Corpo d’amore
Giacomo è un sessantenne con un figlio adolescente di quattordici anni;da lui è separato non solo dalla notevole differenza di età
ma anche da un lunghissimo periodo di separazione.
I due in pratica sono quasi degli estranei,che non hanno un dialogo benchè minimo in mancanza di quell’affiatamento che si crea tra
padre e figlio con il frequentarsi quotidiano.
In vacanza assieme,i due scoprono praticamente di non conoscersi affatto;a complicare le cose ci si mette anche l’ambiente,
apparentemente ostile e desolato.Siamo infatti in un periodo indecifrabile forse inizio primavera o inizio autunno,la spiaggia che hanno scelto
è deserta.
Il clima tra i due,complice la noia e le abissali differenze di cultura,educazione e i rispettivi vissuti ben presto diventa ostile.
Ma a cambiare il loro rapporto arriva una ragazza senza nome,che i due trovano priva di sensi su una spiaggia.
La ragazza quando rinviene,non comunica nella loro lingua,ma ben presto diviene oggetto del contendere tra padre e figlio,che ciascuno
dei due ama a modo proprio.
Giacomo e il ragazzo provano a comunicare con lei,che però non capisce;i discorsi che loro le fanno sembrano assolutamente privi di effetto,quasi dei soliloqui in cui si confessano con lei,non potendo (o non volendo) farlo fra di loro.
Ma tra i due si inserisce improvvisamente un uomo che,conoscendo la lingua della ragazza,la sottrae all’affetto un po morboso che Giacomo e suo figlio mostrano per la sconosciuta.
Che a sua volta sembra apprezzare molto più lo straniero.Padre e figlio a questo punto trovano un elemento insospettabile ad unirli;la gelosia verso l’ultimo arrivato che sta sottraendo loro la bella sconosciuta.
Fanno fronte comune e lo uccidono.
Ora hanno finalmente trovato un punto in comune…
Corpo d’amore,film del 1972 diretto da Fabio Carpi è opera complessa,enigmatica e spesso ermetica.
Ma non per questo priva di un sottile fascino.
A dispetto dei lunghi silenzi,delle pause,dell’atmosfera rarefatta e dell’assoluta incomunicabilità che si evince sia dai rapporti tra padre e figlio sia in quelli con la sconosciuta,
Corpo d’amore regala qualche momento di gran fascino unito però ad un certo tedio che scaturisce proprio dall’evidente impossibilità
di un dialogo tra i tre,reso esplicito anche dalla mancanza di una lingua comune che permetta ai personaggi di capirsi.
Chi è la bella sconosciuta,qual’è il suo passato,qual’è la portata dei sentimenti che nutre nei confronti della “strana coppia” restano domande insolute,
a tutto vantaggio di un film criptico e aperto a qualsiasi interpretazione.
Una delle chiavi di lettura del film è il conflitto non generazionale,ma di personalità tra i due protagonisti.
Rigido e austero,quasi inflessibile Giacomo,titubante e incerto il ragazzo.
Dialogo impossibile quindi,ma comunità d’intenti quando a sorpresa troveranno uno scopo identico nell’individuazione del nemico,quello straniero che riesce in poco tempo a rapire l’attenzione del “corpo d’amore“,la ragazza sconosciuta e affascinante che li ascolta imperturbabile,che forse qualcosa capisce di loro e delle espressioni che usano ma che non da alcun segno di intenderli.
Fabio Carpi,molto più conosciuto come sceneggiatore che come regista è qui alla prima delle sue dodici direzioni,nessuna delle quali di grande fama.
Il futuro sceneggiatore di Vedo nudo,di Diario di una schizofrenica,di Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato dirige un film in forte chiaro-scuro.
Troppe pause,troppi silenzi,troppi dialoghi che potremmo definire veri monologhi e l’aria alla Jonesco affliggono un film che parte da un’idea non certo originale, quella di descrivere un rapporto conflittuale tra padre e figlio.
L’espediente di inserire una donna come pomo della discordia lo è ancora meno,anche se questa volta la novità è rappresentata
dal fatto che la donna non sembra apparentemente in grado di capire o di comunicare.
Tuttavia un certo fascino il film lo conserva e alla lunga il giudizio può dare la sufficienza quanto meno agli intenti se non al risultato finale.
Bene gli attori,molto bella e brava la Farmer e Capolicchio.
Location malinconica e fotografia di gran fascino.
Film praticamente invisibile e di difficilissima reperibilità.
Corpo d’amore
Un film di Fabio Carpi. Con Mimsy Farmer, Lino Capolicchio, François Simon, Giovanni Rosselli, Vittorio Fanfoni Drammatico, durata 105 min. – Italia 1973.
Mimsy Farmer … La sconosciuta
François Simon … Giacomo,il padre
Giovanni Rosselli … Il figlio di Giacomo
Lino Capolicchio … Lo straniero
Regista: Fabio Carpi
Sceneggiatura: Fabio Carpi,Luigi Malerba
Produzione: Giulio Scanni
Fotografia: Vittorio Storaro
Montaggio: Paolo Boccio
Costumi: Fortunato Frasca
L’opinione di Sasso67 dal sito http://www.filmtv.it
Kammerspiel girato quasi del tutto all’aperto, in odore di incomunicabilità (tra padre e figlio) di derivazione antonioniana. Padre e figlio – entomologo razionalista e tassonomico il primo, insicuro e critico il ragazzo – non riescono quasi a parlarsi, se non nei termini di un continuo dissidio, dovutro anche alla grande differenza d’età: l’uomo ha 62 anni e il ragazzo 15. I due collaborano temporaneamente quando trovano una ragazza svenuta sulla spiaggia, salvo dividersi nuovamente quando entrambi si innamorano della straniera (il corpo d’amore del titolo): il ragazzo l’avrà per sé durante il giorno e l’adulto la notte. Sarà solo il crimine a creare una vera identità d’intenti e di sentimenti tra padre e figlio,
fino a farli diventare, per la prima volta, un corpo solo (anche questo, il corpo d’amore del titolo).
Opinioni tratte dal sito http://www.davinotti.com
Homesick
In un semideserto paesaggio marino fotografato da Storaro con toni caldi ed avvolgenti, Carpi mette in scena un’opera colta e sensuale – echeggiante Antonioni e Bergman – sull’incomunicabilità tra padre e figlio, prima opposti e lontani, poi rivali in amore e complici nel delitto. I dialoghi, dominatori dei titoli di testa, cedono spesso il posto a lunghi silenzi, monologhi interiori e intensi primi piani del volto delicato della Farmer, che si esprime in una lingua sconosciuta. Volti opportunamente comuni quelli dei due protagonisti; fulminea ma incisiva la presenza di Capolicchio.
Lucius
Non posso esprimermi sul regista perché le regole lo vietano, mi limiterò a dire che è un film inguardabile; o meglio, sarebbe guardabile se privato di audio e questa la dice tutta sulla sua riuscita.
Fanno più scena la Farmer muta e il cameo di Capolicchio in tuta da sub che tutto il resto (le spiagge ovviamente brillano di luce propria). Dialoghi estenuanti, ripetivivi, roboanti e tediosi e tanta pellicola sprecata.
Nessun significato metaforico; solo un film indecifrabile, di rara bruttura.
Fauno
Come film non mente, ma se il premio Nobel della psicanalisi gli desse un bel voto, io non lo imiterei. Se la fotografia può compensare la staticità del film, la cultura non solo non potrebbe tappare le falle di un individuo carente
in tutti gli ambiti (pur essendo cattedrattico), ma ne uscirebbe ridicolizzata, a pezzi. Fra l’altro il comportamento che ha e trasmette al figlio verso questa straniera, mette in luce la frustrazione per un sogno irrealizzabile,
se non tramite una violenza ancora più ridicola. Se lui è un debole, non doveva neanche riprodursi.
I dialoghi letterari, i pensieri ad alta voce dei due protagonisti, anch’essi di derivazione letteraria, alla lunga stancano.
Black cat-Gatto nero
In un paesino della campagna inglese avvengono una serie di morti inspiegabili.
Un giovane automobilista muore in un incidente d’auto,arso vivo dopo aver sfondato con la testa il parabrezza dell’auto sulla quale stava viaggiando,due ragazzi nel capanno di una darsena nel quale si erano rinchiusi per amoreggiare,un ubriacone cadendo dalle travi sospese di un vecchio palazzo e infilzandosi su una cancellata e infine la madre della ragazza della darsena arsa viva nell’incendio della sua casa.
In ognuna delle morti, apparentemente slegate fra loro, ha fatto la comparsa, minacciosa e inquietante, la figura di un gatto nero; il felino appartiene al professor Robert Miles,un tipo solitario ed eccentrico che vive isolato passando il suo tempo accanto ad un registratore, con il quale imprime sonoramente le voci dei defunti.
Sulle morti inspiegabili indaga Scotland Yard, rappresentata dall’ispettore Gorley, che è sicuro che dietro le strane morti ci sia qualcosa di misterioso; della stessa idea è la giovane e bella fotografa Jill Travers, che si è trovata sulle scene dei decessi e che ha notato sul corpo dell’ubriacone delle tracce inspiegabili di unghiate di gatto e sulle altre orme dello stesso felino.
Gorley e Jill si ritrovano ad indagare insieme ma sarà proprio Jill a scoprire il bandolo della matassa, collegando la presenza del misterioso gatto nero alla figura inquietante di Miles, lo strano legame parapsicologico che lo stesso ha con il gatto; ma Jill rischia di pagare con la vita il suo interesse verso la figura del professore.
L’uomo,infatti, riesce ad attirare in trappola la bella fotografa, murandola viva con il gatto, ma…
Black cat-Gatto nero è un film di Lucio Fulci tratto ancora una volta da un romanzo di Edgar Allan Poe.
Il saccheggiatissimo scrittore britannico scrive il racconto breve Gatto nero nel 1843, raccontando la vicenda di un condannato a morte che ricorda il perchè del suo stato attuale, ovvero aver ucciso la moglie dopo esser diventato folle in seguito ad un atto di crudeltà commesso nei confronti del gatto nero della moglie.
Il romanzo di Poe è davvero breve e la storia, in se, non poteva reggere una sceneggiatura cinematografica; così Fulci amplia la storia allontanandosene quasi definitivamente.
Il film che ne segue è disorganico,pur mostrando ancora una volta il talento del regista romano;l’aria misteriosa e parapsicologica del romanzo di Poe scompare per lasciar posto ad un horror nel quale sembrano contare più gli effetti visivi che la storia in se.
Il film è confuso, anche se conserva un certo fascino legato all’ambientazione e alla ricerca ossessiva di Jill del vero perchè delle misteriose morti che funestano il paese nel quale i fatti si svolgono.
L’ambientazione è quasi gotica, con l’ormai tradizionale villa immersa in un’inquietante panorama fatto di cieli grigi in netto contrasto con il verde intenso della natura inglese.Ancora più netto appare lo stagliarsi della natura stessa in opposizione con il buio tetro e sinistro nel quale si muove il professor Miles, con sullo sfondo l’inafferrabile figura del gatto, sempre li a squadrare con i suoi occhi verdi le varie situazioni che si susseguono.
E’ questa la cosa migliore del film, che per il resto ha un andamento altalenante, che non riesce a creare suspence come in altri lavori del maestro.
Troppo discontinuo il ritmo, poco affascinante la storia; Fulci, reduce dall’horror Paura nella città dei morti viventi e dal genere crimi a cui appartiene Luca il contrabbandiere girati nel 1980 appare incerto sulla rotta da seguire,barcamenandosi così sulla rotta da seguire indeciso se fare un horror puro o un film a sfondo parapsicologico.
L’ibrido che ne esce non è carne ne pesce, anche se non va stroncato tout court.
Per fortuna il cast utilizzato è di ottimo livello e sopperisce alle mancanze della storia con la professionalità; brava e bella Mimsy Farmer, ormai presenza fissa dei prodotti thriller ed horror di quel periodo così come discreta e misurata è la presenza di David Warbeck nel ruolo dell’ispettore Gorley; sacrificato Al Clver in una parte secondaria, quella del sergente Wilson, molto bene Patrick Magee, dallo sguardo spiritato, allucinato e quindi un po folle del professor Robert Miles.
Completano il cast principale Daniela Doria e Dagmar Lassander, rispettivamente nei ruoli di Maureen e Lillian Grayson, le due donne che moriranno brutalmente vittime della follia di Miles.
Discreta la fotografia e l’ambientazione, per un’opera che può essere guardata se appassionati di horror.
Black cat-Gatto nero è un film passato diverse volte in tv ed è anche disponibile su You tube in versione completa ed in italiano (una volta tanto) all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=4qj8tzfRzPI
Black Cat (Gatto nero)
Un film di Lucio Fulci. Con David Warbeck, Mimsy Farmer, Dagmar Lassander, Daniela Doria,Patrick Magee, Bruno Corazzari Titolo originale Il gatto nero. Horror, durata 98′ min. – Italia 1981.
Patrick Magee: Robert Miles
Mimsy Farmer: Jill Travers
David Warbeck: ispettore Gorley
Al Cliver: sergente Wilson
Dagmar Lassander: Lillian Grayson
Bruno Corazzari: Ferguson
Geoffrey Copleston: ispettore Flynn
Daniela Doria: Maureen Grayson
Sergio Fiorentini: Robert Miles
Vittoria Febbi: Jill Travers
Luigi La Monica: ispettore Gorley
Manlio De Angelis: sergente Wilson
Germana Dominici: Lillian Grayson
Arturo Dominici: ispettore Flynn
Isabella Pasanisi: Maureen Grayson
Regia Lucio Fulci
Soggetto Biagio Proietti, dal racconto Il gatto nero di Edgar Allan Poe
Sceneggiatura Biagio Proietti, Lucio Fulci
Produttore Giulio Sbarigia
Casa di produzione Selenia Cinematografica
Fotografia Sergio Salvati
Montaggio Vincenzo Tomassi
Effetti speciali Paolo Ricci
Musiche Pino Donaggio
Scenografia Francesco Calabrese
Costumi Massimo Lentini
Trucco Franco Di Girolamo, Rosario Prestopino (assistente)
L’opinione del sito http://www.filmhorror.com
Tra i non numerosissimi estimatori di IL GATTO NERO c’è chi si chiede ancora perché questo film non abbia mai riscosso i favori della critica e del grande pubblico. Eppure c’è quasi tutto: una buona storia, la tensione, l’atmosfera e persino una discreta prova degli attori.
C’è poco splatter è vero, ma che importa? IL GATTO NERO è, insieme a Le Porte Del Silenzio, l’horror più onirico che Fulci abbia mai diretto, e si sa le storie oniriche non vanno certo incontro ai gusti di tutti.
In una cittadina inglese, il bizzarro professor Miles cerca di stabilire un contatto con i morti provando a registrarne le voci con un microfono adagiato sulle lapidi. Nel frattempo, in paese, strani e inspiegabili decessi funestano la tranquilla vita degli abitanti, tanto che si è costretti a chiamare un ispettore di Scotland Yard per cercare di dipanare la matassa.
E’ il 1980 quando Fulci decide di girare questo omaggio ad Edgar Allan Poe rispolverando tra l’altro un precedente tributo, sempre dedicato allo scrittore di Boston, che il Nostro aveva inserito in Sette Note In Nero. Anche questa volta in effetti, con il racconto di Poe, la storia di Fulci sceneggiata da Biagio Proietti non ha poi così tanto a che vedere (nessun accenno alla cecità del gatto o all’omicidio della moglie. tanto per capirsi) ma l’atmosfera che si respira è ossessiva al punto giusto.
E’ interessante tra l’altro notare come tutto il film si sviluppi all’interno di una dimensione quasi eterea, dove i gatti assumono le sembianze di malvagi psicopompi, in grado di aprire le porte, appiccare incendi e soprattutto uccidere.
L’opinione di Joker1926 dal sito http://www.filmscoop.it
Il tema che attanaglia la filmografia dell’italiano Fulci ricade nel concetto di discontinuità.
E forse in Italia, fra i registi che hanno trattato il genere thriller ed Horror, Lucio Fulci si candida, seriamente, ad essere il più altalenante di sempre. Spulciando nella lista delle sue produzioni emergono film di grande qualità ed altri, bensì, di bassissimo profilo.
E ancora una volta, ahimè, ci tocca fare questa dolorosa iniziazione di concetto per dire che “Il gatto nero” o “Black cat”, fate voi, è una sciagura totale.
Partorito nel 1981 il film di Fulci prende spunti dal famoso romanzo in cui, logicamente, è un gatto a innescare la morte nei personaggi in scena.
Il soggetto di Fulci, preso da Edgar Allan Poe, a dire il vero, in chiave prettamente cinematografica, un po’ già stona. Insomma è improbabile portare, attraverso le immagini di una macchina da presa, le “gesta” fatali di un povero gatto ignaro della sua “maledizione”.
Quindi già l’effetto visivo, la finalizzazione degli omicidi, appare abbastanza grottesca e forzata.
Ne risente, a questo punto, tutta la narrazione che barcolla in modo irrimediabile dall’inizio alla fine. Il tutto è scoordinato e sgangherato. La sceneggiatura è disimpegnata e i personaggi si intersecano entro essa sono privi di carisma ed empatia. Le poche incursioni, specie nel finale, nell’introspezione psicologica di determinati personaggi risulta essere un’altra (fatale) bordata di superficialità.
Anche la confezione tecnica è un’altra caduta nel vuoto. Il ritmo è straziante ad esempio. La fotografia è di serie B, gli attori, invece, recitano in modo non ottimale, però, dopotutto, è quell’immondo copione a penalizzare il cast. Qui, con “Il gatto nero”, non convince proprio niente, nessuna sequenza si salva.
Prodotto da scartare che certifica, per l’ennesima volta, la lunaticità di Fulci.
L’opinione del sito http://www.alexvisani.com
Uno dei film più sottovalutati del maestro romano. La storia narra di un professore paranoico dedito all’ascolto delle voci dei morti (che crede di catturare con un particolare registratore) e che viene tormentato da un tenebroso gatto nero. Il finale del film ricalca quello del racconto da cui è liberamente (moolto liberamente) tratto ovvero: “Il gatto nero” di Edgar Allan Poe. Ambientato in Inghilterra e con la carismatica partecipazione del grande Patrick Magee, “Black Cat” è un film che appartiene comunque al periodo d’oro di Fulci nonostante non sia al livello di “Zombi 2″,”Paura nella città dei morti viventi”, “L’Aldilà” o “Quella villa accanto al cimitero”. C’è un’inquietante atmosfera in quest’opera ed alcune inquadrature sono davvero molto belle. Il talento visionario di Lucio si fa vedere a tratti anche se i cali di tono ed inspirazione sono evidenti. Brava anche Mimsy Farmer coadiuvata dal sempre fascinoso David Warbeck. Ci sono anche un paio di delitti che fanno il loro effetto, specialmente quello in cui un disgraziato precipita da un cantiere in costruzione e finisce con l’infilzarsi su delle sbarre di ferro che fuoriescono da una colonna di cemento armato..
L’opinione del sito http://www.horrormovie.it
“The Black Cat”, non è certamente fedele al famoso racconto di Edgar Allan Poe. Fulci, nella sceneggiatura scritta assieme a Biagio Proietti, modifica totalmente l′assunto di partenza del racconto di Poe, realizzando un soggetto molto differente dalla novella originale.
Le atmosfere che si respirano, grazie anche alla bella fotografia di Sergio Salvati (operatore che, in questo periodo, costantemente segue il regista), sono cupe e la tensione viene mantenuta per l′intera durata del film. Tensione che, va detto, non è troppo incisiva ed è molto lontana da quella delle altre pellicole realizzate nel medesimo periodo .
Le musiche, a cura di Pino Donaggio, donano la giusta atmosfera ed aiutano lo spettatore a seguire piacevolmente il film che ha un ritmo, tutto sommato, piuttosto lento.
Non è sicuramente la miglior produzione di Fulci, in quanto alcuni dialoghi appaiono poco curati, alcune scene a volte sono inutili, e complessivamente alcuni momenti del film smorzano le potenzialità della sceneggiatura.
Di questo film è azzeccata la presenza del gatto (come istigatore dell′ assassino), all′apparenza dolce, ma causa di omicidi spietati e angosciosi, tutti accompagnati dal suo elegante passo felpato.
La visione è consigliata a chi ama il giallo anni ′80, abbastanza violento, ma che non tocca vertici estremi di splatter.
Mi sposai giovane, e fui felice di trovare in mia moglie una indole congeniale
alla mia. Osservando la mia predilezione per gli animali domestici, non perdeva
occasione di procurarmi quelli delle specie più piacevoli. Avevamo uccelli, pesci
dorati, un bellissimo cane, conigli, una scimmietta e un gatto.
Quest’ultimo era un animale eccezionalmente forte e bello, tutto nero, e
straordinariamente sagace. Quando parlava della sua intelligenza, mia moglie, che
in cuor suo era non poco imbevuta di superstizione, alludeva spesso all’antica
credenza popolare che considerava tutti i gatti neri streghe travestite. Non che ne
parlasse seriamente: se accenno alla cosa, è solo perché proprio ora mi è capitato di
rammentarmene.
Pluto ‐ era questo il nome del gatto ‐ era il mio beniamino, il mio compagno di
giochi. Io solo gli davo da mangiare, e in casa lui mi seguiva dovunque andassi, Anzi,
a fatica riuscivo a impedirgli di accompagnarmi per la strada.
La nostra amicizia durò a questo modo per parecchi anni, durante i quali il
mio temperamento, il mio carattere (arrossisco a confessarlo) avevano subìto, ad
opera del demone dell’Intemperanza, un radicale peggioramento. Giorno dopo
giorno divenni più lunatico, più irritabile, più indifferente ai sentimenti altrui. Mi
lasciai andare al punto di usare con mia moglie un linguaggio brutale. Alla fine,
arrivai anche a picchiarla. I miei animali, naturalmente, risentirono di questo
mutamento d’umore. Non solo li trascurai, ma li maltrattai. Per Pluto, tuttavia,
conservavo ancora quel tanto di riguardo che bastava a impedirmi di malmenarlo
come, senza scrupolo alcuno, malmenavo i conigli, la scimmia o anche il cane,
quando per caso o per affetto mi venivano tra i piedi. Ma la mia malattia mi
divorava sempre più (e quale malattia è paragonabile all’alcool?), e alla fine anche
Pluto, che si faceva vecchio e di conseguenza un po’ fastidioso anche Pluto cominciò
a provare gli effetti del mio malumore.
Una notte, tornando a casa, ubriaco fradicio, da uno dei ritrovi che
frequentavo in città, ebbi l’impressione che il gatto evitasse la mia presenza. Lo
afferrai; e allora, impaurito dalla mia violenza, coi denti mi ferì lievemente alla
mano. Subito la furia di un demone si impadronì di me. Non mi conoscevo più.
2
Sembrava che di colpo la mia anima originaria fosse fuggita via dal mio corpo; e
una malignità più che diabolica, alimentata dal gin, eccitava ogni fibra del mio
essere. Trassi dal taschino del panciotto un temperino, lo aprii, afferrai la povera
bestia per la gola, e deliberatamente con la lama le cavai un occhio dall’orbita!
Arrossisco, brucio, rabbrividisco nello scrivere di quest’infame atrocità.
Quando, al mattino, ritornò la ragione ‐svaporati nel sonno i fumi dell’orgia
notturna ‐ provai un sentimento in parte d’orrore, in parte di rimorso per il delitto
di cui m’ero reso colpevole; ma era tutt’al più un sentimento debole ed equivoco, e
l’anima non ne fu toccata. Di nuovo mi diedi agli stravizi, e ben presto affogai nel
vino ogni ricordo del mio atto.
Nel frattempo, il gatto lentamente guarì. L’orbita dell’occhio perduto era, è
vero, spaventosa a vedersi, ma pareva che non ne soffrisse più. Girava per la casa
come al solito ma, come ben mi potevo aspettare, fuggiva in preda al terrore
ogniqualvolta mi avvicinavo. Tanto m’era rimasto ancora del mio vecchio cuore,
che dapprincipio mi afflisse quell’evidente ripugnanza da parte di una creatura che
una volta mi aveva tanto amato. Ma a questo sentimento subentrò ben presto
l’irritazione. E poi, a mia definitiva e irrevocabile rovina, sopraggiunse lo spirito
della PERVERSITÀ. Di tale spirito la filosofia non tiene conto. E tuttavia, così come
sono certo che la mia anima vive, sono certo che la perversità è uno degli impulsi
primitivi del cuore umano, una delle indivisibili facoltà primarie, o sentimenti, che
danno un indirizzo al carattere dell’Uomo. Chi non si è sorpreso cento volte
nell’atto di commettere un’azione spregevole o stolta per la sola ragione che sapeva
di non doverla commettere? Non abbiamo forse, a dispetto del nostro miglior
consiglio, una perpetua inclinazione a violare ciò che è Legge, solo perché la
riconosciamo come tale? A mia definitiva rovina, ripeto, sopraggiunse questo
spirito di perversità. Fu questa insondabile brama dell’anima di tormentare se
stessa, di far violenza alla propria natura, di fare il male per puro amore del male,
che mi spinse a continuare e infine a consumare l’offesa che avevo inflitto
all’inoffensiva bestiola. Una mattina, a sangue freddo, le infilai un cappio al collo e
la appesi al ramo d’un albero; l’impiccai con gli occhi colmi di lacrime e col più
amaro rimorso nel cuore; l’impiccai perché sapevo che mi aveva amato, e perché
sentivo che non mi aveva dato ragione alcuna per farle del male; l’impiccai perché
sapevo che così facendo commettevo un peccato, un peccato mortale che avrebbe
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compromesso la mia anima immortale al punto da porla ‐ se ciò fosse possibile ‐ al
di là della misericordia senza fine di un Dio infinitamente pietoso e terribile.
La notte che seguì il giorno in cui fu commesso quell’atto crudele, mi destò
dal sonno il grido «Al fuoco!». Le cortine del mio letto erano in fiamme. Tutta la
casa ardeva. Con grande difficoltà sfuggimmo all’incendio: mia moglie, un
domestico, e io. La distruzione fu completa. Tutte le mie ricchezze terrene vennero
divorate dal fuoco, e da allora mi abbandonai alla disperazione.
Non cerco di stabilire un rapporto di causa ed effetto tra il sinistro e l’atrocità:
sono superiore a queste debolezze. Ma ora sto descrivendo una catena di eventi, e
non voglio che nessun anello risulti imperfetto. All’indomani dell’incendio,
ispezionai le rovine. Con una sola eccezione, i muri erano crollati. L’eccezione
riguardava un muro divisorio, non molto spesso, che stava, più o meno, nel mezzo
della casa, e contro il quale prima poggiava la testata del mio letto. Qui l’intonaco
aveva resistito in gran parte all’azione del fuoco, giacché ‐ a questo attribuii il fatto
‐ era stato steso di recente. Intorno a questo muro si era raccolta una fitta folla, e
molte persone sembravano esaminare una certa parte con minuziosa e viva
attenzione. Le parole «strano!» «singolare!» e altre espressioni analoghe destarono
la mia curiosità. Mi avvicinai e vidi, come scolpita a bassorilievo sulla superficie
bianca, la figura di un gigantesco gatto. L’immagine era resa con stupefacente
esattezza. Intorno al collo dell’animale, c’era una corda.
Dapprima, al vedere questa apparizione ‐ poiché non potevo considerarla che
tale ‐ estremo fu il mio stupore, e il mio terrore. Ma infine mi soccorse la riflessione.
Il gatto, ricordavo, era stato impiccato in un giardino adiacente alla casa.
All’allarme dell’incendio, il giardino era stato subito invaso dalla folla, e qualcuno
doveva aver staccato l’animale dall’albero per gettarlo, attraverso una finestra
aperta, in camera mia. Ciò, probabilmente, allo scopo di destarmi dal sonno. Il
crollo degli altri muri aveva compresso la vittima della mia crudeltà dentro la
sostanza dell’intonaco fresco; poi la calce e l’azione combinata delle fiamme e
dell’ammoniaca della carogna avevano creato l’immagine così come ora la vedevo.
Sebbene in tal modo tranquillizzassi prontamente la mia ragione, se non
proprio la mia coscienza, a proposito del fatto strabiliante testé descritto, esso non
mancò di fare un’impressione profonda sulla mia fantasia. Per mesi e mesi non
potei liberarmi dal fantasma del gatto; e in questo periodo si insinuò nuovamente
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nel mio spirito un vago sentimento che sembrava, ma non era, rimorso. Giunsi a
rimpiangere la perdita dell’animale e a guardarmi intorno, nelle miserabili bettole
che ora abitualmente frequentavo, in cerca di un altro gatto della medesima razza
da tenere al posto dell’altro.
Una notte, mentre sedevo semistordito in un covo peggio che infame, la mia
attenzione fu improvvisamente attratta da qualcosa di nero che stava in cima a una
delle gigantesche botti di gin, o rum che fosse, che costituivano il principale
arredamento del locale. Da qualche minuto fissavo il coperchio della botte, e ciò che
ora mi sorprese fu di non aver notato prima quel qualcosa che vi stava sopra. Mi
avvicinai e lo sfiorai con la mano. Era un gatto nero, un bel gatto grosso: grosso
quasi come Pluto, e a lui somigliantissimo, tranne per un particolare. Su tutto il
corpo, Pluto non aveva un solo pelo bianco; questo gatto, invece, aveva una larga,
sebbene indefinita, chiazza bianca che gli copriva il petto quasi per intero.
Non appena lo toccai, si alzò, prese a farmi le fusa, mi si strofinò contro la
mano, e parve tutto contento della mia attenzione. Era proprio questa, dunque, la
creatura che andavo cercando. Subito proposi al padrone del locale di acquistarlo;
ma costui non ne rivendicò la proprietà non ne sapeva nulla ‐ non l’aveva mai visto
prima di allora.
Continuavo ad accarezzarlo, e quando mi accinsi a rincasare, l’animale si
mostrò desideroso di accompagnarmi. Acconsentii, e per la strada di tanto in tanto
mi chinavo a fargli una carezza. Una volta a casa, si ambientò immediatamente, e
subito divenne il beniamino di mia moglie.
Per parte mia, ben presto sentii nascere dentro di me una viva antipatia nei
suoi confronti. Era proprio il contrario di quel che avevo previsto; ma ‐ non so
come e perché avvenisse ‐ il suo evidente affetto per me non faceva che
disturbarmi e irritarmi. A poco a poco questi sentimenti, disgusto e fastidio,
crebbero fino a mutarsi nell’asprezza e nell’odio. Evitavo quell’animale; tuttavia un
certo senso di vergogna e il ricordo del mio precedente atto di crudeltà mi
impedivano di fargli del male. Per qualche settimana, non lo colpii né gli arrecai in
altro modo violenza; ma gradualmente, insensibilmente, presi a guardarlo con
inesprimibile ribrezzo e a rifuggirne in silenzio l’odiosa presenza, come un fiato di
peste.
Ciò che senza dubbio contribuì ad accrescere la mia avversione per l’animale
fu la scoperta, la mattina dopo che l’ebbi portato a casa, che, come a Pluto, anche a
lui era stato cavato un occhio. Tale circostanza, tuttavia, non fece che renderlo più
caro a mia moglie, la quale, come ho già detto, possedeva in alto grado quell’
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umanità di sentimenti che era stata un tempo il mio tratto caratteristico e la fonte
dei miei piaceri più semplici e puri.
Ma come cresceva la mia avversione per questo gatto, sembrava aumentare
la sua predilezione per me. Seguiva i miei passi con un’insistenza che mi sarebbe
difficile far comprendere al lettore. Ogniqualvolta mi sedevo, si accoccolava sotto
alla mia seggiola o mi saltava sulle ginocchia, coprendomi delle sue repulsive
carezze. Se mi alzavo per camminare, mi si metteva tra i piedi, e quasi mi faceva
cadere; oppure, afferrandosi ai miei vestiti con le unghie lunghe e aguzze, mi si
arrampicava in questo modo fino al petto. In questi momenti, sebbene avessi voglia
di finirlo con un sol colpo, mi trattenevo dal farlo, in parte per il ricordo di quel mio
primo delitto, ma soprattutto ‐ voglio confessarlo, subito ‐ per il mio assoluto
terrore della bestia.
Non era proprio terrore del male fisico: e tuttavia non saprei come definirlo
altrimenti. Quasi mi vergogno di ammettere ‐ sì, anche in questa cella di criminale ‐
che il terrore e l’orrore suscitati in me dall’animale erano stati esasperati da una
delle più assurde chimere che sia dato immaginare. Più di una volta mia moglie
aveva richiamato la mia attenzione sull’aspetto della chiazza di peli bianchi di cui
ho parlato, e che costituiva l’unica differenza visibile tra la strana bestia e l’altra
che avevo ucciso. Il lettore ricorderà che questa chiazza, sebbene larga, era
all’inizio del tutto indefinita. Ma lentamente, così lentamente che per lungo tempo
la mia ragione lottò contro quella che sembrava pura fantasia, aveva finito per
assumere una rigorosa nitidezza di contorni. Era adesso l’immagine di un oggetto
che rabbrividisco a nominare ‐ e per questo soprattutto provavo ripugnanza e
terrore, e avrei voluto sbarazzarmi di quel mostro se avessi osato era
adesso, dico,
l’immagine di una cosa orrida, di una cosa sinistra: la FORCA! Oh, luttuosa e
terribile macchina dell’orrore e del delitto, dell’agonia e della morte!
E adesso ero davvero disperato, al di là d’ogni possibile disperazione umana.
E che un animale, un bruto, il cui simile avevo disprezzato e ucciso ‐ che un animale,
un bruto, infliggesse a me ‐ a me, uomo fatto a immagine di Dio, così grande e
intollerabile miseria! Ahimè! né di giorno né di notte conobbi più la benedizione del
riposo! Durante il giorno, l’animale non mi lasciava solo un istante; e durante la
notte mi destavo di soprassalto, ogni ora, da sogni di indicibile paura, per trovare
sulla mia faccia il fiato caldo della cosa e il suo peso immane ‐ incubo incarnato che
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non avevo la forza di scuotermi di dosso, e sempre, sempre gravava sul mio cuore!
Sotto l’oppressione continua di tormenti come questi, l’esiguo residuo di
bene che era in me finì col soccombere. Pensieri malvagi ‐ i pensieri più tenebrosi e
malvagi ‐ divennero i miei soli, assidui compagni. Il mio abituale umor tetro si
accentuò fino a mutarsi in odio di tutto e di tutta l’umanità; mentre dei subiti,
frequenti e incontrollabili accessi di una furia alla quale ora ciecamente mi
abbandonavo, mia moglie, che mai si lamentava, era, ahimè, la vittima più consueta
e paziente.
Un giorno mi accompagnò, per qualche faccenda domestica, nella cantina del
vecchio edificio che la povertà ci costringeva ad abitare. Il gatto mi seguì per i ripidi
gradini e, avendomi quasi fatto cadere a testa ingiù, mi esasperò alla follia.
Brandendo un’ascia, e dimenticando nella mia furia il puerile timore che fino a quel
momento aveva frenato la mia mano, vibrai all’animale un colpo che, se fosse calato
come volevo, gli sarebbe certo riuscito fatale. Ma il colpo fu arrestato dalla mano di
mia moglie. Questo suo intervento scatenò in me una rabbia più che demoniaca:
liberai il braccio dalla sua presa e le affondai l’ascia nel cervello. Cadde morta
all’istante, senza un gemito.
Compiuto questo orrendo assassinio, subito, e in piena lucidità, mi disposi a
occultare il cadavere. Sapevo di non poterlo trasportare fuori della casa, né di
giorno né di notte, senza correre il rischio di essere osservato dai vicini. Presi in
considerazione molti piani. A un certo punto, pensai di tagliare il cadavere in
minuti frammenti e di distruggerli col fuoco. Poi decisi di scavargli una fossa nel
pavimento della cantina. Poi, ancora, esaminai la possibilità di imballarlo in una
cassa come fosse una merce qualsiasi, con le solite formalità, e di farlo portar via da
un facchino. Infine, trovai un espediente che mi parve migliore di questi. Decisi di
murarlo nella cantina, come si tramanda che nel medioevo i monaci murassero le
loro vittime.
A tale scopo la cantina era quanto mai adatta. I muri erano poco compatti, e
di recente erano stati ricoperti per intero di un ruvido intonaco che a causa
dell’umidità dell’atmosfera non aveva potuto indurirsi. Inoltre, in uno dei muri
c’era una sporgenza, dovuta a un falso camino o focolare, che era stata riempita
così da non presentare differenze rispetto al resto della cantina. Non avevo dubbi
di potere agevolmente rimuovere i mattoni in quel punto per poi introdurvi il
cadavere e murare tutto come prima così che nessun occhio scoprisse alcunché di
sospetto.
E in questo mio calcolo non mi sbagliai. Con una grossa leva di ferro spostai i
mattoni con tutta facilità e, collocato con cura il corpo contro la parete interna, lo
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puntellai in quella posizione; poi, con poca fatica, rifeci l’ammattonato così come
era prima. Mi procurai calcina, sabbia e setole e, usando ogni possibile precauzione,
preparai un intonaco che non era possibile distinguere dal vecchio e lo stesi
accuratamente sul muro nuovo. Quando ebbi finito, constatai soddisfatto che tutto
era a posto. Non v’era segno nel muro che esso fosse stato manomesso. Con la
massima cura rimossi da terra i calcinacci. Mi guardai attorno trionfante, e mi dissi:
«Qui, almeno, non ho lavorato invano».
Il passo successivo fu di cercare la bestia che era stata la causa di tanta
sciagura: poiché infine ero fermamente deciso a metterla a morte. Se mi fosse
riuscito di trovarla allora, sul suo destino non avrebbero potuto esservi dubbi; ma,
a quel che pareva, lo scaltro animale, allarmato dalla violenza della mia collera
recente, si guardava bene dal mostrarmisinell’umore in cui mi trovavo. È
impossibile descrivere, o immaginare, la profonda, beata sensazione di sollievo che
l’assenza dell’aborrito animale fece nascere in me. Non comparve durante la notte,
e così, per una notte almeno da che m’era entrato in casa, dormii d’un sonno
profondo e tranquillo; sì, dormii, pur col peso dell’assassinio sull’anima!
Passò il secondo giorno, il terzo, e ancora il mio tormentatore non si vedeva.
Di nuovo respirai come un uomo libero. Il mostro, atterrito, era fuggito per sempre
dalla mia casa! Non l’avrei veduto mai più! Ero al colmo della felicità! Ben poco mi
turbava la colpa della mia azione delittuosa. V’erano state indagini, ma le mie
pronte risposte le avevano sviate. Si era proceduto anche a una perquisizione, ma
non si era scoperto nulla, naturalmente. Guardavo alla mia felicità futura come a
una certezza assoluta.
Il quarto giorno dopo l’assassinio, del tutto inaspettatamente, si
presentarono in casa mia alcuni agenti di polizia e procedettero a un nuovo,
minuzioso esame dell’edificio. Ma, sicuro com’ero dell’irreperibilità del mio
nascondiglio, non provai il minimo imbarazzo. Gli agenti mi ordinarono di
accompagnarli nella perquisizione. Non lasciarono inesplorato nessun angolo,
nessun recesso. Alla fine, per la terza o quarta volta, scesero in cantina. Non mi
tremava un muscolo. Il cuore mi batteva calmo come quello di chi dorma un sonno
innocente. Percorsi la cantina da un capo all’altro. Camminai avanti e indietro con
fare disinvolto, le braccia conserte. Quelli della polizia erano pienamente
soddisfatti e si disponevano ad andarsene. L’esultanza del mio cuore era troppo
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forte perché potessi frenarla. Smaniavo dalla voglia di dire una parola, una sola, in
segno di trionfo, e rendere doppiamente certa la loro certezza della mia innocenza.
«Signori», dissi alla fine, mentre il gruppo risaliva le scale, «sono lieto di aver
placato i vostri sospetti. Auguro a tutti voi buona salute, e un po’ più di cortesia. Tra
parentesi, signori miei, questa è una casa molto ben costruita» (nella smania di
parlare con disinvoltura, quasi non sapevo quel che mi usciva di bocca), «potrei
anzi dire costruita in modo eccellente. Questi muri ‐ ve ne andate, signori? ‐ questi
muri sono solidamente fabbricati»; e qui, da nient’altro spinto che dal desiderio
frenetico di fare una bravata, picchiai forte con un bastone che tenevo in mano
proprio su quella parte dell’ammattonato dietro al quale stava il cadavere della mia
diletta sposa.
Ma possa Dio proteggermi e salvarmi dalle zanne del Grande Nemico! Non
appena l’eco dei miei colpi si smorzò nel silenzio, mi rispose una voce dall’interno
della tomba! Un lamento, dapprima soffocato e rotto come un singhiozzo di un
bimbo, e che in breve salì di tono, divenne un grido lungo, altissimo, ininterrotto,
assolutamente innaturale, disumano: un ululato, uno strido lamentoso, metà
d’orrore e metà di trionfo, quale avrebbe potuto levarsi solo dall’inferno, dalle gole
dei dannati nelle loro torture, e insieme dalle gole dei demoni che esultano nella
dannazione.
Dei miei pensieri è follia parlare. Mi sentii mancare, barcollai verso il muro opposto.
Per un istante, gli uomini sulle scale restarono immobili: attoniti, atterriti. Un
istante dopo, una dozzina di solide braccia lavoravano al muro. Cadde di schianto. Il
cadavere, già putrefatto in gran parte e imbrattato di grumi di sangue, apparve,
ritto in piedi, agli occhi degli spettatori. Sulla sua testa, la bocca rossa spalancata e
l’unico occhio di fiamma, stava appollaiata la bestia orrenda, le cui arti mi avevano
sedotto all’assassinio, e la cui voce accusatrice mi consegnava al boia. Avevo
murato il mostro dentro la tomba!
Da: Edgar Allan Poe, I racconti del terrore
Quando il sole scotta
Un giovane vagabondo,Jonas, è in viaggio sulla strada che porta a Salina a bordo di un camion che lo ha raccolto.Sceso,mentre percorre l’assolata e deserta strada, si imbatte in una casa isolata che funziona anche da stazione di servizio e decide di fermarsi per riposare un po e dissetarsi.
Il posto è abitato da Mara, una signora che, sorprendentemente, identifica Jonas in suo figlio Rocky,scomparso ormai da quattro anni.
Jonas è assetato e stanco e quindi decide di fermarsi e di stare per un po al gioco, impietosito in cuor suo da quella bella signora che lo confonde evidentemente con il figlio.
Accettato vitto e alloggio, Jonas si stabilisce temporaneamente nella casa, accudito da Mara;la situzione è imbarazzante, ma ben presto accade che un vecchio amico di Mara, che è anche un vicino di casa, lo riconosce come lo scomparso Ricky.
L’arrivo di Billie, figlia di Mara e sorella di rocky sembrerebbe dover rimettere le cose a posto; ma ancora una volta, a sorpresa, Billie lo tratta come se fosse Rocky.
A questo punto Jonas resta e prende a frequentare la bella e spensierata Billie.
Passano il tempo sulla spiaggia, bevendo nei bar e tra loro inizia anche una relazione.
Che però non sfugge a Mara e Warren, preoccupati dall’evolversi della situazione.
Mentre la relazione tra Billie e Jonas prosegue, quest’ultimo inizia a farsi domande sul suo alter ego Rocky e sulla sua scomparsa;recatosi a Salina in cerca di notizie, incontra la bella Linda,l’ex fidanzata di Rocky che gestisce un ristorante.
La donna è la prima persona a non riconoscerlo come Rocky.
Tornato a casa, Jonas fruga tra le cose di Billie e trova delle vecchie fotografie dove finalmente ha una prima risposta; Billie è in compagnia del fratello, che non assomiglia in alcun modo a lui.
Tornato da Linda apprende che lei e Rocky dovevano fuggire insieme il giorno in cui il giovane era scomparso; l’arrivo di un vecchio amico di Jonas, Charlie, rischia di demolire il castello di bugie che ormai è eretto fra i protagonisti della storia.
Ma nonostante Charlie chiami l’amico con il suo vero nome,Jonas decide di rimanere con Billie e sua madre; affronta la ragazza che gli dice ce ha mentito per due motivi.
Voleva riavere suo fratello e contemporaneamente voleva proteggere sua madre.
alla fine la verità sul legame tra Billie e suo fratello viene faticosamente fuori:Billie aveva con Rocky una relazione incestuosa e il giorno che il ragazzo le aveva annunciato di voler partire con Linda, Billie, sconvolta, gli aveva lanciato contro una pietra uccidendolo.
E’ la svolta nel rapporto tra i due, la tragedia è in agguato…
Road to Salina, tradotto inopinatamente in Quando il sole scotta è un solido film a sfondo drammatico diretto da George Lautner e scritto in collaborazione con
Jack Miller e Pascal Jardin.
Lautner, reduce dall’ottimo successo del suo film precedente, datato 1968,La fredda alba del commissario Joss interpretato da uno straordinario Jean Gabin racconta una storia che in fondo ha una tematica semplicissima, ovvero l’impossibilità per la fantasia di sostituirsi alla fredda realtà.
L’inganno in cui scelgono di vivere tutti i personaggi del film ha un equilibrio troppo precario per reggere alla realtà dei fatti, e così la storia precipiterà nel dramma finale, che chiude una pellicola che avrebbe meritato ben altra sorte rispetto a quella riservatale dal box office.
Nonostante la presenza di Rita Hayworth,di Mimsy Farmer,di Robert Walker Jr.,di Ed Begley e marginalmente di Marc Porel ( nel ruolo di Rocky), il film non ebbe nessun successo, venendo riscoperto molto dopo grazie alla diffusione dell’Home video.
Sulle splendide note di Christophe, autore della colonna sonora nel tema portante, Quando il sole scotta affascina sopratutto per il senso di solitudine che sembra pervadere le scene più affascinanti del film, come quella dell’arrivo di Jonas a casa di Mara oppure quelle in cui Billie e Jonas liberi e felici corrono su una spiaggia solitaria per poi tuffarsi in un mare bellissimo.
L’inizio del film vedrà in seguito l’omaggio di Tarantino che riprenderà sia l’arrivo di Jonas nell’assolato e desertico paesaggio che precede la casa di Mara sia nel tema sonoro di grandissimo effetto e di sapore autenticamente settantiano.
Scorrendo le immagini, si può notare l’attenzione ai dettagli del regista francese; non a caso Jonas, nella sua identificazione con Rocky, finisce per indossarne i vestiti e gli ornamenti, usarne l’eau de toilette.
Il paesaggio è quello brullo che caratterizza il confine tra il Messico e gli Usa eppure sorprendentemente il film è girato in Europa; la location infatti è nelle Canarie, precisamente nei pressi di Lanzarote.
Il cast è assolutamente ben assortito, con una bravissima Rita Hayworth, alla sua terz’ultima prova d’attrice ( il suo ultimo film in assoluto è del 1972, La collera di Dio) e una stupenda e bravissima Mimsy Farmer, una delle attrici più versatili degli anni 70.
Il resto del cast è all’altezza.
Il film è di difficilissima reperibilità, almeno in lingua italiana mentre è disponibile in versione originale su You tube; non ho notizie su suoi passaggi televisivi ed è un vero peccato perchè è una pellicola da riscoprire assolutamente.
Quando il sole scotta (Road to Salina) di George Lautner, con Rita Hayworth, Mimsy Farmer, Robert Walker Jr., Ed Begley, Marc Porel, Drammatico Francia 1970
Mimsy Farmer: Billie
Robert Walker Jr.: Jonas
Rita Hayworth: Mara
Ed Begley: Warren
Sophie Hardy: Linda
Bruce Pecheur: Charlie
Marc Porel: Rocky
David Sachs: sceriffo
Regia Georges Lautner
Soggetto Maurice Cury (romanzo), Pascal Jardin
Sceneggiatura Georges Lautner, Jack Miller
Produttore Robert Dorfmann, Yvon Guézel
Fotografia Maurice Fellous
Montaggio Michelle David, Elisabeth Guido
Musiche Bernard Gérard, Christophe, Alan Reeves
Tema musicale Sunny Road to Salina (Bernard Gérard-Christophe)
Scenografia Jean d’Eaubonne
4 mosche di velluto grigio
Quattro mosche di velluto grigio esce nel 1971 ad un anno di distanza dal travolgente successo di L’uccello dalle piume di cristallo e poco dopo l’uscita di Il gatto a nove code; Dario Argento chiude così la cosi detta trilogia “animalesca” con un film che se non ha lo stesso impatto dei primi due mostra tuttavia alcuni segnali che indicano come il regista romano stia evolvendo verso una fase nuova della carriera, che culminerà nel suo capolavoro, Profondo rosso.
Quattro mosche di velluto grigio è un film con tanti pregi ma anche con difetti rilevanti; per la prima volta Argento usa l’elemento comico nel film, usa sapientemente il flash back e sopratutto usa un finale davvero indimenticabile ma utilizza una sceneggiatura con più di una lacuna e sbaglia la scelta dell’interprete principale, quel Michael Brandon che si rivelerà l’anello più debole della pellicola.
Come location del film Argento sceglie Roma e Tivoli e Milano con Torino; a Roma c’è la baracca del simpaticissimo Diomede (Dio), che vive come un barbone in riva al Tevere in compagnia del suo linguacciuto pappagallo, mentre a Tivoli, nei giardini di Villa D’Este è realizzata la splendida sequenza dell’omicidio della colf di Roberto, Amelia. A Milano viene girata la sequenza della morte di Arrosio mentre lo studio dell’investigatore privato è a Torino nella Galleria Subalpina.
In questo film l’elemento predominante è la follia, così come per la prima volta Argento introduce la componente parapsicologica legata ai sogni premonitori di Roberto mentre come dicevo prima compare l’elemento umoristico, legato al personaggio di Diomede e sopratutto a quello dell’investigatore privato Gianni Arrosio, ingaggiato da Roberto (il protagonista), un investigatore che nel corso della sua carriera ha collezionato 84 casi falliti, come racconterà nel colloquio con il suo nuovo cliente.
La trama:
-Roberto Tobias, che fa il batterista in un gruppo rock, si accorge che è seguito da un misterioso individuo. La cosa va avanti per alcuni giorni,fino a quando Roberto non segue il suo misterioso pedinatore in un teatro, dove in maniera banale finisce per ucciderlo con il pugnale che l’uomo ha con se.
All’incidente ha assistito qualcuno, che fotografa la scena del crimine e subito dopo invia copia di una foto a casa di Roberto, il quale si accorge anche che il misterioso individuo si è introdotto in casa sua.
Dopo essere stato aggredito, Roberto decide di raccontare a sua moglie Nina degli avvenimenti a cui è andato incontro; il passo successivo è incontrare l’amico Diomede, che vice in una baracca lungo il fiume.
L’uomo gli consiglia di rivolgersi ad un investigatore privato, Arrosio ma nel frattempo accadono due fatti di sangue; la domestica di Roberto, che ha capito chi è il misterioso ricattatore, tenta a sua volta di usare l’arma del ricatto, ma viene assassinata in un parco pubblico.
Lo stesso accade a Carlo Marosi, l’uomo che in origine aveva pedinato Roberto;Marosi non era morto nel teatro,perchè aveva attirato in una trappola Roberto, usando per simulare il proprio omicidio un pugnale da spettacolo.
L’uomo tenta anche lui un ricatto, ma il misterioso persecutore di Roberto lo uccide.
Roberto rifiuta di allontanarsi dalla città con Nina e resta a casa sua con Dalia, sua cugina; tra i due nasce improvvisa la passione.
Arrosio, l’investigatore, riesce dopo alcune indagini a capire l’identità del misterioso assassino, ma anche per lui la cosa sarà fatale; da quel momento gli eventi precipitano, con la prematura morta anche di Dalia.
Chi è il misterioso assassino, allora?
Quattro mosche di velluto grigio ha quindi una trama elaborata con un finale a sorpresa, in cui forse l’elemento destabilizzante non è tanto l’identità del misterioso assassino (si va per esclusione, ad un certo punto) quanto piuttosto l’espediente utilizzato che ne svelerà l’identità, un medaglione con incisa una mosca, l’ultima immagine che è rimasta impressa nella retina dell’occhio di Dalia, una mosca che muovendosi fa vedere l’immagine in movimento, quella di quattro mosche.
Naturalmente ometto l’identità del misterioso omicida, per evitare il fastidio dello spoiler che toglie suspense ad un finale di pellicola che è forse la parte più interessante del film.
Un film largamente disomogeneo, che però ha tuttavia il pregio di essere affascinante, a dispetto di alcune illogicità del film e dei tentativi di inserire sketch comici poco efficaci al film stesso;bene il cast ad eccezione dello spento e insignificante Michael Brandon, che interpreta il personaggio principale, quello di Roberto Tobias mentre assolutamente strepitosa è Mimsy Farmer nel ruolo di Nina.Nel cast c’è spazio per un inedito Bud Spencer, nel ruolo del filosofo Dio, irresistibile Jean-Pierre Marielle nel ruolo dell’investigatore Arrosio.
Detto della bella fotografia e delle discrete musiche di Morricone, va ricordato che solo da poco più di un anno è disponibile la versione digitale del film, rimasta per motivi assurdi priva di diffusione.
Oggi le copie che trovate in rete sono ridotte proprio da supporti digitali; il film è stato anche trasmesso dalle tv private.
Quattro mosche di velluto grigio
Un film di Dario Argento. Con Mimsy Farmer, Michael Brandon, Aldo Bufi Landi, Jean-Pierre Marielle, Oreste Lionello,Renzo Marignano, Stefano Oppedisano, Calisto Calisti, Corrado Olmi, Sandro Dori, Marisa Fabbri, Fabrizio Moroni, Jacques Stany, Fulvio Mingozzi, Francine Racette, Guerrino Crivello Giallo, durata 105′ min. – Italia 1971.
Michael Brandon: Roberto Tobias
Mimsy Farmer: Nina Tobias
Jean-Pierre Marielle: Gianni Arrosio
Bud Spencer: Diomede
Stefano Satta Flores: Andrea
Marisa Fabbri: Amelia, la domestica
Francine Racette: Dalia
Laura Troschel: Maria Pia (col nome di Costanza Spada)
Calisto Calisti: Carlo Marosi
Oreste Lionello: Il Professore
Fabrizio Moroni: Mirko
Aldo Bufi Landi: Medico
Tom Felleghy: Poliziotto
Guerrino Crivello: Rampanti, il vicino di casa zoppo
Corrado Olmi: Portinaio
Gildo Di Marco: Postino
Leopoldo Migliori: Musicista
Fulvio Mingozzi: Manager studio musicale
Dante Cleri: Commesso della bara
Pino Patti: Inserviente alla mostra funeraria
Ada Pometti: Donna sulla strada
Jacques Stany: Psichiatra
Stefano Oppedisano:
Renzo Marignano (non accreditato): addetto alle pompe funebri
Regia Dario Argento
Soggetto Dario Argento, Luigi Cozzi, Mario Foglietti
Sceneggiatura Dario Argento
Produttore Salvatore Argento
Casa di produzione Seda Spettacoli, Universal Productions France
Distribuzione (Italia) 01 Distribution
Fotografia Franco Di Giacomo
Montaggio Françoise Bonnot
Effetti speciali Cataldo Galliano
Musiche Ennio Morricone
Scenografia Enrico Sabbatini
Trucco Paolo Borselli, Giuliano Laurenti
Massimo Turci: Roberto Tobias
Melina Martello: Nina Tobias
Pino Locchi: Gianni Arrosio
Sergio Graziani: Diomede
Vittoria Febbi: Dalia
Serena Verdirosi: Maria Pia
Luciano De Ambrosis: Carlo Marosi
Roberto Chevalier: Mirko
Pino Colizzi: Psichiatra
Giorgio Piazza: poliziotto
Gianfranco Bellini: postino
Mario Mastria: manager musicale
Arturo Dominici: inserviente
Cesare Barbetti: becchino
Camping del terrore
Julie e Robert Ritchie sono una coppia di mezza età che vive in un camping desolatamente abbandonato a se stesso, con l’unica compagnia dello sceriffo locale, Charlie, segretamente innamorato della ancor piacente Julie.
A guastare la monotonia e il silenzio in cui è immerso il camping, divenuto con il passare del tempo un luogo desolato da quando anni prima un misterioso maniaco aveva ucciso una coppia di giovani arriva una comitiva chiassosa di ragazzi.
Tra di loro c’è Ben, il figlio della coppia di ritorno dal servizio militare; i giovani sono accolti con poca cordialità da Robert che non ama la compagnia.
Tra l’altro, l’uomo ha disseminato nei boschi una serie di trappole per tentare di catturare il misterioso assassino dei giovani, che alcuni testimoni affermano essere uno sciamano.
I giovani comunque si sistemano nel camping, ma ben presto dovranno fare i conti con il ritorno del misterioso assassino, che dopo undici anni all’improvviso torna a colpire.
Poco alla volta i ragazzi finiscono massacrati dall’invisibile presenza, che alla fine verrà fermata grazie a Charlie, il poliziotto che non ha mai smesso di amare Julie.
Sarà proprio la morte di quest’ultima a rivelare il vero volto dell’inafferrabile assassino, che altri non è che Ben; il giovane era rimasto sconvolto anni prima dalla visione di un incontro amoroso proprio tra Charlie e la madre.
Da allora la mente sconvolta del giovane aveva meditato vendetta.
Ma quando tutto sembra essere diventato chiaro, con il camping sul quale ormai aleggia solo la morte ( a scampare al massacro ci sono solo Charlie e Robert ) ecco che…
Horror slaher diretto da Ruggero Deodato nel 1987, Camping del terrore anticipa di poco un film praticamente identico come location e come trama, Cheerleader camp che avrà un buon successo di pubblico in America, ma paga un pesante dazio a Venerdi 13 al quale si ispira in maniera forse troppo evidente, riprendendone atmosfere e anche alcuni trucchi.
Deodato gioca molto sull’atmosfera da incubo che viene a crearsi nel camping, usando il ricordo del fantomatico sciamano assassino come incubo ricorrente per i giovani del camping.
Ed anche per lo spettatore che però intuisce da subito che l’assassino è un essere in carne ed ossa e non certamente un ectoplasma.
Man mano che la storia si sviluppa, si assiste quindi alla lunga teoria dei morti ammazzati, tra qualche scena gore e qualche tentativo di allegerire la tensione rappresentata dai soliti scherzi tra ragazzi che il regista inserisce per dare l’impressione di una normalità che però è solo apparente.
Il film è ben costruito, anche se la trama può sembrare scontata, vista l’ennesima variazione di una vicenda girata nel solito bosco con tanto di assassino fantasma in azione.
Ma il mestiere di Deodato permette al film di reggere una certa tensione per tutto il film, puntando ogni tanto sui due protagonisti defilati della vicenda, la coppia di coniugi Robert-Julie che appare divisa da una tensione palpabile.
Elemento di disturbo della coppia sembra essere lo sceriffo Charlie con la sua manifesta ammirazione per la signora Ritchie; la loro storia d’amore scopriremo essere la causa scatenante della follia di Ben è forse la parte più debole del film.
Ma alla fine Deodato inserisce il classico colpo di scena che ovviamente non rivelo e così facendo il totale i conti tornano.
Il regista potentino torna allo slasher dopo L’inferno in diretta; non c’è più la giungla ma c’è il bosco e si intuisce che Deodato predilige le atmosfere bucoliche per creare un forte contrasto tra la vicenda e il posto in sui si svolge.
Del resto precedentemente Deodato aveva diretto due cannibal movie con atmosfere identiche, Ultimo mondo cannibale e Cannibal holocaust con i quali in qualche modo aveva già sperimentato il genere slasher. Il prodotto finale è un film senza grosse pecche, abbastanza scorrevole che però ha un grosso limite rappresentato da un cast spaccato in due.
Da un lato ci sono le prove più che discrete dei tre “adulti” del cast, ovvero la sempre affascinante Mimsy Farmer (Julie), di David Hess (Robert) e del compianto Charles Napier (lo sceriffo), scomparso nel 2011, dall’altro quello del plotoncino di giovani attori che appaiono legnosi e poco espressivi.
Luisa Maneri, Valentina Forte, la stessa Nancy Brilli sono acerbe e scarsamente convincenti cosi come Nicola Farron, Stefano Madia e c. appaiono altresi poco in sintonia con il film stesso.
Nel cast figurano anche due ottimi caratteristi come John Steiner e Ivan Rassimov, che però hanno ruoli minori e quindi non giudicabili.
Girato in Abruzzo, Camping del terrore ha come punti di forza la magnifica e selvaggia location che appare davvero un sostituto ideale dei boschi americani e delle buone musiche del grande Enrico Simonetti.
Un film di discreto livello, quindi, al contrario di quanto sostenuto da critici che evidentemente si prendono troppo sul serio.
Camping del terrore
Un film di Ruggero Deodato. Con Mimsy Farmer, Bruce Penhall, John Steiner, Ivan Rassimov, Luisa Maneri, Stefano Madia, Charles Napier, Nicola Farron, Elena Pompei, Nancy Brilli Horror, durata 87 min. – Italia 1987
Charles Napier … Charlie, lo sceriffo
Mimsy Farmer … Julia Ritchie
David Hess … Robert Ritchie
Luisa Maneri … Carol
Nicola Farron … Ben Ritchie
Andrew J. Lederer … Sidney
Stefano Madia … Tony
John Steiner … Dr. Olsen
Nancy Brilli … Tracy
Cynthia Thompson … Cissy
Valentina Forte … Pamela Hicks
Ivan Rassimov … Vice sceriffo Ted
Elena Pompei … Sharon
Bruce Penhall … Dave Calloway
Sven Kruger … Scott
Regia Ruggero Deodato
Sceneggiatura Alessandro Capone, Dardano Sacchetti, Luca D’Alisera
Produttore Ruggero Deodato
Fotografia Emilio Loffredo
Montaggio Mario Morra
Musiche Claudio Simonetti
Scenografia Paolo Biagetti
More (Di più, ancora di più)
Una storia d’amore funesta e distruttiva con lo sfondo di una Parigi appena intuibile e della splendida Ibiza, condita da una colonna sonora scritta in otto giorni dai Pink Floyd.
E’ questa l’essenza del film More (uscito in Italia con l’aggiunta di Di più ancora di più), film del 1969 diretto dal regista di origini iraniane Barbet Schroeder.
Una storia dal vago sapore underground, che racconta il percorso di sola andata all’inferno di un giovane tedesco, Stefan, che in una Parigi che intravediamo solo a tratti conosce una giovane efebica e affascinante, sfuggente, di nome Estelle.
La ragazza, dopo un approccio iniziale soft, inizia il giovane Stefan all’uso di marijuana, prima di portarlo su sostanze più pesanti.
Sarà proprio ad Ibiza, in una splendida cornice naturale che contrasta pesantemente con la cupezza della relazione tra i due, che diviene con il passare dei giorni sempre più torbida e legata alla progressiva assuefazione delle varie droghe che i due giovani usano, che la storia raggiungerà l’acme e la sua drammatica conclusione.
Sicuramente More è un film passato alla storia più per la splendida e avvolgente colonna sonora dei Pink Floyd piuttosto che per la storia raccontata, anche se film sulla droga, a fine anni sessanta, sono da considerarsi rarità.
Il problema principale del film è la sua funzione eminentemente didascalica, legata più al torbido rapporto che lega i due protagonisti più che ad una indagine sui perchè della diffusione nel mondo giovanile dell’uso delle droghe leggere e pesanti.
Il dramma della droga è visto infatti in un microcosmo chiuso, quello di Stephan e Estelle, non rapportato alla società, ai problemi di adattamento dei giovani alla stessa o ai problemi tipici dell’essere giovani.
Schroeder sceglie la strada dell’illustrazione del percorso iniziatico del giovane tedesco, che un po per amore, un po per curiosità, un po ancora per spirito di avventura, sceglie di seguire la perduta e ammaliatrice Estelle nel suo viaggio senza ritorno, verso una dipendenza che fatalmente avvolgerà nelle sue spire il giovane, portandolo alla tomba.
La scelta più felice del regista è quella di usare un netto contrasto tra la storia cupa e drammatica che man mano vediamo scorrere sotto i nostri occhi e il paesaggio assolutamente solare, spettacoloso di un’Ibiza da cartolina o da documentario della National Geographic.
Alcune scene sono davvero splendide e ben curate, come quella in cui il giovane tedesco è seduto sul bordo di un traghetto con l’acqua che spumeggia, oppure quella in cui i due giovani, in un momento sereno, prendono il sole e fanno il bagno completamente nudi, novelli Adamo ed Eva.
Pure, il senso di forte incompiuta, resta davvero palpabile.
I due giovani appaiono legati da un sentimento quasi vuoto, in cui il sesso, la droga, sembrano travolgere tutto, senza che il regista esprima mai un suo punto di vista oggettivo, che sia una condanna delle droghe in tutta la loro vasta gamma oppure un tentativo qualsiasi di demonizzare la cosa.
In questo More appare distante anni luce da opere molto più complesse e diversamente strutturate come Cristiana F.noi i ragazzi dello zoo di Berlino, opera sicuramente molto più efficace nel descrivere l’anticamera dell’inferno della tossico dipendenza.
Ma in effetti l’intenzione del regista era quella di raccontare una storia d’amore con un finale amaro, con la droga solo sullo sfondo della vicenda.
E in questo bene o male colpisce nel segno.
Aiutato sicuramente per massima parte dalla colossale colonna sonora dei Pink Floyd, orfani del geniaccio Barrett che aveva pagato il suo tributo alla dea droga. Una colonna sonora sontuosa, pure non apprezzata universalmente, anzi.
I fan dei Pink Floyd spesso la escludono dai lavori del gruppo, considerandola troppo leggera e poco omogenea.
Aldilà delle meschine considerazioni di bottega, l’album che fa da colonna sonora è bello e intrigante; così come il film, tralasciando molte lacune in fase di sceneggiatura, si lascia vedere.
Bene i due attori protagonisti, una splendida, conturbante ed efebica Mimsy Farmer e Klaus Grunberg, l’impacciato e stralunato Stephan.
Può valere la pena riguardarlo a distanza di oltre 40 anni dalla sua uscita, per ricordare un mondo ormai completamente dissolto.
More (Di più, molto di più), un film di Barbet Schroeder. Con Mimsy Farmer, Klaus Grunberg, Heinz Engelmann Titolo originale More. Drammatico, durata 117 min. – Gran Bretagna 1969.
Regia Barbet Schroeder
Soggetto Barbet Schroeder
Sceneggiatura Barbet Schroeder, Paul Gegauff
Casa di produzione Les Films du Losange
Fotografia Nestor Almendros, Fran Lewis
Montaggio Denise De Casabianca, Rita Roland
Musiche Pink Floyd
La ragazza di Trieste
Una storia d’amore ai limiti dell’impossibile, quella tra Dino e Nicole. Lui è un maturo disegnatore di fumetti, scapolo impenitente, reduce da una relazione poco convinta con Valeria. Lei è una bellissima ragazza, sfuggente e misteriosa. I due si incontrano casualmente il giorno in cui la ragazza, che sta annegando mentre fa il bagno, viene salvata da tre uomini sulla spiaggia. Dino, attratto dal fascino enigmatico della ragazza decide di conoscerla; dal canto suo Nicole, evidentemente attratta da Dino, non si sottrae .
Andrea Ferreol
Nasce cosi una problematica relazione tra i due; la ragazza è sfuggente, misteriosa e si comporta in maniera assolutamente incoerente. Ha atteggiamenti teneri, ma anche spregiudicati, come quando si mostra completamente nuda ad un cameriere di un residence, sotto gli occhi esterefatti di Dino. Un giorno la ragazza scompare, per poi riapparire adducendo motivi assolutamente risibili al suo comportamento. Sconcertato, Dino decide di andare a fondo e scoprire cosa nasconde la misteriosa Nicole.
Mimsy Farmer
Ornella Muti
Scopre cosi, seguendo le indicazioni di una sua amica, che la ragazza ha dei problemi mentali; è ricoverata infatti in un ospedale psichiatrico, dal quale però è libera di entrare e uscire, secondo le indicazioni del piano terapeutico che segue. Ma un giorno alcune compagne in cura come lei, le usano violenza e da quel momento il fragile equilibrio di Nicole va in frantumi. Nel frattempo la convivenza tra la donna e l’uomo diventa sempre più problematica e Dino, che nonostante tutto ama quella creatura capace di tutto, di gesti teneri ma anche di clamorose piazzate, si trova a dover scegliere tra un futuro incerto con la donna e il suo personale equilibrio psicologico, messo a repentaglio dal comportamento di Nicole.
Sarà proprio quest’ultima a dipanare la matassa; una mattina, mentre sono sulla spiaggia, la ragazza, che si è rasata a zero i capelli, entra lentamente in acqua, e scompare in mare, così come dal mare era apparsa agli occhi di Dino la prima volta, che in questo caso assiste incredulo senza poter agire.
La ragazza di Trieste, diretto da Pasquale Festa Campanile, con sceneggiatura di Ottavio Jemma su soggetto dello stesso regista, è un dramma ben congegnato sulla difficoltà, o anche l’impossibilità dei rapporti tra normalità (il disegnatore Dino, il suo mondo ordinato) e follia (Nicole e la sua spregiudicatezza, le sue bugie ma anche la sua tenerezza).
Solo i folli sanno amare, è la morale del film, è la follia è nella vita di Nicole, che tenta inutilmente di inserirsi in un contesto normale, in cui ci sia spazio per i sentimenti, la sessualità, una normalità che di fatto le è proibita, dal momento che ogni volta che rientra nell’istituto psichiatrico deve fare i conti con le compagne violente o con la realtà opprimente dell’istituto stesso. Eppure tra i due c’è tenerezza: c’è tenerezza e anche amore in Dino, che tenta in tutti i modi di penetrare quella follia che avvolge come un manto nero la mente della ragazza.
Ma la vita spazza via anche i soni più innocenti, così, in un finale tragico e amaro, l’uomo è costretto ad assistere al suicidio della donna, un atto che ammette implicitamente la sconfitta della follia davanti alla normalità, quasi che il gesto della ragazza sia un rassegnarsi a questa impossibilità, quella di riuscire a vivere uno scamplo di vita “normale”
Un bel film, La ragazza di Trieste: dolce a tratti, amaro spesso.
Sicuramente bravi i due attori; Ben Gazzarra interpreta Dino, un uomo in difficoltà nel conciliare il suo essere paurosamente normale con la dolce follia di Nicole, interpretata benissimo da un’intensa Ornella Muti. E stride parecchio il solito, incredibile commento dell’ineffabile Morandini sul film, che riporto senza commenti, vista l’inutilità degli stessi di fronte a giudizi espressi senza alcuna cognizione di fatto:
“Un disegnatore di storie a fumetti alla Crepax s’innamora di una ragazza che entra ed esce da una clinica psichiatrica. Tratto da un romanzo (1982) dello stesso regista, è un melodramma d’amore piatto, mal scritto, ripetitivo. Ornella Muti callipigia è rapata a zero (ma è un trucco). ”
La ragazza di Trieste, un film di Pasquale Festa Campanile. Con Ben Gazzara, Mimsy Farmer, Ornella Muti, William Berger, Consuelo Ferrara, Romano Puppo
Drammatico, durata 108 min. – Italia 1982.
Ben Gazzara … Dino Romani
Ornella Muti … Nicole
Mimsy Farmer … Valeria
Jean-Claude Brialy … Professor Martin
Andréa Ferréol … L’amica Stefanutti
William Berger
Consuelo Ferrara … Francesca
Romano Puppo … Toni
Regia Pasquale Festa Campanile
Soggetto Pasquale Festa Campanile
Sceneggiatura Ottavio Jemma
Fotografia Alfio Contini
Montaggio Amedeo Salfa
Musiche Riz Ortolani
Scenografia Ezio Altieri
Macchie solari
Simona, giovane e bella dottoressa, lavora in un obitorio; la donna sta scrivendo la sua tesi sui suicidi, che proprio nei giorni in cui è al lavoro per completare la stessa tesi, sembrano aumentare dtrammaticamente, in concomitanza del forte aumento del fenomeno delle macchie solari. Simona, che è figlia dell’antiquario Gianni, un impenitente e incallito donnaiolo, è in preda ad un forte esaurimento nervoso; il suo unico conforto è il boy friend Edgardo, fotografo ed appassionato di corse in auto.
Il giovane le è vicino nonostante le crisi di nervi della ragazza, che spesso, anche nei momenti d’intimità, è incapace di lasciarsi andare. A sconvolgere ancor più il fragile equilibrio di Simona arriva la strana morte di Betty, una avvenente americana che sarebbe dovuta divenire la moglie di suo padre. Il fratello di Betty,Paul, un ex pilota di rally ora sacerdote, convinto che la morte della sorella non sia accidentale, ma di origine oscura, inizia ad indagare, coinvolgendo anche Simona.
Le cose si complicano ulteriormente con la caduta di Gianni, il padre di Simona, da una finestra, che porta la ragazza a sospettare anche del sacerdote. In realtà le cose sono molto più complesse di quel che appaiono; in un clima di sospetti, in cui Simona sembra perdere completamente il senno, complici anche le visioni che la perseguitano, il sacerdote riuscirà a trovare il bandolo della matassa, giungendo a scoprire i motivi per cui Betty è stata uccisa, con relativo colpevole, e salvando così la vita anche a Simona.
Macchie solari, diretto da Armando Crispino nel 1974, pur avendo una trama non sempre limpida, pur essendo pericolosamente in bilico tra horror, thriller e romanzo senza per questo essere nulla dei tre, si fa seguire con piacere, anche se soltanto a tratti. Le scene iniziali, per esempio, destabilizzano lo spettatore, giocate come sono tra la realtà (quella dei suicidi), la visione (i morti che riprendono vita nell’obitorio) e la via di mezzo, gli incubi onirici di Simona.
Per quasi tutto il film il clima di sospetti che si addensa su tutti i personaggi giova alla tensione narrativa, anche se in alcuni momenti le scene sembrano accavallarsi senza soluzione di continuità. Il finale tutto sommato è in linea con il racconto, anche se il colpevole finisce per essere chiaro molto prima della parola fine. Sicuramente lodevole la prova di Mimsy Farmer, una delle attrici più brave nell’interpretare i ruoli di donna dalla fragile psiche, cosa che ha fatto più volte, come per esempio in Il profumo della signora in nero, in Gatto nero, in Quattro mosche di velluto grigio.
Bravi anche Ray Lovelock, nel ruolo dell’ambiguo fotografo e amante di Simona, Massimo Serato, perfetto e credibile play boy, mentre molto forzata appare la recitazione di Barry Primus in quella del sacerdote Paul, troppo forzata e sopra le righe. Un thriller discontinuo, che però ha dalla sua un’atmosfera morbosa, quasi malata,con quel suo ondeggiare tra reale e sogno; il tutto è accompagnato dal gradevole tema musicale scritto dal maestro Morricone.
Macchie solari, un film di Armando Crispino. Con Mimsy Farmer, Barry Primus, Ray Lovelock, Massimo Serato, Eleonora Morana, Ernesto Colli, Angela Goodwin
Thriller, durata 100 min. – Italia 1975.
Mimsy Farmer: Simona Sana
Barry Primus: Father Paul Lenox
Ray Lovelock: Edgar
Carlo Cattaneo: Lello Sana (con il nome Carlo Cataneo)
Angela Goodwin: Daniela
Gaby Wagner: Betty Lenox
Massimo Serato: Gianni Sana
Ernesto Colli: Ivo
Leonardo Severini: Custode
Eleonora Morana: Eleonora
Antonio Casale: Ispettore Silvestri
Giovanni Di Benedetto: Capo Coroner
Maria Pia Attanasio: Aunt Elvira
Pier Giovanni Anchisi: Archivista presso il Museo Criminale (con il nome Piero Anchisi)
Pupino Samona: Medico con la barba (con il nome Pupino Samonà)
Sergio Sinceri:
Bruno Alias: uomo al ristorante(non accreditato)
Antonio Anelli: uomo, nella hall dell’hotel(non accreditato)
Massimo Ciprari: spettatore alla corsa automobilistica (non accreditato)
Cindy Girling: cadavere biondo (non accreditato)
Carla Mancini: Infermiera (non accreditato)
Giulio Massimini: Cameriere (non accreditato)
Alessandra Vazzoler: cadavere grasso (non accreditato)
Luciano Zanussi: Medico all’autopsia (non accreditato)
Regia Armando Crispino
Sceneggiatura Armando Crispino, Lucio Battistrada
Produttore Leo Pescarolo
Casa di produzione Clodio Cinematografica
Fotografia Carlo Carlini
Montaggio Daniele Alabiso
Musiche Ennio Morricone
Costumi Mario Ambrosino
Trucco Renzo Francioni
Mimsy Farmer
Mimsy Farmer, americana di Chicago, dov’è nata nel febbraio del 1945, è stata una delle attrici più capaci arrivate in italia agli inizi degli anni settanta, quando venne chiamata da Dario Argento per interpretare il ruolo di Nina nel suo Quattro mosche di velluto girigio. Mimsy aveva 26 anni, ma alle spalle già una carriera consolidata, avendo esordito all’età di 17 anni in alcune produzioni americane per la Tv, come “My Three Sons” ,”The Adventures of Ozzie & Harriet” e sopratutto in due grandi successi arrivati anche in Italia, Perry Mason e Lassie.
In Italia arriva dopo aver girato Riot of sunset strip, Devil angels al fianco di Cassavetes, in The wild racers e sopratutto More, film in cui interpreta la giovane Estelle, memorabile sopratutto per la celebre colonna sonora dei Pink Floyd. Gli spettatori italiani la apprezzano anche in due fortunate produzioni, Michele Strogoff, corriere dello zar e Quando il sole scotta, in inglese Road to Salina, scabrosa storia in cui interpreta Billy, una ragazza che in passato aveva avuto una relazione incestuosa con il fratello che poi aveva ucciso.
Il ruolo che le consegna la fama anche da noi è il citato Quattro mosche di velluto grigio, diretto da Dario Argento nel 1971, in cui Mimsy Farmer interpreta Nina, la psicotica moglie di Roberto, che alla fine risulterà essere la vera e insospettabile assassina di una serie di delitti. Non è particolarmente bella, Mimsy, ma ha fascino e un carisma magnetico; corpo esile, anzi minuto, è lontana anni luce dal prototipo della vamp. Ma riesce a supplire con doti recitative eccezionali a quanto le manca sul piano fisico.
In poco tempo gira alcuni ottimi lavori, come Corpo d’amore di Fabio Carpi, La vita in gioco di Mingozzi accanto al sex symbol Helmut Berger, l’ottimo Il maestro e Margherita, di Petrovic, tratto dal famoso romanzo di Bulgakov, nel quale interpreta splendidamente Margaretha, la moglie di un poliziotto innamorata dello scrittore Maksudov.
Mimsy in 4 mosche di velluto grigio
L’opera successiva ,Il camino, film del 1973 diretto da Jorge Darnell passa quasi inosservata,pur vantando nel cast Fernando Rey e Luigi Pistilli; tuttavia ottiene un altro buon successo personale lavorando con Delon e Jean Gabin in Due contro la città, opera discontinua di Josè Giovanni, in cui è la donna di Gino, un ex carcerato che finirà per essere ghigliottinato solo per aver ucciso un poliziotto che lo tormentava sadicamente.La Farmer dimostra di essere un’attrice completa, assolutamente adatta ai ruoli drammatici, in possesso di una mimica facciale che le permette di rendere al meglio i personaggi più complessi.
Mimsy Farmer in Spencer mountain
E’ il caso di Silvia Hacherman , personaggio principale di Il profumo della signora in nero di Barilli, uno dei film più originali del cinema italiano; il complesso personaggio di Silvia, dottoressa ossessionata dal ricordo della propria madre vista in un incontro sessuale molto crudo, dal quale esce con problemi piscologici che la porteranno sull’orlo della pazzia, mostra la maturità raggiunta. Confermata da Allonsanfant, film dei fratelli Taviani, in un altro ruolo drammatico, quello di Francesca, che riporta il nobile Fulvio sulla strada degli alti ideali rivoluzionari della carboneria, che rinnegherà tradendo i suoi compagni.
Il profumo della signora in nero
Siamo nel 1974, e l’attrice continua a interpretare parti drammatiche: la successiva è nel film La polizia indaga: siamo tutti sospettati di Michel Wyn, in cui interpreta Candice, una giovane uccisa casualmente in Francia. Il 1975 segna il ritorno della Farmer ai film di ambientazione thriller; è il caso del film di Crispino Macchie solari, opera molto discussa in cui è ancora una volta una dottoressa, Simona, coinvolta in una brutta storia di omicidi in una città in cui si abbatte un’improvvisa serie di allucinanti delitti, che le autorità attribuiscono alle macchie solari del titolo.
Uno dei suoi primi lavori, il geniale More
Nei successivi due anni la Farmer lavora in Morire a Roma (La vita in gioco) di Giuseppe Mingozzi, pressochè ignorato dal pubblico e in Il sapore della paura di Leroy, un insolito film in cui interpreta Helen, una ragazza che finirà per diventare la preda di un gruppo di rispettabili notabili del posto, che dopo averla violentata la faranno morire tra le sabbie mobili.
Per rivedere sul grande schermo la Farmer, bisognerà attendere il 1977, quando interpreterà il ruolo di Giulia in Antonio Gramsci: i giorni del carcere, diretto da Lino Del Fra; nel 1978 lavora in L’amant de poche di Bernard Queysanne, film mai distribuito in Italia, in Ciao maschio di Ferreri e in Concorde affaire, diretta da Deodato.
E’ proprio nel 1979 che la Farmer decide di accettare nuovamente ruoli televisivi, per cui la troviamo in Martin Eden, di Giacomo Battiato, ripreso dal famoso romanzo di Jack London, nel quale è Lizzie, al fianco di Delia Boccardo e Capucine e subito dopo in un’altra fiction (oppure sceneggiato Tv, com’erano chiamate all’epoca le produzioni di telefilm televisive), Il treno per Istambul, regia di Mingozzi, al fianco di William Berger e Stefano Satta Flores.
Mimsy Farmer in due fotogrammi tratti da Macchie solari
Ovviamente non dimentica il cinema, e ancora una volta lavora in un thriller, Gatto nero, di Lucio Fulci, tratto da un romanzo di Poe in cui interpreta Jill, una fotografa che rischierà di morire sepolta viva, e che sarà salvata proprio da un gatto nero. Alternando lavori in tv e al cinema, la Farmer mostra un eclettismo che ha pochi riscontri nel mondo del cinema; cosi alle produzioni tv alterna lavori selezionati, come La ragazza di trieste, il dramma di Pasquale Festa Campanile nel quale è al fianco, anche se in una parte secondaria, di ben Gazzarra e Ornella Muti, per poi passare a Don Camillo, nel quale per la prima volta si trova sul set di un film con risvolti comici, un remake del vecchio successo interpretato dagli indimenticabili Gino Cervi e Fernandel;
Con Lee Van Cleef in Arcobaleno selvaggio
in questo caso ci sono Terence Hill e Colin Blakely, e il risultato è davvero modesto. Torna in Tv, nel 1984, per La bella Otero, di José María Sánchez, che schiera attori di gran livello, come Ángela Molina, Harvey Keitel, Aurore Clément, Luciano Salce, Vittorio Caprioli,Gigi Proietti,Gianni Cavina,Lina Sastri, mentre al cinema la vediamo in La mort de Mario Ricci , Il quartetto Basileus , Arcobaleno selvaggio.
Pian piano l’attrice inizia a diradare gli impegni cinematografici e televisivi; trasferitasi in Francia, si appassiona alla scultura e alla pittura, anche per merito di Francis Poirier,lo scultore che diventerà suo marito. Interpreta qualche altro film, come La ragazza dei lilla, di Flavio Mogherini, nel 1985, Un foro nel parabrezza di Sauro Scavolini e Sensi, lavoro brutto e scoordinato di Gabriele Lavia.
Nel 1987 lavora in Camping del terrore di Deodato, brutto e pasticciato thriller, in Poisons, di Pierre Maillard, in Il segreto dell’uomo solitario, di Ernesto Guida e nei lavori Tv Sei delitti per padre Brown, prima di chiudere definitivamente con il cinema e la stessa tv nel 1991, con la fiction Safari diretta da Roger Vadim. Da quel momento in poi Mimsy Farmer si dedicherà anima e corpo alla scenografia, lavorando principalmente in Francia, ma non solo: Troy, Marie Antoinette, La fabbrica di cioccolato sono soltanto alcuni dei film ai quali ha partecipato come realizzatrice di sculture utilizzate poi in scena.
Un’attività che la bravissima attrice svolge a tempo pieno, avendo ormai accantonato da tempo i set cinematografici che l’avevano vista protagonista di tanti film importanti.
Sensi
La traque
Antonio Gramsci: i giorni del carcere
Three sons
Michele Strogoff corriere dello zar
Les suspect
La ragazza di Trieste
La polizia indaga,siamo tutti sospettati
Hot road to hell
Questa nostra estate
Riot on Sunset strip
Hot roads to hell
Due fotogrammi tratti dallo sceneggiato Martin Eden
Les pieds poussent en novembre
La vita in gioco
La ragazza dei lilla
La polizia indaga
La morte di Carlo Ricci
Killico il pilota nero
Il segreto dell’uomo solitario
Facce senza dio
Don Camillo
Die wolfin
Ciao maschio
Camping del terrore
Arcobaleno selvaggio
Quando arriva il giudice
Morire a Roma
Camino-La faccia violenta di New York
Devils angels
Il segreto dell’uomo solitario 1988
Poisons (1987)
Camping del terrore (1987)
Her Fragrant Emulsion (1987)
Sensi (1986)
Un foro nel parabrezza (1985)
La ragazza dei lilla (1985)
Fratelli (1985)
Arcobaleno selvaggio 1984
La mort de Mario Ricci (1983)
Il quartetto Basileus (1983)
Don Camillo (1983)
La ragazza di Trieste (1982)
Black Cat (Gatto nero) (1981)
Même les mômes ont du vague à l’âme (1980)
La légion saute sur Kolwezi (1980)
Concorde Affaire ’79
Ciao maschio 1978
L’amant de poche 1978
Antonio Gramsci: i giorni del carcere (1977)
Il sapore della paura 1975
Morire a Roma (1975)
Macchie solari (1975)
La polizia indaga: siamo tutti sospettati (1975)
Allonsanfàn (1974)
Il profumo della signora in nero (1974)
Les mille et une mains (1974)
Due contro la città 1973
Camino-La faccia violenta di New York (1973)
Il maestro e Margherita (1972)
La vita in gioco (1972)
Corpo d’amore (1972)
4 mosche di velluto grigio (1971)
Quando il sole scotta 1970
Strogoff (1970)
More (1969)
The Wild Racers (1968)
Devil’s Angels (1967)
Riot on Sunset Strip (1967)
Hot Rods to Hell (1967)
Bus Riley’s Back in Town (1965)
Allonsanfan
La fine dell’era napoleonica, con conseguente restaurazione, seguita all’esilio di Napoleone a Sant’Elena è lo sfondo di questo dramma storico diretto nel 1973 dai fratelli Paolo e Vittorio Taviani. Vi si narra la storia di Fulvio Imbriani, nobile italiano aderente alla setta dei Fratelli sublimi, ex appartenente all’esercito napoleonico ed ex giacobino; l’uomo viene rilasciato dopo la prigionia seguita alla fine dell’era napoleonica, rientra in famiglia e sembra intenzionato a dimenticare il passato, godendosi finalmente la famiglia, la bella casa e gli ozi.
I buoni propositi di Fulvio vanno a rotoli nel momento in cui, nella sua vita, ricompare la bella Charlotte, la donna con la quale ha avuto una relazione, dalla quale è nato il piccolo Massimo. La donna ha con se una grossa somma, destinata ai patrioti italiani del sud Italia; Fulvio ruba i soldi, con l’intenzione di usarli per il figlio, per garantire allo stesso un futuro di studi e renderlo economicamente indipendente. Eshter, sorella di Fulvio, denuncia il complotto, con conseguente morte della povera Charlotte.
Bruno Cirino
Ma la situazione è destinata a complicarsi quando irrompe nella vita di Fulvio la giovane Francesca, che costringe l’uomo a riprendere i contatti con i ribelli, che sognano la liberazione del sud Italia. Fulvio e i ribelli arrivano nel sud, dove ancora una volta si consuma il tradimento del nobile; finale amaro.
Allonsanfan è un film sul tradimento, sia quello dell’amicizia, quindi umano, sia su quello degli ideali; ideali di giustizia, libertà uguaglianza e pace sociale, che erano stati, almeno nelle intenzioni, il cardine principale su cui si era mossa la rivoluzione francese, e che Napoleone aveva in qualche modo tradito, esportando un’idea di uguaglianza sulla punta delle baionette, finendo per sradicare, in alcuni stati europei, un potere tirannico per sostituirlo con un alto non molto diverso. C’è questo, nel film dei fratelli Taviani, ma non solo.
C’è un evidente parallelo tra la storia ottocentesca del nostro paese riportata in parallelo con i tempi in cui fu girato il film, la prima parte del decennio settanta, con le sue contraddizioni irrisolte, figlie del decennio sessanta, fatto di speranze disilluse. Un film amaro, in fin dei conti, che simboleggia la fine degli ideali, le speranze disilluse, l’egosimo e molto altro. Grande Marcello Mastroianni nel ruolo di fulvio, l’uomo che tradisce un pò tutti, e alla fine, cosa più importante, tradisce se stesso e i propri vecchi ideali.
Mimsy Farmer
Molto brave le due interpreti principali femminili, Lea Massari nel ruolo di Charlotte e Mimsy Farmer in quello di Francesca; brava anche Laura Betti, che interpreta Esther, sorella di Fulvio. Asciutta la regia dei fratelli Taviani, il commento sonoro, delicato, è di Ennio Morricone.
Claudio Cassinelli
Allonsanfan, un film di Paolo Taviani, Vittorio Taviani con Marcello Mastroianni, Lea Massari, Laura Betti, Claudio Cassinelli, Bruno Cirino, Mimsy Farmer
Italia, 1973
Lea Massari: Charlotte
Mimsy Farmer: Francesca
Laura Betti: Ester Imbriani
Claudio Cassinelli: Lionello
Benjamin Lev: Vanni “Peste”
Renato De Carmine: Costantino Imbriani
Stanko Molnar: Allonsanfan
Luisa De Santis: Fiorella
Biagio Pelligra: il prete
Michael Berger: Remigiano
Alderice Casali: Concetta
Bruno Cirino: Tito
Ermanno Taviani: Massimiliano
Regia Paolo e Vittorio Taviani
Sceneggiatura Paolo e Vittorio Taviani
Produttore Giuliani G. De Negri
Casa di produzione Una Cooperativa Cinematografica
Fotografia Giuseppe Ruzzolini
Montaggio Roberto Perpignani
Musiche Ennio Morricone
Scenografia Gianni Sbarra, Adriana Bellone
Costumi Lina Nerli Taviani