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Ecce Homo- I sopravvissuti

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Tre persone si muovono su una spiaggia di sabbia bianchissima:un uomo, una donna e un bambino si stagliano su un panorama silenzioso,con l’unico rumore percepibile che sale dal mare con la risacca delle onde.
I tre formano una famiglia: lui,il padre, è Jean, la donna è Anna sua moglie mentre Patrick e il loro unico figlio e hanno eletto la spiaggia come loro dimora.
Sono infatti, apparentemente,gli unici sopravvissuti ad una spaventosa catastrofe nucleare che ha annientato l’umanità;infatti attorno a loro gli unici segni superstiti della civiltà sono una roulotte che serve a loro da riparo e una Citroen con il cofano aperto che giace malinconicamente su una duna.
La vita dei tre è durissima, le loro giornate sono scandite dalla ricerca del pesce, che sembra essere l’unica fonte di sopravvivenza e dalla vicina città, nella quale Jean ogni tanto si reca per prendere qualche indispensabile oggetto.

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Irene Papas e Marco Stefanelli

Per Anna c’è un problema in più legato a Jean; l’uomo  infatti in seguito all’esposizione alle radiazioni è diventato praticamente impotente.
Ma un giorno, inaspettatamente,arrivano due uomini, altri due sopravvissuti:si tratta di Len, un uomo che faceva parte dell’esercito e di Quentin, uno spocchioso intellettuale.
Ben presto Jean mostra di non gradire la presenza dei due uomini e a ragione; Len infatti è attratto irresistibilmente da Anna, che da parte sua mostra di non essere indifferente alle sue attenzioni mentre Quentin sembra legare facilmente con il piccolo Patrick.

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Quando Jean una mattina si allontana per andare in città, Anna e Len si amano nell’acqua,circondati dalla meravigliosa natura del posto;ma è solo un attimo di spensieratezza perchè Jean,al ritorno,intima ai due uomini di andarsene.
Ner nasce una violenta lite durante la quale Len uccide Jean.
Contemporaneamente Len, che ormai considera Anna la sua donna, costringe Quentin ad allontanarsi dal campo e a vivere in solitudine.
Ma ben presto arriva la resa dei conti.
Quentin, appreso da Patrick che i due vogliono andar via in cerca di un posto migliore, brucia l’unico mezzo di locomozione della coppia suscitando le ire di Len che lo affronta.
Nello scontro a fuoco Quentin uccide Len e l’indomani…

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Film post apocalittico che segna l’esordio dietro la macchina da presa di Bruno Gaburro, convertitosi in seguito alla commedia erotica prima, al soft porno poi e infine riciclatosi con qualche successo in tv dove ha diretto qualche tv movie, Ecce homo-I sopravvissuti è una felice opera d’esordio tutta incentrata sulla drammatica storia di cinque persone delle quali alla fine ne sopravviveranno solo due, due maschi che simboleggeranno l’impossibilità di costruire un futuro vista la morte dell’unica donna del gruppo.

Girato su una candida spiaggia, selvaggia e assolata, con soli due emblemi della scomparsa civiltà umana (un auto e una roulotte) come sfondo e le armi a dettare e suggellare la fine delle speranze dell’umanità, Ecce homo è un film totalmente nichilista, che il regista gira con mano ferma e buona scelta dei tempi scenici.

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Gabriele Tinti

Nonostante la presenza di soli 5 personaggi,il film regge bene la tensione che Gaburro allunga per tutta la durata del film, che vive principalmente di alcuni momenti topici: la vita della famiglia prima dell’arrivo di Quentin e Len, quella successiva, con la storia d’amore tra Anna e Len e la contemporanea morte di Jean e infine la parte più buia, quella che vede la morte di Len, il suicidio di Anna e la fine delle speranze dell’umanità,simboleggiata dalla passeggiata finale di Quentin in compagnia di Patrick,unico scampato della famiglia alla tragedia che si abbatte su di essa.
C’è spazio per una serie di considerazioni, da parte dello spettatore, sui messaggi che Gaburro semina quà e là con intelligente nonchalance;l’umanità è perita, ma quel che ne resta è comunque figlia di essa e vive delle stesse pulsioni che la hanno portata all’autodistruzione,l’amore può nascere sul dolore e finire in esso senza soluzione di continuità mentre la sequenza finale è quella più tragica e buia, perchè Quentin e Patrick, due uomini, non potranno dare una speranza all’umanità.

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Frank Wolff

Molto bene il cast, che regge la tensione e la difficoltà di impegnare un’ora e mezza di film con interpretazioni di ottimo livello;molto bene un irriconoscibile Philippe Leroy che interpreta Jean, splendida e affascinante oltre che bravissima Irene Papas, unico personaggio femminile del film,benissimo anche Frank Wolff nei panni dell’antipaticissimo Quentin e bene anche Gabriele Tinti in quelli di len.Chiude il lotto delle buone interpretazioni quella di Marco Stefanelli nel ruolo di Patrick (l’attore romano, tredicenne all’epoca del film, nello stesso anno girò Tre passi nel delirio e Il pistolero segnato da Dio).
Ecce homo-I sopravvissuti è un film che per oltre 45 anni è rimasto sepolto per riemergere improvvisamente circa un anno fa con un passaggio televisivo;oggi è disponibile in una discreta versione all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=TCTXO4nvjpQ

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Ecce Homo – I sopravvissuti
Un film di Bruno Gaburro. Con Irene Papas, Gabriele Tinti, Philippe Leroy, Frank Wolff, Marco Stefanelli Drammatico, durata 90 min. – Italia 1969

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Philippe Leroy … Jean
Irene Papas … Anna
Gabriele Tinti … Len
Frank Wolff … Quentin
Marco Stefanelli … Il piccolo Patrick

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Regia:Bruno Gaburro
Sceneggiatura:Bruno Gaburro,Giacomo Gramegna
Produzione:Pier Luigi Torri
Musiche:Ennio Morricone
Fotografia:Marcello Masciocchi
Montaggio:Renato Cinquini

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L’opinione di mm40 dal sito http://www.filmtv.it

Onore al merito di Gaburro, esordiente totale che si occupa anche della sceneggiatura (insieme a Giacomo Gramegna) e che confeziona con sufficiente cura questo ambizioso lavoro. Ecco homo – I sopravvissuti non è soltanto una parabola nietzschiana (Ecce homo è l’opera-summa del filosofo tedesco), non è solo l’annullamento del cristianesimo in una vampata di nichilismo (le analogie con la favoletta biblica di Adamo ed Eva sono esplicite), ma è anche un discreto ‘pezzo di cinema’, realizzato con pochi attori e altrettanti mezzi, ma innegabilmente funzionante. Per i contenuti il film ricorda da vicino inoltre Il seme dell’uomo, coeva opera di Marco Ferreri (ma, pare di capire informandosi in rete, uscita per seconda) altrettanto disperante sulle sorti di un’umanità sempre più (luci)ferina e allo sbando, moralmente e concretamente, nei singoli gesti quotidiani. Alla fine degli anni Sessanta, complice il movimento di protesta che prese vita attorno al ’68, un lavoro di questo stampo era assolutamente in linea con lo spirito dei tempi; oggi può apparire datato nel suo forzato impianto didascalico, ma ciò che più importa è che l’opera non smette di consegnare il proprio messaggio. Irene Papas viene contesa da Philippe Leroy, Gabriele Tinti e Frank Wolff: difficile obiettare sulle scelte di casting; qualcosina si può ridire invece sul ritmo altalenante della narrazione. Gaburro negli anni seguenti si darà al pornosoft e infine alle candide fiction tv per famiglie, soffocando con forza e in ogni modo le belle speranze suscitate dal suo debutto.

L’opinione di Mirrrko dal sito http://www.davinotti.com

Primo post-atomico del cinema italiano; Gaburro firma la sua prima regia con un film notevole e sopratutto con tematiche lontanissime da quello che farà in futuro. Era il ’69 e andavano di moda i film socio-politici, ma Gaburro pesca a piene mani sopratutto da Nietzsche, sfornando un film pessimista e cinico. Un po’ lento nella parte centrale ma mai noioso. Irene Papas ci regala il suo meglio. Da scoprire.

L’opinione di Fauno dal sito http://www.davinotti.com

Suggestive, anzi incantevoli, parecchie inquadrature, specie quelle della scena d’amore in acqua; molto eloquente e indicativo di bisogno vitale il sentire gli ormoni femminili annusando un foulard… Il film è però scarno di contenuti e quelli presenti sono poco marcati: perfino la denuncia di un uomo finito sulla certezza di una nuova catastrofe non mi ha ispirato o coinvolto particolarmente. La Papas è splendida, Leroy è ottimo ma irriconoscibile, gli altri se la cavano.

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dicembre 8, 2014 Posted by | Drammatico | , , , | Lascia un commento

Un attimo di vita (La sensualità è un attimo di vita)

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Difficile da catalogare, difficile da comprendere:La sensualità è un attimo di vita, o anche semplicemente Un attimo di vita di Dante Marraccini assomiglia molto più ad una piece da teatro d’avanguardia che ad un film.
Colpa ( o merito) della mancanza assoluta di una trama, di dialoghi spesso astrusi o al limite del comprensibile e sopratutto oscuri e eccessivamente verbosi.
Un film che è una stranezza completa, fatto di sequenze spesso caotiche e senza logica apparente, eppure con un certo fascino visivo legato proprio al caleidoscopio di immagini che sembrano un non sense, affiancate l’una all’altra e cariche di simbolismi difficilissimi da afferrare.
Per certi versi, Un attimo di vita assomiglia ad alcuni film avanguardistici di fine anni sessanta, quelli in cui si sperimentava liberamente, senza farsi intrappolare da copioni o sceneggiature, girati con due soldi e lasciati spesso volutamente privi di trama, quasi a voler sottolineare, nel loro caos, l’identica situazione della vita sociale, il fervore a anche la confusione di un momento storico dinamico e irripetibile, un coacervo di aspirazioni e lotte che saranno l’impronta lasciata dalla vita e dalla cultura di quegli anni straordinari.

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Parlavo di un certo fascino delle immagini, che si lega volutamente agli scenari che il regista utilizza e dei dialoghi spesso incomprensibili anche perchè slegati dalla logica visiva delle immagini che scorrono sullo schermo e che iniziano da subito a calare lo spettatore in una realtà estraneata sin dalle prime sequenze.
Un uomo e una donna corrono nudi sulla spiaggia e si accorgono che in lontananza qualcuno si è avvicinato alla loro jeep; lo raggiungono e lo sconosciuto, senza motivo apparente, colpisce la donna e getta tutto il contenuto della jeep sulla sabbia.
In precedenza la macchina da presa ha indugiato sul volto del giovane nudo e della ragazza stesa accanto a lui, fra piccoli cumuli di rifiuti e copertoni lasciati in bella mostra sulla spiaggia.
Che sia casuale o no, la scena rimanda allo sfacelo della società dei consumi, ma potrebbe trattarsi solo di pura combinazione:fatto sta che il film, da questo momento in poi perde anche la linearità e il dinamismo coordinato per diventare un happening di situazioni assolutamente incomprensibili anche nella loro logica di base.
“E quello da dove salta fuori?”
“Non lo conosco, ma sarà una nostra impressione”
” Forse è un residuato della contestazione”
“Sarà come dici tu,per me è uno che ci vuole fregare”

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Queste poche battute sono già paradigmatiche di quello che accadrà successivamente;i due giovani si avvicinano allo sconosciuto che colpisce la ragazza al volto e dice “Guardatemi bene voi, due: io sono uno che prende quanto trova e ciò che gli serve“, mentre la donna, completamente nuda lo guarda con il volto serio e gli risponde ” Nessuno ti impedisce di inventare, fa parte del gioco,ma non sperare di condizionarci, sei troppo emotivo per reggere un confronto
Il giovane prende le chiavi dell’auto e le consegna allo sconosciuto, che di rimando dice in modo sibillino:”Mi dai le chiavi, dai le chiavi ad uno che non ha il tempo di ascoltare la morale degli altri” e poco dopo “Io sono la vita
Queste frasi sconnesse, senza apparente logicità temporale saranno d’ora in poi la costante del film, unite a immagini che apparentemente mal si conciliano vista la confusione e lo scoordinamento che le legano le une alle altre.
Così vedremo lo sconosciuto accompagnare i due giovani in un villaggio, dove ci sono altri giovani silenziosi vestiti di bianco:l’uomo incontra nuovamente la ragazza della spiaggia che gli dice “Ti avevo sconsigliato di venire, qui non c’è spazio per gli altri, noi siamo diversi e tu appartieni alla normalità
Le scene si susseguono l’una dietro l’altra, mostrandoci i giovani alle prese con un gruppo di persone adulte (i loro genitori) e la loro fuga da essi, lo svaligiamento di una boutique con conseguente sottrazione di capi di vestiario che i giovani indosseranno la sera con un rito collettivo sulla spiaggia e via dicendo.

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Poichè non c’è una trama, ed apparentemente nemmeno una logica, tutto sembra assolutamente preda del caso e volutamente provocatorio;la fuga dei giovani dagli adulti può simboleggiare l’incapacità storica di dialogo tra le generazioni o anche il rifiuto da parte dei giovani stessi di adeguarsi al conformismo dei genitori o tutte e due le cose al tempo stesso.
Fatto sta che il simbolismo diventa via via sempre più ermetico e lo sforzo dello spettatore per seguire una parvenza di logicità in quello che vede è degno di Tantalo.
Dalla sequenza all’interno di una specie di locale notturno al viaggio in un peschereccio fino all’attacco allo sconosciuto con mazze da baseball, tutto assume i contorni indistinti del simbolismo più esasperato, con rari dialoghi che diventano ancora più ermetici.
Il finale del film, che si veste inaspettatamente di color giallo lascia ancor più attoniti, perchè chiude una storia inespressa in modo assolutamente imprevedibile.
Spiazzante.
E’ il termine che più si avvicina nell’intento di provare a dare una definizione di questo film, che sembra più una slide in movimento di immagini simili a quadri astratti che a qualcosa di coerente.
Ancor più difficile è l’interpretazione di quello che è il “messaggio” del film, la sua tematica di fondo e in ultimi termini la sua logica.

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Se fate un giro in rete, alla ricerca di recensioni del film, non ne troverete una sola che accenni in qualche modo ad un sunto lineare del film, proprio per l’impossibilità di riassumere il tutto in poche righe che abbiano il sapore della logica.
Così Un attimo di vita diventa un’esperienza visiva e uditiva di indubbio fascino ma che necessita anche di molta pazienza, così come suggerito da un utente del Davinotti, Fauno, che dice testualmente: “Il miracolo del regista sta nella realizzazione di un film pieno di simbolismi e di concetti astratti impersonato da attori reali più che mai e non con l’uso del solito staticismo ascetico o delle lunghe inquadrature, ma con un dinamismo quasi da film d’avventura. Si vede che è degli anni ’70. La prima volta è molto meglio fissare e interpretare le immagini e i dettagli, senza cadere nel tranello di scervellarsi subito sui dialoghi volutamente arzigogolati e che saranno invece ben afferrati a una visione successiva. Uno dei tre film della mia vita!”
Senza voler sposare la frase finale del commento, suggerisco la visione di questo film ad un pubblico davvero paziente.

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Per quanto riguarda il cast,degne di nota le interpretazioni di Gabriele Tinti, forse una delle più intense e difficili dell’attore nella sua carriera,qui nei panni dello sconosciuto, di Gianni Dei, della bellissima e arcigna (in questo film) Margaret Lee e di due brave e affascinanti attrici come Orchidea De Santis (che interpreta una madre!) e di Rita Calderoni.Il film ebbe noie con la censura e venne bloccato prima di essere finalmente dissequestrato (leggere a tal proposito l’articolo di un giornale dell’epoca nella sezione foto)
Il film di Marraccini è praticamente irreperibile, anche se è possibile procurarsi una versione perfetta ridotta dal Dvd del film;seguendo questo link http://wipfiles.net/53r8s6wam8vd.html è possibile accedere alla versione stessa.
Il problema è che si può scaricare solo con un account premium, ovviamente a pagamento.
Sul mulo è presente la stessa versione, ma al momento disponibile per meno del 60%, per cui occorre attendere i tempi tecnici di caricamento dello stesso.

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Un attimo di vita
Un film di Dante Maraccini. Con Gabriele Tinti, Margaret Lee, Gianni Dei, Rita Calderoni,Orchidea De Santis Titolo originale La sensualità è un attimo di vita. Drammatico, durata 90 min. – Italia 1976

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Margaret Lee: la ragazza
Gabriele Tinti:lo sconosciuto
Gianni Dei.il ragazzo
Rita Calderoni: una ragazza
Orchidea De Santis:una madre

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Regia Dante Marraccini
Sceneggiatura Dante Marraccini
Fotografia Aldo Greci
Montaggio Dante Maraccini

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L’opinione di Davide Pulici dal sito http://www.nocturno.it

Comincia con Gianni Dei e Margaret Lee, nudi come vermi, su una spiaggia, che incontrano Gabriele Tinti. Chi siano esattamente gli uni e l’altro è difficile capirlo, prima che dirlo. Tinti dovrebbe simboleggiare l’uomo comune, della strada, mentre gli altri due appartengono a una comunità di giovani – vestiti di bianco, in un villaggio anch’esso tutto bianco (Sperlonga); ma poi si vestiranno di nero – che sembrano vivere in una dimensione puramente mentale, fuori dal tempo e dallo spazio comuni: forse un esilio scelto, forse una condanna imposta dalla società. I ragazzi (tra i quali ci sono pure Rita Calderoni e la c.s.c. Ada Pometti) guidano poi l’ospite attraverso una sorta di viaggio iniziatico, declamando strani filosofemi e sperimentando situazioni altamente non-sense. Con finale tragico. Qui sì che si ha davvero l’impressione di aggirarsi in un milieu polselliano. Tra l’altro, anche se Marraccini non ricorda il particolare, uno dei personaggi si chiama proprio Polselli: è una sorta di faccendiere, che incontriamo nel contesto di un campo di finocchi (nel senso di gay), ingaggiato dai genitori di Margaret Lee per riportargli la figlia. Questi ultimi sono borghesi benpensanti, che in privato coltivano il piacere delle ammucchiate e vivono in una casa senza pareti, in mezzo a un prato: la madre è Orchidea De Sanctis! E non è che una delle innumerevoli stranezze che popolano una pellicola indefinibile e inclassificabile, figurativamente non malvagia ma dove l’erotismo, che potrebbe giustificare l’operazione, è minimo – il perché della “sensualità” aggiunta al titolo suonerebbe dunque incoerente, se non fosse che in una scena Marraccini sostiene di avere avuto noie con la censura perché, abbracciando un’attrice, un personaggio le insinuava un dito nel sedere. Il regista, che è un formidabile narratore di se medesimo, racconta che il critico Guglielmo Biraghi, da lui interrogato dopo la visione del film, sostenne sic et simpliciter di non averci capito nulla. Mentre una semplice commessa, fuori dal cinema, ebbe a dire che per lei il messaggio era invece chiarissimo.

L’opinione di renato dal sito http://www.davinotti.com

Si parte subito bene, con 5′ di dialoghi incomprensibili ed i mega-capezzoli della bella Margaret Lee. Poi si comincia a capire qualcosa, solo ogni tanto, ma il film resta bizzarro e direi anche forzato; comunque non direi che sia noioso, come invece temevo all’inizio. Purtroppo però la Lee non si spoglia più fino alla fine, a differenza della Calderoni che ci regala una specie di crisi isterica in barca con tentativo di suicidio annesso. Una stramberia che si può vedere, insomma.

L’opinione di iochisono dal sito http://www.davinotti.com

Una sorta di “teatro d’avanguardia” filmato, di cui resta oscura la trama. Inizia oltre qualunque confine del cult: Gianni Dei e Margaret Lee corrono nudi come vermi sulla spiaggia (lui col pistolino ballonzolante). Poi arriva Tinti con una Jeep. Dialoghi polselliani. Poi i due vengono inglobati in una specie di compagnia teatrale errante, corrono, si spogliano e si rivestono, fanno cose strane, viaggiano per terra e per mare. Mah! Da notare la presenza di Rita Calderoni e di un personaggio chiamato “Polselli”. Ma ce l’avranno avuto un copione?

L’opinione di deepred89 dal sito http://www.davinotti.com

Completamente insensato, quasi senza trama (solo un vago intreccio giallo alla fine) e ovviamente senza la minima logica, composto quasi interamente da un insieme di scenette allegoriche (si punta in maniera fin troppo evidente sul colore degli abiti) tra l’erotico e il grottesco. Bellissimo vedere come tutti (e ripeto, tutti!) i dialoghi del film, dal primo all’ultimo, non dicano altro che assurdità. Cast curiosamente ricco, ma con una sceneggiatura del genere serve a poco e orecchiabile colonna sonora. Per amanti del trash e del bizzarro.

L’opinione di Ronax dal sito http://www.davinotti.com

Oscurissima stramberia tardosessantottesca che mischia ambizioni surrealiste alla Cavallone e dialoghi farneticanti alla Polselli conditi con qualche svolazzamento fellineggiante. Girato con mezzi di fortuna, privo di trama e di logica, è un susseguirsi di quadretti da teatro dell’assurdo intercalati da qualche modesto intermezzo erotico. All’inizio incuriosisce, ma doppiata la metà comincia ad annoiare. Intervistato da Nocturno, Marraccini lo considera poco meno di un capolavoro e si atteggia a genio incompreso. Ai posteri l’ardua sentenza.

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aprile 6, 2014 Posted by | Drammatico | , , , , , | Lascia un commento

L’uomo venuto dalla pioggia

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Una mattinata di pioggia battente in una tranquilla cittadina francese.
Siamo sulla costa e da un autobus scende un uomo; completamente bagnato dalla pioggia, l’uomo si muove indifferente stringendo a se una borsa.
Intanto Melancholie, una giovane e bella donna si agghinda per diventare più sexy e più bella.
La donna è in attesa del marito, al quale vuole riservare una giornata speciale.
A casa, Melancholie all’improvviso sente che c’è qualcosa che non va.
Un attimo dopo un uomo con il volto coperto da una calza la assale, la violenta dopo averle legato i polsi.
Melancholie vorrebbe avvisare la polizia ma qualcosa nel suo passato (che scopriremo in seguito) le impedisce di muoversi; resasi conto che l’uomo è ancora presente in casa sua, Melancholie afferra un fucile e dopo un drammatico faccia a faccia lo uccide sparandogli con una doppietta e poi finendolo a colpi di remo.

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Faticosamente, dopo essersi liberata dal corpo dell’uomo, Melancholie cerca di riprendere la sua esistenza normale; ma è in arrivo un altro uomo misterioso che sembra sapere tutto di lei, oltre che sospettare che la donna nasconda qualcosa.
Poco alla volta il rapporto tra la donna e il misterioso individuo evolve, portando alla luce il segreto che la donna custodisce e che coinvolge il suo oscuro passato mentre l’uomo, che in realtà è un agente segreto, invece di denunciarla la proteggerà. Ma da cosa?
Trama aggrovigliata per un film che si muove su più binari, senza mai imboccarne decisamente uno; un po giallo, un po noir, un po dramma, L’uomo venuto dalla pioggia (Le passager de la pluie) di Renè Clement è un film di sicuro fascino anche se nettamente diviso in due.
Ad ua prima parte misteriosa e coinvolgente segue una seconda dall’andamento più descrittivo in cui i dialoghi tra Melie (il diminutivo adottato dalla donna) e Dobbs, l’agente segreto che per buona parte del film non sapremo cosa realmente voglia, prendono il posto e rubano la scena all’atmosfera cupa che aveva caratterizzato la pellicola nella prima mezzora.

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Proprio nella seconda parte, infatti, lo strano gioco che l’agente Dobbs ingaggia con la donna si dilunga un po troppo, anche se man mano che la pellicola avanza vengono chiariti i dubbi e gli avvenimenti prendono una strada più comprensibile.
Vengono così al pettine nodi irrisolti come la presenza del misterioso stupratore nella cittadina, il passato di Melie, il ruolo dell’antipatico e scostante marito di quest’ultima, infine i veri motivi che hanno portato Dobbs a giocare come un gatto con il topo con Melie.
Finale a sorpresa e in linea con quanto raccontato.
Va detto che se Clement avesse tenuto il ritmo della prima parte e tagliato qualche minuto, il film sarebbe stato più scorrevole, ma alla fine il risultato è più che dignitoso.
Lo spaccato della cittadina e quindi della vita di Melie, che si è quasi nascosta all’ombra della quiete forse un tantino ipocrita ma decisamente rassicurante della vita provinciale assieme alle atmosfere di sospetto sono la cosa migliore del film.

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Che può essere guardato anche attraverso angolature più ampie, indubbiamente, ma che alla fine riportano la storia a quello che è in realtà, un giallo in cui la morale potrebbe essere “non importa cosa hai fatto e come tenti disperatamente di nasconderti, perchè il tuo passato e le tue azioni alla fine ti presenteranno il conto”
Marlene Jobert, splendida e tormentata, delinea perfettamente il personaggio misterioso e complesso di Melancholie, donna all’apparenza solare ma internamente fragile e insicura, afflitta da un passato rimosso e che le presenterà il conto alla fine mentre un enigmatico, granitico Charles Bronson è Dobbs, l’agente segreto incaricato di scoprire cosa sia accaduto all’uomo che ha stuprato Melie e gli eventuali appoggi che l’uomo aveva sia nel passato (scopriremo perchè Dobbs inseguiva lo stupratore), sia nel presente (il vero ruolo del marito di Melie)

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Un film che Clement gira in doppia versione, una per il mercato di lingua anglofona una per il mercato francese.
Avendo visto quest’ultima, non posso pronunciarmi su quella in lingua inglese davanti alla quale molti critici hanno storto il naso, probabilmente per i tagli effettuati in fase di montaggio.
Bella la fotografia e le musiche di Francis Lai, bella e suggestiva l’ambientazione; purtroppo il film non è di facile reperibilità in italiano, pur essendo lo stesso passato varie volte in tv.

L’uomo venuto dalla pioggia

Un film di René Clément. Con Gabriele Tinti, Charles Bronson, Marlène Jobert Titolo originale Le passager de la pluie. Giallo, Ratings: Kids+13, durata 119′ min. – Francia 1970

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Charles Bronson: colonnello Harry Dobbs
Marlène Jobert: Mélancolie Mau
Gabriele Tinti: Tony Mau
Jill Ireland: Nicole
Jean Gaven: Ispettore Toussaint
Jean Piat: M. Armand
Corinne Marchand: Tania
Annie Cordy: Juliette
Ellen Bahl: Madeleine Legauff

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Regia René Clément
Sceneggiatura Sébastien Japrisot, Lorenzo Ventavoli
Produttore Serge Silberman
Casa di produzione Greenwich Film Productions Medusa Produzione
Fotografia Andréas Winding
Montaggio Françoise Javet
Musiche Francis Lai
Scenografia Pierre Guffroy
Costumi Rosine Delamare
Trucco Jacqueline Pipard

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L’opinione del Morandini

Un uomo aggredisce una donna e la violenta. Lei lo uccide, butta il cadavere in mare e pensa di averla fatta franca. M. Jobert è brava, C. Bronson ha grinta, la regia di Clément è brillante, ma come giallo è macchinoso, come dramma psicologico non convince. L’atmosfera c’è, la suspense anche. 

L’opinione del sito http://www.cangaceirocinema.blogspot.it

(…) René Clemént è raffinitissimo tessitore di trame noir dall’aspetto surreale e provocatorio come riconfermerà in Delitto in Pieno Sole,Crisantemi per un Delitto e Unico indizio: una sciarpa gialla. Già dai primi minuti di film,introdotti da una citazione da Alice Nel Paese delle Meraviglie,Clemént mette il veto sulle sue intenzioni di divagare su terreni astratti e sconosciuti. (…)

L’opinione di sasso 67 dal sito http://www.filmtv.it

Un po’ giallo e un po’ nero, il film scorre via discretamente diretto, ma alquanto confuso nella sceneggiatura. Sebbene riservi qualche colpo di scena (niente di che saltare sulla sedia, comunque) e una trama parecchio complicata, raramente il film di Clément coinvolge o sconvolge. Anche i risvolti psicoanalitici risultano piuttosto fini a sé stessi. L’unico punto di forza e Marlène Jobert, innocente e bugiarda, vittima e carnefice (e viceversa), mentre a me sembra che si amalgami poco con il cinema francese la faccia di pietra di Charles Bronson.

L’opinione di crimson dal sito http://www.filmscoop.it

I primi minuti, almeno fino all’omicidio, sono eccellenti. Poi il film cala alla distanza, tra pochi sussulti e un rapporto tra i due protagonisti che diventa stancante. Se non altro c’è il grosso merito di saper costruire una tensione non indifferente attorno alla figura del marito della protagonista.
Accettabile la prova di Bronson, ottima la Jobert.

L’opinione di cotola dal sito http://www.davinotti.com

Discreto thriller (tratto da Simenon) che a dispetto dei ritmi piuttosto dilatati risulta essere notevolmente avvincente grazie ad una buona sceneggiatura che crea un bel clima di crescente tensione e curiosità, sciogliendo gradualmente la matassa dell’intrigo e riservando più di un colpo di scena (riuscito). Non un capolavoro, ma una visione la merita.

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marzo 20, 2014 Posted by | Drammatico | , , , | Lascia un commento

Il letto in piazza

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Luca Reali è un impenitente donnaiolo che vive in un paese situato sulle rive del Garda.
Scapolo,poco più che quarantenne,ha una passione smodata per l’altro sesso; seduce senza soluzione di continuità tutte le donne che gli capitano a tiro, dalla figlia del farmacista alla figlia del proprietario del bar del paese.
Ogni tanto poi si concede un’avventura con una bella turista di passaggio;tutte le sue prodezze finiscono annotate sul personale diario che Luca scrive, annotando diligentemente i particolari, anche più scabrosi della sua turbolenta vita sentimentale.
Un giorno,tra le turiste di passaggio, capita anche la bella Jenny Milton, ricchissima figlia di un magnate americano.
Luca la salva da un tentativo di suicidio ma questa volta non tenta minimamente di attirarla nel suo gineceo.La ragazza infatti sembra a Luca troppo giovane e per lei sembra sviluppare un sentimento a metà strada tra il protettivo e il paterno.

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Rosanna Podestà

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Renzo Montagnani

Presto però la ragazza si innamora di lui e in paese si vocifera della cosa;Luca viene incoraggiato in pratica dai notabili del paese a proseguire e possibilmente impalmare la bella ereditiera.
I notabili, infatti, hanno messo gli occhi sul patrimonio della ragazza e intendono sfruttare la cosa per una speculazione che dovrebbe arricchirli tutti.
Ma Luca,che non è affatto un ingenuo, scopre la trama ordita alle sue spalle.
Si vendica salendo sul campanile del paese e leggendo il suo diario al paese allibito;poi decide di fare di testa sua…
Clone di tanti film della commedia sexy italiana ambientati nella “peccaminosa”provincia italiana, Il letto in piazza,diretto da Bruno Gaburro nel 1975 non va aldilà di una superficiale denuncia, decisamente all’acqua di rose,dei vizi della provincia stessa.

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Debole almeno nelle tematiche di fondo, il film, che è tratto da un romanzo di Nantas Salvalaggio, veleggia pacificamente tra gli stereotipi della commedia sexy; il protagonista è il solito donnaiolo senza alcuna voglia di mettere la testa a partito, che si muove nel solito gineceo di donne insoddisfatte della propria vita monotona vissuta nel solito paese in cui tutti sanno tutto di tutti e in pratica finisce per diventare l’oggetto del desiderio degli appetiti delle stesse donzelle.
In pratica assolutamente nulla di nuovo.
La sceneggiatura diventa quindi un personale regalo per Renzo Montagnani, uno dei principali alfieri della commedia sexy degli anni settanta; l’attore toscano, replicando per l’ennesima volta il ruolo del galletto nel pollaio, regala la consueta professionalità strappando qualche risata.
Ma null’altro di più, perchè il film è davvero poca cosa;abiurando da subito a qualsiasi tentativo di fare della satira e portando il film sui classici binari della commedia pecoreccia,Gaburro mostra come il suo l’occhio sia puntato totalmente in direzione della biglietteria.

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A tal pro spoglia con buona frequenza le belle donne che fanno parte del cast ovvero Sherry Buchanan (Jenny,la bella ereditiera),Rita Silva (la giunonica turista tedesca),Loretta Persichetti.
Per un film senza nessun particolare impegno come Il letto in piazza,Gaburro assembla un cast di caratteristi assolutamente ben nutrito:Gabriele Tinti,Venantino Venantini,Franco Bracardi,Daniele Formica quanto meno danno un tocco di dignità alla pellicola stessa, evitando la palude in cui altri film dello stesso filone non riusciranno a evitare.
Buona parte di questi film, infatti, erano interpretati da attori sotto qualsiasi soglia di decenza e professionalità a livello recitativo, conferendo agli stessi film la patente irreversibile di film di serie Z.
Sicuramente tra questi non va annoverato questo film, che qualche spunto di divertimento riesce ad offrirlo.
Poca cosa,va bene.
Ma a guardare altre pellicole della defunta commedia sexy ci si rende conto che è meglio accontentarsi.
Il letto in piazza può essere annoverato tra i film invisibili; in rete circola solo una pessima versione estratta da una polverosa VHS e in tv non passa praticamente mai.

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Il letto in piazza
Un film di Bruno Gaburro. Con Rossana Podestà, John Ireland, Renzo Montagnani, Giuseppe Anatrelli, Gabriele Tinti,Venantino Venantini, Ugo Fangareggi, Giuseppe Maffioli, Giacomo Rizzo, Alberto Squillante, Cinzia Romanazzi, Daniele Formica, Sherry Buchanan, Franco Bracardi, Dino Emanuelli, Salvatore Puntillo Commedia, durata 93 min. – Italia 1975.

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Renzo Montagnani … Luca Reali
Rossana Podestà … Serena
John Ireland … Milton
Giuseppe Anatrelli … Lattanzi il farmacista
Franco Bracardi … Adolfo
Sherry Buchanan … Jennifer Milton
Francesco D’Adda … Carluccio ,fidanzato di Marisa
Patrizia De Clara … Sorella di Luca
Emilio Delle Piane … Amilcare Gorgona
Dino Emanuelli … Geometra Trombetta
Ugo Fangareggi … ‘Gandhi’
Daniele Formica … Tondino’ Novati
Giuseppe Maffioli … Beppo
Nando Marineo … Don Alfonso
Loretta Persichetti … Marisa sorella di Beppo
Salvatore Puntillo … Il poliziotto
Giacomo Rizzo … Amico di Luca
Cinzia Romanazzi … Pinotta
Renato Romano … Carabiniere
Rita Silva … La turista tedesca
Gabriele Tinti … Amico di Luca

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Regia Bruno Gaburro
Soggetto dal romanzo omonimo di Nantas Salvalaggio
Sceneggiatura Franco Bucceri, Roberto Leoni
Produttore Edmondo Amati
Produttore esecutivo Maurizio Amati
Casa di produzione Flaminia Produzioni Cinematografiche
Distribuzione (Italia) Fida Cinematografica
Fotografia Fausto Zuccoli
Montaggio Vincenzo Tomassi
Musiche Guido De Angelis e Maurizio De Angelis
Scenografia Giovanni Natalucci
Costumi Mariolina Bono

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L’opinione di mm40 tratta dal sito http://www.filmtv.it
L’atmosfera incantata del paesello, un microcosmo apparentemente autosufficiente, in cui ogni personaggio ha un ruolo, un’identità ed una serie di tic e difetti ben noti a tutti i compaesani. Ecco tutto ciò che si salva di questo Letto in piazza, tratto dall’omonimo romanzo (1967) del giornalista Nantas Salvalaggio e sceneggiato da Roberto Leoni e Franco Bucceri. Il resto è più aderente allo stile della commedia erotica (nudi e volgarità in quantità, inconsistenza delle psicologie dei personaggi) che alla commedia di costume ambientata in provincia, modello Il commissario Pepe o Signore e signori. Gaburro non è mai stato un regista molto dotato ed il suo maggior successo in carriera sarà il commerciale-balneare e vacuo Abbronzatissimi (1991). La scelta di Montagnani (come sempre costretto ad accettare anche i ruoli peggiori) come protagonista è indiscutibile, dato il tipo di prodotto che si voleva realizzare, ma forse con una trama simile si sarebbe potuto osare qualcosina di più del solito stereotipato viavai di cosce e corna; fra gli altri interpreti anche Rossana Podestà, Giacomo Rizzo, Ugo Fangareggi, Daniele Formica, Franco Bracardi e John Ireland, americano che trent’anni prima recitò con Ford e Hawks, per finire poi in declino la propria carriera. Musiche dei fratelli De Angelis, non fra le loro migliori, ma neppure da buttare.
L’opinione di Homesick tratta dal sito http://www.davinotti.com
Tratto da un romanzo di Nantas Salvalaggio, nulla più di una modesta commedia sugli intrallazzi politici ed erotici di un paese di provincia. La regia di Gaburro è molto debole e l’impennata drammatica messa a punto dalle eccellenti doti attoriali di Montagnani – fino a quel momento sopite dai soliti atteggiamenti di dongiovanni incallito – dura troppo poco. Minimi i contributi dei big (Ireland, Podestà) e dei numerosi caratteristi di contorno, tra i quali si distingue comunque il nullafacente Fangareggi.

L’opinione di Markus dal sito http://www.davinotti.com
Un film centrato specialmente sulla figura di Montagnani, sfruttato però per l’ennesima volta come personaggio di maniera e maniaco del sesso senza impegno sminuendo, di fatto, quella che dovrebbe essere sulla carta una buona pellicola. Un nutrito cast di caratteristi di contorno fa da cornice, ma non aggiunge altro al film (fatto che evidenzia l’incapacità di Gaburro di gestire il materiale a disposizione). Film simpatico, ma che non lascia il segno.

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novembre 13, 2013 Posted by | Commedia | , , , , , , , , , | Lascia un commento

Al tropico del Cancro

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Port au Prince,Haiti.
Il medico inglese dottor Williams nel corso di alcune ricerche di laboratorio crea un allucinogeno molto potente che ha tra i suoi effetti anche quello di generare un forte appetito erotico.
La composizione chimica del farmaco è così tenuta rigorosamente segreta da Wlliams, che deve ben presto districarsi anche tra le numerose offerte provenienti da case farmaceutiche volte ad avere in esclusiva la formula del prodotto.
Uno dietro l’altro ecco comparire vari personaggi che ruoteranno attorno a Wlliams: c’è l’industriale Peacock affiancato dal socio Garner, l’affarista Prater col suo braccio destro Murdock e ancora Fred Wright,amico di Williams che è ad Haiti in compagnia di sua moglie Grace.

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Anita Strindberg

La storia si tinge di giallo quando misteriosamente scompaiono in rapida successione due assistenti di Williams,Klotz e Douglas; ad aggiungere mistero alla storia contribuiscono i misteriosi omicidi di Prater e Murdock e la scomparsa in agguati mortali di Peacock e Garner.
Nel frattempo Williams allaccia una relazione con Grace e viene scoperto proprio dall’amico Fred.
Il quale riesce ad impadronirsi di un quaderno di appunti di Williams, credendolo contenente la famosa formula del farmaco.

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Ma il misterioso assassino è in agguato: spacciandosi per Klotz, attira Fred in una trappola ma sarà proprio il killer a cadere in un’imboscata che ne rivelerà l’identità…
Ambientazione caraibica ed esotica per questo giallo/thriller diretto nel 1972 dalla coppia Gian Paolo Lomi- Edoardo Mulargia con netta predominanza di quest’ultimo che in pratica girò quasi tutto il film.
Un film, va detto subito, con una sceneggiatura non esemplare se non lacunosa, caratterizzato da un ritmo altalenante con frequenti cadute dello stesso.

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Ma anche capace di creare un certo fascino grazie proprio all’ambientazione esotica, con qualche ripresa di Haiti e del suo folklore accompagnata da riti voodoo che pare fossero autentiche.
Un film che si avvale di un buon cast di caratteristi, allestito dal regista di Sardinia qui alla sua prima e unica esperienza con il genere thriller.
Tra essi troviamo Gabriele Tinti e Anthony Steffen, l’immancabile Umberto Raho e la bellissima Anita Strindberg; tutti sufficientemente espressivi, in un film che però, visto i fondamentali, avrebbe potuto dare di più.

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Se la storia ha qualche lacuna, viene mascherata dall’intelligente opera di Mulargia che predilige l’ambientazione locale, dando finalmente risalto alla splendida cornice dell’isola caraibica e alla sua popolazione.
Al tropico del cancro ( titolo anche di un’opera di Henry Miller) ha essenzialmente questo merito, ovvero quello di fare da apripista al genere esotico/paesaggistico; qualche scena di nudo molto casto della Strindberg e una colonna sonora appropriata di Umiliani fanno da corollario ad un film che è stato ingiustamente massacrato dalla critica.
Ad una visione odierna infatti si ristabilisce un’equità che all’epoca mancava: il film ha una bella fotografia, una affascinante location ed è ben interpretato, il che vale una menzione per un prodotto che non va mescolato con i B movie.

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Al tropico del cancro è disponibile in digitale ed è di facile reperibilità in rete, mentre molto più difficile è assistere ad una sua proiezione in ambito televisivo.
Al tropico del cancro
Un film di Edoardo Mulargia, Gian Paolo Lomi. Con Gabriele Tinti, Anthony Steffen, Anita Strindberg, Stelio Candelli, Umberto Raho Thriller/Giallo, durata 95 min. – Italia 1972.

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Anthony Steffen: Dottor Williams
Anita Strindberg: Grace Wright
Gabriele Tinti: Fred Wright
Umberto Raho: Philip
Stelio Candelli: Garner
Kathryn Witt: Robin
Alfio Nicolosi: Peacock

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Regia Giampaolo Lomi, Edoardo Mulargia
Casa di produzione 14 Luglio Cinematografica, Plata Cinematografica
Fotografia Marcello Masciocchi
Montaggio Cesare Bianchini
Musiche Piero Umiliani

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dicembre 10, 2012 Posted by | Thriller | , , , | Lascia un commento

La morte risale a ieri sera

Donatella Berzaghi, figlia di Amanzio, una giovane minorata psichica che ha circa 20 anni ma i comportamenti di una bambina sparisce misteriosamente di casa.
Suo padre disperato si rivolge alla polizia; è l’investigatore Duca Lamberti con il collega Mascaranti ad occuparsi delle indagini.
Aiutato marginalmente da una prostituta e indagando nello squallido mercato del sesso, Lamberti scoprirà la terribile fine della ragazza, che però verrà vendicata dal padre…
La morte risale a ieri sera, tratto dal romanzo I milanesi ammazzano il sabato di Giorgio Scerbanenco esce nelle sale nel 1970, un anno dopo in discreto successo del libro dello scrittore di origine ucraina, morto prematuramente a Milano subito dopo l’uscita del romanzo.


Il romanzo, quarto ed ultimo della serie dedicata all’investigatore Lamberti (il personaggio di Lamberti era già stato interpretato da Bruno Crémer in Il caso “Venere privata” di Boisset) è anche l’ultima fatica dello scrittore, che scomparve come già detto nello stesso anno; il regista Duccio Tessari firma la sceneggiatura con l’aiuto di Artur Brauner e Biagio Proietti , saltando piè pari la parte introduttiva dedicata alla storia personale di Lamberti e introducendo il film con il tenero rapporto esistente tra la bellissima e sfortunata Donatella e suo padre Amanzi, mentre sparisce dal film anche la ninfomania della ragazza, costretta a vivere come una reclusa per evidenti motivi.

Beryl Cunningham

Di qui si snoda la vicenda, attraverso un’attenta descrizione del mondo sotterraneo della delinquenza milanese, quella che viveva ai margini della metropoli occupando le zone d’ombra dell’operosa città; un’indagine che parte da un’intuizione di Lamberti, uomo profondamente cinico ma anche umano, che capisce da subito che la ragazza è stata circuita da una banda che sfrutta ragazze a fini sessuali e che dopo alcuni tentennamenti si getterà anima e corpo alla ricerca di Donatella.

Gillian Bray

Tessari, regista specializzato in western ( suoi Una pistola per Ringo,Il ritorno di Ringo,Vivi o, preferibilmente, morti) mostra di avere confidenza con il genere thriller/poliziesco, anche se in questo caso è improprio parlare di appartenenza del film a questi generi.
La morte risale a ieri sera è più un noir, con i tempi classici del genere e una cura verso i dettagli davvero maniacale: si respira l’atmosfera dei noir francesi, nel film, che pur incedendo lentamente, avvolge lo spettatore in un’atmosfera opprimente e cupa.
Costretti a seguire una caccia che intuiamo da subito essere destinata a finire male, noi spettatori siamo trasportati attraverso una Milano che non è quella da bere, bensi quella polverosa e anziana come una nobile decaduta, quella dai palazzi a volte anonimi dietro i quali si nascondono storie turpi, con le vite di anonimi cittadini sospese su fili da equilibristi, come quella della sfortunata Donatella che non ha nemmeno le capacità per reagire ed opporsi a qualcosa che non può capire a causa del suo handicap.


Il film oltre che essere una descrizione accurata dei metodi investigativi di Lamberti, è anche una descrizione dell’ostinazione di un padre, Amanzio, che nella vita ha ormai solo quella ragazza affidata a lui come unico motivo di vita.
Così, dopo aver seguito la caccia alle ombre di Lamberti e dopo aver toccato con mano la disperazione di un padre privato dell’ultimo amore della vita, siamo trasportati verso un finale cattivo: la legge non può punire oltre un certo limite gli autori di un gesto particolarmente odioso come quello perpetrato ai danni di Donatella, così è Amanzio a fare giustizia.

Frank Wolff

Gabriele Tinti

Una giustizia che elimina solo una parte del problema, non certo il problema stesso ma che è indicativo di uno stato d’animo che era molto diffuso tra gli italiani, spesso preda di una delinquenza arrogante e sprezzante a cui la legge non riusciva a porre argine.
Tessari restituisce con molta fedeltà le atmosfere plumbee di Scerbanenco, creando un film in cui non c’è sangue, non c’è splatter o pistolettate ma solo una tensione latente e una grande precisione nella descrizione di ambienti e atmosfere.
Paradossalmente, sceglie per un film ambientato a Milano e descritto cosi minuziosamente nelle sue atmosfere da Scerbanenco attori protagonisti che milanesi non sono: a cominciare dall’americano Frank Wolff, che interpreta con misura e abilità il ruolo del principale protagonista, il poliziotto Duca Lamberti proseguendo poi con l’altro protagonista del film, Amanzio Berzaghi interpretato da Raf Vallone che di origine era calabrese.
E non sono milanesi Gabriele Tinti, Eva Renzi, Gillian Bray e Beryl Cunningham oltre a Gigi Rizzi.
Ma la “milanesità” del film c’è tutta, a cominciare dalla sigla introduttiva I giorni che ci appartengono cantata da Mina che scorre malinconica mentre vediamo i titoli di testa scorrere con sullo sfondo un tram che attraversa la città; così come milanese è la sequenza in cui vediamo Amanzio raggiungere casa sua, attraversando una città quasi indifferente se non ostile.


La parte iniziale del film è davvero un piccolo gioiello, con la sequenza che mostra Amanzio mentre si prende cura di quella che è la sua bambina, la splendida Donatella donna nel corpo ma bambina nel cuore e nel cervello, aiutandola a indossare un reggiseno, attrezzo infernale con cui la ragazza è palesemente in difficoltà.
Un film quindi assolutamente ben congegnato, fedele al romanzo e questa è una rarità, viste le numerose pessime trasposizioni dalla parola scritta al mondo della celluloide e sopratutto ben interpretato.
Per quanto riguarda la sua reperibilità, non dovrebbero esserci in giro versioni digitali ma non ci metto la mano sul fuoco; tra l’altro La morte risale a ieri sera è un film che non passa da una vita in tv per cui è sicuramente un’impresa trovare una versione del film che sia decente da vedere.

Il film è ora disponibile su You tube all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=SoMHUU-_4Ow in una buona versione audio/video.


La morte risale a ieri sera
Un film di Duccio Tessari. Con Frank Wolff, Raf Vallone, Eva Renzi, Beryl Cunningham, Checco Rissone, Gigi Rizzi, Gabriele Tinti, Marco Mariani, Stefano Oppedisano, Giorgio Dolfin, Gillian Bray Poliziesco, durata 102′ min. – Italia 1970.

Raf Vallone: Amanzio Berzaghi
Frank Wolff: Commissario Duca Lamberti
Gabriele Tinti: Mascaranti
Gillian Bray: Donatella Berzaghi
Eva Renzi: moglie di Lamberti
Gigi Rizzi: Salvatore
Beryl Cunningham: Herrero
Wilma Casagrande: Concetta
Checco Rissone: Ing – Salvarsanti
Marco Mariani: Franco Baronia
Jack La Cayenne: Franco Baronia – l’altro
Stefano Oppedisano: collega di Salvatore

 

Regia Duccio Tessari
Soggetto dal libro I milanesi ammazzano al sabato di Giorgio Scerbanenco
Sceneggiatura Artur Brauner, Biagio Proietti, Duccio Tessari
Produttore Artur Brauner, Giuseppe Tortorella
Casa di produzione Central Cinema Company Film, Filmes Cinematografica, La Lombard Filmes Cinematografica
Fotografia Lamberto Caimi
Montaggio Lamberto Morra
Musiche Gianni Ferrio

Incipit del romanzo

Duca Lamberti disse: “Si”. Non era un’interrogazione, era un’approvazione.
L’uomo anziano ma robusto, solido, largo, muscoloso, velloso alle orecchie e alle sopracciglia, dall’altra parte del tavolo, riprese a parlare.

Les aventuriers du Rio Verde (TV mini-serie)
– Manana (1993)
– Le barrage (1992)
1992 Beyond Justice
1991 Il principe del deserto (TV mini-serie)
1990 Il gorilla (TV series)
– Le gorille et l’amazone (1990)
1990 C’era un castello con 40 cani
1988 Una grande storia d’amore (TV movie)
1988 Guerra di spie (TV mini-serie)
1986 Bitte laßt die Blumen leben
1985 Baciami strega (TV movie)
1985 Caccia al ladro d’autore (TV serie)
– Il ratto di Proserpina (1985)
1985 Tex e il signore degli abissi
1984 Nata d’amore (TV mini-serie)
1981 Un centesimo di secondo
1978 L’alba dei falsi dei
1976 La madama
1976 Safari Express
1975/I El Zorro la belva del Colorado
1974 L’uomo senza memoria
1974 Uomini duri
1973 Tony Arzenta – Big Guns
1973 Gli eroi
1972 Forza ‘G’
1971 Viva la muerte… tua!
1971 Una farfalla con le ali insanguinate
1970 La morte risale a ieri sera
1970 Quella piccola differenza
1969 Vivi o, preferibilmente, morti
1968 I bastardi
1968 Meglio vedova
1967 Per amore… per magia…
1966 Bacia e spara
1965 Il ritorno di Ringo
1965 Una pistola per Ringo
1965 Una voglia da morire
1964 La sfinge sorride prima di morire – stop – Londra
1963 Il fornaretto di Venezia
1962 Arrivano i titani

Soundtrack del film

Due flani del film

 Giorgio Scerbanenco

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settembre 3, 2012 Posted by | Thriller | , , , , , | 3 commenti

Non aver paura della zia Marta

Richard Hamilton, sua moglie Nora e i due figli Giorgia e Maurice partono per la residenza di campagna di proprietà della zia di Richard, Marta.
E’ un fine settimana speciale, per Richard; lui, sua zia Marta, non la vede da tantissimi anni, in quanto la donna è stata rinchiusa in un ospedale psichiatrico.
All’arrivo nella casa di campagna la famiglia Hamilton è accolta dal custode della stessa, che non nasconde la sua ostilità verso gli Hamilton.


Mentre in un clima poco idilliaco, in contrasto con la bellezza del posto, gli Hamilton sono in attesa di ricevere la visita di zia Marta, un misterioso assassino inizia a massacrare i componenti della famiglia.
Vengono uccisi in sequenza Maurice, Nora e Giorgia, quest’ultima accoltellata brutalmente mentre fa la doccia.
L’assassino arriva anche a mettere a tavola tutta la famiglia sterminata, mentre Richard apprende finalmente la verità su sua zia e sull’identità dell’assassino.
Quest’ultimo altro non è che il custode, che ha ucciso tutta la famiglia di Richard per vendicare Marta che venne rinchiusa dalla mamma di Richard in un manicomio da sua sorella, che voleva impadronirsi dell’eredità di Marta stessa per se e per suo figlio Richard.


Dopo aver scoperto che il custode della casa conserva il corpo mummificato di Marta, Richard ingaggia una lotta mortale con il custode, che avrebbe la meglio se non avvenisse un colpo di scena: Richard non ha vissuto realmente i fatti descritti, ma ha semplicemente sognato tutto.
In realtà ha avuto un incidente nel quale tutta la sua famiglia è perita, con conseguente vendetta finale di zia Marta.
Mario Bianchi, regista di b movies fino a questo esperimento di thriller/horror peraltro degno del suo passato di regista di film minori, dirige un’opera che definire brutta è solo esercizio di stile.
Mal diretto, con una sceneggiatura elementare in modo allarmante ed un finale assolutamente fuori dalla logica, Non aver paura della zia Marta può essere definito il classico esemplare di cinema trash dei tardi anni 80.


Difficilissimo, se non impossibile, trovare un solo elemento rimarchevole in un film in cui gli unici momenti di tensione (davvero relativa) sono legati alle morti in rapida successione dei vari componenti della famiglia Hamilton.
Le uniche due occasioni riguardano la morte di Nora, decapitata in una soffitta e quella di Giorgia, assassinata mentre fa la doccia con la mdp che indugia sulle prosperose forme di Jessica Moore mentre per il resto del film predomina un senso di involontaria comicità, legata a scenette insulse come il pestifero fratellino Maurice che spaventa sua sorella con una lucertola (sic)

o quella sicuramente di comicità assoluta in cui Richard si ritrova a tavola con tutti i suoi familiari morti e seduti come stessero per mangiare mentre lui si guarda attorno con espressione stupita ma non più di tanto.
Parlavo prima della sceneggiatura, così astrusa e sconclusionata da risultare involontariamente comica; perchè il custode conserva il corpo brulicante di vermi della famigerata zia Marta e lo bacia con passione? Che legame esisteva fra loro due? Come ha fatto zia Marta, folle dopo esser stata rinchiusa ingiustamente in manicomio, ad uscire dallo stesso e perchè non si è ripresa la sua eredità?
Sono domande elementari alle quali però il regista non risponde, preferendo puntare sulla mano misteriosa che massacra la famiglia con efferatezza, su qualche scenetta blandamente erotica (vedere i nudi fugaci della Russo e quelli più corposi della Morre) e su qualche effettaccio horror.


Nel film non c’è nient’altro, se non confusione, noia e banalità.
Il cast è assemblato a basso costo, come del resto il film  e mostra la corda con il compianto Gabriele Tinti spaesato come non mai, con una Adriana Russo in evidente imbarazzo e con Jessica Moore che esprime solo un fisico appetitoso e procace.
Null’altro da segnalare in una pellicola davvero scialba e che non vale assolutamente nemmeno una visione di sfuggita.


Non avere paura della zia Marta
Un film di Mario Bianchi. Con Adriana Russo, Gabriele Tinti, Jessica Moore, Maurice Poli Thriller, durata 88 min. – Italia 1989.

Adriana Russo: Nora Hamilton
Gabriele Tinti: Richard Hamilton
Anna Maria Placido: mamma di Richard
Jessica Moore: Georgia Hamilton
Maurice Poli: Thomas
Massimiliano Massimi:
Edoardo Massimi: Maurice Hamilton
Sacha M. Darwin: zia Marta

Regia Mario Bianchi
Soggetto Mario Bianchi
Sceneggiatura Mario Bianchi
Produttore Luigi Nannerini, Antonino Lucidi
Casa di produzione Distribuzione Alpha Cinematografica
Fotografia Silvano Tessicini
Montaggio Vincenzo Tomassi
Musiche Gianni Sposito
Trucco Pino Ferranti

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luglio 10, 2012 Posted by | Horror | , , , | 4 commenti

Riflessi di luce

Riflessi di luce locandina

Federico Brandi, un compositore di buon livello, vive in una splendida villa crogiolandosi nei ricordi fra i quali ha prevalenza quello del drammatico incidente in cui ha perso l’uso delle gambe, rimanendo confinato su una sedie a rotelle.
L’altro motivo per cui Federico prova un astio senza fine verso gli altri è il ricordo della splendida moglie Chiara morta annegata abbastanza banalmente mentre si bagnava in un lago.
Le lunghe ore solitarie, i sospetti che prova verso la sua nuova compagna Marta lo spingono a scrivere una specie di lettera confidenziale a Lorenzo, un suo vecchio amico, nella quale esterna il suo dolore e la sua rabbia per la vita a metà che è costretto a portare avanti.

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Pamela Prati

Nella villa ci sono anche l’affascinante figlio ventenne Marcello e la sua segretaria Giorgia; l’ostilità dell’uomo verso l’esterno aumenterà esponenzialmente quando si renderà conto che la moglie Marta ha intrecciato una relazione incestuosa con il figlio, oltre che sollazzarsi in giochi saffici con la segretaria.
Nel frattempo Marcello allaccia casualmente una relazione con la bella Gaia, durante una delle prove che fa per diventare un fantino.
Tutto si dipana lentamente verso il finale, durante il quale Marta apprende dalla lettera che ha scritto quest’ultimo dell’infinito amore che il compositore prova ancora per la moglie defunta e….
Pasticciaccio erotico di bassa lega,infarcito di dialoghi piatti come un elettroencefalogramma fatto ad una gallina con la meningite, Riflessi di luce è uno di quei filmacci a metà strada tra il soft core e il porno che abbondarono nella produzione cinematografica di fine anni 80.
Periodo nel quale è drammaticamente evidente la crisi del cinema, acuita anche dalla mancanza di soggetti validi oltre che di materia prima, ovvero spettatori paganti nelle sale.

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Diretto da Mario Bianchi, Riflessi di luce esce nelle sale nel 1988 e propone un cast raccattato alla bene e meglio, nel quale l’unico a mantenere un livello appena sufficiente è Gabriele Tinti, che tre anni più tardi, nel 1991 sarebbe scomparso prematuramente all’età di 59 anni.
L’attore riesce in qualche modo a dare credibilità al personaggio tormentato di Federico, l’unico ad essere dotato di un qualche spessore; e vista l’unione sentimentale con Laura Gemser, sua compagna di vita nella realtà e nel film moglie del protagonista, ecco che le uniche scene credibili si rivelano proprio quelle che vedono protagonisti i due coniugi separati da un destino crudele.
Il resto del cast mostra un pressapochismo, una mancanza dei fondamentali recitativi a dir poco penosa.

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Si passa da una scialba Pamela Prati, totalmente inespressiva tranne quando appare senza veli fino a Loredana Romito, altra attrice di scarsissime qualità fino a Jessica Moore, carina ma anch’essa scarsamente dotata (dal punto recitativo).
Proprio nel punto esplicitato tra parentesi sta il succo del film: siamo di fronte ad una robusta esposizione di parti intime,natiche e seni conditi da diverse sequenze lesbiche e poco più.

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Si fa davvero fatica a sopportare i dialoghi insulsi con cui il regista cerca di dare un’aura di credibilità al film.
Che resta quello che è, ovvero un melodramma erotico che avrebbe avuto qualche ragione d’essere negli anni settanta, periodo in cui si solleticavano gli istinti più bassi della platea, non di certo alla fine degli anni 80.
Detto questo, non resta altro da fare che sconsigliare la visione del film, molto caldamente.

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Per una volta, concordo pienamente con il lapidario giudizio del Morandini, di solito poco affidabile in molte recensioni.
“Vietato ai minori di 18 anni, sconsigliabile ai maggiori.”
Una pietra tombale decisamente condivisibile.
Riflessi di luce, un film di Mario Bianchi. Con Loredana Romito, Laura Gemser, Pamela Prati, Gabriele Tinti, Gabriele Gori Drammatico, durata 90 min. – Italia 1988.

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Pamela Prati    …     Marta
Gabriele Tinti    …     Federico Brandi
Loredana Romito    …     Giorgia
Gabriele Gori    …     Marcello Brandi
Laura Gemser    …     Chiara
Jessica Moore    …     Gaia


Regia: Mario Bianchi
Sceneggiatura: Francesco Valitutti
Musiche: Gianni Sposito
Editing: Cesare Bianchini
Costumi: Maurizio Fiorelli

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Capisco che la Pamela sia una splendida donna ma questo film è una vaccata inguardabile. Eppure sono arrivata alla fine… nonostante gli allenamenti a cavallo e i “virtuosismi” shakespeariani del giovine Michele. Ho capito l’indefinibile ruolo della Romito (a parte mostrarsi ignuda) solo a visione ultimata, il finale è patetico ed è un complimento. Solo per coraggiosi o fan motivati della Pamela Prati.

Lentissimo filmetto adriatico, di sconcertante povertà, ad esclusione di qualche maschera di Gabriele Tinti che, a confronto degli altri, pare Marlon Brando. Soggetto di tre righe, sceneggiatura cui deve dar manforte il tirare in lungo ogni situazione per fare metraggio. La povertà di mezzi si vede sin dalla “folle” caduta della motociclista. E che dire dell’allenamento per il Gran Premio d’ippica? Fra le donne la più brava è la Moore, la più sensuale la Romito, la più banale la Prati, primo nome dei crediti. Dialoghi sconcertanti. Insalvabile.

Mario Bianchi tra un porno doc (“Belve del Sesso”, 1987) ed un porno choc (“Giochi bestiali in famiglia”, 1990), ricorda la discendenza nobile (Roberto Bianchi Montero è il padre) per cui rientra in carreggiata, ma ha perso il senso del ritmo e, soprattutto, ha sbagliato “corsia”. Con una 500 infila l’autostrada. Questo è un film drammatico, lievemente erotico (in particolare grazie alla sola presenza fisica di Pamela Prati e Loredana Romito), pesantemente malfatto. Si inizia dalle scarse locations, per proseguire con una regia disattenta ed un plot striminzito, ricco di stereotipi…

Terribile drammone a tinte erotiche realizzato maldestramente e con una povertà di budget impressionante. Bianchi sperava forse di rientrare nel cinema non-hard, ma non credo sia riuscito a raccogliere nella sale più di qualche spicciolo. Il povero Tinti sprofonda in questo ignobile abisso chiudendo malamente la sua carriera, stessa cosa per Laura Gemser che si limita ad apparire in sogno. In carne ed ossa si vede invece Pamela Prati che insieme a Loredana Romito e alla sedicente Jessica Moore regala rari momenti di innocuo eros pseudpatinato.

Dramma erotico borghese come tanti altri ne erano stati fatti negli anni precedenti: un vedovo in crisi e ossessionato dal ricordo della moglie morta, un figlio degenere, una segretaria lesbica… Motivo d’interesse la presenza dell’ottimo Tinti – sempre serio professionista – la bellezza della Prati, della Romito e della Moore; la Gemser compare in flashback. Finale riconciliante.

Alquanto mediocre film erotico-drammatico che si distingue per la scarsezza degli attori (salvo solo il buon Gabriele Tinti) e per l’assurdità di alcune scene (l’allenamento a cavallo). Nel finale il film vira bruscamente verso il sentimentale, sembra di assistere quindi a un misto di generi, peccato il risultato sia un po’ indigesto. Belli comunque alcuni paesaggi.

Mi avvicinai a questa pellicola con la speranza di poter vedere un thrillerino di quelli tipici “de noantri”, con qualche piccata erotica e un retrogusto delinquenziale di thanatos. Invece, se il primo aspetto, pur non eccellendo, non lascia nemmeno a bocca asciutta (la Prati e la Moore valgono ogni visione, a prescindere in my opinion), il secondo manca del tutto, in quanto vi è sì un sottotesto serioso ma al massimo di natura drammatica. Pertanto, lo si guardi solamente se interessati alla prima delle due partes…

 

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gennaio 3, 2011 Posted by | Erotico | , , , , | 1 commento

Emanuelle in America

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Sempre alla ricerca di scoop fotografici, Emanuelle questa volta si imbarca in una serie di avventure molto pericolose tra trafficanti di armi e orge veneziane, tra snuff movie e anche un principe africano che la vorrebbe in sposa e che non fa i conti con la bella reporter, troppo indipendente per accettare un legame fisso.
Emanuelle in America, terza opera dedicata alla reporter interpretata da Laura Gemser è il secondo diretto da Aristide Massaccesi con il suo abituale pseudonimo Joe D’amato.

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Laura Gemser

Segue il lusinghiero successo di Emanuelle nera Orient reportage girato nel 1975, mentre questo film è dell’anno successivo.
Joe D’Amato sceglie di mescolare più generi, creando un vero trademark che sarà la caratteristica peculiare di tutti i prodotti successivi; il cinema horror si mescola al thriller, al sexy fino al porno quasi estremo, rappresentato dalla famosa scena censurata in Italia della masturbazione di un cavallo, che verrà replicata in Caligola la storia mai raccontata, anche questo interpretato dalla Gemser.

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Discontinuo e disomogeneo, Emanuelle in America è un film molto forte a livello visivo, caratterizzato principalmente dall’inserzione, nella pellicola, di quello che sembra essere un vero e proprio snuff-movie, rappresentante scene di violenza eseguite da militari ai danni di alcune ragazze.
Scene ferocissime con sangue che scorre a fiumi, mutilazioni impressionanti, falli artificiali in metallo e ganci che straziano i corpi delle prigioniere.

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Scene rese quasi reali dall’abilità di D’Amato, che utilizzò una handy cam e che ebbe poi l’accortezza di rovinare la pellicola, dando alla stessa un senso di impressionante realtà.
La versione italiana uscì mutilata volontariamente dallo stesso regista, che sapeva perfettamente che non avrebbe mai superato la barriera censorea, mentre per il mercato estero vennero girate appositamente scene hard per un tempo di circa 10-12 minuti.
Scene che nulla aggiungono ovviamente all’economia del film, che appare caotico e sopratutto poco credibile.
Ma l’intento di D’Amato viene raggiunto a livello visivo, con un helzapoppin di immagini truculente mescolate ad una storia che se ha dalla sua l’assoluta incredibilità finisce per ammaliare lo spettatore, tutto preso anche dalla generosa esposizione delle forme delle belle protagoniste, ovvero Laura Gemser, Lorraine De Selle e Paola Senatore, entrambe alle prese con ardite sequenze saffiche recitate a turno con la affascinante Gemser.

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Quanto mai fascinose le location, tra le quali spiccano l’ambientazione veneziana, teatro dell’orgia in cui Emanuelle si trova ad accoppiarsi assieme a quasi tutti gli intervenuti fino al villaggio caraibico Chez Fabion nel quale molte mature signore si concedono svaghi (ovviamente sessuali) che danno loro l’illusione di restare giovani e desiderate.
Emanuelle in America non è un brutto film, ma sicuramente va inquadrato nell’ottica di Massaccesi tesa da un lato a glorificare il sesso e la trasgressione e dall’altro furbescamente a strizzare l’occhio verso lo spettatore ansioso di vedere valicato il confine tra l’erotico e il porno, che mai come in questa occasione diventa labile.

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Inutile parlare di recitazione dei vari protagonisti; tutto è corporeo, fisico.
La Gemser replica ancora una volta il personaggio che l’ha resa celebre, a cui è chiesto solo di essere se stessa, ovvero una seducente e affascinante creatura che pur non essendo una vamp emana un fluido erotico che ha poche rispondenze in altre attrici.

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Emanuelle in America, un film di Joe D’Amato. Con Gabriele Tinti, Paola Senatore, Roger Browne, Laura Gemser, Riccardo Salvino,Lorraine De Selle,Marina Frajese Erotico, durata 95 min. – Italia 1976.

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Paola Senatore

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Laura Gemser: Emanuelle
Paola Senatore: Laura Elvize
Gabriele Tinti: Alfredo Elvize, duca di Mont’Elba
Roger Brown: senatore
Riccardo Salvino: Bill
Lars Bloch: Eric Van Darren
Maria Pia Regoli: Diana Smith
Giulio Bianchi: Tony
Efrem Appel: Joe
Stefania Nocini: Janet
Lorraine De Selle: Gemini
Marina Frajese: donna sulla spiaggia
Rick Martino: gigolò
Vittorio Ripamonti: un Onorevole al Party di Venezia

Regia     Joe D’Amato
Soggetto     Ottavio Alessi, Piero Vivarelli
Sceneggiatura     Piero Vivarelli, Maria Pia Fusco, Ottavio Alessi
Produttore     Fabrizio De Angelis
Casa di produzione     New Film Production, Krystal Film
Distribuzione (Italia)     Fida Cinematografica
Fotografia     Aristide Massaccesi
Montaggio     Vincenzo Tomassi
Effetti speciali     Giannetto De Rossi
Musiche     Nico Fidenco
Scenografia     Marco Dentici, Enrico Luzzi
Costumi     Luciana Marinucci
Trucco     Maurizio Trani

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Noto per aver portato l’azione nel mondo degli “snuff-movie”, il film è forse fra i peggiori della serie. In questo caso, curiosamente, Emanuelle assume con pedante regolarità un atteggiamento antipatico nei confronti dei suoi interlocutori, il che la rende sgradevole allo stesso spettatore.

Molto superficiale nella sua ipocrita denuncia su certo traffico (femminile) umano, che si favoleggia qui raggiungere punte estreme quali il leggendario snuff. Massaccesi inanella tutta una serie di avventure intersecantesi tra loro, atte a mostrare (e demolire) i tabù dell’epoca, tipo l’incredibile scena di zoofilia tagliata nella versione soft. La Gemser, nei panni della cinica giornalista che dà il nome alla serie di pellicole, si muove con fare distaccato. Per fortuna il regista è qui al suo massimo ed infonde un ritmo notevole al girato.

Nuova avventura cosmopolita per la Gemser che, in missione giornalistica tra una seduzione e un amplesso, giunge ad aprire per un attimo la porta proibita dello snuff: D’Amato si arresta al versante erotico, ma – a differenza del precedente capitolo – avverte già l’esigenza di contaminarlo con altri generi. Tra le starlets non accreditate, nella villa con piscina di Bloch sfilano la Verlier, la Lay e la De Salle; in quella della coppia Tinti-Senatore è ospite la Gobert.

Uno dei migliori della serie apocrifa, se non il migliore. Le vicende della bella fotoreporter Emanuelle in giro per il mondo sono il pretesto per vedere scene erotiche dirette e montate con gusto dallo specialista del genere Joe D’Amato. Lo stesso non si può dire delle scene presenti nella versione hard, girate alla bell’e meglio ed incollate al resto del materiale con bruschi stacchi… Comunque nella versione soft il film ha anche più ritmo e rimane una visione consigliabile. Ottime le musiche di Nico Fidenco.

La Gemser buca lo schermo, il film trafora le sacrosante. Non bastano i fiacchi inserti hard per impedire alle mandibole di slogarsi in ripetuti sbadigli. Ammetto di essermelo sciroppato solo per l’elemento snuff e mi tolgo il cappello davanti a De Rossi e Trani. Buttare alla discarica il resto.

Tra i migliori della serie apocrifa. La storia e i dialoghi naturalmente sono quello che sono (anche se l’elemento snuff è curioso) ma la regia di Massaccesi rende il film godibilissimo. Sul versante erotico le scene soft sono ottime (tra le migliori mai viste in un erotico italiano) mentre quelle hard spesso sono parecchio squallide (specie per alcuni attori in evidente imbarazzo). Ottimi gli effetti speciali all’interno dello snuff e bellissima la colonna sonora di Fidenco.

Emanuelle (una M per copyright) è mischione del personaggio di Jaeckin, 007 e Blow Up; cose che andavano di moda all’epoca. La Gemser, bellissima di Giava (no comment), si districa tra letti e location diverse e risolve varie situazioni, tra cui un traffico di gigolò. L’ipocrisia del tutto è così conclamata che il film è suo malgrado divertente per la faccia tosta di ciò che si dichiara e ciò che invece si vede. Grandioso il tavolino a forma di Marlboro, capolavoro di pubblicità occulta. Spazzatura professionale.

Il tentativo, coraggioso, di Aristide Massaccesi di dare istituto al crossover tra sesso e violenza è ben estremizzato, mentre la storia forse è un pretesto o forse è lo spunto migliore per mostrare il resto. La versione estesa è hardcore, seppure con poche scene girate anche male, ma non è questo il punto. Di erotismo d’autore non se ne parla, ma quello proposto è senza dubbio meno noioso e più intrigante. La parte forte è quella del filmato snuff: super rivoltante e disturbante, quindi fatto benissimo. La sintesi di tutto: è un film di Joe D’Amato!

Essendo un film erotico si può affermare che sia indubbiamente piuttosto piacevole e accompagnato da belle musiche, poi l’inserimento della storia degli snuff movie aggiunge ancora qualcosa in più a questa pellicola ben diretta dal grande Joe D’amato. Indubbiamente uno dei migliori della serie.

Primo film a innestare nella serie, accanto agli ingredienti già consolidati, anche quegli elementi thrilling e violenti che caratterizzano più peculiarmente lo stile del regista (celebri le sequenze dei finti snuff-movie all’interno del film). Ma è anche(e forse è soprattutto per questo che passa alla storia) il primo a contenere scene hard (a dire il vero un po’ acerbe e non troppo disinvolte) destinate alle versioni estere (e oggi abbondantemente recuperate in home video). Mezzo pallino in più per il valore storico e documentario.

Terzo episodio della saga di Emanuelle Nera, uno dei migliori. Joe D’Amato imprime la svolta decisiva alla serie e introduce elementi orrorici (il celeberrimo finto snuff) che si alternano alla commedia, all’erotico e alla pornografia. Scene hard esplicite vedono protagoniste Marina Lotar, Cristina Minutelli e Maria Renata Franco (che si lancia addirittura in una scena di zooerastia). Il tripudio di starlettes a contorno (tra cui giova ricordare Paola Senatore e Lorraine De Selle) e le ottime musiche di Fidenco completano il quadro. Da vedere.

Probabilmente il più famoso dei capitoli della saga, grazie allo “snuff” che in effetti per realismo e crudezza rappresenta un momento fra i più significativi del nostro cinema di genere. Per il resto è il film in cui il personaggio di Emanuelle prende definitivamente forma, con il Massaccesi-style che giunge a compimento in situazioni che poi saranno più o meno replicate nei capitoli successivi e non risultano particolarmente noiose pur nella inconsistenza complessiva della trama.

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dicembre 13, 2010 Posted by | Erotico | , , , , , | Lascia un commento

La casa dell’esorcismo

La casa dell'esorcismo locandina

Toledo, Spagna.
Un gruppo di turisti è in visita alla locale Cattedrale.
Tra di loro c’è la giovane turista americana Lisa, che all’improvviso viene colta da malore.
Trasportata in un ospedale, grazie alla premura di Padre Michael, Lisa viene a trovarsi in uno stato alterato della psiche.
Padre Micahel rispedisce la giovane amica di Lisa, Kathy a casa sua, e si occupa personalmente di Lisa.
Ben presto a Padre Michael appare chiaro che quello di Lisa è un caso assolutamente a se stante; la giovane donna, che i medici non riescono a curare, sembra essere posseduta da un’entità malvagia.

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Elke Sommer, Lisa

Padre Michael scopre così che è il diavolo l’autentico manipolatore della ragazza, apprendendo così quello che è accaduto nel recente passato della donna.
Una notte Lisa si è trovata a soggiornare presso la villa di una nobile e di suo figlio; qui ha assistito ad orrendi delitti rituali commessi dalla donna e dai suoi parenti, consistenti in messe nere, rapporti incestuosi ecc.
Per padre Michael ha inizio così una dura lotta contro il demonio, che per sconfiggere il prete non esita a ricorrere a tutti i mezzi, compresa l’evocazione di un antico amore del prelato.
Padre Michael, per sconfiggere il maligno, dovrà andare a scovarlo dalla sua residenza, stabilita nella villa maledetta della vecchia contessa.

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La casa dell’esorcismo è un film a cui ha partecipato solo parzialmente Mario Bava, che vide trasformare dal produttore Leoni il suo film di qualche anno prima Lisa e il diavolo in un’opera profondamente diversa dall’originale.
Le cause della celta di produrre un film utilizzando l’impianto narrativo di Lisa e il diavolo oltre all’utilizzo di molta parte del film precedente, aggiungendo la lunga sequenza all’interno dell’ospedale e la conclusione nella villa maledetta sono da ricercare nel successo che stava avendo, a livello mondiale, il film di Friedkin L’esorcista.

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Sylva Koscina è Sophia, presente nel primo film ed evocata da Lisa nei suoi ricordi

Il filone demoniaco sembrava attirare masse di spettatori, e il produttore Leoni, che aveva finanziato Lisa e il diavolo, decise di recuperare parte dei soldi spesi proprio per Lisa e il diavolo producendo un film che si riferisse esplicitamente al filone demoniaco.
Il film originale di Bava, pur essendo opera affascinante creata con l’ausilio anche di un cast di notevole valore, non aveva avuto un grande successo, rimanendo confinata nel limbo; nonostante la bravura di Bava, l’utilizzo classico dei colori accesi, l’atmosfera degna di Lovercraft e una trama di sicuro interesse non erano bastati ad assicurare il successo della pellicola.

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Se in Lisa e il diavolo il percorso organico della giovane turista che si imbatte nel diavolo sotto mentite spoglie di un maggiordomo che traffica in manichini era sembrato lineare, in La casa dell’esorcismo, pur essendoci uno sforzo notevole per assemblare una storia credibile, costruita attorno al trauma vissuto da Lisa nel film precedente, non funziona del tutto.

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Sono evidenti le due mani distinte nelle regie, e Micky Lion (pseudonimo del produttore Leoni) non ha di certo il senso del ritmo e le capacità di Bava.
Pur avvalendosi delle prestazioni di Lamberto, figlio del grande maestro, Lion costruisce un film che sembra spaccato in due: da una parte il ceppo principale costruito da Bava, dall’altro la parte aggiunta, in cui predomina l’aspetto demoniaco con piccole varianti sexy, rappresentate dall’immagine della vecchia fiamma di Padre Michael che appare nuda al sacerdote per diminuirne le capacità esorcistiche.

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Tuttavia il film ha un suo fascino, proprio grazie all’impianto principale; la parte che rievoca gli avvenimenti nella villa della vecchia contessa è solida, e da sola basta a reggere il film, che in fondo ha in aggiunta solo una parte relativa al ricovero e il finale ambientato nella villa, con lo scontro tra il maligno e Padre Michael.
Manca ovviamente tutta l’introduzione di Lisa e il diavolo, con quel piccolo gioiellino che consisteva nell’incontro tra il diavolo, impersonato da un perfetto Telly Savalas e Lisa- Elke Sommer, che ovviamente anche in questo film ha la parte principale.

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La scelta della bella attrice non fu di certo casuale; Elke aveva fatto parte del cast del precedente Gli orrori del castello di Norimberga, opera affascinante del maestro.
Molti critici cinematografici storcono la bocca di fronte a questa operazione, definendola totalmente commerciale; in realtà La casa dell’esorcismo, anche per chi non ha avuto la ventura di vedere Lisa e il diavolo, appare opera dignitosa, pur nei limiti descritti.
La parte girata da Bava ha un fascino sottile, e da sola vale la visione del film.
Difficile definire in qualche modo l’aspetto recitativo, senza fare riferimento proprio a Lisa e il diavolo; il cast è bene assortito, e include l’ottima Alida Valli (la contessa), Alessio Orano, Telly Savalas, Sylva Koscina, autrice di una parte estremamente audace con gabriele Tinti che venne tagliata in fase di montaggio e con non compare in molte edizioni sia cinematografiche che destinate all’home video.
L’unica giudicabile appieno è proprio Elke Sommer, e va detto che la bella attrice è efficace e espressiva; è anche bella, il che non guasta mai.

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Discreto Robert Alda, che si aggiunse proprio in questo secondo episodio (sempre a volerlo classificare così) e decisamente affascinante la giovane Carmen Silva, che compare in poche sequenze del film stesso in costume adamitico.
I paralleli con L’esorcista appaiono legittimi ed evidenti; le differenze sostanziali sono solo nelle varie storie che hanno dietro la Regan dell’Esorcista e la Lisa di questo film; il linguaggio usato dal demonio è molto simile, così come le manifestazioni esteriori della presenza del diavolo stesso, che si manifesta con il classico vomito verde.

La novità è rappresentata dal tentativo del maligno di sedurre fisicamente il sacerdote, attraverso l’apparizione di Carmen Silva, che a ben vedere potrebbe dannare anche un santo.
Un film che si può vedere, lontano dalle stroncature di alcuni critici poco avvezzi a certo tipo di operazioni.

La casa dell’esorcismo, un film di Mario Bava. Con Elke Sommer, Sylva Koscina, Telly Savalas, Alessio Orano, Alida Valli, Gabriele Tinti, Robert Alda, Eduardo Fajardo, Spartaco Santoni, Carmen Silva
Horror, durata 92 min. – Italia 1975.

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Telly Savalas     …     Leandro
Elke Sommer    …     Lisa Reiner
Sylva Koscina    …     Sophia Lehar
Alessio Orano    …     Max
Gabriele Tinti    …     George, l’autista
Kathy Leone    …     Kathy amica di Lisa
Eduardo Fajardo    …     Francis Lehar
Franz von Treuberg    …     Shopkeeper
Espartaco Santoni    …     Carlo
Alida Valli    …     Contessa
Robert Alda    …     Padre Michael
Carmen Silva    …     Anna

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Regia: Mario Bava (solo Lisa e il diavolo) e Micky Lion
Prodotto da José Gutiérrez Maesso e Alfredo Leone
Musiche : Carlo Savina

Le scene tagliate da Mario Bava in Lisa e il diavolo; solo la prima scena è presente anche in La casa dell’esorcismo

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“Lisa e il Diavolo  nella sua versione rinnegata da Bava perché rimaneggiata dal produttore (Leone) che optò per l’inserimento di scene ispirate dal recente clamore suscitato da L’Esorcista  (1973). Ad Elke Sommer spetta la parte della posseduta e su di lei vengono girate sequenze che appaiono -alla luce odierna ancor di più- evidentemente forzate, con inevitabili conseguenze sullo sviluppo narrativo, deviato da immagini shockanti (e ben fatte) ma inutili…

Triste operazione di riassemblaggio, che diventa godibile (poco) solo con spiritaccio goliardico per sghignazzare sul contrasto fra le sequenze aggiunte (girate probabilmente da Lamberto) e quelle originali di papà Mario. Abbastanza terribile, si salva tutto sommato il finale apocalittico (cioè, insomma…)

Ecco come rovinare un ottimo film. L’unica cosa positiva è che il maestro Bava si sia rifiutato di girare questa porcheria, diretta dal produttore Leone in mancanza di meglio. Si danno più risalto alle musiche inquietanti di Carlo Savina, aumenta il sesso e qualche effetto di sangue, ma il livello si abbassa di almeno dieci punti. La trama diventa sconclusionata e contraddittoria. Orrendo.

Curiosa operazione commerciale dai risultati mediocri. Le scene di esorcismo non sono neanche male (notevole la quantità di parolacce, che supera nettamente L’esorcista) però con il film di Bava non c’entrano nulla. Quindi la trama diventa decisamente incomprensbile e così ci si stanca subito.

Decisamente un film brutto, slegato e sconclusionato. La presenza di Bava si legge solo sui titoli, della sua mano resta infatti davvero poco o nulla. L’ntreccio assume spesso connotati buffi se non ridicoli e il tutto scade presto nella noia totale. Sprecato, per l’occasione, Telly Savalas.

Cercare di rendere commerciale Lisa e il diavolo  con inserti horror espliciti, ricchi di sesso e oscenità verbali varie, poteva risultare anche vantaggioso per il botteghino, vista l’epoca. Compare una versione strong del precedente film, piuttosto confusa e pasticciata, anche se le scene dell’esorcismo sono abbastanza minacciose e cruente. L’arte del maestro sparisce per far posto all’impatto delle immagini, ma la paura purtroppo è in affanno. Affermare l’errore è giusto, ma nei panni di chi deve far conto del borsellino, si va verso altre affermazioni.

Malsano tentativo di rendere attraente per il pubblico Lisa e il Diavolo, aggiornandolo alla moda dell’Esorcista  e inserendo quindi scene nuove con un prete e l’indemoniata. Più o meno come fare sfregi ad un bel quadro sino ad ottenerne brandelli privi di ogni valore e significato. Male, molto male Mickey Lion (certamente molto più Leone che Bava).

Troppo facile riusare le scene del film di Bava  per prendersi dei meriti, condendole con soporifere scene d’esorcismo (tanto volgari e blasfeme quanto compiaciute e trash – vedete sotto la “Frase memorabile” per delucidazioni). L’idea non era neanche così tremendamente malvagia, ma il risultato è assolutamente deludente: tanto il sesso facile e trash, zero la tensione, trama quasi inesistente, sangue minimo. E poi non ci capirete nulla se non avete visto Lisa e il diavolo. Ma è davvero così indispensabile completare tale mini-saga?”

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agosto 4, 2010 Posted by | Horror | , , , , , , | 3 commenti