Gruppo di famiglia in un interno
Quando nel 1974 Luchino Visconti gira Gruppo di famiglia in un interno è già ammalato.
Due anni prima un ictus lo ha colpito,lasciandolo quasi completamente paralizzato nel lato sinistro del corpo;nonostante la forte tempra,
Visconti sembra abbattersi,ma riprende a lavorare con tenacia.
Nel 1973 torna al teatro con Tanto tempo fa di Harold Pinter e sopratutto all’altra sua grande passione,la lirica,curando
la più memorabile delle versioni dell’opera Manon Lescaut di Giacomo Puccini.
Forse un eccesso di attività per un uomo che,nel 1974,ha già 68 anni.
Eppure ha ancora tanto da dire.
Visconti consegna al pubblico cinematografico uno dei suoi capolavori,Gruppo di famiglia in un interno, il suo film più autobiografico,
intriso di un pessimismo e di una disillusione verso le umane cose tanto da renderlo un film disperato,quasi nichilista.
A essere messi in discussione sono i pilastri della società,la famiglia,la religione,il rapporto interpersonale,l’amore e la socialità nella sua interezza;
nella figura principale,quella del professore che vive quasi come un’eremita tra i suoi libri,disinteressandosi completamente dell’umanità e della vita
che scorre fuori dalle mura nelle quali si è rinchiuso, c’è l’alter ego di Visconti,un uomo ormai avanti negli anni e in cui i sogni hanno lasciato il posto
all’amara considerazione che molti valori sono andati completamente persi,che il dialogo generazionale è complicato dall’evoluzione della società,non necessariamente in senso positivo.
Uno strano discorso,quello di un’evoluzione negativa.
Evolversi significa passare da uno stadio inferiore ad un altro.
Invece fuori dall’appartamento c’è una profonda crisi sociale,l’individuo sembra preda di una forte crisi di identità che ovviamente coinvolge poi il collettivo,rendendo lo stesso ostaggio di totem che non sono più quelli del passato,ma che appaiono ben più subdoli e letali.
Arrivismo,realizzazione dell’io attraverso il potere personale o l’appagamento dei sensi con il sesso,le droghe ,il possesso dei nuovi feticci hanno di fatto scavato un solco generazionale,traghettando coloro che c’erano in una nuova dimensione alla quale le nuove leve sentono di non appartenere,che vogliono modificare,cambiare.
Queste contraddizioni di termini sono vissute dal professore in maniera dirompente nell’attimo stesso in cui si lascia coinvolgere nelle vite della famiglia che viene ad abitare nel suo palazzo, riportandolo ad una realtà che il professore stesso aveva abbandonato,rintanandosi fra i vecchi libri che lo circondano,simulacro di un passato polveroso e inattivo,inerte.
Uno stato quasi vegetativo,in cui c’è spazio solo per il ricordo e lo studio,uno studio apparentemente inutile alla ricerca di un’araba fenice;in fondo il professore sembra un’anacoreta che ha lasciato la civiltà per dedicarsi a Dio.
Solo che il Dio del professore lascia l’amaro in bocca;cosa farne della cultura,della ricerca se non la si condivide?
Tutto diventa fine a se stesso,l’appagamento personale in ultima analisi è solo egoismo,quella del professore appare come una fuga vile in attesa dell’ultimo respiro,destino comune che mette sullo stesso piano ogni singolo elemento della società.
Ecco,il professore sembra uno di quegli animali feriti che sentita arrivare l’ultima ora si staccano dal branco per andare a morire in solitudine.
In questo caso la solitudine è mitigata dai libri,magra consolazione di un uomo che non ha saputo vivere realmente rifugiandosi in maniera codarda nella sicurezza del piccolo,angusto mondo della quiete domestica.
La trama:
in un lussuoso appartamento vive un professore,amante di libri e grande collezionista di essi, in particolar modo anche di quadri che illustrano vite di famiglie.
A sconvolgere la sua monotona,inutile vita solitaria ed egoistica arriva un giorno Bianca Brumonti,volgare e vulcanica donna della buona borghesia.
La donna chiede al professore di affittarle l’appartamento del piano superiore,per se e per il suo nucleo di famiglia e amici.
Un nucleo ristretto,visto che l’unica congiunta è la figlia Lietta e il fidanzato di quest’ultima,Stefano.
Il professore,narcotizzato dal suo eremitaggio volontario,avulso dalla realtà del quotidiano,non vorrebbe cedere alle insistenze della donna,intuendo il potenziale distruttivo del nuovo che viene dall’esterno che essa rappresenta,tuttavia sente oscuramente un’attrazione fatale proprio per quel mondo che egli ha ripudiato.
Così alla fine cede.
La donna porta nell’appartamento anche il giovane Konrad, che è l’amante della ricca Bianca.
Un giovane che non appartiene al mondo del gruppo,anzi.Ha idee politiche estremiste,vive senza lavorare come un saprofita,facendosi mantenere dalla matura amante.
Le dinamiche del gruppo,i loro rapporti interpersonali,la dialettica che si sviluppa tra Konrad e il professore,affascinato da quella figura anticonformista e ribelle che pure cede alle lusinghe del potere borghese accettando di farsi mantenere dalla ricca amante pretendendo però allo stesso tempo di conservare la liberà individuale coinvolgono il maturo studioso.
Con stupore l’uomo assisterà al progressivo deteriorarsi dei loro rapporti,causati anche dall’insofferenza di Konrad che vive in modo schizofrenico le sue contraddizioni.
Come un entomologo studia un insetto,il professore osserva la volgarità di Bianca e il rapporto affettivo/carnale che si sviluppa,in un triangolo imprevisto,tra Lietta,Stefano e Konrad.
E’ una dimensione della realtà che il professore non conosce e che lo porterà ad assistere inerme al drammatico finale…
Gruppo di famiglia in un interno appartiene al cinema marginalmente;è solo perchè la vicenda è ripresa con l’ausilio della macchima da presa che possiamo parlare di opera cinematografica.
In realtà siamo di fronte ad un’opera strutturata come una piece teatrale,statica per la maggior parte del tempo,in cui i dialoghi,i silenzi hanno una valenza ben maggiore rispetto al movimento.
L’esperienza teatrale di Visconti si tramuta quindi in un resoconto intimamente doloroso di un’esperienza di vita vista quasi come un fallimento:il nuovo avanza e seppellisce il vecchio,un pò come nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.Ma in questo caso il riferimento letterario è nullo,l’opera appare quasi un testamento di Visconti,disilluso e completamente amareggiato dal vedere che le sue idee,politiche e morali non hanno in pratica alcuna applicazione reale.
Ci sarebbe ancora moltissimo da dire,ma è bene che lo spettatore trovi una chiave di analisi del tutto personale,riflessiva o estetica semplicemente.
In tutti e due i casi c’è davvero tanto da assaporare.
L’opera non è considerata la migliore di Visconti.
Non c’è per esempio empatia tra il pubblico e la famiglia le cui vicende sono narrate,il personaggio del professore appare troppo aulico
e distante per suscitare simpatia o condivisione.
Ma in fondo è quello che probabilmente Visconti voleva.
Tutti bravi gli attori,da Burt Lancaster che torna alla regia di Visconti dopo il Gattopardo e Silvana Mangano,sicuramente efficace in un ruolo molto difficile,quello di una donna volgare e moralmente riprovevole,tipica esponente di un mondo decadente e in dissoluzione come quello della borghesia arricchita.
Benissimo l’attore simbolo delle ultime opera di Visconti,un grande Helmut Berger che dà contorni vivi e umanamente di spessore al personaggio contraddittorio di Konard.Memorabili gli scambi di opinione fra lui e Lancaster,
veri e propri gioielli inseriti nel film.
Bene anche Claudia Marsani,che in seguito non avrà più spazi per esprimersi nel cinema compiutamente e Stefano Patrizi.
Poco più che camei le partecipazioni di Romolo Valli,Claudia Cardinale (la moglie del professore) e Dominique Sanda (la madre) che appaiono per poche sequenze in flashback.
Gruppo di famiglia in un interno
Un film di Luchino Visconti. Con Helmut Berger, Burt Lancaster, Silvana Mangano, Claudia Marsani, Enzo Fiermonte,
Philippe Hersent, Claudia Cardinale, Umberto Raho, Romolo Valli, Valentino Macchi, Lorenzo Piani, Vittorio Fanfoni,
Dominique Sanda, Stefano Patrizi, Guy Tréjan, Elvira Cortese, Jean Pierre Zola, George Clatot, Margherita Horowitz
Drammatico, durata 120 min. – Italia 1974
Burt Lancaster: il professore
Helmut Berger: Konrad Huebel
Silvana Mangano: marchesa Bianca Brumonti
Claudia Marsani: Lietta Brumonti
Stefano Patrizi: Stefano
Elvira Cortese: Erminia
Claudia Cardinale: moglie del professore (nei flashbacks)
Dominique Sanda: madre del professore (nei flashbacks)
Philippe Hersent: portiere
Guy Tréjean: antiquario
Jean-Pierre Zola: Blanchard
Umberto Raho: maresciallo di Polizia Bernai
Enzo Fiermonte: commissario di Polizia
Romolo Valli: Michelli
Margherita Horowitz: cameriera
Regia Luchino Visconti
Soggetto Enrico Medioli
Sceneggiatura Suso Cecchi D’Amico,
Enrico Medioli,
Luchino Visconti
Produttore Giovanni Bertolucci
Casa di produzione Rusconi Film S.p.A.
Fotografia Pasqualino De Santis
Montaggio Ruggero Mastroianni
Musiche Franco Mannino,
temi musicali tratti da Sinfonia Concertante di Wolfgang Amadeus Mozart
Scenografia Mario Garbuglia
Costumi Piero Tosi
Trucco Alberto De Rossi
“Bianca Brumonti: Professore, la verità. Che mistero c’è nella sua vita? Per me lei è stato un uomo bellissimo davvero, e lo è ancora, io la trovo affascinante. Come mai? Perché ha scelto di fare questo genere di vita?
Professore: Be’, vivendo tra gli uomini si è costretti a pensare agli uomini, invece che alle loro opere, a soffrire per loro, a occuparsi di loro, e poi qualcuno ha scritto: “I corvi vanno a schiere, l’aquila vola sola”.
Il professore : Io spero che Konrad non perdonerà nessuno, me per primo. Il giorno in cui la signora Brumonti venne da me a chiedermi di affittarle l’appartamento, io rifiutai.
Avevo paura della vicinanza di gente che non conoscevo, che avrebbe potuto disturbarmi. Tutto invece è stato… molto peggio di quanto potessi immaginare. Se mai sono esistiti inquilini impossibili io credo…che siano toccati a me. Ma poi mi sono trovato a pensare – come diceva Lietta – che avrebbero potuto essere la mia famiglia, riuscita o meno, diversa da me fino allo spasimo, e siccome amo questa sciagurata famiglia,
vorrei fare qualcosa per lei, come lei – senza rendersene conto – ha fatto per me. C’è uno scrittore del quale tengo i libri in camera mia e che rileggo continuamente, racconta di un inquilino che un giorno si insedia nell’appartamento sopra il suo,
lo scrittore lo sente muoversi, camminare, aggirarsi, poi tutt’a un tratto sparisce e per lungo tempo c’è solo il silenzio. Ma all’improvviso ritorna, in seguito le sue assenze si fanno più rare e la sua presenza più costante: è la morte.
–Konrad: Non è a causa delle mie origini, è la mia vita piuttosto, non è così? Mantenuto, traffici illeciti, è questo che conta.
Bianca Brumonti: Sì caro, è questo che conta.
Konrad: Conta perché non sono riuscito, perché sono ancora il cagnolino che una signora importante può portare anche nei posti dove l’ingresso ai cani è severamente vietato.
Gli altri lo sopporteranno per forza, quando ruba in cucina, quando insudicia o prende tutti a morsi.”-
–Lietta: Che cosa farebbe se io volessi baciarla?
Professore: Ah, non l’invidierei! Perché se mi mettessi un attimo al suo posto, vedrei avvicinarsi il viso di un uomo che… non è più giovane da tanto tempo.”
–Lietta: Povero professore, ancora mezzo addormentato. Andiamo via subito. Vede, in fondo è un gioco anche questo, non c’è niente di male, sul serio! È stato giovane anche lei, no? Non era come noi?
Professore: No, assolutamente no.
Lietta: Peccato, ha perduto qualcosa. Ma in qualche modo si sarà divertito, era ricco, bello, che cosa faceva?
Professore: Cosa facevo?
Lietta: Sì.
Professore: Ho studiato, ho viaggiato, ho fatto la guerra, mi sono sposato… è andata male. E poi quando ho avuto tempo di guardarmi intorno mi sono trovato in mezzo… in mezzo a gente che non capivo più.
Stefano: Avanti professore, non è che siamo poi così diversi.”
–Stefano: Oh Bianca non gli dare spago! Non vedi che sta per sferrare l’attacco contro la società “corrotta, capitalistica, borghese”? Siamo ancora a questo? Quella società neanche esiste oggi, e se c’è ancora ringrazia Dio, tu sei stato uno degli ultimi a beneficiarne!
Professore: Se è per questo esiste, esiste eccome, è molto più pericolosa oggi di sempre, perché mimetizzata.
Stefano: Oh no, anche lei professore!
Professore: Non sono un reazionario credevo l’avesse capito.
Stefano: Non l’avevo capito, anche lei è mimetizzato. Non ho ancora conosciuto un intellettuale che non si proclami di sinistra! Affermazione che per fortuna, quasi mai trova riscontro nella loro vita o nelle loro opere.
Professore: Gli intellettuali della mia generazione hanno cercato molto un equilibrio tra la politica e la morale: la ricerca dell’impossibile.”
Prostituzione
Un quartiere periferico immerso nell’oscurità.
Una sera come tante, nei vialetti che circondano una strada di periferia, sotto i cui lampioni come ogni sera si consuma il triste rito dell’amore a pagamento.
Una ragazza, Giselle, adesca un giovane e consuma un frettoloso rapporto sotto un albero, mentre un maturo guardone assiste soddisfatto tra i cespugli.
Ritroviamo Giselle stesa nuda su un tavolo operatorio:la ragazza è morta, uccisa da un misterioso assassino.
E’ il commissario Macaluso ad essere incaricato delle indagini.
L’uomo deve muoversi nello squallido sottobosco in cui si muovono le esistenze delle prostitute, che si chiamano Benedetta,Primavera,Immacolata:nomi in netto contrasto con le loro esistenze di professioniste dell’amore.
Giselle era una di loro, ma marginalmente:la ragazza infatti era fuori dal giro delle prostitute da strada,lei era una studentessa universitaria, che si prostituiva con uomini facoltosi.
Mentre Macaluso inizia a muoversi in quel mondo sordido, brancolando alla cieca anche per il muro di omertà che sembra circondare la vicenda, si intrecciano le storie delle varie protagoniste, come quella di Benedetta, che una sera viene brutalizzata da un gruppo di giovani e che viene selvaggiamente vendicata dall’organizzazione a cui lei appartiene, o come quella di Primavera, una prostituta avanti negli anni che ha una relazione con il giovane pappone Antonio.
Proprio quest’ultimo la tradisce incapricciandosi della di lei figlia Daniela, con la quale scappa.
Nel frattempo Macaluso porta avanti le sue indagini e sarà il guardone che spiava Giselle a mettere il funzionario di polizia sulla strada giusta…
Prostituzione è un thriller-poliziesco girato nel 1974 da Rino Di Silvestro, regista romano scomparso cinque anni addietro all’età di 77 anni;Di Silvestro, che nel corso della sua carriera ha diretto solo 8 pellicole,fra le quali La lupa mannara e Hanna D.la ragazza del Vondel park aveva diretto l’anno precedente un discreto Wip, quel Diario segreto da un carcere femminile accolto da un lusinghiero successo di pubblico.
dalla vita delle recluse di un carcere, fra soprusi e violenze morali, Di Silvestro passa all’ esterno, raccontando a modo suo una storia squallida di prostituzione, mostrando le vite di un gruppetto di belle di notte alle prese con il loro degradante lavoro.
Il film è essenzialmente un poliziesco con venature thriller, alle quali il regista romano aggiunge un’ambientazione sordida ben ricostruita e qualche piccola denuncia del mondo degradato moralmente in cui le vittime del mestiere più antico del mondo vivono.
Lo fa senza forzare eccessivamente l’aspetto morale della cosa, limitandosi a intrecciare storie che potrebbero essere quelle di qualsiasi donna che viva l’esperienza della prostituzione con un cannovaccio strettamente giallistico, con tanto di omicidio e sorpresa finale sull’identità del misterioso assassino.
Il film è caratterizzato da una buona scorrevolezza e da un andamento dark, visto anche il mondo in cui si muove; qualche scena erotica, parecchi nudi ma se vogliamo funzionali a quanto raccontato.
Grazie ad un cast di comprimari e a qualche attore di primo livello De Silvestro filma un’opera non dozzinale, che in qualche modo emerge dalla montagna di film erotici prodotti tra il 1971 e il 1976; questo Prostituzione, ripreso all’estero con i titoli di Red city lights,Love Angels,Street Angels e Sex slayer è opera dignitosa e di discreta fattura.
Grazie anche a Aldo Giuffrè, che interpreta il misurato commissario Macaluso, alla bravissima Maria Fiore, che riveste i panni della matura Primavera e a Orchidea De Santis, splendida come sempre nelle vesti della prostituta Benedetta, la ragazza violentata e vendicata dall’organizzazione a cui appartiene.
Accanto a loro ci sono anche altri ottimi comprimari, che segnalo sopratutto per l’alto grado di professionalità mostrata:Lucretia Love,Umberto Raho, Magda Konopka,Krista Nell,Andrea Scotti e Gabriella Lepori, Luciano Rossi e Liana Trouche oltre a Elio Zamuto, conferiscono un’aria di professionalità ad un film che rischiava di passare come l’ennesimo prodotto di serie B del sotto cinema italiano.
Così non è per fortuna.
Il film purtroppo è molto raro e non esiste almeno a quanto ne so in edizione digitale italiana, anche se qualche anno addietro è stato trasmesso dalla scomparsa Odeon tv; su You tube c’è un mediocre riversaggio da VHS in lingua inglese, chiunque voglia cimentarsi con l’ardua comprensione dei dialoghi potrà farlo seguendo questo link: http://www.youtube.com/watch?v=otNojdFxkg8
Prostituzione
Un film di Rino De Silvestro, con Orchidea De Santis,Aldo Giuffrè,Maria Fiore,Lucretia Love,Umberto Raho, Magda Konopka,Krista Nell,Andrea Scotti,Gabriella Lepori, Luciano Rossi Liana Trouche,Elio Zamuto Italia 1974 Drammatico Durata 105 minuti
Aldo Giuffrè: Ispettore Macaluso
Maria Fiore: Primavera
Elio Zamuto: Michele Esposito
Krista Nell: Immacolata Mussomecci
Orchidea de Santis: Benedetta
Magda Konopka: Signora North
Andrea Scotti: Il poliziotto Variale
Paolo Giusti: Antonio
Gabriella Lepori: Giselle Rossi
Luciano Rossi: Faustino
Genere drammatico, commedia
Regia Rino Di Silvestro
Sceneggiatura Rino Di Silvestro
Produttore Giuliano Anellucci
Casa di produzione Angry Film
Fotografia Salvatore Caruso
Montaggio Angelo Curi
L’opinione di renato dal sito http://www.davinotti.com
Si parla ovviamente dell’argomento del titolo, tra un’ovvia citazione di Mamma Roma e qualche scena comica davvero evitabile. Finché il film resta sul registro giallo/drammatico non dispiace, comunque: ci sono delle belle musiche, la buona prova di Maria Fiore ed un ottimo finale, quello davvero riuscito. Insomma una pellicola che va un po’ troppo a corrente alternata, ma curiosa ed in definitiva che vale la pena di vedere.
L’opinione di Fauno dal sito http://www.davinotti.com
Che lo si voglia o meno è un bel film in quanto, omicidio a parte, per una volta ci si cala nel mondo della prostituzione senza sfregi, vetriolo, lupara bianca o dentature spaccate a pugni. In particolare la figura di Primavera, magnificamente interpretata da Maria Fiore, dà una connotazione più umana ad una figura spesso ingiustamente vilipesa. D’altronde se c’è una persona che da quando esiste il mondo è sempre stata in prima linea e ha sempre pagato sulla propria pelle e senza sconti tutto il peggio, quella è la meretrice… Bravo pure Giuffrè.
7 scialli di seta gialla
Un pianista cieco, il professor Peter Oliver, un ispettore di polizia, Iansen e una serie di oscuri omicidi che hanno per teatro il laboratorio sartoriale e di mode di Françoise Ballais.
Questi gli ingredienti di questo giallo, che vede l’ispettore Iansen alle prese con un assassino insospettabile e inafferrabile.
Quando nell’atelier di Francoise muore la bella indossatrice Paula, l’ispettore incaricato delle indagini dirige i suoi sospetti sul pianista cieco, Peter, che aveva una relazione con la modella.
Ma i suoi sospetti si incentrano anche sul marito di Francoise,Victor Morgan, che aveva una relazione con la donna e che veniva ricattato da un uomo che aveva scattato delle foto compromettenti della loro relazione.
Un nuovo omicidio scombussola tutto; a morire è il misterioso ricattatore, e subito dopo toccherà ad altre persone cadere vittime della follia omicida della misteriosa mano.
Sarà proprio Peter a indirizzare Iansen sulla pista giusta…
La sequenza dell’omicidio sotto la doccia
Diretto da Sergio Pastore nel 1972, Sette scialli di seta gialla si inserisce nel florido filone delle pellicole cloni del grande successo di Argento L’uccello dalle piume di cristallo; tuttavia il maggior tributo il film lo paga al film del 1971 di Argento Il gatto a nove code, dal quale riprende il personaggio del cieco investigatore.
Non è certo l’unico elemento di somiglianza con i film di Argento; a ben guardare Pastore saccheggia tutto ciò che può dalla cinematografia del brivido.
C’è la scena dell’omicidio sotto la doccia, ripresa da Psycho, c’è l’ambientazione alla Bava di Sei donne per l’assassino…. c’è solo da divertirsi a cercare le similitudini che sono tante e anche abbastanza chiare.
Il film in se non è nemmeno malvagio, anche se alcuni colpi di teatro sono davvero tirati per i capelli; tuttavia la trama ha una sua ragione d’essere e si mostra abbastanza intricata.
Sergio Pastore, regista di opere abbastanza anonime come Crisantemi per un branco di carogne ,Il diario proibito di Fanny, girati sul finire degli anni sessanta, ha qui la grande occasione, grazie sopratutto al buon cast assemblato per questo film. Dirige con mano scaltra ma è evidente che si tratta di un onesto artigiano e nulla più; eppure gli strumenti c’erano, a cominciare dal parterre degli attori, che include Anthony Steffen, che interpreta con sufficiente bravura il ruolo del pianista cieco, proseguendo poi con Sylva Koscina, nel ruolo di Francoise, con Annabella Incontrera, sempre algia e bellissima, con Giacomo Rossi-Stuart, che interpreta Victor ovvero il marito di Francoise…
Il film va contestualizzato anche nel periodo storico; siamo agli inizi degli anni settanta, il cinema tira come una locomotiva lanciata a folle corsa e si moltiplicano le produzioni di ogni genere.
Il thriller è uno dei generi più saccheggiati, e alla luce di questo si può capire come le produzioni offrissero regie anche ad onesti mestieranti come Pastore.
C’è qualche spruzzatina di eros, qualche delitto efferato, insomma ci sono tutti gli ingredienti del genere, mentre va segnalata la scena dell’omicidio sotto la doccia, una delle più efferate viste nei film italiani, con tanto di rasoio che taglia nella carne attorno ai seni e al corpo nudo della vittima.
Leggendo quà e là in rete le recensioni al film, mi è capitato di trovare giudizi durissimi e sprezzanti su questo prodotto: critiche troppo severe, perchè come già detto pur non essendo un prodotto riuscito, Sette scialli di seta gialla può essere visto senza gridare allo scandalo.
A patto di sorvolare su alcune incongruenze, su qualche pecca recitativa e su una regia abbastanza piatta.
Sette scialli di seta gialla, un film di Sergio Pastore. Con Annabella Incontrera, Sylva Koscina, Anthony Steffen, Renato De Carmine,Giacomo Rossi Stuart, Umberto Raho, Lorenzo Piani, Shirley Corrigan
Thriller/Giallo, durata 108 min. – Italia 1972.
Anthony Steffen – Peter Oliver
Sylva Koscina – Françoise Ballais
Giovanna Lenzi – Susan Leclerc
Renato De Carmine – Ispettore Jansen
Giacomo Rossi-Stuart – Victor Morgan
Umberto Raho – Burton
Annabella Incontrera – Helga Schurn
Romano Malaspina – Harry
Isabelle Marchall – Paola Whitney
Imelde Marani – La ragazza di Harry
Liliana Pavlo – Wendy Marshall
Shirley Corrigan – Margot Thornhill
Regia: Sergio Pastore
Sceneggiatura: Sandro Continenza, Sergio Pastore e Giovanni Simonelli
Prodotto da Edmondo Amati, Maurizio Amati
Musiche::Manuel De Sica
Costumi:Vincenzo Tomassi
Doppiatori:
Sergio Graziani: Anthony Steffen
Rita Savagnone: Sylva Koscina
Sergio Tedesco: Umberto Raho
Pino Colizzi: Giacomo Rossi Stuart
Maria Pia Di Meo: Shirley Corrigan
Flaminia Jandolo: Annabella Incontrera
Vittoria Febbi: Lilliana Pavlo
Le recensioni appartengono al sito http://www.davinotti.com
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Accettabile giallo con pesanti richiami argentiani. La storia non fila via logica (perché scappare dall’ospedale? perché lasciare l’indirizzo della vetreria?) ed ha uno spieghino finale oscuro, oltre ad infrangere una regola del giallo. Il film però si lascia guardare, con molto debito verso i bei colori e gli interni fotografati da Mancori, talora con effetti optical e quadri di Mondrian. La Incontrera, volto lungo, altero, incavato, è perfetta icona lesbica. C’è Imelde Marani che puttaneggia.
Premesso che resta – tutt’oggi – da chiarire se Pastore ha diretto o meno questo contorto (e poco efficace) giallo, quello che più rimane impresso è un finale al cardiopalma, che nasce come emulativo di Psycho (delitto nel bagno), ma è di una ferocia (considerato il periodo) davvero estrema. Per il resto crolla l’impianto narrativo per l’insolito (ed impossibile) modus operandi del killer, che si avvale di scialli avvelenati e gatti! Il Sette del titolo va in coda alla “miniserie” di gialli con titolo numerico stile Sette Cadaveri per Scotland Yard (che sono poi 9!)
La caccia alla smagliatura nel copione dei thriller all’italiana (ma non solo, anche celebrati pseudo-campioncini alla Seven non sono da meno) è uno sport in fin dei conti un po’ sterile: il giallo tricolore è questione di look, e da questo punto di vista il film di Pastore tutto sommato tiene botta, specie nella parte finale, dal rendez-vous nel cantiere in avanti. Certo non tutto fila liscio. Bravo Steffen (ma molto merito va a Sergio Graziani che lo doppia), improponibile la pettinatura di Rossi Stuart. Non male, dopotutto.
Remake non dichiarato di 23 passi dal delitto, con l’aggiunta di contrafforti argentiani (il meccanismo de L’uccello dalle piume di cristallo) e baviani (l’ambientazione nel corrotto mondo della moda di Sei donne per l’assassino). La sceneggiatura, grossolana e con non poche incongruenze, vanta qualche sequenza thrilling ben riuscita (la vetreria, la doccia di Psyco, il cieco Steffen braccato in casa sua dall’assassino) e la trovata degli scialli è originale benché improbabile. Gradevoli musiche di De Sica.
Una delle perle del trash all’italiana (soprattutto per la parte finale), che proprio per questo ha uno stuolo di fan “urlanti”, che lo considerano un film di culto. In realtà non si capisce il perché, visto che come giallo è davvero mediocre. La regia, infatti, è a dir poco claudicante (ma anche a questo proposito c’è chi pensa che Pastore sia un vero regista e per giunta bravo!) e sulla sceneggiatura meglio tacere. Un po’ meglio la situazione sul versante attori e colonna sonora, ma non basta.
Thrillerone bigio e monotono, la cui inesorabile seriosità spinge a rivalutare il brio di cose che ci parvero di insuperabile bruttezza. Pastore cita a spromba tutto ma non produce un’idea buona e originale che sia una: l’atelier è baviano, il canto dell’uccello argentiano, la cecità anche, l’unico guizzo di truculenza splatter è hitchcockiano (però che fegato!), il gatto ha una coda e tanto basta. Il movente dell’assassino è più imperscrutabile di quello di Pastore. Atmos-fear ce n’è pochina. Soporifero.
Ennesimo giallo che si rifà, in modo più che abbondante, alla celebre trilogia degli animali di Dario Argento. Il film non riesce ad emergere dalla massa di prodotti analoghi del periodo e risulta potabile solo per gli ultra-appassionati del genere. Particolarmente fantasioso, e per questo anche molto improbabile, il modus operandi dell’assassino. Come spesso in pellicole di questo tipo la logica è molto traballante.
Buon appartenente al giallo argentiano, con un ottimo cast su cui spiccano decisamente Anthony Steffen nel ruolo del pianista cieco che indaga e la bella Sylva Koscina superba, ma le bellezze femminili (Annabella Incontrera, Shirley Corrigan) non mancano così come i bravi attori (Rossi Stuart). Il tema musicale di Manuel De Sica è accattivante, l’omicidio finale della Corrigan è davvero inusuale per l’epoca. Non un capolavoro (con spiegone finale molto tirato per i capelli) ma piace.
Giallo italiano piuttosto mediocre. Il ritmo è lento, gli attori poco memorabili e le musiche non troppo entusiasmanti. Si salvano solo la buona fotografia e un omicidio (alla Psycho) piuttosto violento. Per il resto un film decisamente evitabile, solo per appassionati.
Onesto giallo italico di ambientazione nordeuropea. I richiami ad altri film ed in special modo ai primi gialli di Argento sono evidenti, tuttavia Pastore riesce a confezionare un prodotto decoroso e a mio avviso avvincente. La vicenda è concettualmente inverosimile, ma scandita da un’ottima ritmica degli eventi e da un’interpretazione degli attori più che dignitosa. Prodotto destinato a “cinemini” di periferia; ecco un buon motivo per amarlo!
Tra la miriade di imitazioni argentiane degli Anni Settanta, si inserisce questo film di Pastore. A parte l’accumulo di citazioni da altre pellicole del genere (a partire dal protagonista cieco e curiosone, preso di peso da Il gatto di Argento), il film scade spesso nella noia e non è riscattato neanche dalla violenza, visto il basso tasso di splatter. Si salva giusto l’omicidio sotto la doccia (unica scena veramente truce) e qualche buon momento di tensione negli ultimi venti minuti. Interpreti accettabili, sceneggiatura claudicante. Improbabile.
Personaggi bidimensionali come quelli dei fumetti cui parrebbe tratto, che fingono di suonare il piano e cenano all’Hilton, posseggono case con splendidi armamentari vintage e frequentano lisergici atelier. Ecco un motivo valido per guardare questo film: farsi un’idea dell’immaginario lounge-chic che impazzava nelle fantasie italiche, fra sigarette accese in ogni dove e pruriginosi scandali sessuali. La storia è striminzita (il mantello? il gatto?), ma il film ha una sua soporifera fragranza che sa d’innocenza e di cinema con le sedie in legno.
Bistrattato da molti e esaltato da altri. Si tratta di un giallo comunque guardabile, interpretato bene da un gradevole cast. A parte il ridicolo finale (che in parte ricorda quello di Sotto il vestito niente) il film si lascia guardare. Un po’ improbabile la storia del gatto, ma tant’è. Ottime le musiche. Diverse scopiazzature dai film di Argento. Quasi tre pallini.
Film noioso, che si perde più volte nel tentativo di richiamare classici argentiani, facendolo in maniera sconclusionata e poco efficace. La trama è artificiosa e priva di tensione, i delitti (a parte un po’ di gore finale) sono piatti ed architettati in maniera poco credibile. Tra i thriller dell’epoca certamente uno dei più scadenti, rischiarato da una scena finale da deja-vu, ma efficace.
Pastore si butta sul giallo argentiano, con tutti i crismi del genere, attingendo non poco dal Maestro stesso, così come da altri (il film nel film è “Una lucertola dalla pelle di donna” di zio Lucio). Ma, a parte un po’ di confusione nell’esposizione, va detto che non confeziona un affatto un brutto film. Certo, nulla di trascendentale, ma l’omicidio cruento nella parte finale, con accanimento sul corpo indifeso della vittima alza la media… Rossi Stuart meglio di un monoespressivo Steffen. Molti i nudi. VM 14
Discreto thriller dalle incontrovertibili derivazioni, ma onestamente palesate, senza dissimulazioni di sorta. Quello che personalmente ho trovato fuori luogo, è la modalità principale con la quale vengono uccise le malcapitate: troppo improbabile. La storia è carina, con lo svolgimento regolare frutto di una tecnica sobria, senza troppe pretese (saggia decisione evitare di strafare). Particolare la location in Copenaghen, ma forse Milano o Roma avrebbero caricato meglio la natura di genere. Attori bellissimi e musiche adeguate, con un finalone inaspettato.
Thrillerino che si basa su presupposti abbastanza improbabili e attinge senza ritegno dai successi argentiani del periodo (L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code…). Violenza e tensione latitano. Film non proprio noioso ma che ristagna nella mediocrità fino all’intenso, violento (finalmente) finale. Non brutto, ma decisamente evitabile.
Tra i vari gialli, giallacci e giallini Anni Settanta, mi sembra il peggiore che ho visto. A parte l’affastellamento, senza nessuna ironia, di citazioni da altri film del periodo, a parte il movente dei delitti, che proprio non sta né in cielo né in terra… ma è proprio noioso, non c’è un momento di vera tensione. E poi, ci vuole coraggio per trattare così l’unico personaggio al quale ci eravamo veramente affezionati. E ci vuole coraggio per far spogliare la Koscina per farle mostrare un lato B da massaia sedentaria…
Veramente inguardabile. Nonostante sia un patito dei gialli italiani Anni Settanta, questo è proprio brutto. Copia e incolla spunti e trama da destra e da sinistra, non intriga, non scorre, con attori incapaci e personaggi senza alcun interesse. Un disastro. Starsene alla larga!
Culto a causa di diversi record: il maggior numero di citazioni da altri gialli, la “scena della doccia” più gore, il modus operandi più contorto e improbabile, il fermo-immagine finale più ridicolo (eppure…). Però oltre questo è anche un giallo onestissimo, che non si limita a seminare false piste per confondere lo spettatore ma gli offre anche la possibilità di indovinare il colpevole con un particolare rivelatore (occhio all’automobile). Regìa assai meno sciatta di quanto sembri, buona prova anche per Steffen (altrove spesso cane).
Sembra davvero un fumettone per via di costumi, design, tecnica di omicidio indiretta e solo in apparenza avveniristica, per il fatto che un’attrice la faccian tanto bella per accopparla in seguito così crudelmente… per il bianco e nero della doccia che qui centuplica la suggestione, stessi due colori che contraddistinguono i mantelli. Davvero un caso? Interessante, ma non grintoso al punto da far decollare l’entusiasmo di chi lo vede.
Inutile far notare quanto l’influenza del Darione nazionale contamini ogni passaggio di questo ennesimo titolo “numerologico”. Un buon giallo comunque, in cui spadroneggiano primi piani fuorvianti e disonesti zoom sugli sguardi torvi e sospettosi di alcuni degli interpreti. Differentemente dal solito, Anthony Steffen mostra davvero un raro stato di grazia con la sua perfetta immedesimazione nei panni del compositore cieco. A tratti allucinato, il film di Pastore presenta inoltre la sequenza forse più splatter mai vista sino ad allora su schermo.
Una volta fatta l’abitudine “visiva” ai fantastici abiti e pettinature dell’epoca, di questo film resta ben poco di godibile. La trama è abbastanza piatta e banale e il cosiddetto colpo di scena finale sembra creato più per dare la colpa al personaggio meno sospettabile di tutti che per seguire un vero filo logico. Imbarazzanti e rigidi i due protagonisti maschili.
Derivativo, eccessivamente derivativo questo giallo a tinte forti dove non si sa dove finisca la citazione e inizi la scopiazzatura spudorata. Inizialmente sembra partire bene, con un misterioso metodo di uccisione, ma quando inizia a delinearsi il quadro si scade nell’assurdo e nel ridicolo. Menzione speciale all’omicidio nella doccia preso da Psyco ma più sanguinoso (in bene) e alla pietosa sequenza finale assieme a quella dell’attentato nella fabbrica (in male).
Giallo che più derivativo non potrebbe essere: in effetti se ci mettiamo ad elencare i riferimenti ad altre pellicole rischiamo di non finirla più. Ttuttavia Pastore propone anche un paio di idee originali: l’ambientazione danese e il complesso modus operandi dell’assassino, che qui si serve, appunto, degli scialli del titolo intrisi di una sostanza che attira e scatena un gatto dagli artigli avvelenati. Buon ritmo, qualche momento di tensione e un omicidio sotto la doccia di inaudita violenza, ma la soluzione convince poco. Non male il cast.
Prende da Argento, da Bava, da 23 passi da un delitto e finisce con una splendida uccisione sotto la doccia degna di Psyco. Siamo nel ’72, siamo nel bel mezzo del giallo all’italiana e del successo di Darione; Pastore si permette di emulare e rubare senza vergogna. E tutto sommato gli si perdona tutto. Il giallo non è poi pessimo, soffre delle classiche ingenuità e carenze sia di budget sia di sceneggiature. Offre la solita fotografia di quegli anni e costumi e scenografie disgustosamente pacchiane. Steffen è una garanzia, il Fonda italiano