L’iguana dalla lingua di fuoco
Dublino,Irlanda.
Alcuni omicidi senza movente e dalle modalità particolarmente feroci sconvolgo la città.
L’ispettore Lawrence ha una pista,che però si interrompe davanti all’infrangibilità del vincolo diplomatico;i suoi sospetti pertanto non hanno maniera di poter essere verificati.
Decide quindi di avvalersi della collaborazione dell’ispettore Norton,un bravo funzionario allontanato dal servizio per aver avuto la mano pesante con un pregiudicato.
Norton segue a modo suo le indagini;stretta una relazione con la bella Helen Sobieskj,figliastra dell’ambasciatore,
lo spregiudicato ispettore può finalmente mettere il naso da vicino nella vita dei principali personaggi che popolano l’ambasciata.
Mentre il misterioso killer continua a mietere vittima,l’ispettore ha finalmente un colpo di fortuna e …
Titolo con tutti e due gli occhi puntati sull’argentiano L’uccello dalle piume di cristallo,L’iguana dalla lingua di fuoco è un film
diretto nel 1972 da Riccardo Freda,il primo del decennio settanta che segue La salamandra del deserto uscito nel 1970 ma diretto nel 1969.
Firmato come Willy Pareto,è un thriller in cui la buona fattura e la padronanza del mezzo tecnico non bastano al regista nato ad Alessandria d’Egitto
per far dimenticare un prodotto confuso e molto pasticciato.
L’espediente sfruttatissimo del killer in guanti neri e cappellaccio non riesce in alcun modo a coinvlgere lo spettatore,spiazzato
da una trama molto ondivaga e priva di riferimenti,tanto che alla fine l’identità del misterioso killer lascia sgomento lo spettatore stesso,
che è stato disorientato per tutto il film dalle mezze ammissioni di colpevolezza dei vari protagonisti.
A questo va aggiunto l’espediente narrativo di scoordinare le varie sequenze,cosa che aggiunge confusione ad una trama già di per se poco affascinante;Freda non aveva un buon carattere, dopo la stroncatura da parte della critica tributata verso questo film si scagliò contro quanti lo criticavano,dimenticando che anche il pubblico era rimasto parecchio deluso da un film fondamentalmente piatto e poco interessante,nonostante qualche scena ben diretta, i discreti effetti splatter e un cast volenteroso,che in qualche modo dà dignità ad un film di scarso interesse.
La carriera cinematografica di Freda,tra alti e bassi,procede velocemente verso la fine;a L’iguana dalla lingua di fuoco seguiranno l’ambiguo ma fascinoso Estratto dagli archivi segreti della polizia di una capitale europea (che firmerà Hampton),l’invisibile Superhuman e si concluderà con l’inguardabile Murder obsession-Follia omicida.
Questa sua prova va quindi catalogata come un inciampo di percorso.
In quanto alle note positive del film,ben poche va segnalato come dicevo il cast,che include un ottimo ma un tantino spaesato Pistilli,la sempre elegante e raffinata Valentina Cortese, una bella e sensuale Dagmar Lassander e per quel poco che resta in scena,la sempre brava Dominique Boschero.
Adeguate le musiche di Stelvio Cipriani.
Il film è presente su You tube in una versione più che sufficiente,all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=RbzyzoqCzEM
L’Iguana dalla lingua di fuoco
Un film di Riccardo Freda. Con Luigi Pistilli, Dagmar Lassander, Anton Diffring, Valentina Cortese, Dominique Boschero Giallo, durata 90 min. – Italia 1971
Luigi Pistilli: detective John Norton
Dagmar Lassander: Helen Sobiesky
Anton Diffring: ambasciatore Sobiesky
Arthur O’Sullivan: ispettore Lawrence
Werner Pochath: Marc Sobiesky
Dominique Boschero: amante dell’ambasciatore
Renato Romano: Mandel
Sergio Doria: Walter
Valentina Cortese: signora Sobiesky
Regia Riccardo Freda
Soggetto Richard Mann (romanzo “A Room Without Door”)
Sceneggiatura Sandro Continenza, Riccardo Freda
Casa di produzione Les Films Corona, Oceania Produzioni Internazionali Cinematografiche, Terra-Filmkunst
Fotografia Silvano Ippoliti
Montaggio Riccardo Freda (con il nome Willy Pareto)
Musiche Stelvio Cipriani
Scenografia Giuseppe Chevalier
Costumi Nadia Vitali
Trucco Lamberto Marini
Guardami nuda
Una coppia in crisi,quella di Meg e Carlo.
Lo si intuisce nei primi 5 minuti del film,quando vediamo i due nella loro auto,percorrere in un silenzio pesantissimo
la strada.
In effetti tra di loro c’è un problema di natura sessuale;da tempo c’è un muro che si è alzato,non c’è più intimità,desiderio.
Questa assenza di passione ha minato alle basi il matrimonio.
Ad una stazione di servizio però incontrano una giovane autostoppista che cambierà in maniera profonda il loro rapporto;
la ragazza,vulcanica e sessualmente disinibita,avrà un rapporto sessuale prima con Meg e poi con Carlo,al quale dirà
che la moglie lo ama profondamente.
Questo incontro,più quello con una coppia di viziosi, riporterà i due a ritrovare l’intimità perduta e a rinnovarsi nel loro legame.
Guardami nuda è una pellicola non inquadrabile in nessun genere;non è una commedia nè un thriller o un giallo.
E’ un film che analizza,in maniera forse un po’ superficiale,un rapporto di coppia deteriorato, seguendolo nella sua evoluzione,
nelle trappole in cui si imbatte, sino al finale, rassicurante e tutto sommato in linea con le attese.
Italo Alfaro lo dirige nel 1972, ed è la sua prima esperienza cinematografica, dopo alcuni lavori per la tv; fra questi una menzione
speciale merita I ragazzi di Padre Tobia,che nel 1968 teneva inchiodati i ragazzini davanti allo schermo,grazie a storie di amicizia,lealtà e coraggio
consolidate nei giovani protagonisti da padre Tobia (un bravissimo Silvano Tranquilli).
Una prima esperienza abbastanza positiva,a guardare bene.
Anche se la storia in fondo è nota, è diretta con buona mano e senza cadute di stile;nonostante i nudi e qualche sequenza erotica,
il film mantiene una dignità che molti prodotti simili non ebbero.Quindi, appare decisamente troppo duro il giudizio di Segnalazioni cinematografiche che recita ;“Imperniato su personaggi scarsamente verosimili ai quali né le volute esasperanti lentezze narrative, né i dialoghi pretenziosamente “filosofici” riescono a dare vera consistenza psicologica, il film affida i suoi richiami spettacolari soprattutto alla licenziosità delle situazioni
e all’esibizione delle qualità anatomiche delle interpreti.”
Alfaro,il regista del film, passò subito dopo questa esperienza al genere decamerotico;a lui si devono uno tra i migliori prodotti del filone Decameron n° 3 – Le più belle donne del Boccaccio
oltre al meno riuscito Canterbury proibito prima di chiudere la sua carriera con Sentivano uno strano, eccitante, pericoloso puzzo di dollari.
Il cast scritturato dal regista toscano include Ugo Pagliai e Dagmar Lassander; la bella cecoslovacca non delude le attese, anzi, offre una prova convincente. Lo stesso non si può dire
di Ugo Pagliai, il quale è in difficoltà soprattutto nelle scene d’amore.
Dopo l’enorme successo riscosso in tv con lo sceneggiato più famoso degli anni ‘70,Il segno del comando,l’attore toscano gira un film
decisamente lontano dai suoi personaggi televisivi e forse questo influisce nella valutazione finale.Brava invece Pier Paola Bucchi,la giovane autostoppista.
Rimasto praticamente in cantina per oltre 40 anni,alla fine Guardami nuda è riemerso alla luce ed è oggi disponibile in digitale.
Per coloro che volessero vederlo è disponibile su You tube all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=3wNwuYTjphY&t=3625s
in una versione decisamente buona.
In ultimo,va citata la buona fotografia di Fausto Zuccoli.
Da vedere
Guardami nuda
Un film di Italo Alfaro. Con Dagmar Lassander, Ugo Pagliai, Yves Beneyton, Lorenzo Piani, Vittorio Fanfoni, Franco Angrisano, Serena Bennato Erotico, durata 91 min. – Italia 1972.
Ugo Pagliai … Carlo
Dagmar Lassander … Meg
Pier Paola Bucchi… L’autostoppista
Yves Beneyton … Il giovane artista
Regia Italo Alfaro
Sceneggiatura Italo Alfaro
Casa di produzione PARF Cinematografica
Distribuzione (Italia) Universal Video (UV)
Fotografia Fausto Zuccoli
Montaggio Adriano Tagliavia
Musiche Bruno Zambrini
Scenografia Elio Micheli
Andrée l’esasperazione del desiderio nell’amore femminile
Del film Andrée – l’esasperazione del desiderio nell’amore femminile non sono importanti ne la pellicola stessa ne la sua trama, in verità abbastanza semplice e dalle non eccelse virtù sceniche, quanto le vicissitudini censorie che portarono alla condanna al rogo della pellicola stessa e alla condanna a quattro mesi di reclusione di Pilippo Miozzi,amministratore della CID,la compagnia cinematografica distributrice della pellicola,pena poi sospesa con la condizionale.
Era il settembre del 1968, un’epoca storica caratterizzata dalla massiccia presenza della censura e dei censori in particolare pronti a sequestrare le pellicole che,a loro giudizio, presentassero caratteristiche di oscenità.
Cosa che puntualmente avvenne per questo film, giudicato osceno sia per la presenza cospicua di nudi femminili (roba da educande,comunque) sia per la trama, che trattava un argomento ostico, quello di una donna affetta da ninfomania.
Fa una certa sensazione leggere il nome del magistrato deputato all’accusa, quello di Vittorio Occorsio,ucciso poi nel 1976 da terroristi dell’estrema destra;la cosa dimostra quanto fosse importante il concetto di morale per la società nel suo assieme e quanto i tutori della legge tenessero alla moralità stessa.
Ignoro cosa sia accaduto in seguito, ovvero se la pellicola fosse o no stata davvero bruciata;l’ho vista da poco, in una versione da restauro digitale con sottotitoli in italiano, il che ha reso se possibile ancor più noiosa la visione della pellicola stessa,caratterizzata principalmente dalla verbosità e dalla staticità impressa dal regista.
In origine il film venne distribuito come Andrea – Wie ein Blatt auf nackter Haut,che più o meno può essere tradotto come Andrea – come una foglia sulla pelle nuda, con chiaro riferimento alla scena in cui la bellissima Andrea viene coperta da alcune foglie cadute da un albero mentre è completamente nuda e sdraiata.
Veniamo alla trama:
la bella è giovane Andrè soffre di un terribile bisogno d’amore.
Non tanto di amore inteso come sentimento,quanto di sesso;del resto sua madre aveva lo stesso problema, era sempre alla ricerca di uomini con cui appagare i suoi sensi e Andrè sembra aver ereditato la stessa inquietudine dei sensi.
Così la ragazza colleziona deludenti avventure con un mucchio di gente, incluso un amico di famiglia, riportandone però sempre la sensazione di insoddisfazione.
Uno stalliere e molti mariti infedeli delle sue amiche,il marito di sua sorella e alla fine un piccolo delinquente sono le prede dell’insaziabile ragazza.
Riuscirà Andrè a venir fuori dalla trappola mortale dell’insoddisfazione e a trovare un equilibrio che le impedisca di scendere sempre più giù nella scala della degradazione fisica?
A parte una giovane e bella Dagmar Lassander,venticinquenne all’epoca dell’interpretazione del film, spesso nuda (ma mai in modo volgare) e alla sua prima,vera esperienza da protagonista il film ha ben poco da segnalare.
Si tratta di un film con alcune velleità ma alla fine smaccatamente erotico e nulla più.
Non c’è alcuna voglia di scavare nella psiche della ragazza:Hanns-Schott Schöbinger,regista della pellicola,rimane ampiamente in superficie, svolgendo il compitino della pellicola pruriginosa senza alcuno scatto di fantasia rendendola alla fine piatta e banale.
Ora, se all’epoca della prima presentazione del film sia l’argomento del film sia alcuni nudi potevano turbare gli spettatori, oggi un film così lo si potrebbe tranquillamente visionare in parrocchia.
Tutto noioso e tutto senza attrattiva, quindi.
Solo la Lassander merita una citazione,mentre il resto del cast si guadagna la pagnotta senza alcun merito.
In quanto a Hanns-Schott Schöbinger,dirigerà ancora la Lassander nel 1969 in Pelle su pelle e avrà una certa notorietà nel nostro paese con I peccati di Madame Bovary non tanto per la qualità del film quanto per la presenza della splendida Edwige Fenech.
Posso a cuor leggero quindi sconsigliarvi la visione del film;ci fosse una versione italiana ne varrebbe la pena quanto meno vederlo nell’ottica del documentario d’epoca, ma con i sottotitoli, credetemi, è impresa titanica.
Andrée – L’esasperazione del desiderio nell’amore femminile
Un film di Hans Schott-Schobinger. Con Dagmar Lassander, Gita Rena, Ann Famoss, Ingrid Simon, Ralph Clemente Drammatico, durata 87 min. – Germania 1967
Dagmar Lassander: Andrea
Joachim Hansen: Peter
Hans von Borsody: Frederick Jansen
Herbert Fux: Felix Klarsen
Ralph Clemente: Thomas
Art Brauss: Joschi lo stalliere
Anne Famos: Mila
Gita Rena: Clarisse
Fred Bernhoff: Dr. Wagner
Helmut Alimonta: Schorsch
Ingrid Simon: Luisa
Karl-Heinz Peters: L’antiquario
Regia Hanns Schott-Schöbinger
Soggetto Hanns Schott-Schöbinger
Produzione Harald A. Hoeller für Metrostar / Hifi Stereo 70
Musiche Hans Hammerschmid
Fotografia Hanns Matula
Black cat-Gatto nero
In un paesino della campagna inglese avvengono una serie di morti inspiegabili.
Un giovane automobilista muore in un incidente d’auto,arso vivo dopo aver sfondato con la testa il parabrezza dell’auto sulla quale stava viaggiando,due ragazzi nel capanno di una darsena nel quale si erano rinchiusi per amoreggiare,un ubriacone cadendo dalle travi sospese di un vecchio palazzo e infilzandosi su una cancellata e infine la madre della ragazza della darsena arsa viva nell’incendio della sua casa.
In ognuna delle morti, apparentemente slegate fra loro, ha fatto la comparsa, minacciosa e inquietante, la figura di un gatto nero; il felino appartiene al professor Robert Miles,un tipo solitario ed eccentrico che vive isolato passando il suo tempo accanto ad un registratore, con il quale imprime sonoramente le voci dei defunti.
Sulle morti inspiegabili indaga Scotland Yard, rappresentata dall’ispettore Gorley, che è sicuro che dietro le strane morti ci sia qualcosa di misterioso; della stessa idea è la giovane e bella fotografa Jill Travers, che si è trovata sulle scene dei decessi e che ha notato sul corpo dell’ubriacone delle tracce inspiegabili di unghiate di gatto e sulle altre orme dello stesso felino.
Gorley e Jill si ritrovano ad indagare insieme ma sarà proprio Jill a scoprire il bandolo della matassa, collegando la presenza del misterioso gatto nero alla figura inquietante di Miles, lo strano legame parapsicologico che lo stesso ha con il gatto; ma Jill rischia di pagare con la vita il suo interesse verso la figura del professore.
L’uomo,infatti, riesce ad attirare in trappola la bella fotografa, murandola viva con il gatto, ma…
Black cat-Gatto nero è un film di Lucio Fulci tratto ancora una volta da un romanzo di Edgar Allan Poe.
Il saccheggiatissimo scrittore britannico scrive il racconto breve Gatto nero nel 1843, raccontando la vicenda di un condannato a morte che ricorda il perchè del suo stato attuale, ovvero aver ucciso la moglie dopo esser diventato folle in seguito ad un atto di crudeltà commesso nei confronti del gatto nero della moglie.
Il romanzo di Poe è davvero breve e la storia, in se, non poteva reggere una sceneggiatura cinematografica; così Fulci amplia la storia allontanandosene quasi definitivamente.
Il film che ne segue è disorganico,pur mostrando ancora una volta il talento del regista romano;l’aria misteriosa e parapsicologica del romanzo di Poe scompare per lasciar posto ad un horror nel quale sembrano contare più gli effetti visivi che la storia in se.
Il film è confuso, anche se conserva un certo fascino legato all’ambientazione e alla ricerca ossessiva di Jill del vero perchè delle misteriose morti che funestano il paese nel quale i fatti si svolgono.
L’ambientazione è quasi gotica, con l’ormai tradizionale villa immersa in un’inquietante panorama fatto di cieli grigi in netto contrasto con il verde intenso della natura inglese.Ancora più netto appare lo stagliarsi della natura stessa in opposizione con il buio tetro e sinistro nel quale si muove il professor Miles, con sullo sfondo l’inafferrabile figura del gatto, sempre li a squadrare con i suoi occhi verdi le varie situazioni che si susseguono.
E’ questa la cosa migliore del film, che per il resto ha un andamento altalenante, che non riesce a creare suspence come in altri lavori del maestro.
Troppo discontinuo il ritmo, poco affascinante la storia; Fulci, reduce dall’horror Paura nella città dei morti viventi e dal genere crimi a cui appartiene Luca il contrabbandiere girati nel 1980 appare incerto sulla rotta da seguire,barcamenandosi così sulla rotta da seguire indeciso se fare un horror puro o un film a sfondo parapsicologico.
L’ibrido che ne esce non è carne ne pesce, anche se non va stroncato tout court.
Per fortuna il cast utilizzato è di ottimo livello e sopperisce alle mancanze della storia con la professionalità; brava e bella Mimsy Farmer, ormai presenza fissa dei prodotti thriller ed horror di quel periodo così come discreta e misurata è la presenza di David Warbeck nel ruolo dell’ispettore Gorley; sacrificato Al Clver in una parte secondaria, quella del sergente Wilson, molto bene Patrick Magee, dallo sguardo spiritato, allucinato e quindi un po folle del professor Robert Miles.
Completano il cast principale Daniela Doria e Dagmar Lassander, rispettivamente nei ruoli di Maureen e Lillian Grayson, le due donne che moriranno brutalmente vittime della follia di Miles.
Discreta la fotografia e l’ambientazione, per un’opera che può essere guardata se appassionati di horror.
Black cat-Gatto nero è un film passato diverse volte in tv ed è anche disponibile su You tube in versione completa ed in italiano (una volta tanto) all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=4qj8tzfRzPI
Black Cat (Gatto nero)
Un film di Lucio Fulci. Con David Warbeck, Mimsy Farmer, Dagmar Lassander, Daniela Doria,Patrick Magee, Bruno Corazzari Titolo originale Il gatto nero. Horror, durata 98′ min. – Italia 1981.
Patrick Magee: Robert Miles
Mimsy Farmer: Jill Travers
David Warbeck: ispettore Gorley
Al Cliver: sergente Wilson
Dagmar Lassander: Lillian Grayson
Bruno Corazzari: Ferguson
Geoffrey Copleston: ispettore Flynn
Daniela Doria: Maureen Grayson
Sergio Fiorentini: Robert Miles
Vittoria Febbi: Jill Travers
Luigi La Monica: ispettore Gorley
Manlio De Angelis: sergente Wilson
Germana Dominici: Lillian Grayson
Arturo Dominici: ispettore Flynn
Isabella Pasanisi: Maureen Grayson
Regia Lucio Fulci
Soggetto Biagio Proietti, dal racconto Il gatto nero di Edgar Allan Poe
Sceneggiatura Biagio Proietti, Lucio Fulci
Produttore Giulio Sbarigia
Casa di produzione Selenia Cinematografica
Fotografia Sergio Salvati
Montaggio Vincenzo Tomassi
Effetti speciali Paolo Ricci
Musiche Pino Donaggio
Scenografia Francesco Calabrese
Costumi Massimo Lentini
Trucco Franco Di Girolamo, Rosario Prestopino (assistente)
L’opinione del sito http://www.filmhorror.com
Tra i non numerosissimi estimatori di IL GATTO NERO c’è chi si chiede ancora perché questo film non abbia mai riscosso i favori della critica e del grande pubblico. Eppure c’è quasi tutto: una buona storia, la tensione, l’atmosfera e persino una discreta prova degli attori.
C’è poco splatter è vero, ma che importa? IL GATTO NERO è, insieme a Le Porte Del Silenzio, l’horror più onirico che Fulci abbia mai diretto, e si sa le storie oniriche non vanno certo incontro ai gusti di tutti.
In una cittadina inglese, il bizzarro professor Miles cerca di stabilire un contatto con i morti provando a registrarne le voci con un microfono adagiato sulle lapidi. Nel frattempo, in paese, strani e inspiegabili decessi funestano la tranquilla vita degli abitanti, tanto che si è costretti a chiamare un ispettore di Scotland Yard per cercare di dipanare la matassa.
E’ il 1980 quando Fulci decide di girare questo omaggio ad Edgar Allan Poe rispolverando tra l’altro un precedente tributo, sempre dedicato allo scrittore di Boston, che il Nostro aveva inserito in Sette Note In Nero. Anche questa volta in effetti, con il racconto di Poe, la storia di Fulci sceneggiata da Biagio Proietti non ha poi così tanto a che vedere (nessun accenno alla cecità del gatto o all’omicidio della moglie. tanto per capirsi) ma l’atmosfera che si respira è ossessiva al punto giusto.
E’ interessante tra l’altro notare come tutto il film si sviluppi all’interno di una dimensione quasi eterea, dove i gatti assumono le sembianze di malvagi psicopompi, in grado di aprire le porte, appiccare incendi e soprattutto uccidere.
L’opinione di Joker1926 dal sito http://www.filmscoop.it
Il tema che attanaglia la filmografia dell’italiano Fulci ricade nel concetto di discontinuità.
E forse in Italia, fra i registi che hanno trattato il genere thriller ed Horror, Lucio Fulci si candida, seriamente, ad essere il più altalenante di sempre. Spulciando nella lista delle sue produzioni emergono film di grande qualità ed altri, bensì, di bassissimo profilo.
E ancora una volta, ahimè, ci tocca fare questa dolorosa iniziazione di concetto per dire che “Il gatto nero” o “Black cat”, fate voi, è una sciagura totale.
Partorito nel 1981 il film di Fulci prende spunti dal famoso romanzo in cui, logicamente, è un gatto a innescare la morte nei personaggi in scena.
Il soggetto di Fulci, preso da Edgar Allan Poe, a dire il vero, in chiave prettamente cinematografica, un po’ già stona. Insomma è improbabile portare, attraverso le immagini di una macchina da presa, le “gesta” fatali di un povero gatto ignaro della sua “maledizione”.
Quindi già l’effetto visivo, la finalizzazione degli omicidi, appare abbastanza grottesca e forzata.
Ne risente, a questo punto, tutta la narrazione che barcolla in modo irrimediabile dall’inizio alla fine. Il tutto è scoordinato e sgangherato. La sceneggiatura è disimpegnata e i personaggi si intersecano entro essa sono privi di carisma ed empatia. Le poche incursioni, specie nel finale, nell’introspezione psicologica di determinati personaggi risulta essere un’altra (fatale) bordata di superficialità.
Anche la confezione tecnica è un’altra caduta nel vuoto. Il ritmo è straziante ad esempio. La fotografia è di serie B, gli attori, invece, recitano in modo non ottimale, però, dopotutto, è quell’immondo copione a penalizzare il cast. Qui, con “Il gatto nero”, non convince proprio niente, nessuna sequenza si salva.
Prodotto da scartare che certifica, per l’ennesima volta, la lunaticità di Fulci.
L’opinione del sito http://www.alexvisani.com
Uno dei film più sottovalutati del maestro romano. La storia narra di un professore paranoico dedito all’ascolto delle voci dei morti (che crede di catturare con un particolare registratore) e che viene tormentato da un tenebroso gatto nero. Il finale del film ricalca quello del racconto da cui è liberamente (moolto liberamente) tratto ovvero: “Il gatto nero” di Edgar Allan Poe. Ambientato in Inghilterra e con la carismatica partecipazione del grande Patrick Magee, “Black Cat” è un film che appartiene comunque al periodo d’oro di Fulci nonostante non sia al livello di “Zombi 2″,”Paura nella città dei morti viventi”, “L’Aldilà” o “Quella villa accanto al cimitero”. C’è un’inquietante atmosfera in quest’opera ed alcune inquadrature sono davvero molto belle. Il talento visionario di Lucio si fa vedere a tratti anche se i cali di tono ed inspirazione sono evidenti. Brava anche Mimsy Farmer coadiuvata dal sempre fascinoso David Warbeck. Ci sono anche un paio di delitti che fanno il loro effetto, specialmente quello in cui un disgraziato precipita da un cantiere in costruzione e finisce con l’infilzarsi su delle sbarre di ferro che fuoriescono da una colonna di cemento armato..
L’opinione del sito http://www.horrormovie.it
“The Black Cat”, non è certamente fedele al famoso racconto di Edgar Allan Poe. Fulci, nella sceneggiatura scritta assieme a Biagio Proietti, modifica totalmente l′assunto di partenza del racconto di Poe, realizzando un soggetto molto differente dalla novella originale.
Le atmosfere che si respirano, grazie anche alla bella fotografia di Sergio Salvati (operatore che, in questo periodo, costantemente segue il regista), sono cupe e la tensione viene mantenuta per l′intera durata del film. Tensione che, va detto, non è troppo incisiva ed è molto lontana da quella delle altre pellicole realizzate nel medesimo periodo .
Le musiche, a cura di Pino Donaggio, donano la giusta atmosfera ed aiutano lo spettatore a seguire piacevolmente il film che ha un ritmo, tutto sommato, piuttosto lento.
Non è sicuramente la miglior produzione di Fulci, in quanto alcuni dialoghi appaiono poco curati, alcune scene a volte sono inutili, e complessivamente alcuni momenti del film smorzano le potenzialità della sceneggiatura.
Di questo film è azzeccata la presenza del gatto (come istigatore dell′ assassino), all′apparenza dolce, ma causa di omicidi spietati e angosciosi, tutti accompagnati dal suo elegante passo felpato.
La visione è consigliata a chi ama il giallo anni ′80, abbastanza violento, ma che non tocca vertici estremi di splatter.
Mi sposai giovane, e fui felice di trovare in mia moglie una indole congeniale
alla mia. Osservando la mia predilezione per gli animali domestici, non perdeva
occasione di procurarmi quelli delle specie più piacevoli. Avevamo uccelli, pesci
dorati, un bellissimo cane, conigli, una scimmietta e un gatto.
Quest’ultimo era un animale eccezionalmente forte e bello, tutto nero, e
straordinariamente sagace. Quando parlava della sua intelligenza, mia moglie, che
in cuor suo era non poco imbevuta di superstizione, alludeva spesso all’antica
credenza popolare che considerava tutti i gatti neri streghe travestite. Non che ne
parlasse seriamente: se accenno alla cosa, è solo perché proprio ora mi è capitato di
rammentarmene.
Pluto ‐ era questo il nome del gatto ‐ era il mio beniamino, il mio compagno di
giochi. Io solo gli davo da mangiare, e in casa lui mi seguiva dovunque andassi, Anzi,
a fatica riuscivo a impedirgli di accompagnarmi per la strada.
La nostra amicizia durò a questo modo per parecchi anni, durante i quali il
mio temperamento, il mio carattere (arrossisco a confessarlo) avevano subìto, ad
opera del demone dell’Intemperanza, un radicale peggioramento. Giorno dopo
giorno divenni più lunatico, più irritabile, più indifferente ai sentimenti altrui. Mi
lasciai andare al punto di usare con mia moglie un linguaggio brutale. Alla fine,
arrivai anche a picchiarla. I miei animali, naturalmente, risentirono di questo
mutamento d’umore. Non solo li trascurai, ma li maltrattai. Per Pluto, tuttavia,
conservavo ancora quel tanto di riguardo che bastava a impedirmi di malmenarlo
come, senza scrupolo alcuno, malmenavo i conigli, la scimmia o anche il cane,
quando per caso o per affetto mi venivano tra i piedi. Ma la mia malattia mi
divorava sempre più (e quale malattia è paragonabile all’alcool?), e alla fine anche
Pluto, che si faceva vecchio e di conseguenza un po’ fastidioso anche Pluto cominciò
a provare gli effetti del mio malumore.
Una notte, tornando a casa, ubriaco fradicio, da uno dei ritrovi che
frequentavo in città, ebbi l’impressione che il gatto evitasse la mia presenza. Lo
afferrai; e allora, impaurito dalla mia violenza, coi denti mi ferì lievemente alla
mano. Subito la furia di un demone si impadronì di me. Non mi conoscevo più.
2
Sembrava che di colpo la mia anima originaria fosse fuggita via dal mio corpo; e
una malignità più che diabolica, alimentata dal gin, eccitava ogni fibra del mio
essere. Trassi dal taschino del panciotto un temperino, lo aprii, afferrai la povera
bestia per la gola, e deliberatamente con la lama le cavai un occhio dall’orbita!
Arrossisco, brucio, rabbrividisco nello scrivere di quest’infame atrocità.
Quando, al mattino, ritornò la ragione ‐svaporati nel sonno i fumi dell’orgia
notturna ‐ provai un sentimento in parte d’orrore, in parte di rimorso per il delitto
di cui m’ero reso colpevole; ma era tutt’al più un sentimento debole ed equivoco, e
l’anima non ne fu toccata. Di nuovo mi diedi agli stravizi, e ben presto affogai nel
vino ogni ricordo del mio atto.
Nel frattempo, il gatto lentamente guarì. L’orbita dell’occhio perduto era, è
vero, spaventosa a vedersi, ma pareva che non ne soffrisse più. Girava per la casa
come al solito ma, come ben mi potevo aspettare, fuggiva in preda al terrore
ogniqualvolta mi avvicinavo. Tanto m’era rimasto ancora del mio vecchio cuore,
che dapprincipio mi afflisse quell’evidente ripugnanza da parte di una creatura che
una volta mi aveva tanto amato. Ma a questo sentimento subentrò ben presto
l’irritazione. E poi, a mia definitiva e irrevocabile rovina, sopraggiunse lo spirito
della PERVERSITÀ. Di tale spirito la filosofia non tiene conto. E tuttavia, così come
sono certo che la mia anima vive, sono certo che la perversità è uno degli impulsi
primitivi del cuore umano, una delle indivisibili facoltà primarie, o sentimenti, che
danno un indirizzo al carattere dell’Uomo. Chi non si è sorpreso cento volte
nell’atto di commettere un’azione spregevole o stolta per la sola ragione che sapeva
di non doverla commettere? Non abbiamo forse, a dispetto del nostro miglior
consiglio, una perpetua inclinazione a violare ciò che è Legge, solo perché la
riconosciamo come tale? A mia definitiva rovina, ripeto, sopraggiunse questo
spirito di perversità. Fu questa insondabile brama dell’anima di tormentare se
stessa, di far violenza alla propria natura, di fare il male per puro amore del male,
che mi spinse a continuare e infine a consumare l’offesa che avevo inflitto
all’inoffensiva bestiola. Una mattina, a sangue freddo, le infilai un cappio al collo e
la appesi al ramo d’un albero; l’impiccai con gli occhi colmi di lacrime e col più
amaro rimorso nel cuore; l’impiccai perché sapevo che mi aveva amato, e perché
sentivo che non mi aveva dato ragione alcuna per farle del male; l’impiccai perché
sapevo che così facendo commettevo un peccato, un peccato mortale che avrebbe
3
compromesso la mia anima immortale al punto da porla ‐ se ciò fosse possibile ‐ al
di là della misericordia senza fine di un Dio infinitamente pietoso e terribile.
La notte che seguì il giorno in cui fu commesso quell’atto crudele, mi destò
dal sonno il grido «Al fuoco!». Le cortine del mio letto erano in fiamme. Tutta la
casa ardeva. Con grande difficoltà sfuggimmo all’incendio: mia moglie, un
domestico, e io. La distruzione fu completa. Tutte le mie ricchezze terrene vennero
divorate dal fuoco, e da allora mi abbandonai alla disperazione.
Non cerco di stabilire un rapporto di causa ed effetto tra il sinistro e l’atrocità:
sono superiore a queste debolezze. Ma ora sto descrivendo una catena di eventi, e
non voglio che nessun anello risulti imperfetto. All’indomani dell’incendio,
ispezionai le rovine. Con una sola eccezione, i muri erano crollati. L’eccezione
riguardava un muro divisorio, non molto spesso, che stava, più o meno, nel mezzo
della casa, e contro il quale prima poggiava la testata del mio letto. Qui l’intonaco
aveva resistito in gran parte all’azione del fuoco, giacché ‐ a questo attribuii il fatto
‐ era stato steso di recente. Intorno a questo muro si era raccolta una fitta folla, e
molte persone sembravano esaminare una certa parte con minuziosa e viva
attenzione. Le parole «strano!» «singolare!» e altre espressioni analoghe destarono
la mia curiosità. Mi avvicinai e vidi, come scolpita a bassorilievo sulla superficie
bianca, la figura di un gigantesco gatto. L’immagine era resa con stupefacente
esattezza. Intorno al collo dell’animale, c’era una corda.
Dapprima, al vedere questa apparizione ‐ poiché non potevo considerarla che
tale ‐ estremo fu il mio stupore, e il mio terrore. Ma infine mi soccorse la riflessione.
Il gatto, ricordavo, era stato impiccato in un giardino adiacente alla casa.
All’allarme dell’incendio, il giardino era stato subito invaso dalla folla, e qualcuno
doveva aver staccato l’animale dall’albero per gettarlo, attraverso una finestra
aperta, in camera mia. Ciò, probabilmente, allo scopo di destarmi dal sonno. Il
crollo degli altri muri aveva compresso la vittima della mia crudeltà dentro la
sostanza dell’intonaco fresco; poi la calce e l’azione combinata delle fiamme e
dell’ammoniaca della carogna avevano creato l’immagine così come ora la vedevo.
Sebbene in tal modo tranquillizzassi prontamente la mia ragione, se non
proprio la mia coscienza, a proposito del fatto strabiliante testé descritto, esso non
mancò di fare un’impressione profonda sulla mia fantasia. Per mesi e mesi non
potei liberarmi dal fantasma del gatto; e in questo periodo si insinuò nuovamente
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nel mio spirito un vago sentimento che sembrava, ma non era, rimorso. Giunsi a
rimpiangere la perdita dell’animale e a guardarmi intorno, nelle miserabili bettole
che ora abitualmente frequentavo, in cerca di un altro gatto della medesima razza
da tenere al posto dell’altro.
Una notte, mentre sedevo semistordito in un covo peggio che infame, la mia
attenzione fu improvvisamente attratta da qualcosa di nero che stava in cima a una
delle gigantesche botti di gin, o rum che fosse, che costituivano il principale
arredamento del locale. Da qualche minuto fissavo il coperchio della botte, e ciò che
ora mi sorprese fu di non aver notato prima quel qualcosa che vi stava sopra. Mi
avvicinai e lo sfiorai con la mano. Era un gatto nero, un bel gatto grosso: grosso
quasi come Pluto, e a lui somigliantissimo, tranne per un particolare. Su tutto il
corpo, Pluto non aveva un solo pelo bianco; questo gatto, invece, aveva una larga,
sebbene indefinita, chiazza bianca che gli copriva il petto quasi per intero.
Non appena lo toccai, si alzò, prese a farmi le fusa, mi si strofinò contro la
mano, e parve tutto contento della mia attenzione. Era proprio questa, dunque, la
creatura che andavo cercando. Subito proposi al padrone del locale di acquistarlo;
ma costui non ne rivendicò la proprietà non ne sapeva nulla ‐ non l’aveva mai visto
prima di allora.
Continuavo ad accarezzarlo, e quando mi accinsi a rincasare, l’animale si
mostrò desideroso di accompagnarmi. Acconsentii, e per la strada di tanto in tanto
mi chinavo a fargli una carezza. Una volta a casa, si ambientò immediatamente, e
subito divenne il beniamino di mia moglie.
Per parte mia, ben presto sentii nascere dentro di me una viva antipatia nei
suoi confronti. Era proprio il contrario di quel che avevo previsto; ma ‐ non so
come e perché avvenisse ‐ il suo evidente affetto per me non faceva che
disturbarmi e irritarmi. A poco a poco questi sentimenti, disgusto e fastidio,
crebbero fino a mutarsi nell’asprezza e nell’odio. Evitavo quell’animale; tuttavia un
certo senso di vergogna e il ricordo del mio precedente atto di crudeltà mi
impedivano di fargli del male. Per qualche settimana, non lo colpii né gli arrecai in
altro modo violenza; ma gradualmente, insensibilmente, presi a guardarlo con
inesprimibile ribrezzo e a rifuggirne in silenzio l’odiosa presenza, come un fiato di
peste.
Ciò che senza dubbio contribuì ad accrescere la mia avversione per l’animale
fu la scoperta, la mattina dopo che l’ebbi portato a casa, che, come a Pluto, anche a
lui era stato cavato un occhio. Tale circostanza, tuttavia, non fece che renderlo più
caro a mia moglie, la quale, come ho già detto, possedeva in alto grado quell’
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umanità di sentimenti che era stata un tempo il mio tratto caratteristico e la fonte
dei miei piaceri più semplici e puri.
Ma come cresceva la mia avversione per questo gatto, sembrava aumentare
la sua predilezione per me. Seguiva i miei passi con un’insistenza che mi sarebbe
difficile far comprendere al lettore. Ogniqualvolta mi sedevo, si accoccolava sotto
alla mia seggiola o mi saltava sulle ginocchia, coprendomi delle sue repulsive
carezze. Se mi alzavo per camminare, mi si metteva tra i piedi, e quasi mi faceva
cadere; oppure, afferrandosi ai miei vestiti con le unghie lunghe e aguzze, mi si
arrampicava in questo modo fino al petto. In questi momenti, sebbene avessi voglia
di finirlo con un sol colpo, mi trattenevo dal farlo, in parte per il ricordo di quel mio
primo delitto, ma soprattutto ‐ voglio confessarlo, subito ‐ per il mio assoluto
terrore della bestia.
Non era proprio terrore del male fisico: e tuttavia non saprei come definirlo
altrimenti. Quasi mi vergogno di ammettere ‐ sì, anche in questa cella di criminale ‐
che il terrore e l’orrore suscitati in me dall’animale erano stati esasperati da una
delle più assurde chimere che sia dato immaginare. Più di una volta mia moglie
aveva richiamato la mia attenzione sull’aspetto della chiazza di peli bianchi di cui
ho parlato, e che costituiva l’unica differenza visibile tra la strana bestia e l’altra
che avevo ucciso. Il lettore ricorderà che questa chiazza, sebbene larga, era
all’inizio del tutto indefinita. Ma lentamente, così lentamente che per lungo tempo
la mia ragione lottò contro quella che sembrava pura fantasia, aveva finito per
assumere una rigorosa nitidezza di contorni. Era adesso l’immagine di un oggetto
che rabbrividisco a nominare ‐ e per questo soprattutto provavo ripugnanza e
terrore, e avrei voluto sbarazzarmi di quel mostro se avessi osato era
adesso, dico,
l’immagine di una cosa orrida, di una cosa sinistra: la FORCA! Oh, luttuosa e
terribile macchina dell’orrore e del delitto, dell’agonia e della morte!
E adesso ero davvero disperato, al di là d’ogni possibile disperazione umana.
E che un animale, un bruto, il cui simile avevo disprezzato e ucciso ‐ che un animale,
un bruto, infliggesse a me ‐ a me, uomo fatto a immagine di Dio, così grande e
intollerabile miseria! Ahimè! né di giorno né di notte conobbi più la benedizione del
riposo! Durante il giorno, l’animale non mi lasciava solo un istante; e durante la
notte mi destavo di soprassalto, ogni ora, da sogni di indicibile paura, per trovare
sulla mia faccia il fiato caldo della cosa e il suo peso immane ‐ incubo incarnato che
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non avevo la forza di scuotermi di dosso, e sempre, sempre gravava sul mio cuore!
Sotto l’oppressione continua di tormenti come questi, l’esiguo residuo di
bene che era in me finì col soccombere. Pensieri malvagi ‐ i pensieri più tenebrosi e
malvagi ‐ divennero i miei soli, assidui compagni. Il mio abituale umor tetro si
accentuò fino a mutarsi in odio di tutto e di tutta l’umanità; mentre dei subiti,
frequenti e incontrollabili accessi di una furia alla quale ora ciecamente mi
abbandonavo, mia moglie, che mai si lamentava, era, ahimè, la vittima più consueta
e paziente.
Un giorno mi accompagnò, per qualche faccenda domestica, nella cantina del
vecchio edificio che la povertà ci costringeva ad abitare. Il gatto mi seguì per i ripidi
gradini e, avendomi quasi fatto cadere a testa ingiù, mi esasperò alla follia.
Brandendo un’ascia, e dimenticando nella mia furia il puerile timore che fino a quel
momento aveva frenato la mia mano, vibrai all’animale un colpo che, se fosse calato
come volevo, gli sarebbe certo riuscito fatale. Ma il colpo fu arrestato dalla mano di
mia moglie. Questo suo intervento scatenò in me una rabbia più che demoniaca:
liberai il braccio dalla sua presa e le affondai l’ascia nel cervello. Cadde morta
all’istante, senza un gemito.
Compiuto questo orrendo assassinio, subito, e in piena lucidità, mi disposi a
occultare il cadavere. Sapevo di non poterlo trasportare fuori della casa, né di
giorno né di notte, senza correre il rischio di essere osservato dai vicini. Presi in
considerazione molti piani. A un certo punto, pensai di tagliare il cadavere in
minuti frammenti e di distruggerli col fuoco. Poi decisi di scavargli una fossa nel
pavimento della cantina. Poi, ancora, esaminai la possibilità di imballarlo in una
cassa come fosse una merce qualsiasi, con le solite formalità, e di farlo portar via da
un facchino. Infine, trovai un espediente che mi parve migliore di questi. Decisi di
murarlo nella cantina, come si tramanda che nel medioevo i monaci murassero le
loro vittime.
A tale scopo la cantina era quanto mai adatta. I muri erano poco compatti, e
di recente erano stati ricoperti per intero di un ruvido intonaco che a causa
dell’umidità dell’atmosfera non aveva potuto indurirsi. Inoltre, in uno dei muri
c’era una sporgenza, dovuta a un falso camino o focolare, che era stata riempita
così da non presentare differenze rispetto al resto della cantina. Non avevo dubbi
di potere agevolmente rimuovere i mattoni in quel punto per poi introdurvi il
cadavere e murare tutto come prima così che nessun occhio scoprisse alcunché di
sospetto.
E in questo mio calcolo non mi sbagliai. Con una grossa leva di ferro spostai i
mattoni con tutta facilità e, collocato con cura il corpo contro la parete interna, lo
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puntellai in quella posizione; poi, con poca fatica, rifeci l’ammattonato così come
era prima. Mi procurai calcina, sabbia e setole e, usando ogni possibile precauzione,
preparai un intonaco che non era possibile distinguere dal vecchio e lo stesi
accuratamente sul muro nuovo. Quando ebbi finito, constatai soddisfatto che tutto
era a posto. Non v’era segno nel muro che esso fosse stato manomesso. Con la
massima cura rimossi da terra i calcinacci. Mi guardai attorno trionfante, e mi dissi:
«Qui, almeno, non ho lavorato invano».
Il passo successivo fu di cercare la bestia che era stata la causa di tanta
sciagura: poiché infine ero fermamente deciso a metterla a morte. Se mi fosse
riuscito di trovarla allora, sul suo destino non avrebbero potuto esservi dubbi; ma,
a quel che pareva, lo scaltro animale, allarmato dalla violenza della mia collera
recente, si guardava bene dal mostrarmisinell’umore in cui mi trovavo. È
impossibile descrivere, o immaginare, la profonda, beata sensazione di sollievo che
l’assenza dell’aborrito animale fece nascere in me. Non comparve durante la notte,
e così, per una notte almeno da che m’era entrato in casa, dormii d’un sonno
profondo e tranquillo; sì, dormii, pur col peso dell’assassinio sull’anima!
Passò il secondo giorno, il terzo, e ancora il mio tormentatore non si vedeva.
Di nuovo respirai come un uomo libero. Il mostro, atterrito, era fuggito per sempre
dalla mia casa! Non l’avrei veduto mai più! Ero al colmo della felicità! Ben poco mi
turbava la colpa della mia azione delittuosa. V’erano state indagini, ma le mie
pronte risposte le avevano sviate. Si era proceduto anche a una perquisizione, ma
non si era scoperto nulla, naturalmente. Guardavo alla mia felicità futura come a
una certezza assoluta.
Il quarto giorno dopo l’assassinio, del tutto inaspettatamente, si
presentarono in casa mia alcuni agenti di polizia e procedettero a un nuovo,
minuzioso esame dell’edificio. Ma, sicuro com’ero dell’irreperibilità del mio
nascondiglio, non provai il minimo imbarazzo. Gli agenti mi ordinarono di
accompagnarli nella perquisizione. Non lasciarono inesplorato nessun angolo,
nessun recesso. Alla fine, per la terza o quarta volta, scesero in cantina. Non mi
tremava un muscolo. Il cuore mi batteva calmo come quello di chi dorma un sonno
innocente. Percorsi la cantina da un capo all’altro. Camminai avanti e indietro con
fare disinvolto, le braccia conserte. Quelli della polizia erano pienamente
soddisfatti e si disponevano ad andarsene. L’esultanza del mio cuore era troppo
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forte perché potessi frenarla. Smaniavo dalla voglia di dire una parola, una sola, in
segno di trionfo, e rendere doppiamente certa la loro certezza della mia innocenza.
«Signori», dissi alla fine, mentre il gruppo risaliva le scale, «sono lieto di aver
placato i vostri sospetti. Auguro a tutti voi buona salute, e un po’ più di cortesia. Tra
parentesi, signori miei, questa è una casa molto ben costruita» (nella smania di
parlare con disinvoltura, quasi non sapevo quel che mi usciva di bocca), «potrei
anzi dire costruita in modo eccellente. Questi muri ‐ ve ne andate, signori? ‐ questi
muri sono solidamente fabbricati»; e qui, da nient’altro spinto che dal desiderio
frenetico di fare una bravata, picchiai forte con un bastone che tenevo in mano
proprio su quella parte dell’ammattonato dietro al quale stava il cadavere della mia
diletta sposa.
Ma possa Dio proteggermi e salvarmi dalle zanne del Grande Nemico! Non
appena l’eco dei miei colpi si smorzò nel silenzio, mi rispose una voce dall’interno
della tomba! Un lamento, dapprima soffocato e rotto come un singhiozzo di un
bimbo, e che in breve salì di tono, divenne un grido lungo, altissimo, ininterrotto,
assolutamente innaturale, disumano: un ululato, uno strido lamentoso, metà
d’orrore e metà di trionfo, quale avrebbe potuto levarsi solo dall’inferno, dalle gole
dei dannati nelle loro torture, e insieme dalle gole dei demoni che esultano nella
dannazione.
Dei miei pensieri è follia parlare. Mi sentii mancare, barcollai verso il muro opposto.
Per un istante, gli uomini sulle scale restarono immobili: attoniti, atterriti. Un
istante dopo, una dozzina di solide braccia lavoravano al muro. Cadde di schianto. Il
cadavere, già putrefatto in gran parte e imbrattato di grumi di sangue, apparve,
ritto in piedi, agli occhi degli spettatori. Sulla sua testa, la bocca rossa spalancata e
l’unico occhio di fiamma, stava appollaiata la bestia orrenda, le cui arti mi avevano
sedotto all’assassinio, e la cui voce accusatrice mi consegnava al boia. Avevo
murato il mostro dentro la tomba!
Da: Edgar Allan Poe, I racconti del terrore
Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio
Commedia all’italiana del 1983 diretta da Sergio Martino e strutturata in due episodi.
Il primo, Il pelo della disgrazia, narra le vicissitudini di Altomare Secca (Lino Banfi) che ha problemi di vario ordine, sia sul lavoro dove ha come collaboratrice una ragazza svampita, sia a casa con una moglie che vive in pratica incollata alla tv divorando quantità industriali di telenovelas e con una figlia fidanzata ad un giovane a metà strada tra il punk e il lavativo.
Le cose per Altomare sembrano andare malissimo, ma subiscono un’ulteriore accelerazione verso il peggio quando viene a stabilirsi nell’appartamento di fronte al suo Corinto Marchialla, un distinto signore sulla sessantina con una moglie splendida, Ludovica.
Lino Banfi con Dagmar Lassander…
Il superstizioso Altomare, a cui capitano ormai disavventure come al biblico Giobbe, attribuisce le disgrazie al nuovo venuto; sarà un mago a predire all’uomo la fine dei suoi guai se riuscirà ad estirpare al malefico vicino un pelo che l’uomo ha sul petto.
Da quel momento iniziano una serie di divertenti vicissitudini per Altomare, che è anche oggetto di attenzioni dalla splendida Ludovica: l’uomo rinunecrà ad un appunamento galante pur di poter togliere il pelo famoso dal petto di Corinto.
Ci riuscirà alla fine, rasando completamente il petto dello sfortunato Corinto che non è affatto la causa delle disgrazie di Altomare.
Infatti, come scoprirà con costernazione, la responsabile di tutto è la domestica di casa Secca, una praticante ridi voodoo…
Paola Borboni
Il secondo episodio, Il mago, vede protagonista uno scalcinato maghetto di periferia, Gaspare Canestrari, che per sopravvivere mette in scena spettacoli indecorosi.
L’uomo è talmente mal ridotto da dover accettare ospitalità dalla sua fidanzata e da suo cognato, ma le cose per lui cambiano un giorno mentre sta passando sotto il balcone della Marchesa De Querceto.
Anna Kanakis e Johnny Dorelli
La donna, molto anziana, attratta dalla sua voce lo fa entrare nella sua stanza da letto, dove fa bere a Gaspare una pozione che a suo dire lo trasformerà in un mago potentissimo in cambio di un semplice gelato al pistacchio.
Lo scettico Gaspare ben presto deve ricredersi, perchè si trasforma in un autentico mago capace di vari prodigi.
Il sortilegio tuttavia svanirà per incanto alla morte della Marchesa; preso dalla sua fama e dal successo Gaspare ha dimenticato di comprare il famoso gelato e i suoi poteri svaniscono nel momento peggiore, durante una diretta tv nella quale si appresta a sfidare il mago Silvan…
Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio è una commedia di sufficiente livello, con due episodi però molto diseguali come ritmo e divertimento. Se il primo, Il pelo della disgrazia vede protagonista un irresistibile Lino Banfi, autentico alfiere di un certo tipo di comicità in bilico tra una dose tollerabile di volgarità e una maschera espressiva di consumata abilità, il secondo vede protagonista un Johnny Dorelli poco ispirato e molto a disagio con una storia peraltro confezionata in fretta e furia.
Milena Vukotic
Nel primo episodio sono esilaranti le varie vicissitudini del povero Altomare, che sembra calamitare attorno a se tutte le negatività possibili e immaginabili; come non restare attoniti per esempio di fronte alle mancate avventure con due donne del calibro di Janet Agren e Dagmar Lassander? Oppure come restare indifferenti di fronte alla reazione di Corinto-Mario Scaccia che si risveglia con il torace completamente rasato da Altomare, alla ricerca del pelo maledetto?
A ciò si aggiunga anche la presenza di ottimi comprimari come le citate Lassander e Agren, oltre alla sempre bravissima Milena Vukotic e a quella della simpatica salentina Gegia.
Menzione d’onore per Mario Scaccia, grandissimo attore di teatro che si diverte un mondo nel ruolo del luciferino Corinto, in realtà assolutamente innocente dall’accusa di essere un menagramo.
L’episodio con protagonista Dorelli ha qualche momento ilare, per merito della grande Paola Borboni che bestemmia come un carrettiere e che caratterizza da par suo il personaggio della Marchesa.
Bello anche lo schetch con protagonista una giovane Anna Kanakis nei panni di una donna che quando bacia o ha rapporti sessuali emana fortissime scariche elettriche.
Film da serata di svago che può valere una visione.
Occhio malocchio prezzemolo e finocchio, un film di Sergio Martino. Con Janet Agren, Johnny Dorelli, Lino Banfi ,Milena Vukotic, Dagmar Lassander,Anna Kanakis, Renzo Montagnani, Paola Borboni,Mario Scaccia Adriana Russo.Commedia, durata 119 min. – Italia
Episodio 1, Il pelo della disgrazia
Lino Banfi: Altomare Secca
Milena Vukotic: Giovanna Secca
Janet Agren: Helen
Gegia: Mariella Secca
Elisa Kadigia Bove: Jenny, la governante
Dagmar Lassander: Ludovica Marchialla
Mario Scaccia: Corinto Marchialla
Luigi Costa Uzzo: Il Commissario
Bruno Rosa: Bruno. il commesso
Franco Javarone: il Re dell’Occulto
Andrea Azzarito: Carluccio
Jessica Leri: Commessa negozio
Dino Cassio: Ispettore torinese
Episodio 2, Il mago
Johnny Dorelli: Il Mago Gaspar
Paola Borboni: Marchesa De Querceto
Mario Brega: Alberigo
Franco Solfiti: Presentatore gara dei maghi
Ugo Bologna: Commendatore Raggiotti
Nicoletta Pietrasanti: Aiutante mago
Renzo Montagnani: Cavaliere Aldovrandi
Roberto Della Casa: un cliente del Mago
Silvan: sé stesso
Adriana Russo: la moglie di Gaspar
Anna Kanakis: una cliente del Mago
Calogero Caruana: Provocatore del Mago
Luigi Leoni:Artemio
Regia Sergio Martino
Soggetto Franco Bucceri, Romolo Guerrini, Roberto Leoni, Franco Verrucci
Sceneggiatura Mario Amendola, Franco Bucceri, Bruno Corbucci, Romolo Guerrini, Roberto Leoni, Sergio Martino, Franco Verrucci
Fotografia Giancarlo Ferrando
Montaggio Eugenio Alabiso
Musiche Guido De Angelis, Maurizio De Angelis
L’adolescente (di Alfonso Brescia)
Vito e Grazia, due siciliani, hanno in comune un obiettivo, sposarsi.
L’uomo perchè mira a trovare una donna possibilmente facoltosa, la donna perchè costretta dal padre a lavorare nella farmacia di famiglia senza possibilità di vivere la propria vita.
Così fatalmente Vito rivolge le sue attenzioni proprio sulla donna, che naturalmente accetta la corte dell’uomo, anche perchè legata ad un uomo sposato; Grazia spera così di essere libera di poter frequentare il suo amante.
Una splendida Daniela Giordano è Grazia
Dopo un incontro compromettente in un albergo,organizzato furbescamente dalla donna e conclusosi con uno scandalo (la donna esce completamente nuda per i corridoi dell’albergo) Vito è “costretto” a sposare Grazia , dopo che Don Salvatore,il padre, muore per un attacco cardiaco quando la donna racconta la sua avventura.
I novelli sposi così prendono a vivere insieme, ma lo sventurato Vito scopre ben presto che la moglie non ha alcuna intenzione di consumare il matrimonio, adducendo la scusa del trauma subito alla morte del padre.
Tuttavia i due riescono a trovare un modus vivendi accettabile; mentre Vito si consola con la bella segretaria del suocero, Grazia riprende la sua relazione con l’amante.
Un giorno,a casa dei due coniugi, arriva la nipote di Grazia, la bella Serenella.
Vito si ritrova così in casa un’autentica lolita che con molta malizia lo provoca in continuazione; la ragazza ha però un obiettivo ben preciso, ovvero scatenare uno scandalo in cui vengano coinvolti i due coniugi, in modo da poter ereditare i beni del defunto Don Salvatore.
Con delle manovre furbissime, la ragazza riesce a coinvolgere in uno scandalo i due coniugi, in un finale in cui tutti i protagonisti si ritrovano faccia a faccia, per la resa dei conti.
Al povero Vito non resta altro da fare che lasciare con le pive nel sacco la moglie e la casa in cui viveva.
L’adolescente, per la regia di Alfonso Brescia, è una commedia sexy del 1976, inquadrabile nel filone “parentale”, quello per intenderci a cui appartengono film come Peccati in famiglia, La nipote, Grazie nonna ecc.Un film senza nessuna dote particolare eccezion fatta per il cast di buon livello che vi partecipa; si va dalla splendida Daniela Giordano, che interpreta Grazia alla nipotina Sonia Viviani, volto d’angelo su corpo da peccatrice, che dà corpo al personaggio di Serenella, l’adolescente furba come una volpe; ancora, in un ruolo marginale, Dagmar Lassander, la segretaria del vecchio farmacista, Tuccio Musumeci, che interpreta lo scalognato Vito e infine Aldo Giuffrè, il maresciallo dei carabinieri del paese “dove non succede mai niente”e infine Malisa Longo, quasi irriconoscibile, nel ruolo della dottoressa femminista e lesbica Frau Marlene.
Basato su una trama scontatissima,L’adolescente gioca tutte le sue carte sulla presenza scenica delle belle protagoniste, nude quanto basta per dare un tocco di erotismo ad una vicenda senza alcun mordente o interesse.
Brescia, nelle cui corde sicuramente non c’era la commedia brillante, fatica non poco a dare interesse al film, che scivola malinconicamente tra battute scontate e situazioni già viste molte volte.
In sostanza, una commedia quasi indistinguibile dalla marea di altri prodotti che popolarono gli schermi negli anni settanta.
L’adolescente, un film di Alfonso Brescia. Con Tuccio Musumeci, Daniela Giordano , Sonia Viviani, Dagmar Lassander,Aldo Giuffré, Giacomo Furia, Malisa Longo, Maria Bosco
Commedia, durata 92 min. – Italia 1976.
Tuccio Musumeci -Vito Gnaula
Daniela Giordano- Grazia Serritella
Sonia Viviani-Serenella
Marcello Martana -Appuntato Bragadin
Giacomo Furia-Il notaio
Raffaele Sparanero -Antonio
Franca Scagnetti -Carmeluzza
Malisa Longo-Frau Marlene
Dagmar Lassander-Katia Solvj
Aldo Giuffrè-Maresciallo dei carabinieri
Regia: Alfonso Brescia
Sceneggiatura:Alfonso Brescia, Aldo Crudo,Aldo Crudo,Piero Regnoli
Musiche:Alessandro Alessandroni
Fotografia:Silvio Fraschetti
Montaggio:Liliana Serra
Art Direction:Mimmo Scavia
Curiosa commediaccia Anni Settanta, che alterna cose basse a cose non disprezzabili. Notevoli Musumeci e la stupenda Daniela Giordano (mai vista così brava), leziosa la Viviani, diabolicamente angelica. Ruolo cospicuo per la Scagnetti e apparizione per Giacomo Furia! Finché il film ha una sua originalità (i primi 30’) pare pure fresco, poi cala molto, perdendosi in ampie parentesi che paiono destinate solo al metraggio (nel duetto Giuffrè-Musumeci si notano la bravura dei due e la sostanziale inutilità del siparietto) e in deus ex machina assai improbabili. Guardabile.
È inutile girarci intorno: il soggetto viene dal celebre libro di Nabokov (forse più che dal film diretto da Kubrick), ma la sceneggiatura è firmata da Piero Regnoli e la regia da Alfonso Brescia con conseguenze non trascurabili sul piano dei contenuti, privati di ogni stimolo riflessivo. Per fortuna c’è Sonia Viviani (all’epoca appena maggiorenne), Serenella di nome e di fatto, attorniata da caratteristi di classe e da altre due notevoli bellezze (Malisa Longo e Dagmar Lassander). A patto di scollegare il cervello, ci si diverte parecchio.
Film curioso che punta tutto sulla bellissima Sonia Viviani (sfruttata poco dal nostro cinema a mio parere), allora diciottenne. Trama particolare, non è certamente un capolavoro ma non mi sento di stroncarlo. Contando poi la qualità delle commedie sexy di quegli anni… diciamo che una sufficienza piena ci sta.
Peccati di gioventù
La bella Angela, figlia di un industriale rimasto vedovo, apprende con sgomento che il padre intende risposarsi con Irene; preoccupata dall’idea di ritrovarsi in casa una matrigna e contemporaneamente di dover rinunciare alla libertà di cui gode, inizia delle indagini sul passato della donna. Scopre così che Irene ha avuto una relazione saffica con una donna, che, travolta dallo scandalo seguito alla vicenda, scelse di suicidarsi.
Nonostante Irene le mostri simpatia e voglia di comunicare con lei, Angela ricorre ad un meschino espediente per allontanare la donna da suo padre. Organizza con l’amico/amante Sandro un tranello in cui far cadere la fragile Irene. La circuisce; forte del suo indiscutibile fascino. Ha con lei un incontro saffico su una spiaggia, ripreso fedelmente da Sandro, esperto di fotografia, con una potente macchina fotografica.
Nel frattempo l’atteggiamento di Angela cambia, ma è troppo tardi; Sandro, in difficoltà economiche, tenta un ricatto ai danni della sventurata Irene, che per la vergogna fugge in auto sulla costa.
L’evento avrà una conclusione tragica; l’auto sulla quale è Irene finisce giù per una scarpata, schiantandosi sugli scogli. Ad Angela, che ha tentato disperatamente di raggiungerla, non resta altro che osservare, con il volto pieno di lacrime, la terribile scena, proprio mentre si scatena un temporale estivo.
Silvio Amadio, regista del film datato 1975, torna a dirigere Gloria Guida in questo film che chiude un trittico dedicato alla “minorenne” attrice, protagonista del discreto Quell’età maliziosa (anch’esso contraddistinto da un finale tragico) girato nel 1974 e seguito da La minorenne del 1975.
La trama, venata di drammaticità, è ovviamente condita dagli immancabili nudi dell’attrice di Merano, che per una volta tenta la strada del film drammatico; il risultato è un prodotto passabile, un film in cui c’è un minimo di tensione e c’è una trama quasi convincente.
Girato in uno splendido scenario naturale, quello della Sardegna, il film mostra una buona fotografia, un cast tutto sommato all’altezza, in cui spicca la bella e malinconica Dagmar Lassander, la Irene che finirà tragicamente i suoi giorni dopo la scoperta che la figliastra ha partecipato ad un tentativo per ricattarla e anche per la vergogna di essere pubblicamente additata come lesbica.
Nel cast c’è anche Silvano Tranquilli, che fa il suo per i pochi minuti in cui è in scena; la parte del cattivo è affidata a Fred Robsham, più famoso per essere stato il marito dell’attrice Agostina Belli (conosciuta sul set della Sepolta viva) che per effettive doti artistiche personali.
L’attore è davvero la nota stonata del film; legnoso, inespressivo, toglie parte del fascino morboso del suo personaggio non sapendo esprimere altro che un volto sempre monocorde per tutta la durata del film.
Per quanto riguarda la Guida, va detto che il cinema drammatico non era nelle sue corde, nonostante la buona volontà che l’attrice mette nel dare consistenza al suo personaggio.
Tuttavia non scende sotto la sufficienza, e tanto basta.
Bene invece la Lassander, che da spessore al personaggio di Irene, la donna già provata tragicamente in passato e che si ritrova a scontare quel peccato di gioventù solo per aver accettato di sposare l’uomo che ama.
Il volto dell’attrice mostra mobilità, capacità di passare dal sorriso all’espressione triste, dalla “normalità” alla “straordinarietà”
Per quanto riguarda il resto, il film regge discretamente; il regista escogita anche un buon espediente per illustrare il rapporto saffico tra Irene e Angela, ricorrendo all’utilizzo di una serie di foto (in bianco e nero rigoroso) che saranno poi utilizzate dal viscido Sandro per il ricatto ai danni di Irene.
Un film dignitoso, che raggiunge la sufficienza; generalmente viene catalogato e liquidato sbrigativamente come classico esempio di commedia sexy, ma in realtà il film ha dei toni di drammaticità che con la commedia sexy hanno ben poco a che fare.
Peccati di gioventù, un film di Silvio Amadio. Con Dagmar Lassander, Gloria Guida, Silvano Tranquilli, Fred Robsham Drammatico, durata 90 min. – Italia 1975.
Gloria Guida è Angela Batrucchi
Dagmar Lassander è rene
Fred Robsahm è Sandro Romagnoli
Silvano Tranquilli Il Dottor Batrucchi , padre di Angela
Regia: Silvio Amadio
Sceneggiatura: Silvio Amadio,Roberto Natale
Prodotto da Marco Kusterman e Adriano Merkel
Musiche:Roberto Pregadio
Editing: Silvio Amadio
Art Direction Demofilo Fidani
Trucco: Pasqualina Bianchin, Teodora BrunoAngelo Roncaioli
Costumi: Mila Vitelli Valenza
Le foto proibite di una signora per bene
Pierre e Minou sono una coppia all’apparenza perfetta; un equilibrio che però sembra andare in pezzi il giorno in cui un misterioso maniaco inizia a perseguitare la donna minacciando di rivelare che Pierre è un assassino. L’uomo, un industriale, è sull’orlo del fallimento,e Minou, suo malgrado, è costretta ad accettare un incontro con il ricattatore. Della cosa parla con la sua amica Dominique, una affascinante collezionista di immagini erotiche, delle quali è anche il soggetto principale.
Accettato suo malgrado l’incontro, Minou è costretta a cedere e avere rapporti con il misterioso ricattatore, che le consegna la cassetta contenente le presunte prove dell’omicidio commesso dal marito. Sembrerebbe tutto finito, invece è l’inizio di un incubo; l’uomo ha scattato delle foto intime e inizia un nuovo ricatto. A questo punto Minou rivela tutto a suo marito, nella speranza di risolvere, una volta per tutte, il suo problema. Ma Pierre non le crede, e ben presto Minou ne comprende il perchè.
E’ proprio suo marito ad aver organizzato tutto, per fare impazzire la moglie, costringerla al suicidio e intascare così la polizza d’assicurazione che lo stesso ha stipulato sulla vita della moglie. In un drammatico confronto, Pierre svela il meccanismo perverso della trappola a Minou, che finirebbe male, non fosse per l’intervento della polizia, chiamata da Dominique, che aveva intuito la verità sulla storia. Un poliziotto spara a Pierre e lo uccide pochi attimi prima che l’uomo porti a compimento le sue intenzioni; Minou è libera e si concede un viaggio con la sua amica Dominique.
Le foto proibite di una signora per bene, film del 1971 diretto da Luciano Ercoli è un giallo/thriller convenzionale, con una spruzzatina, davvero timida, di erotismo, rappresentato dalle foto scattate dal ricattatore a Minou e quelle che la giovane Dominique colleziona, da qualche fugace nudo, molto castigato, della bella protagonista, Dagmar Lassander, che nei primi anni settanta era specializzata in ruoli torbidi in film come Femina ridens, L’iguana dalla lingua di fuoco, Il rosso segno della follia. Film con una discreta tensione, ma limitato anche dalla presenza di pochi personaggi, per cui le vere motivazioni delle azioni del maniaco diventano ben presto lampanti per lo spettatore, che si trova solo nel dubbio tra la scelta dei due colpevoli, ovvero la bella Dominique, interpretata dalla affascinante Susan Scott e del marito.
Dagmar Lassander
Il resto è svolto come un compitino diligente, senza grosse sbavature ne lampi di genio. L’interpretazione di Pierre è affidata a Pier Luigi Capponi, che recita sobriamente il ruolo del diabolico marito di Minou, ma con tale freddezza da risultare, sino dalle prime inquadrature, il possibile sospetto di essere il deus ex machina della storia.
Una breve disgressione : chiunque sia alla ricerca di altre informazioni su questo film potrebbe imbattersi nella recensione di esso fatta da qualcuno per il più grosso sito di cinema della rete. Non nomino il sito, per ovvi motivi, ma vi lascio la descrizione della trama proposta dallo stesso, ennesima dimostrazione che le recensioni, i sunti dei film si dovrebbero fare vedendoli, e non sulla base dei sunti presentati dai soliti dizionarietti sul cinema:
“Una donna e il suo amico, durante una gita, precipitano in mare con l’auto. Si salva solo lei, che però viene sospettata dal fratello del defunto di averlo ucciso. Non è vero. Infatti il morto ricompare, litiga con la ragazza e stavolta ci lascia le penne davvero, proprio quando il fratello finalmente, convinto dell’innocenza di lei, le stava per dichiarare il suo amore.”
Le foto proibite di una signora per bene, un film di Luciano Ercoli, con Pier Paolo Capponi, Susan Scott, Dagmar Lassander, Simon Andreu, Italia 1971
Dagmar Lassander: Minou
Pier Paolo Capponi: Peter
Simón Andreu: Il ricattatore
Osvaldo Genazzani: Frank
Salvador Huguet: George
Nieves Navarro: Dominique
Regia Luciano Ercoli
Soggetto Ernesto Gastaldi, Mahnahén Velasco
Sceneggiatura Ernesto Gastaldi, Mahnahén Velasco
Produttore Luciano Ercoli, José Frade, Alberto Pugliese
Casa di produzione Produzioni Cinematografiche Mediterranee, Trébol Films C.C.
Fotografia Alejandro Ulloa
Montaggio Luciano Ercoli
Musiche Ennio Morricone
Costumi Gloria Cardi
W la foca
Il film di Cicero, del 1981, segna la fine malinconica di un’epoca e l’inizio di un’altra. La commedia all’italiana è morta, e lo stesso cinema italiano è in debito d’ossigeno. Le sale si riempiono di prodotti nazionali di dubbio gusto, con titoli espliciti, come questo di Cicero che strizza l’occhio alla foca protagonista del film ma anche ad una parte anatomica femminile, con il semplice cambio di una vocale.
Lori Del Santo
Film a suo modo nemmeno da bocciare in toto, non fosse altro che per il tentativo di Cicero di gettarlo sulla goliardata pura, attraverso non sense e qualche buono spunto,che però sono solo sprazzi. Il resto è comicità davvero becera, sguaiata e di bassissima lega, ruotante tra l’altro attorno alle grazie di Lori Del Santo, fresca del successo ottenuto con il Drive in televisivo, epsoste in tutte le maniere possibili. Sulla trama ci sarebbe da glissare su, ma della recensione resterebbero solo le immagini, per cui provo ad esporla con poche parole, essendo anche scontata in maniera triste.
Andrea, una giovane infermiera, si trasferisce a Roma, per sfuggire alla noia, ma anche per affrontare una nuova sfida lavorativa. Finisce per trovare lavoro presso la famiglia del dottor Patacchiola, uno strano tipo di medico che spende una fortuna in sostanze afrodisiache, famiglia che include anche una moglie più che ninfomane, un nonno satiro e allupato, una figlia beatamente ingenua che si concede al primo che capiti e un figlio che è così ritardato da non sapere nemmeno cosa si fa con una donna.
Dagmar Lassander
a destra: Michela Miti
Dopo aver vinto un concorso fotografico, Andrea si ritrova per casa una foca, premio del concorso stesso; nella famiglia ne succedono di tutti i colori, così come alla stesa Andrea capitano situazioni surreali. Alla fine, dopo aver fallito anche una prova televisiva, Andrea viene assunta da una signora molto ricca, che intende creare una clinica per ricchi obesi ; sarà la sua fortuna.
Se la trama appare scontata e in carta carbone con tante altre pellicole girate sul finire degli anni settanta, al regia di Cicero cerca di salvare il salvabile, imbastendo un’improbabile storia attorno a Lori del Santo; ma la triste realtà finale è quella di un film che più che surreale diventa grottesco, ma senza alcun senso positivo. Le battutacce dell’onnipresente Bombolo, il nonno eccitato, la moglie ninfomane sono le ennesime, stanche repliche dei vecchi film della commedia sexy.
Il tentativo di rinverdirne le gesta naufraga totalmente, di fronte all’assoluta inconsistenza di una trama degna di menzione o di qualche situazione che susciti un minimo di ilarità. Siamo ormai negli anni ottanta, il risultato si vede, purtroppo.
W la foca, un film di Nando Cicero. Con Lory Del Santo, Michela Miti, Riccardo Billi, Bombolo, Victor Cavallo, Franco Bracardi, Dagmar Lassander, Moana Pozzi, Alfredo Adami, Angelo Pellegrino, Fabio Grossi, Giovanni Attanasio, Sergio Di Pinto, Enio Drovandi, Anna Fall, Carmine Faraco, Vito Fornari, Bobby Rhodes, Carlo Marini
Lory Del Santo: Andrea
Michela Miti: Marisa
Victor Cavallo: L’Imbianchino
Franco Bracardi: Il Barbone
Giovanni Attanasio: Il Portinaio
Sergio Di Pinto: Il Barista
Enio Drovandi: Il Tassista
Anna Fall: Domenica, cameriera straniera
Carmine Faraco: L’Amico di Marisa
Antonio Spinnato: Amante+Operaio
Vito Fornari: L’uomo che deruba Andrea
Carlo Marini: Michele
Bobby Rhodes: L’Amante di Domenica
Dagmar Lassander: La Moglie di Patacchiola
Bombolo: Il Dottor Patacchiola
Riccardo Billi: Il Nonno
Fabio Grossi: Il Figlio
Enzo Andronico): L’Esibizionista
Antonella Angelucci: La Donna sadica in Hotel
Ennio Antonelli: Il primo controllore
Maurizio Mattioli: Il secondo controllore
Angelo Pellegrino: Il Professore
Martufello: L’impiegato del Comune / Addetto alla Clinica
Giulio Massimini: Mario, alla reception dell’Hotel
Moana Pozzi: La ragazza del treno
Italo Vegliante: Uomo con il tic al cinema
Alfredo Adami: Paziente con 18 figli
Regia Nando Cicero
Soggetto Galliano Juso
Sceneggiatura Nando Cicero, Francesco Milizia, Stefano Sudriè
Fotografia Giorgio Di Battista
Montaggio Daniele Alabiso
Musiche Detto Mariano
Scenografia Claudio Cinini
Atti impuri all’italiana
Nel centro termale di Montecatini muore il vecchio medico condotto, e a sostituirlo arriva, per la felicità dei pazienti, una giovane e disinibita dottoressa. Con la presenza dell’affascinante medico in gonnella, l’ambulatorio riprende vita: da luogo sporco, polveroso, gestito dal povero e anziano ciondolo, si trasforma ben presto in punto di ritrovo di uomini e donne della cittadina.
Dagmar Lassander
La vera malattia dei pazienti sembra essere più una sorta di sessualità repressa piuttosto che una malattia organica, e Elia, la dottoressa, con i suoi metodi innovativi e anticonformisti, ben presto riscuote uno straordinario successo. La sua simpatia contagia tutti, anche il parroco, che arriva a difenderla anche in pubblico, quando la dottoressa viene attaccata da un consigliere comunale. Il parroco, spalleggiato dal sindaco, riesce ad evitare l’allontanamento della dottoressa, con buona pace di tutta la cittadina.
Elia, che soggiorna a casa del sindaco, riesce anche a facilitare le nozze della figlia dello stesso sindaco con il figlio di un accanito rivale politico dello stesso. Alla fine la disinibita dottoressa convolerà a giuste nozze con il sindaco, un donnaiolo impenitente, e in occasione di una vacanza fatta per incontrare il figlio dello stesso sindaco, si concederà anche un’avventura con lo stesso.
Atti impuri all’italiana, diretto da Oswald Bray, pseudonimo dell’italianissimo Oscar Brazzi, è il classico prodotto post metà anni settanta del filone commedia sexy all’italiana. Imbastito attorno ad una trama quasi inesistente, il film ruota sulla figura di Dagmar Lassander, al solito bella e molto disponibile nel mostrare le sue grazie; una delle scene cult del film è la passeggiata con le natiche in fuori per il paese, in seguito ad una burla fatta dal figlio del sindaco.
Il resto scorre via senza infamia e senza lode, con tutti i luoghi comuni stereotipati del paesino sessualmente represso, con contorno di bellone, in questo caso la Lassander, Stella Carnacina, la figlia del sindaco, Isabella Biagini e Cristina Minutelli, che interpreta il ruolo della domestica svampita e disponibile. Film abbastanza noioso, anzi, molto: pochi mezzi, dialoghi scontati. Maurizio Arena, il sindaco, è in palese difficoltà in un ruolo che vorrebbe essere comico, e che non richiede abilità particolari in ambito recitativo, e che invece cerca di migliorare dando spessore ad un personaggio che non ne richiede.
Una delle cose insopportabili del film è la presenza di un gruppetto di marmocchi petulanti e noiosi, che finiscono per indisporre quanti cercano di trovare un appiglio per salvare un film di per se noioso e bolso.
Atti impuri all’italiana, un film di Oswald Bray. Con Stella Carnacina, Dagmar Lassander, Maurizio Arena, Isabella Biagini, Ghigo Masino
Erotico, durata 95 min. – Italia 1976.
Maurizio Arena … Gedeone
Dagmar Lassander Élia Bonvicini
Stella Carnacina Rosalba
Cristina Minutelli … Cameriera di Gedeone
Ghigo Masino … Don Firmino
Regia: Oscar Brazzi
Sceneggiatura:Oscar Brazzi
Musiche:Adalberto Bettini
Fotografia:Maurizio Gennaro
Montaggio:Giancarlo Venarucci