… Dopo di che,uccide il maschio e lo divora
Una giovane donna corre disperatamente tra gli alberi,inseguita da alcuni cani;un uomo osserva la scena con un telescopio e interviene.
La raccoglie e la porta in casa.
Lui è Don Miguel,un giovane aristocratico che vive in una lussuosa villa,solo.La mamma è infatti morta,come sua moglie.
La donna dice di chiamarsi Marta e di essere nei guai con la polizia;Marta infatti avrebbe ucciso un uomo che voleva aggredirla.
Miguel è turbato dall’impressionante somiglianza tra Marta e la sua defunta moglie Anna;durante il periodo in cui Marta resta nella villa Miguel scopre di essersi innamorato della donna,ma il passato dell’uomo riaffiora con prepotenza.
Miguel infatti ha sempre subito l’influenza di sua madre,che mal vedeva anche il matrimonio del figlio con Anna.
Così un giorno,preda di allucinazioni che gli avevano fatto scambiare la madre per la moglie,Miguel l’aveva uccisa,sprofondando lentamente nel baratro della follia.
Marta,che in realtà è la sorella di Anna,spinge l’uomo a poco a poco all’estremo limite;d’accordo con la polizia la donna aveva organizzato tutto per spingere l’uomo alla confessione.
Finale tragico.
…Dopo di che uccide il maschio e lo divora,splendido titolo italiano in luogo dell’originale,stringatissimo Marta,riprende dal modo degli insetti l’abitudine della mantide religiosa di uccidere il maschio dopo l’accoppiamento.E in qualche modo è quello che accade nel film,un viaggio attraverso i meandri della follia nei quali ormai si dibatte Miguel,forse non del tutto colpevole dell’accaduto ma destinato a pagare a caro prezzo la sua sudditanza psicologica nei confronti della madre.
Diretto da José Antonio Nieves Conde,il film strizza più di un occhio al dramma di Hitchcock Rebecca,del quale riprende non solo le atmosfere ma anche il titolo femminile.
Un film di buona fattura,caratterizzato principalmente da una lunga introspezione psicologica sui due personaggi principali,l’enigmatica e bellissima Marta e l’ormai psicolabile Miguel.
Una discreta tensione,accompagnata dalle sobrie musiche di Piero Piccioni,unita alla splendida interpretazione della conturbante Marisa Mell danno un valore aggiunto ad una pellicola
come dicevo di pregio,in cui l’atmosfera claustrofobica del rapporto tra i due occasionali amanti è ben resa.
Del resto Condè aveva già diretto un altro thriller psicologico di buona fattura Nel buio del delitto,l’altra opera per cui ha avuto una certa notorietà in Italia.
La Mell,protagonista con la Koscina del film precedente,si mostra misteriosa,seducente e sfuggente.
La sua bellezza,unita ad un’aria enigmatica contribuiscono in maniera determinante alla resa della pellicola,che non annoia mai e che si lascia
guardare fino al finale.
Nonostante si tratti di una pellicola senza scene di nudo (almeno nella versione spagnola) e con blandissime scene di sesso,il film non ha avuto quella distribuzione televisiva che avrebbe sicuramente meritato,
restando nell’ombra anche oggi.Le uniche versioni che circolano in rete infatti sono tutte in lingua originale.
Per quanto riguarda il resto del cast,tutti se la cavano egregiamente,incluso Stephen Boyd; da segnalare la presenza di isa Miranda nel ruolo di Elena,la madre di Miguel.
Buona la fotografia per un film più che discreto.
…Dopo di che, uccide il maschio e lo divora
Un film di José Antonio Nieves Conde. Con Stephen Boyd, Marisa Mell, Howard Ross, Isa Miranda, Jesus Puente,George Rigaud Titolo originale Estado civil: Martha. Drammatico, durata 90 min. – Spagna 1971.
Marisa Mell: Marta & Pilar
Stephen Boyd: Don Miguel
George Rigaud: Arturo
Howard Ross: Luis
Jesús Puente: Don Carlos
Isa Miranda: Elena
Nélida Quiroga: Dona Clara
Regia José Antonio Nieves Conde
Soggetto Juan José Alonso Millán (lavoro teatrale “Estado civil: Marta”)
Sceneggiatura Juan José Alonso Millán, Tito Carpi, Ricardo López Aranda, José Antonio Nieves Conde
Produttore José Frade
Casa di produzione Atlántida Films, Cinemar
Fotografia Ennio Guarnieri
Montaggio María Luisa Soriano
Musiche Piero Piccioni
Costumi Anna Maria Tucci
Il dio chiamato Dorian
Due mani tremanti, sporche di sangue sotto un rubinetto che porta via in lunghi rivoli il segno di quello che resta di un omicidio.
Non sappiamo di chi sono, perchè pochi istanti dopo siamo proiettati nella swinging London che ci appare in tutta la sua decadente bellezza nel periodo a cavallo fra il finire degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta.
Troviamo Dorian Gray, un giovane bellissimo, in uno dei tanti night che popolavano la vita notturna della capitale londinese e di la lo seguiamo mentre osserva stupito lo splendido ritratto che il suo amico pittore Basil gli ha fatto a sua insaputa. Nella casa di Basil, in cui c’è anche il gallerista Henry Wotton, Dorian sembra quasi ipnotizzato dal dipinto; una volta in suo possesso, gli si rivolge quasi fosse una cosa viva, chiedendogli se fosse possibile mantenere sul suo corpo quella selvaggia bellezza.
Esaudito da qualcosa di misterioso, ritroviamo Dorian, bellezza sfolgorante, approfittare delle sue doti fisiche per circuire dapprima la giovane Sybyl, che si ucciderà per lui e poi, in una lunghissima e allucinata caduta verso l’abiezione più estrema lo vediamo corrompere donne mature, giovani e infine avere rapporti anche con il maturo Henry Wotton.
Ma questa discesa senza freni nell’abisso della lussuria e dell’amoralità non resterà senza conseguenze.
Un giorno infatti Dorian scopre con orrore che il dipinto invecchia a vista d’occhio mostrando su quello che era il suo bellissimo volto ritratto, i segni delle turpitudini commesse.
Dopo aver litigato con Basil, che ritiene in qualche modo responsabile della cosa, Dorian lo uccide.
E’ l’atto finale, perchè il volto del ritratto diventa mostruoso.
Dorian, impugnato un coltello, si uccide davanti al ritratto che improvvisamente torna a mostrare le fattezze originali mentre il corpo di Dorian subisce un’orrenda metamorfosi.
Il dio chiamato Dorian, per la regia di Massimo Dallamano esce nel 1970 e subisce la sorte del precedente Le malizie di Venere ovvero pesanti censure e tagli, nonostante il regista faccia l’impossibile per rendere poco visibili le situazioni erotiche in cui il suo Dorian Gray viene a trovarsi.
Un’atmosfera ben diversa da quella in cui era immerso il romanzo Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, che uscì in una Londra profondamente diversa nel 1890, in piena epoca vittoriana e con lo scrittore costretto ad affrontare un processo per omosessualità che lo devastò.
L’inizio della relazione con Sybil
Dallamano tenta un’operazione ardita se non impossibile; ridurre un romanzo basato sulla sottile esaltazione dell’estetismo wildiano, una corrente in forte ascesa nell’epoca vittoriana, una celebrazione della bellezza e della giovinezza opposta al rigore puritano e bacchettone della stessa atmosfera vittoriana in un film che coniughi la necessità di mostare azione con la lentezza dei dialoghi dello scrittore, impegnato in un’opera di difficile equilibrismo.
Il film si discosta ovviamente dal romanzo, prima di tutto perchè ambientato in epoca contemporanea poi per la scelta specifica di Dallamano di privilegiare la parte erotico/dissoluta del protagonista.
Il Dorian di Wilde all’inizio del romanzo è giovane ed innocente, mentre quello di Dallamano lo vediamo subito impegnato a seguire lo spettacolo osè di un travestito in un locale notturno.
Entrambi però cambiano il loro modo di essere subito dopo l’arcana trasformazione che avviene nel loro fisico: sono giovani e belli probabilmente per tutto il corso della loro vita, mentre ad invecchiare è il ritratto bellissimo creato da Basil.
Il Dorian di Dallamano però si immerge voluttuosamente in una spirale di depravazione: lo vediamo circuire e sedurre la bella Sybil che morirà per lui, lo seguiamo mentre allaccia una relazione torbida e sensuale con la splendida Gwendolyn che ha la sua stessa morale elastica, fino alle fugaci relazioni per volgar denaro intrecciate con la matura signora Ruxton o con la signora Clouston.Il film si immerge volutamente in un’atmosfera malata, alla deriva tra personaggi moralmente discutibili e socialmente elevati, quasi esistesse una correlazione precisa tra le due cose.
Che è poi l’humus nel quale sguazza il romanzo di Wilde, ma le similitudini terminano quà.
Dallamano è molto formale, si barcamena tra un erotismo di facciata e una blandissima fustigazione alla società corrotta nella quale naviga il suo Dorian; che ci appare bellissimo e dannato, sempre con lo splendido corpo ostentato e ripreso da ogni angolazione.
Beryl Cunningham è la fotografa Adrienne
La fotografia accuratissima da al film un’aura particolare, quasi estraneando il film stesso dall’epoca storica in cui è girato, ma è solo un dettaglio perchè nonostante questo, nonostante la presenza del bello e dannato Helmut Berger, nonostante il cast faccia il suo lavoro con scrupolo non ci si allontana più di tanto da un bel esercizio di stile.
Colpa di una trama conosciuta a memoria, con la sola variante minima del finale, colpa anche di una pigra indolenza della pellicola che scorre senza grandi guizzi verso il fatidico The end.
Però va detto che il film in fondo è gradevole e si lascia guardare con piacere.
Una delle tante amanti di Dorian
Il regista milanese cambia il dettaglio finale della morte di Dorian, trasformandola da un evento sovrannaturale ad un suicidio indotto dalla visione, attraverso il quadro, delle scelleratezze commesse che compaiono in un veloce flash back nei momenti finali, ricordando a Dorian l’omicidio di Basil, la morte di Sybil ecc.
Scrive Wilde nel suo romanzo:
“Si guardò intorno e vide il coltello che aveva ucciso Basil Hallward. Era stato ripulito più volte, finché non c’era rimasta la più piccola macchia; era lucido e brillava. Come aveva ucciso il pittore, così avrebbe ucciso l’opera del pittore e tutto quello che essa significava. Avrebbe ucciso il passato; morto questo, sarebbe stato libero. Avrebbe ucciso quella mostruosa vita dell’anima e senza le orrende ammonizioni di questa sarebbe stato in pace. Afferrò l’arma e colpì il ritratto.
Helmut Berger interpreta Dorian Gray; il giovane assiste stupefatto al capolavoro dell’amico Basil…
Basil mostra il ritratto all’amico Dorian
Si sentì un grido e un fracasso: un grido così orribilmente straziante che i servi spaventati si svegliarono e uscirono dalle loro camere. Due signori che passavano di sotto sulla piazza si fermarono a guardare la grande casa, poi ripresero il cammino finché incontrarono un agente e lo portarono indietro. L’agente suonò più volte il campanello ma nessuno rispose. La casa era tutta al buio, eccetto una luce a una finestra dell’ultimo piano.Dopo un po’ si allontanò, fermandosi in un portico vicino a sorvegliare la casa.
– Di chi è questa casa? – chiese il più anziano dei due signori.
– Del signor Dorian Gray – rispose la guardia.
Si guardarono l’un l’altro con un sorrisetto e si allontanarono.
Uno dei due era lo zio di Sir Henry Ashton.
Dentro, nel quartiere della servitù, i domestici mezzo vestiti si parlavano tra di loro bisbigliando; la vecchia signora Leaf piangeva e si torceva le mani; Francis era pallido come un morto.
Dopo un quarto d’ora circa, prese con sé il cocchiere e uno dei lacchè e salì le scale. Bussarono, ma nessuno rispondeva; gridarono, ma tutto taceva. Finalmente, dopo un vano tentativo di forzare la porta, salirono sul tetto e si calarono sul balcone. Le finestre cedettero con facilità; i serramenti erano vecchi.
Entrando, trovarono, appeso al muro, uno splendido ritratto del loro padrone, come lo avevano visto l’ultima volta, mirabile di gioventù e di bellezza eccezionali. Steso sul pavimento c’era il cadavere di un uomo in abito da sera, con un coltello nel cuore.
Aveva il viso avvizzito, rugoso, repellente. Solo dopo aver esaminato gli anelli poterono identificarlo.”
Massimo Dallamano tronca il suo film proprio sul volto ormai mostruoso di Dorian mentre il ritratto ritorna alla bellezza originaria; il film è finito, in fondo non è stato tempo speso male.
L’arcana metamorfosi del ritratto è completa
L’orrenda metamorfosi di Dorian Gray
Il Dio chiamato Dorian
Un film di Massimo Dallamano. Con Margaret Lee, Herbert Lom, Helmut Berger, Beryl Cunningham,Eleonora Rossi Drago, Isa Miranda, Renzo Marignano, Stefano Oppedisano, Richard Todd, Renato Romano, Maria Rohm
Drammatico, durata 104 min. – Italia 1970.
Helmut Berger … Dorian Gray
Richard Todd … Basil Hallward
Herbert Lom … Henry Wotton
Marie Liljedahl … Sybil Vane
Margaret Lee … Gwendolyn
Maria Rohm … Alice Campbell
Beryl Cunningham … Adrienne
Isa Miranda … La signora Ruxton
Eleonora Rossi Drago …La signora Clouston
Renato Romano … Alan
Stewart Black … James Vane
Francesco Tensi … Il signor Clouston
Regia: Massimo Dallamano
Sceneggiatura: Marcello Coscia, Massimo Dallamano,Günter Ebert
Produzione: Samuel Z. Arkoff, Harry Alan Towers
Musiche: Carlos Pes, Peppino De Luca
Editing: Leo Jahn,Nicholas Wentworth
Helmut Berger e Marie Liljedhal in una foto pubblicitaria
Reazione a catena (Bay of blood)
Una villa situata all’interno di una baia deserta e semi-selvaggia è teatro di una serie di tragici avvenimenti.
La struttura è di proprietà della contessa Federica Donati, che vi vive in completo ritiro in compagnia del marito.
Una sera l’anziana contessa viene uccisa da una mano misteriosa; la donna è costretta a infilare la testa in un cappio, morendo così strangolata.
L’assassino ( lo sappiamo subito) è stato il marito, ma ben presto il quadro muta direzione, perchè anche l’uomo viene ucciso, colpito da un killer che lo accoltella.
Un nuovo cambio di scena introduce un altro personaggio; si tratta di Franco Ventura, un architetto speculatore che altro non attendeva che la morte della contessa Donati per poter avviare un processo di cementificazione a scopo turistico della baia, cosa alla quale la vecchia contessa si era sempre opposta.
Claudine Auger interpreta Renata Donati
Ventura, dopo aver salutato la sua amante Laura, si avvia verso la baia, forte anche della mancanza di sospetti della polizia, che ha archiviato il caso come suicidio, avendo ritrovato un biglietto in cui la contessa annunciava il suicidio (evidentemente falso) e non avendo trovato traccia del marito.
Nel frattempo nella baia arrivano quattro ragazzi, due maschi e due ragazze straniere, venuti a passare una giornata di relax; una di queste giovani, mentre fa il bagno rimane incastrata in una corda alla sommità della quale è legato il corpo del marito della contessa Donati.
La ragazza, spaventata a morte, fugge nuda per l’imbarcadero e poi verso la boscaglia, ma qui viene raggiunta dal misterioso assassino e uccisa brutalmente a colpi di falce.
Stessa sorte tocca i restanti ragazzi; l’assassino dopo essersi liberato uccidendolo di uno dei giovani, uccide gli altri due ragazzi con un tremendo colpo di lancia mentre i due sono impegnati in un rapporto sessuale.
Sulla tragica baia arrivano altri personaggi; sono Renata Donati, figlia dei due morti assassinati e suo marito Alberto con i due figli, un bambino e una bambina.
Alla donna viene immediatamente riservato uno choc.
Nella barca del pescatore Simone infatti trova il corpo del padre, coperto da un grosso polipo; il pescatore si giustifica dicendo di averlo appena pescato, ma le cose sono destinate a complicarsi ulteriormente.
Nella villa dell’architetto Ventura la giovane Renata scopre con orrore la presenza dei corpi dei quattro ragazzi massacrati, e riesce a sfuggire all’uomo che la assale con un’accetta.
I due figli di Alberto e Renata, interpretati dai bravissimi Renato Cestiè e Nicoletta Elmi
Dopo averlo ferito con un paio di forbici, Renata fugge verso suo marito.
Ancora un arrivo imprevisto; è quello di Anna, moglie di Paolo Fossati (entomologo) una coppia che vive nella baia.
Per pura casualità Anna scopre i cadaveri nella villa di Ventura, ma finisce orrendamente decapitata, mentre suo marito Paolo viene ucciso dal marito di Renata per timore che chiami la polizia e riferisca ciò che ha visto.
Ad uccidere Anna infatti è stata Renata.
Perchè?
Lo apprendiamo da due brevi flashback.
Prima però assistiamo all’arrivo sulla scena del delitto di Laura, l’amante di Ventura, che la invita ad andare da Simone.
Simone in realtà è il figlio naturale della contessa Federica Donati; è stato lui ad uccidere la madre e il patrigno simulando il suicidio della contessa e occultando il cadavere del patrigno stesso, uccidendo in seguito i quattro sventurati ragazzi che avevano scoperto il corpo dell’uomo.
Il tutto per poter vendere la licenza edilizia della baia a Ventura; ma Simone capisce che Laura e Ventura lo hanno manipolato.
L’ormai celebre fotogramma della morte dei due ragazzi
Uccide così la donna, ma viene a sua volta abbattuto da Alberto.
I due diabolici complici sembrerebbero averla fatta franca, ma c’è l’ennesimo colpo di scena in arrivo….
Reazione a catena di Mario Bava (girato nel 1971) è un film complesso con una struttura a mosaico e una trama ampia e purtroppo a tratti anche farraginosa e confusa.
Se da un lato vanno esaltati quelli che sono i pregi del film, ovvero la sua crudezza nel mostrare i dettagli più efferati dei vari delitti che si susseguono, la solita accurata ricercatezza tipica di Bava nella fotografia, l’impeccabile recitazione del cast molto ben assortito, dall’altro non si può non notare una certa approssimazione nello svelare i retroscena che portano i vari protagonisti (tutti in qualche modo indissolubilmente legati fra loro) a scannarsi per il solito vil denaro.
Ma a Bava probabilmente la cosa interessava poco; il film mostra una misoginia, un’amarezza e una visione cinica della realtà che a ben vedere sono l’asse portante della pellicola.
nessuno dei personaggi che incontriamo nel film merita una lacrima o un banale “peccato” man mano che assistiamo all’orgia di sangue scatenata dalla morte della vecchia contessa.
Sono tutti personaggi negativi, il marito della contessa e l’avido Ventura, l’assassino Simone e i due terrificanti coniugi Renata e Alberto e in ultimo anche i due figli della coppia, che assicureranno una giustizia sommaria chiudendo il cerchio, con quei due sorrisi luciferini che spuntano sui loro volti infantili quando sparano ai genitori.
Un’umanità malata, quindi, vittima del desiderio di possesso e di ricchezza, un’umanità che paga però con la vita le proprie debolezze.
Sono tutte morti slasher, violentissime, con primi piani che in fondo hanno fatto la storia del cinema thriller/giallo, stabilendo dei canoni che saranno replicati all’infinito dai tantissimi epigoni che il film vanterà.
Bava gioca con gli effettacci, distribuisce morti ammazzati a tutto spiano ;alla fine di tutti i protagonisti restano vivi solo i bambini che innocenti non sono, perchè ammazzano i loro genitori non sappiamo quanto per gioco e quanto per crudele e innata malvagità.
Memorabili le sequenze dell’impiccagione della vecchia contessa, della morte della ragazza uccisa da una falce (Brigitte Skay) con i particolari in primo piano e poi l’apoteosi dei due morti trafitti in un colpo solo mentre fanno l’amore. Da citare anche il rinvenimento del corpo del vecchio conte in una barca, con il volto coperto da un polpo.
Il finale mostra un Bava amarissimo, come amaro era stato nello svolgimento del film stesso; per capire la rivoluzione copernicana del Bava di questo film basta pensare a quello che era stato il suo film precedente, 5 bambole per la luna d’agosto (1970) da lui poco amato e va detto, anche dal suo pubblico.
Brigitte Skay
E’ un Bava ormai maturo, cinico e disincantato, che all’età di 56 anni ha ormai la possibilità di esprimersi come crede.
Ed è anche fortunato, il regista ligure perchè per una volta viene lasciato libero di comporre e scomporre, di adattare e riadattare senza il solito fiato sul collo del produttore che premeva per il lavoro finito.
In condizioni ideali, il regista produce uno dei primi 5 film thriller italiani di sempre, che ispirerà altri registi e che farà da caposcuola a tanti prodotti successivi.
Qualche nota sul cast: tutti decisamente bravi dalla Auger a Pistilli, passando per Laura Belli e Leopoldo Trieste.
Da segnalare la giovanissima Nicoletta Elmi, che interpreterà diversi film del genere giallo.
Reazione a catena,un film di Mario Bava. Con Luigi Pistilli, Claudine Auger, Isa Miranda, Claudio Volonté, Anna Maria Rosati, Leopoldo Trieste,Chris Avram, Brigitte Skay
Horror, durata 81 min. – Italia 1971
Claudine Auger: Renata Donati
Luigi Pistilli: Alberto
Laura Betti: Anna Fossati
Claudio Volonté: Simone
Leopoldo Trieste: Paolo Fossati
Isa Miranda: Federica Donati
Chris Avram: Franco Ventura
Anna Maria Rosati: Laura
Brigitte Skay: ragazza che si tuffa
Paola Rubens: ragazza trafitta
Roberto Bonanni: Roberto
Guido Boccaccini: Luca
Giovanni Nuvoletti: conte Filippo Donati
Nicoletta Elmi: figlia di Alberto
Renato Cestiè: figlio di Alberto
Regia Mario Bava
Soggetto Franco Barberi, Dardano Sacchetti
Sceneggiatura Mario Bava, Filippo Ottoni, Joseph McLee, Sergio Canevari (non accreditato), Francesco Vanorio (non accreditato)
Produttore Giuseppe Zaccariello, Fernando Franchi
Fotografia Mario Bava
Montaggio Carlo Reali
Effetti speciali Carlo Rambaldi
Musiche Stelvio Cipriani
Scenografia Sergio Canevari
Costumi Enrico Sabbatini
Trucco Franco Freda
Le recensioni qui sotto appartengono al sito http://www.davinotti.com
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
Ci sono cose notevoli (fotografia da urlo, musica godibile, inquadrature eccezionali, immagini indimenticabili), ma i passaggi della trama sono svolti in maniera talora confusa, o frettolosa, problema che una seconda visione non risolve più di tanto. Il celebrato finale mi sembra incollato (e pure male) col nastro adesivo. Cast godibile, con qualche presenza non proprio centrata (Brigitte Skay che fa la ragazzina…), ma col grande Leopoldo Trieste (doppiato da Amendola!). Certo è che entomologi e oggetti acuminati ricordano qualcosa di antico…
La “Reazione a Catena” è quella innescata dal desiderio di ereditare, che spinge un gruppo di loschi personaggi a compiere azioni inimmaginabili. Nessuno è quello che appare e soprattutto nessuno è meritevole di vivere. È un Bava nerissimo, quello che firma il primo splatter italiano, dietro suggerimento di Dardano Sacchetti (qua al suo primo vero lavoro -dopo Il gatto a nove code – in sede di sceneggiatura); dove non c’è scampo, dove l’economia della storia (“Ecologia del Delitto” ed “Antefatto” sono i titoli alternativi) porta inevitabilmente alla morte.
Bava scatenato in uno dei suoi capolavori. La trama è solo un pretesto per un efferato commentario sociale e, soprattutto, per un saggio di virtuosismo. Con nonchalance da gran signore il Maestro butta là una citazione di Borges (!) affidata a Chris Avram (!!), risolvendo in trenta secondi e due inquadrature un corto circuito fra cultura alta e popolare su cui altri hanno scritto tomi pallosissimi. Grandi Trieste e la Betti, peccato (si fa per dire) per il doppiaggio, tanto più che nella versione inglese Trieste si doppiò da sè.
Discreto thriller piuttosto splatter, girato con mestiere ma con qualche ingenuità, che fa dell’ambientazione e proprio delle scene più violente e sanguinarie i suoi punti di forza. La sceneggiatura invece, abbastanza sconclusionata, non aiuta lo spettatore, che può però contare su alcune caratterizzazioni interessanti e riuscite, come quelle dei coniugi, lui appassionato d’insetti e lei di occulto, che nonostante rasentino la macchietta, danno colore e carburante alla pellicola. Il finale lascia parecchio di stucco (una sorta di tragica burla). Un’occhiata, comunque, la merita di certo.
Misantropo e splatter, il vertice dell’arte più delirante di Bava, nonché prototipo del fortunato filone slasher. Zoom onnipresente, soggettive e primi piani a iosa e splendida fotografia. Omicidi efferatissimi e fantasiosi, poi ripresi pari pari in altri film, come Venerdì 13 e Tenebre. Finale spiazzante e cinico, all’insegna dello humour più nero. I personaggi sono insetti insignificanti e senz’anima, in balia della Morte, ma le caratterizzazioni dei rispettivi attori, comunque, molto buone.
Strepitoso thriller di Bava in cui il regista romano è al suo meglio. Un vero e proprio capolavoro del genere slasher, amato, imitato e straimitato da tantissimi registi americani e non. Basti vedere come la serie “Venerdi 13” (un esempio su tutti: l’assassinio della coppia che copula) saccheggi a piene mani da questo gioellino della nostra cinematografia del brivido. Per l’epoca fu un notevole choc visivo: il sangue, infatti, scorre a fiumi. In più, rispetto ai suoi epigoni, Bava colora il suo film con note di ironica e corrosiva cattiveria.
Faide familiar-commerciali attorno alla proprietà di un ameno laghetto, con morti a go-go, preferibilmente tramite accettate. Come spesso accade in film di questo tipo, i personaggi principali sono quasi tutti più o meno ambigui e/o antipatici, tanto da alimentare i sospetti nei loro confronti, mentre i comprimari/carne da macello assicurano la dose di tette nude e sesso facile. Alcuni omicidi sono piuttosto truculenti, ma la trama è inutilmente complicata, il livello della recitazione scarso (si salvano Betti e Trieste, coppia stramba)
Film fondamentale, ma non per questo riuscito al 100%. Fondamentale perché rappresenta il primo esempio di quello che negli anni a venire sarà un filone di grande successo di pubblico: il cosiddetto “slasher”. Una serie di omicidi legati uno all’altro da un esile sviluppo narrativo. Non riuscito al 100% perché proprio la trama è la parte debole del film, anche se indubbiamente, in pellicole di questo genere, non è la cosa fondamentale. Forse visto all’epoca della sua uscita poteva essere maggiormente apprezzato. Comunque da vedere.
Fondamentale. Il film che ha ispirato decine di successivi slasher movie americani, diretto dal nostro genio Mario Bava, che dirige un film sanguinosissimo con delitti feroci per l’epoca e che funzionano ancora (memorabile la testa tagliata alla Betti), ma che soprattutto gode della particolarissima costruzione della storia: una vera e propria reazione a catena. Ineccepibile anche il cast e lo score di Stelvio Cipriani. Essenziale.
Il più bel film di Bava e uno dei migliori thriller italiani. Regia e fotografia sono di livelli altissimi: non c’è un’inquadratura fuori posto e ogni singola scena riesce in qualche modo a dire qualcosa di interessante. La sceneggiatura, crudele ma innovativa, procede in un crescendo di cattiverie che culmina in un finale tanto ironico quanto cinico (e sicuramente imprevedibile). Perfetto il cast e bellissima la colonna sonora di Cipriani, ricca di temi e incredibilmente adatta al film.
Quanto a varietà di omicidi e componente visionaria siamo dalle parti di Argento. Bava ci aggiunge una guida degli attori degna di questo nome (vedi Pistilli e Trieste), location e musiche di sicuro effetto, un filo logico tirato ma che non si spezza. Difetta piuttosto nel montaggio e nella cura dei dettagli, tipo la Skay che muore e respira ancora (il pancino la tradisce). Diciamo che gestire tredici omicidi così poliedrici porta a trascurare cose più banali..
Film seminale, ma per una mala razza come Venerdì 13. Ciò non toglie che sia un film genialoide, con degli ammazzamenti magistrali e per l’epoca inediti (il polpo sulla faccia del defunto Nuvoletti…). Un tocco di ironia finale mette pace a tanti adulti cattivi e bramosi; può sembrare ridicolo ma in realtà è la strizzata d’occhio amara di un piccolo genio del cinema che, senza accorgersene, sarà padre di tanti altri autori (da Argento – il peggiore – fino ad Almodovar e Tarantino – il migliore).
Un Bava scatenato se ne infischia della logicità e nessi narrativi, per offrirci una sarabanda infernale di omicidi. È un film molto divertente e molto splatter, con effetti speciali (curati da Carlo Rambaldi) che ancora oggi lasciano stupiti per il loro realismo. Dalla sua ha anche un cast di tutto rispetto, impensabile per una produzione italiana di oggi. Ma dove è veramente magnifico è nella resa fotografica: carrelli e zoomate creano delle soluzioni quasi optical. È soprattutto un film da guardare, da “percepire” sulla pelle. È nato lo slasher.
Molto bello. Ha ispirato (si nota sopratutto la scena dell’amplesso finito… male) molti film d’oltreoceano ma come al solito ingiustamente ha avuto meno successo. Ottimo il cast, bella fotografia, ottime le scene degli omicidi… Unica pecca? Il finale.
Galeotta fu la baia. Delitto su delitto, per uomini e donne senza scupoli. Così tanto, da indurmi a rifiutare qualsivoglia verosimiglianza. Reazione a catena, una catena intricata, ma che conduce allo stesso lucchetto. Un destino beffardo, che premia l’inconsapevolezza e l’ingenuità, l’anti premeditazione a scopo di lucro. Ecologia di un delitto, l’interazione poco amichevole tra uomini e ambiente, ma soprattutto tra uomini e uomini, col danaro terzo incomodo. Delitti, mutilazioni e fendenti vari ammirevoli per fantasia. **1/2
Primo slasher della storia del cinema: banale nella trama, efferato e seriale nei delitti. Bava tiene a cuore l’aspetto moralistico. Sin dall’inizio crea analogie tra uomini e insetti, così che anche il secondo titolo del film (Ecologia del delitto) acquisti un senso. La pellicola presenta un forte utilizzo dello zoom, abbinato ad un continuo fuoco/fuori fuoco. In tal modo, Bava mostra e non mostra, afferma e poi nega, come nell’inquietante finale ribaltato. Film che dà la spinta a Venerdì 13 di Sean Cunningham e allo slasher in genere.
Cattivo e a tratti ironico; non si può per questo film non riconoscere a Bava di aver dato un contributo fondamentale ad un genere (o filone che sia) che col tempo ha mostrato sempre meno cose e che già qui ha messo in evidenza i punti deboli. Non si può non riconoscere un ottimo impianto visivo ma anche concettuale, in questa festa di omicidi dove il delitto brutale assume un aspetto raffinato ed elegante, tutto materiale che assorbirà Argento. Ma troppi sofismi e troppo pensiero rendono pesante e poco interessante una trama debole di suo.
Portiere di notte
Un viaggio oscuro,attraverso il labirinto dei comportamenti umani,attraverso la sindrome di Stoccolma,vera o presunta,che si instaura tra una vittima e il suo carnefice.
Al tempo stesso un viaggio asettico e in bianco e nero,senza morali aggiuntive,senza denuncia,quasi un documentario su una relazione ambigua.Questo potrebbe essere uno dei fulcri del film Portiere di notte,di Liliana Cavani.Potrebbe,non è detto che lo sia.
In una Vienna livida e cupa arriva Lucia,(Charlotte Rampling),una giovane donna dal passato è tragico;è stata detenuta in un campo di concentramento nazista,e ne è uscita segnata per sempre.
Quando arriva nell’albergo in cui prenderà alloggio,Lucia si trova immediatamente di fronte i fantasmi del suo passato,incarnati da Max,il portiere dell’albergo,l’uomo che l’aveva violentata durante la sua reclusione.
L’uomo che la aveva utilizzata come strumento di piacere per gli ufficiali del lager,il responsabile dei suoi incubi;ma il rapporto tra i due ha mantenuto un sottile filo perverso,e ben presto nasce tra loro un complesso rapporto sado masochistico,in cui si allacciano mortalmente lussuria,senso di possesso,senso di sottomissione,in un intreccio inestricabile di sensazioni.
Max,che copre anche con il suo lavoro alcuni dei vecchi gerarchi del campo,lavora per una donna,la Contessa,e gli procura giovani e focosi amanti;i vecchi aguzzini,però,hanno paura che la donna parli,e riveli particolari del loro fosco passato.E il film sfocia,fatalmente,in tragedia.
Liliana Cavani affrontò con grande intelligenza esenza alcuna paura un tema scottante,assolutamente mal visto da intellettuali e non solo;e lo fece raccontando una storia nera al punto giusto,senza indugiare su sensi di colpa o su condanne etiche.
Il risultato è un film cupo e drammatico,in cui la confusione di ruoli tra colpevoli e vittime,tra potere e succubi del potere assume confini incerti.
Grande prova d’autore per Bogarde e per la Rampling,due personaggi sinistri e tragici,resi con vigore nelle loro paure,angosce e nelle loro esaltazioni;eros e thanatos inestricabilmente uniti,in un gioco delle parti in cui nessuno ha un ruolo definito.Non ci sono vincenti o eroi,c’è solo l’ineluttabilità del destino.
Portiere di notte
un film di Liliana Cavani. Con Gabriele Ferzetti, Charlotte Rampling, Philippe Leroy, Isa Miranda, Dirk Bogarde, Nora Ricci, Giuseppe Addobbati, Marino Masé, Piero Mazzinghi, Ugo Cardea, Amedeo Amodio. Genere Drammatico, colore 114 minuti. – Produzione Italia 1974.
Dirk Bogarde: Maximilian Theo Aldorfer
Charlotte Rampling: Lucia Atherton
Philippe Leroy: Klaus
Gabriele Ferzetti: Hans
Giuseppe Addobbati: Stumm
Isa Miranda: contessa Stein
Nino Bignamini: Adolph
Marino Masè: Atherton
Nora Ricci: la “vicina”
Regia Liliana Cavani
Soggetto Barbara Alberti, Liliana Cavani,
Amedeo Pagani e Italo Moscati
Sceneggiatura Liliana Cavani
Fotografia Alfio Contini
Montaggio Franco Arcalli
Musiche Daniele Paris
Scenografia Nedo Azzini
Costumi Piero Tosi
Giuseppe Rinaldi: Dirk Bogarde
Vittoria Febbi: Charlotte Rampling
Pino Locchi: Philippe Leroy
Lydia Simoneschi: Isa Miranda