al cinema della Volonghi. Forse stecca il solo Trintignant, non sempre vispo. Buono.
Discreta riduzione cinematografica del bel romazno giallo di Fruttero e Lucentini. Il ritmo non è certo vertiginoso (come d’altronde nel libro) eppure riesce ad essere abbastanza intrigante e coinvolgente. Peccato che la regia di Comencini sia un po’ troppo piatta. Buone invece le interpretazioni degli attori.
Chi ha ucciso il traffichino Garrone? Nei primi 10 minuti il film ci presenta tutti i sospettati, per poi riunirli tutti sul luogo del secondo omicidio. Bella gente, impiegati comunali, galleristi truffaldini, tutti indagati da Mastroianni, scettico e sornione, e da Pino Caruso, esuberante e perennemente sopra le righe. Da un famoso romanzo, Comencini mette in scena una Torino non molto filmata dal nostro cinema, con un cast di stelle e caratteristi doc. Il meccanismo giallo non è granché (un po’ alla Ellery Queen), ma il film si vede con piacere.
Discreta pellicola in bilico tra giallo e commedia. Registicamente il film non fa una piega, la fotografia è notevole e le musiche di Morricone sono un po’ sottotono ma comunque ben arrangiate e sempre piazzate al posto giusto. Molto lenta la sceneggiatura, soprattutto nella prima parte, anche se il coinvolgimento cresce lentamente per poi diventare molto elevato nell’ultima mezz’ora. Ottimo cast, con un perfetto trio di protagonisti e soprattutto pieno di gustosissime apparizioni in ruoli secondari.
Partendo dall’ottimo giallo di Fruttero & Lucentini, Comencini confeziona una discreta trasposizione che però si concede troppe libertà. Rispetto al testo la storia viene un po’ troppo semplificata e snellita, a discapito di alcuni personaggi fondamentali. Da ricordare soprattutto per il sempre bravo Mastroianni che dona al suo commissario Santamaria un buono spessore e l’ironia giusta.
Bella prova corale, equilibrio tra regia ferma e attori di gran livello che sanno condividere tra loro la scena e soprattutto alla base un gran bel romanzo. Un testo importante, ben scritto, dove in fondo l’ambientazione, l’atmosfera e lo sviluppo dei caratteri dei personaggi prevale sull’intreccio in senso stretto. Un’affascinante Torino, per certi versi sempre un po’ segreta e secretata al grande pubblico. Tre pallini.
Un giallo impeccabile, con un’ottima ricostruzione, ottimi personaggi e una trama solo apparentemente nella norma, ma che diventa incalzante pian piano che si dipana la matassa della brillante sceneggiatura su cui la pellicola si basa. Una Torino inedita e un film che brilla ad ogni fotogramma, musicato da una soundtrack di Morricone semplicemente superba.
Magari l’intellettuale di turno seduto sulla poltrona con la faccia un po’ schifata e il sopracciglio inarcato pensa che dormirà per tutto il film, ma sceneggiatori, regista, musicisti, attori e perfino i costumisti, si meritano un bel “bravo”. Perchè questo è un film dei singoli e anche corale. Immagino che ci sarà voluta una grande fermezza per disciplinare tanti mostri di bravura: un plauso a Comencini, tanto bravo da non sovrapporsi alla storia. La location del Balùn è da menzionare. Mastroianni è il solito grande attore, godibilissima Lina Volonghi.
Pregevole tentativo (imitato poco e male) di “terza via” al giallo italiano, qui epurato dai fremiti pruriginosi del filone lenzian-martiniano (ma se ne mantiene il contesto “vip”) e dalla violenza di quello argentiano. Comencini firma un giallo “maturo”, che coniuga grotteschi personaggi da commedia con il realismo mutuato dal poliziesco di costume. Non è perfetto ma non è nemmeno, come poteva sembrare dalla matrice letteraria, solo un film tutto sceneggiatura e attori: si respira aria di cinema, anche grazie a Tovoli e Morricone.
Da una storia poco intrigante il regista ha realizzato un gran bel film, che si fa guardare molto piacevolmente. Bravi tutti gli attori (in particolare Mastroianni) e bellissime le ambientazioni in una splendida Torino.
I gusti di Dusso
Bel film, cast all stars per la trasposizione cinematografica di uno dei migliori gialli italiani, scritti dalla premiata ditta Fruttero e Lucentini. Ambientazioni stile Anni Settanta molto gustose, protagonista bellissima (una Bisset in gran forma), sceneggiatura tutto sommato all’altezza del libro (e non era certo impresa facile). Claudio Gora si segnala in una delle sue migliori interpretazioni di viscido squallore, Mastroianni rende con la consueta maestria la sorniona nonchalance del Commissario Santamaria.
Da un capolavoro della scrittura non poteva uscire un film scadente. Questo bel giallo, torinese nell’anima, rimane come una delle opere più riuscite degli anni Settanta. Cast di prim’ordine con Mastroianni e Trintignant su tutti, trama complicata e storia appassionante. Con tutto un sostanzioso contorno di personaggi genuinamente macchiettistici e coloriture regionali che danno vita ad un’ambientazione molto definita: è il maggior pregio del film. Grande fotografia dell’Italia che fu: vicina a noi ma irrimediabilmente perduta.
Questa è una di quelle pellicole in cui attori come Mastroianni, magari in cerca di riposo da pellicole più impegnate, avrebbero potuto limitarsi a seguire il copione senza particolari sforzi interpretativi, considerate le intenzioni modeste del film. Invece, guarda caso, il film e l’attore in questione si rivelano essere molto al di sopra di qualunque aspettativa; la trama ha uno sviluppo apparentemente lento, poi progressivamente si infittisce, fino alla scoperta finale dell’assassino; ma prima di questa c’è sempre tempo per gustare i piccoli spunti di comicità che Comencini ha disseminato.
Spostamenti progressivi del piacere
Una stanza spoglia, una donna legata ad un letto da sottili funi, un paio di forbici conficcate nel petto della donna, nuda, e per terra una bottiglia, con ancor su delle impronte. Le impronte appartengono ad Alice, mentre la donna morta si chiama Nora.
Sembra l’inizio di un giallo classico, del quale però conosciamo in anticipo il colpevole.
O meglio, la colpevole. Perchè le impronte sulla bottiglia sono di Alice, che aveva con Nora una torbida relazione.
La ragazza è arrestata, ma racconta una sua verità; ad uccidere Nora è stato un misterioso assassino, che ha trovato la chiave dell’appartamento sotto lo zerbino, ha aperto e ha sfogato i suoi istinti bestiali sulla ragazza.
Anicee Alvina
Nora era una depravata, che la spingeva a sottili e perversi giochi, che la teneva soggiogata psicologicamente.
E’ così oppure è una forma di difesa di Alice, quella di incolpare la donna morta che non può ovviamente smentire?
Alice conferma la sua versione: Nora la spingeva sul marciapiede, aveva annullato la volontà della ragazza.
La sua versione è sempre la stessa, e viene confermata al suo avvocato difensore, all’ispettore che conduce le indagini, al cappellano del carcere dove Alice è detenuta, alle suore, in pratica a tutti coloro che è affidata questa enigmatica ragazza.
Che smonta e rimonta la verità, in un gioco progressivo in cui tutti coloro che la avvicinano finiscono per diventare colpevoli di qualcosa: è lei la colpevole e gli altri sono solo turpi individui preda di passioni oscene?
Dov’è la verità?
Se lo chiede anche l’avvocato difensore, che ben presto diventa parte integrante del gioco perverso portato avanti da Alice.
Lei si identifica in Nora, e alla fine ne condivide la sorte.
Un’altra stanza, una vittima diversa.
Si ricomincia.
Riassumere la trama di Spostamenti progressivi del piacere è impresa improba, come del resto avviene con tutti i film di Alain Robbe-Grillet, regista del quale ho già parlato nel caso di Giochi di fuoco; anche in questo caso siamo di fronte ad un film che smonta e rimonta le immagini, in una struttura circolare in cui non c’è una verità e un finale, ma un vero e proprio gatto che si morde la coda.
Ancora una volta il regista demolisce quel che vediamo, sostituendo alla certezza il dubbio; il volto angelico di Alice passa rapidamente da essere tale ad essere diabolico, per poi tornare angelico, senza soluzione di continuità.
Vittima e carnefice diventano indistinguibili; è Alice la vittima, che subiva i rapporti lesbici o era invece la mente occulta e perversa del torbido rapporto?
Le suore, l’ispettore, il cappellano diventano figure ambigue: è l’invenzione della fantasia malata della ragazza o è una delle facce della realtà?
Sono persone normali oppure nascondono segreti inconfessabili?
Non lo sapremo.
Possiamo immaginare a nostro piacimento sul come siano andate le cose; il regista non aiuta in nulla, lasciando i personaggi privi di una qualsiasi connotazione psicologica.
Si muovono generalmente in spazi chiari, oppure scuri.
Grillet provoca, affascina, propone immagini da decifrare; lo fa con il suo stile, colmando il film di immagini di nudo delle due protagoniste, tanto da provocare l’ottusa reazione della censura, che boccia il film come pornografico.
Visione parziale e asettica di una pellicola che non solo non è pornografica, ma non è nemmeno erotica;
la bella Anicee Alvina non ispira nessuna pulsione erotica, tanto sembra asessuata, quasi incoporea.
Cosi, alla fine, a parte il senso di gelo dettato dalla rigida struttura circolare del film, che sembra iniziare dalla fine e finire dall’inizio, ci si trova davanti ad un’opera che sembra trasportata dal teatro dell’assurdo, con personaggi scomposti, ricomposti e poi nuovamente scomposti, in un gioco eterno che sembra irridere i canoni estetici e narrativi del cinema.
Il cinema di Alain Robbe-Grillet è questo e anche molto più; è la destrutturazione del racconto, un inganno visivo e sensoriale, in cui tutto e il contrario di tutto si rincorrono, trascinando lo spettatore in un vortice; il suo è un cinema affatto semplice. Non si illuda, lo spettatore, di guardare un’opera in cui è davvero centrale la figura o la trama; Grillet decompone tutto, affidando alle immagini e alla fantasia dello stesso spettatore il compito di dipanare la matassa.
Un cinema strutturato in maniera così complessa da sembrare un quadro di Escher; nulla, in ciò che guardiamo, è vero, e se è vero, probabilmente è falso. Realtà efantasia sono facce di una stessa medaglia, che però puoi guardare dai due lati senza distinguere quale sia quella vera. Si confondono, la fantasia e il reale, perchè sono un gioco.Oppure sono una cosa terrivilmente seria.
Spostamenti progressivi del piacere, un film di Alain Robbe-Grillet. Con Isabelle Huppert, Michael Lonsdale, Anicée Alvina, Jean Martin, Olga Georges-Picot, Marianne Eggerickx
Titolo originale Glissements progressifs du plaisir. Drammatico, durata 104 min. – Francia 1971.
Anicée Alvina … Alice
Olga Georges-Picot … Nora
Michael Lonsdale … Il giudice
Jean Martin … Il prete
Marianne Eggerickx … Claudia
Claude Marcault … Suor Julia
Maxence Mailfort … Cliente
Nathalie Zeiger … Suor Maria
Bob Wade … Becchino
Jean-Louis Trintignant … Il poliziotto
Isabelle Huppert … Bit
Hubert Niogret … Il fotografo
Alain Robbe-Grillet … Un passante
Catherine Robbe-Grillet … Una suora
Regia Alain Robbe-Grillet
Sceneggiatura Alain Robbe-Grillet
Produttore André Cohen, Marcel Sébaoun
Fotografia Yves Lafaye
Musiche Michel Fano
Giochi di fuoco
Di Alain Robbe-Grillet , regista francese scomparso recentemente, ho visto solo due film, Spostamenti progressivi del piacere e questo Giochi di fuoco, datato 1974; dico subito che i due film che ho visto sono un’autentica sfida visiva, giocati come sono su incastri degni delle famose scatole cinesi. Grillet si divertiva a montare, rismontare e poi montare ancora i film, trasformandoli a piacimento in corso d’opera, con il risultato di lasciare lo spettatore sconcertato di fronte agli improvvisi capovolgimenti di trama, di situazioni, con finali che mettevano a dura prova lo stesso spettatore.
Agostina Belli
Va da se che a questo punto parlare di una trama lineare diventa impossibile,visto che il film in oggetto, Giochi di fuoco, assomiglia più ad un sogno ( o ad un incubo) , con continui capovolgimenti di logica, temporali e in ultimo anche di location.
Provo a descriverne sommariamente il plot, avvisando comunque che è ampiamente contestabile, a seconda di come uno abbia interpretato le scene.
Una ragazza, Carolina, viene apparentemente rapita mentre è in stazione; la ragazza è figlia di un banchiere, e tutto sembra avere immediatamente una logica. Ma Caroline non è stata rapita e rientra regolarmente a casa. Il padre riceve richieste di riscatto da una misteriosa organizzazione, e decide quindi di nascondere la ragazza in un posto particolare, una specie di pensionato molto lussuoso.
A consigliarlo, in tal senso, è il commissario Laurent; ma il posto si rivela ben presto, agli occhi della ragazza, come un bordello di lusso, dove avvengono strani rituali e dove arrivano ragazze che vengono rapite per essere date in pasto ai frequentatori del posto.
Laurent convince Georges De Saxe, il padre della ragazza, a pagare l’ingente riscatto richiesto dai rapitori della stessa, ma il capo dei rapitori, Franz, con uno stratagemma si impossessa della somma, beffa i poliziotti facendo arrestare un suo complice e fugge.
Anicee Alvina e Philippe Noiret
Nel frattempo Caroline riesce a liberarsi dei suoi carcerieri e scappa, ma viene riacciuffata poco dopo e ricondotta nel suo luogo di prigionia, dove però non arriverà mai; l’auto che la trasporta incrocia Franz in fuga e nasce un conflitto a fuoco tra gli ex compagni di Franz e lo stesso. L’auto sulla quale è Caroline si ribalta e la ragazza muore. Sembra tutto finito, ma ecco ancora un cambio di rotta del film. La ragazza riappare misteriosamente, raggiunge Franz e si invola con lo steso e il bottino.
Una trama che sembrerebbe quasi comprensibile se si esclude il finale; ma garantisco che raccontarla nel modo in cui ho riassunto il tutto richiede uno sforzo notevole di fantasia oltre che un adattamento ad un percorso logico che nel film è assolutamente da interpretare.
Già dall’inizio bisogna districarsi tra il rapimento vero o presunto della ragazza, seguito subito dopo dalla presenza del doppio personaggio interpretato da Jean Louis Trintignant, ovvero il commissario Laurent e il rapitore Franz. Da questo momento in poi si naviga davvero a vista,perchè quello che si vede sembra essere capovolto nei fotogrammi successivi, con l’aggiunta di un ulteriore elemento di confusione, ovvero i dialoghi dei vari protagonisti, che sembrano parlare della trama stessa, delle sue evoluzioni, di fatti a loro accaduti (forse), portando il tutto, e di conseguenza lo spettatore, in una dimensione in cui l’onirico, il reale, sembrano confondersi senza soluzione di continuità. Così le figure dei protagonisti assumono ambivalenze completamente ambigue; Georges De Saxe è il padre della ragazza, ma è anche in contemporanea uno dei soci del famoso pensionato.
Un gioco complesso, che finisce per portare lo spettatore in un labirinto di specchi, in cui l’uscita dallo stesso non è una sola, ma molteplice.
Un cinema fatto di divertimento, quello di Robbe Grillet, di stravolgimento dei canoni del cinema stesso, che diventa surrealista o anche iperrealista; lo spettatore deve capire il ero ruolo dei personaggi, o semplicemente adattarsi ad uno di essi, senza però attendersi una qualche rivelazione o uno sviluppo che indichi qual’è, ammesso che esista, la strada indicata dal regista.
Film complicato e strambo, se vogliamo; per due ore si è chiamati a giocare, a fare gli investigatori, o semplicemente chiamati a districarsi tra le immagini. A confondere di più le idee, ecco una sovra esposizione di corpi nudi, a partire da quello generosamente esposto della compianta Anicee Alvina, protagonista anche di Spostamenti progressivi del piacere, attrice scomparsa improvvisamente nel 2006 a soli 53 anni, bravissima anche nel giocare il ruolo fondamentale di Caroline con una serie di espressioni facciali spiazzanti.Nel cast ci sono anche Philippe Noiret, figura ambigua e inclassificabile (immagino la faccia di un ipotetico spettatore che entri a metà film e che veda il banchiere fare il bagno alla figlia con occhi poco paterni), che tratteggia da par suo il personaggio rendendolo indecifrabile oltre ogni immaginazione.
C’è Jean Louis Trintignant, anch’egli reduce da Spostamenti progressivi del piacere, dopplerganger in due ruoli antitetici, poliziotto/bandito, enigmatico fino alle battute finali; c’è Agostina Belli, in un ruolo sacrificato, quello della cameriera di casa De Saxe, c’è Sylvia Kristel, reduce dal successo di Emmanuelle.
Il tutto è condito da un’infinità di sequenze di nudo, che hanno portato alcuni recensori a catalogalo come film erotico; il che è un errore marchiano, perchè l’erotismo presunto del film non ha nulla di morboso o accattivante.
Sembra infatti figlio di un esperimento scientifico; il sesso è asettico e serve come una cornice serve ad un pittore per arricchire la tela sulla quale ha dipinto.
In ultimo, un consiglio; se vedete Giochi di fuoco, Le jeu avec le feu come recita il titolo originale, fatelo senza aspettarvi il cinema tradizionale.
Guardatelo come guardereste un quadro di Picasso del periodo cubista o come leggereste l’Ulisse di Joyce: senza questi accorgimenti restereste spiazzati in maniera totale da quello che è un cinema che assomiglia ad una serie di sogni notturni, quei sogni che si rincorrono senza una logica, sfalsati su più piani temporali.
Giochi di fuoco, un film di Alain Robbe-Grillet. Con Jean-Louis Trintignant, Sylvia Kristel, Philippe Noiret, Agostina Belli, Anicée Alvina,Serge Marquand, Vernon Dobtcheff
Titolo originale Le jeu avec le feu. Commedia, durata 109 min. – Francia 1974.
Jean-Louis Trintignant … Franz / Francis Laurent
Philippe Noiret … Georges de Saxe / Il suo doppio
Anicée Alvina … Carolina de Saxe
Sylvia Kristel … Diana Van Den Berg
Agostina Belli … Maria, cameriera di de Saxe
Serge Marquand … Mathias
Charles Millot … Rapitore
Vernon Dobtcheff Messaggero
Jacques Seiler … Conducente del taxi / Domestico di d’Erica / Il prete
Michel Berto … Il Vice Commissario
Christine Boisson … Christina la ragazza nel bagagliaio / Desdémone
Marc Mazza … Un messagero
Nathalie Zeiger … Tania, la ragazza con i cani
Joëlle Coeur … La sposa
Jacques Poirson Maître d’hôtel
Gérard Melki … Maître d’hôtel
Mario Santini … Un rapitore
Elisabeth Strauss … La cantante / Léonore
Maurice Vallier … Bonaud, il capo della banda
Jean-Louis Tristan … Un rapitore
Regia: Alain Robbe-Grillet
Scritto da : Alain Robbe-Grillet
Prodotto da: Alain Coiffier per La Société du Film
Editing: Bob Wade
Costumi: Georges Bril, Hilton McConnico
Trucco: Jacky Bouban
Il montone infuriato
L’irresistibile ascesa di Nicola, un anonimo impiegato di banca, dallo sportello alla ricchezza e al potere.
L’uomo lavora in una banca, e vive in maniera grigia la sua vita; l’unica sua distrazione è l’incontro in un bistrot con l’amico Claude Fabre, scrittore di scarsa fama, con un handicap fisico. A lui racconta il primo gesto anticonvenzionale che fa all’improvviso; agganciare una giovane, Marie Paule, che si rivelerà essere una prostituta.
Jane Birkin interpreta Marie Paule
Incitato da Claude, che vede in lui un fascino particolare, al quale a suo giudizio le donne non possono resistere, Nicola aggancia una splendida signora dell’alta società, Francesca. La donna, sposata con un professionista abbastanza grezzo, cede al fascino di Nicola e allaccia con lui una relazione. Contemporaneamente, sempre seguendo i suggerimenti dell’amico scrittore, si esercita seducendo dapprima una semplice commessa di un grande magazzino, e poi la furba ed esperta Flora, mentre allaccia una relazione amichevole con Madame Hermès, una ricchissima signora anziana che tra le altre cose è proprietaria di un settimanale, il Temoin.
Romy Schneider è Roberte
L’ascesa di Nicola è irresistibile, anche se stressante e faticosa: l’uomo si divide tra Marie Paule, a cui è legato da una relazione sessualmente appagante ma anche da simpatia e affetto, tra Roberte, che in qualche modo lo ama e la intrigante Flora, che gli spalanca il mondo dell’alta società. Ben presto Nicola entra nelle grazie di Julien, un ricco finanziere che ha rilevato da Madame Hermes il settimanale Le temoin, e viene assunto nello stesso, dove si mette in luce, tanto da portare la tiratura dello stesso dapprima a 300.000 copie fino alla soglia del milione. Le cose quindi sembrano andare a gonfie vele.
Jean Louis Trintignant è Nicola
Ma il castello costruito da Nicola, sempre aiutato e consigliato da Claude, inzia a sgretolarsi all’improvviso; dapprima muore la sua amica e protettrice Madame Hermes, che comunque lascia all’uomo in eredità la bellissima villa in cui viveva, poi scoppia la tragedia. Un giorno il marito di Roberte segue la moglie, e proprio mentre è a colloquio con Nicola, le spara uccidendola sul colpo e subito dopo si toglie la vita. Scosso dalla morte di Roberte, Nicola inizia a porsi dei dubbi sul suo comportamento. Claude , proseguendo il suo instancabile percorso di iniziazione dell’amico, gli chiede di sedurre una nota attrice, Shirley Douglas, che Claude ama sin dai tempi dell’adolescenza, quando la donna era una semplice figlia di un farmacista.
Nicola segue al solito i consigli di Claude, ma questa volta non confessa all’amico, sapendo del suo debole per la donna, di essere riuscita a sedurla non tanto con il suo fascino, quanto piuttosto con quattro colonne in prima pagina sul settimanale Temoin e con una costosa collana. Ma Claude intuisce la verità, e deluso, entra in una cabina telefonica e si suicida sparandosi un colpo di pistola in testa. Nicola decide di averne abbastanza: dedica all’amico scomparso la prima pagina del giornale, e si reca da Maire Paule, chiedendole di sposarlo. La donna accetta.
Florinda Bolkan è Flora
Tratto dall’omonimo romanzo di Roger Blondel, Il montone infuriato è un gradevole film di Michel Delville, autore, nel futuro (il film in oggetto è del 1974) di due deliziosi prodotti come Il dolce viaggio e La lettrice.
Un’opera che passa alternativamente dalla commedia alla tragedia, per finire nuovamente in commedia, abbastanza agilmente, grazie anche alle capacità indubbie del bel cast riunito da Delville.
Bravissima e sicuramente sexy è Jane Birkin, che nel film interpreta Marie Paule; misurata, affascinante e al solito splendida è Romy Schneider, che interpreta Roberte. La bisessuale e intrigante Flora è interpretata da un’altra bellezza, Florinda Bolkan. Il personaggio di Nicola è affidato a Jean Louis Trintignant, che appare leggermente imbarazzato; forse, tra gli attori del cast, è quello che appare più a disagio.
Il film, comunque, riesce a restare interessante anche nei lunghi colloqui nel bistrot tra Claude e Nicola, o nei dialoghi tra Francesca e lo stesso Nicola.
Alla fine il discorso portato avanti da Deville, sul denaro, l’ambizione e i guasti che possono prodursi, si può dire riuscito anche se con qualche riserva: troppi personaggi vengono inseriti nel racconto, che a volte sembra diventare confuso. L’arrivismo di Nicola, spronato impetuosamente da Claude, sembra subito più che partecipe: almeno questa è l’impressione che si ricava dal film.
Ma sono peccati veniali in un’opera tutto sommato ben riuscita.
Il montone infuriato, un film di Michel Deville. Con Florinda Bolkan, Jean-Louis Trintignant, Romy Schneider, Jane Birkin, Jean-Pierre Cassel, Estella Blain
Titolo originale Le mouton enragé. Commedia, durata 105 min. – Francia 1973.
Jean-Louis Trintignant … Nicolas Mallet
Jean-Pierre Cassel … Claude Fabre
Romy Schneider … Roberte Groult
Jane Birkin … Marie-Paule
Henri Garcin … Berthoud
Georges Beller … Amico di Marie-Paule
Georges Wilson … Lourceuil
Estella Blain … Shirley Douglas
Florinda Bolkan … Flora Danieli
Dominique Constanza … Sabine
Jean-François Balmer … Vischenko
Michel Vitold … Georges Groult
La matriarca
Margherita, chiamata da amici e parenti Mimi, è una giovane e bella donna, che all’improvviso si ritrova vedova, senza per’altro molta sofferenza da parte sua, visto che in un monologo inizale dice testualmente di non aver trovato motivi per piangere. Dopo il funerale la giovane, mentre è nell’azienda del marito, apprende dall’avvocato della stessa dell’esistenza di un appartamento intestato al marito, ma misteriosamente non compreso tra i suoi beni.
Incuriosita, Mimi si reca nell’apartamento, e scopre che suo marito in realtà aveva una vita parallela a quella di bravo marito e industriale: nell’appartamento, arredato come una garconniere, con tanto di specchi, bar fornitissimo e altre comodità, l’uomo riceveva le sue numerose amanti, con le quali praticava sesso anche sadomasochistico. All’interno dell’appartamento, infatti, c’era un registratore ed una cinepresa, con la quale l’uomo filmava i suoi incontri erotici.
Mimi, sconvolta da quanto ha appreso, si interroga sul perchè suo marito fosse così disinibito all’esterno, mentre era così riservato con lei; acquista quindi un libro sul sesso, e subito dopo, un pò per per curiosità, un pò per desiderio postumo di vendetta, inizia a portare nella garconniere uomini di ogni genere. Il primo è l’avvocato dell’azienda, nonchè amico del marito, e subito dopo tocca ad altri.
La madre di Mimi, preoccupata dalle condizioni della ragazza, riesce a farla ricoverare per analisi nella clinica del suo compagno: qui la donna incontra il dottor De Marchi, e dopo breve tempo ne diventa l’amante. Sembra un’avventura come le altre, ma l’uomo è innamorato della ragazza, e dopo una terapia d’urto, e con molta dolcezza, riuscirà a convincerla di sposarlo.
Diretto da Pasquale Festa Campanile nel 1968, La matriarca è una gradevole commedia, senza particolare impegno e senza grosse ambizioni, ad onta di un cast di ottimo livello, che vede protagonisti Catherine Spaak nel ruolo di Mimi, la giovane e confusa vedova, Jean Louis Trintignant in quello del dottor De Marchi, e uno stuolo di attori di ottimo livello in parti secondarie, a partire da Paolo Stoppa, che ricopre il ruolo del compagno della madre di Mimi, Luigi Pistilli,
Philippe Leroy, Vittorio Caprioli, un simpatico e stravagante Gigi Proietti nel ruolo dell’avvocato che tenterà invano di farsi sposare da Mimi, Nora Ricci, nei panni della madre della ragazza e infine Venantino Venantini , Gabriele Tinti e Renzo Montagnani, assolutamente irriconoscibile dietro strane lenti e capelli riccioluti, nei panni di un pervertito sadomasochista. Un film ben congegnato, a tratti anche gradevole, proprio per la leggerezza del tema trattato. da segnalare le numerose, anche se castigatissime, scene di nudo della Spaak, al massimo della sua bellezza.
La matriarca, un film di Pasquale Festa Campanile. Con Paolo Stoppa, Luigi Pistilli, Jean-Louis Trintignant, Philippe Leroy, Catherine Spaak, Vittorio Caprioli, Renzo Montagnani, Luigi Proietti, Nora Ricci, Gabriele Tinti, Venantino Venantini, Frank Wolff
Commedia, durata 92 min. – Italia 1968.
Gigi Proietti: Sandro Maldini
Catherine Spaak: Margherita, detta Mimmi
Jean-Louis Trintignant: dottor Carlo De Marchi
Luigi Pistilli: Otto Frank, detto Mr. X
Renzo Montagnani: Fabrizio
Fabienne Dalì: Claudia
Nora Ricci: madre di Mimmi
Edda Ferronao: Maria
Vittorio Caprioli: il libraio
Gabriele Tinti: uomo nella macchina
Venantino Venantini: Aurelio
Frank Wolff: dottor Giulio, il dentista
Paolo Stoppa: professor Zauri
Philippe Leroy: istruttore di tennis
Mario Erpichini: Franco, marito di Mimmi
Regia Pasquale Festa Campanile
Soggetto Nicolò Ferrari
Sceneggiatura Nicolò Ferrari, Ottavio Jemma
Produttore Silvio Clementelli
Casa di produzione Clesi Cinematografica, Finanziaria San Marco
Distribuzione (Italia) Euro International Film
Fotografia Alfio Contini
Montaggio Sergio Montanari
Musiche Armando Trovajoli
Tema musicale L’amore dice ciao di Guardabassi e Trovajoli, cantato da Andee Silver
Scenografia Flavio Mogherini
Costumi Gaia Rossetti Romanini
Trucco Franco Freda
Doppiatori italiani
Maria Pia Di Meo: Margherita, detta Mimmi
Cesare Barbetti: dottor Carlo De Marchi
Rita Savagnone: Claudia
Pino Colizzi: uomo nella macchina
Aldo Giuffré: dottor Giulio, il dentista
Sergio Graziani: istruttore di tennis
Luciano De Ambrosis: Franco, marito di Mimmi