Escalation
Luca Lambertenghi,figlio di Augusto,un industriale nel campo degli oli,ha scelto il totale disimpegno dagli affari della famiglia,vivendo da hippy
più per un atteggiamento anticonformista che per scelta di vita.
La sua vita si svolge pigramente a Londra,tra ozi,concerti di musica alternativa;vive vestito all’indiana,gira in bici con tanto di sitar sulle spalle
e con occhialini da intellettuale.
Il padre,stanco del suo disinteresse nei confronti del lavoro,lo riporta a casa e per cercare di ricondurlo sulla retta via gli affianca la psicologa Maria Carla.
La donna,con cinismo e freddezza,decide di perseguire un suo piano:far innamorare di lei Luca,farlo diventare socio del padre ed entrare nella famiglia Lambertenghi e assumerne con il tempo il controllo.
Augusto però fiuta il pericolo e mette in guardia il figlio sulle reali intenzioni della donna,rivelandogli di essere stato proprio lui a fare in modo che la donna lo seducesse.
Luca con freddezza avvelena sua moglie con dei funghi poi,denudato il suo corpo,la dipinge come un quadro di Warhol e alla fine
alla maniera indiana ne brucia il corpo.
Chiamato dalla polizia,riconosce in un corpo martoriato e sfigurato quello della moglie e prende il suo posto alla direzione dell’azienda di famiglia.
La recensione di Segnalazioni cinematografiche del 1968 esprime in maniera compiuta,perfetta la sintesi del film:””Il film sembra satireggiare una società che, integrandolo nel suo sistema senza anima, spersonalizza l’individuo e vanifica le sue più nobili aspirazioni. Alquanto fragile nella schematizzazione psicologica dei personaggi, il lavoro amalgama il sarcasmo e l’ironia fino a raggiungere formule
grottesche e paradossali, con un linguaggio estroso e agile, funzionale nel colore e nell’ambientazione. Tuttavia non riesce dl tutto convincente, per l’artificiosità e l’intonazione astratta delle motivazioni, le incertezze e i salti di tono tra la feroce caricatura realistica del padre e le nebulose aspirazioni del protagonista, dando troppo sovente l’impressione di risolversi in un puro gioco intellettualistico.”
Un gioco intellettualistico;è vero in assoluto.Roberto Faenza esordisce nella regia,a soli 25 anni,con questo Escalation,film pesantemente datato uscito in quel 68 denso di pellicole anticonformiste che esprimevano compiutamente un bisogno di linguaggi anche cinematografici alternativi a quelli correnti.
Quello di Faenza non fa eccezione.
Il personaggio di Luca sembra essere quello di un anticonformista che rivolge la contestazione verso un mondo ipocrita e paludato,ma in realtà è solo quello di un imbelle,di un figlio di papà che non ha alcuna voglia di assumersi responsabilità non per scelta “ideologica” ma solo perchè così la vita è più comoda.
Ed è questo che Faenza intende stigmatizzare,la capacità cioè della società di amalgamare,omologare e alla fine irrigimentare chiunque tenti di opporsi al cambiamento.
Ma il linguaggio è,sia figurativamente che nel parlato,confuso e farraginoso.
Così dopo 15 minuti di sproloqui,immagini quasi dadaistiche,la noia prende il sopravvento e non lascia più lo spettatore.
Indubbiamente il film di Faenza è coraggioso,ma questo non basta a renderlo anche interessante.
Il finale è indubbiamente in bilico tra l’amaro e il grottesco (il potere,il successo e il denaro trionfano) ma è fine a se stesso.
Escalation è un film pesantemente datato;va visto,oggi nell’ottica del documento d’epoca,ma nient’altro.
Un festival anche del vintage,della noia,del deja vu.
Per quanto riguarda gli interpreti,bene Capolicchio alle prese con un personaggio odioso che rende al di là delle aspettative,bene una gelida e algida Claudine Auger,meno bene un isolito Ferzetti con un’acconciatura improbabile e per una volta sopra le righe.
Film di assoluta rarità,è presente in rete in una bellissima versione all’indirizzo https://fboom.me/file/df6135fbe0a90/Escalation.1968.mkv
Escalation
Un film di Roberto Faenza. Con Gabriele Ferzetti, Leopoldo Trieste, Claudine Auger, Lino Capolicchio, Didi Perego, Dada Gallotti Drammatico, durata 95 min. – Italia 1968
Gabriele Ferzetti: Augusto Lambertenghi
Lino Capolicchio: Luca Lambertenghi
Leopoldo Trieste: Il sacerdote; il santone
Claudine Auger: Carla Maria Manini
Didi Perego: L’investigatrice privata
Dada Gallotti: L’infermiera
Regia Roberto Faenza
Soggetto Roberto Faenza
Sceneggiatura Roberto Faenza
Fotografia Luigi Kuveiller
Montaggio Ruggero Mastroianni
Musiche Ennio Morricone
Scenografia Giorgio Giovannini
Trastevere
Irriverente e a tratti goliardico,sottilmente anticlericale e a volte blasfemo,pieno di difetti che però alla lunga diventano pregi.
Trastevere,opera prima ed unica di Fausto Tozzi, comprimario di buona caratura,è il sogno di un attore che si realizza e diventa realtà,un film
in cui non mancano certo idee originali e una ridanciana visione del proletariato del più celebre dei quartieri romani,Trastevere.
L’attore romano,che negli anni 50 recitò in film di largo successo come Casta diva e Casa Ricordi o Beatrice Cenci per anni aveva coltivato il sogno di dirigere un film scopertamente popolare.
L’occasione arrivò finalmente nel 1971,quando riuscì a convincere il produttore Alberto Grimaldi ad affidargli la direzione di Trastevere,del quale scrisse anche la sceneggiatura.
Un film che ebbe una gestazione travagliata e che quando uscì nelle sale dovette subire tagli della censura (assolutamente immotivati)
oltre che un rimaneggiamento in alcune sequenze girate e che furono tagliate in fase di montaggio,principalmente per volontà del produttore.
Tagli e mutilazioni che però non compromettono l’equilibrio del film,che per sua natura e per sceneggiatura non contempla un andamento univoco,essendo principalmente una raccolta di storie legate ad un comune filo conduttore,quello delle vicissitudini della cagnetta Mao che,smarrita improvvidamente da un cantante lirico,finirà per passare di mano in mano attraverso un viaggio nel popolare quartiere romano,in cui vivono personaggi stravaganti ed eccessivi,eppure così vicini all’autentico spirito popolare romanesco.
Il viaggio di Mao è l’occasione per conoscere lo spirito autenticamente popolare di alcuni personaggi,chiaramente ispirati al vero;il contrabbandiere che per non finire in galera ci manda in sua vece una povera vecchia,l’usuraia che muore durante un pellegrinaggio,l’hippie suicida dopo una relazione omosessuale con un ricco e laido aristocratico,il vedovo che insegue implacabilmente l’uomo che gli aveva ucciso la moglie prostituta,
il vizioso che fa si che la moglie abbia una relazione sessuale con un macellaio ecc.
Una galleria di personaggi forse troppo caricaturati,grotteschi nella loro mancanza di morale e di pudore,ma che in qualche modo sono riconoscibili nei vizi e virtù di un proletariato che anni dopo un altro regista,Scola,avrebbe descritto spietatamente usando l’ambientazione delle baraccopoli romane in Brutti sporchi e cattivi.
Come dicevo,il film subì alcuni rimaneggiamenti;uno riguarda una sequenza che inquadra due pescatori,uno dei quali tira su un preservativo;la battuta “questa è tutta colpa del Papa,che se non si opponeva alla pillola stò schifo nun se vedeva”
venne giudicata irriguardosa e censurata,così come venne tagliata l’innocente sequenza girata a piazza Navona in cui la Schiaffino,vestita da hippy viene apostrofata da un gruppo di giovinastri,uno dei quali dice “ammazzala quant’è bona,c’ha un culo che parla“mentre un altro chiede “ma che è indiana?” e l’ultimo,con il solito sarcasmo romanesco di fronte alla noncuranza della donna,risponde “no,è stronza”
Come si può leggere,battute che in seguito sarebbero divenute la norma,ma che a inizi del 1971 facevano scandalizzare i moralisti benpensanti della commissione censura.
Fausto Tozzi morì nel 1978,quindi solo sette anni dopo aver realizzato questo film,senza più avere la possibilità di esprimere un talento registico che indubbiamente possedeva;
lo si può notare nella freschezza dei dialoghi,nella vena autenticamente popolana dei dialoghi,nell’irriverenza con cui tratta argomenti delicati e sopratutto nella genuina rappresentazione di un mondo,quello trasteverino,che oggi è indissolubilmente scomparso, avendo lasciato il posto ad un quartiere meno spontaneo e folkloristico,in cui tutto sembra ormai artefatto,ad uso e consumo degli immancabili turisti che popolano la capitale.
Un film oggi assolutamente non più proponibile come tematica;un certo tipo di cinema è scomparso quando il dio denaro ha definitivamente spento le velleità di tanti cineasti coraggiosi che sfidavano la morale,il costume e le stesse produzioni proponendo opere coraggiose,spesso non equilibrate,confuse,ma assolutamente spontanee.
Nel cast di Trastevere figurano numerosi grandi nomi,che vanno da quello di Nino Manfredi a quello di Vittorio De Sica,dalla splendida e indimenticabile Rosanna Schiaffino (qui nel suo unico nudo cinematografico) ad un elenco impressionante di bravi attori,che compaiono in parti molto piccole ma significative,come Vittorio Caprioli e Ottavia Piccolo,Leopoldo Trieste e Milena Vukotic,Gigi Ballista e Rossella Como fino a Enzo Cannavale,napoletano doc che interpreta un popolano trasteverino.
Tagliate invece in fase di distribuzione le parti di Martine Brochard , Riccardo Garrone e Umberto Orsini.
Trastevere è un film che va recuperato,perchè mostra con spirito autentico uno spaccato borgataro di Roma com’era ormai quasi mezzo secolo addietro;un viaggio non solo nello spirito della borgata,ma un percorso quasi archeologico,in una Roma assolata e autentica,
tra personaggi di ogni tipo.Un viaggio tra viuzze e osterie,condite da un linguaggio sicuramente colorito,ma specchio fedele dell’anima autenticamente popolare della borgata.
Venne accolto con diffidenza da molti critici,poco avvezzi alla spontaneità e molto più alle atmosfere costruite,false come un euro cinese.
Bello il tema iniziale,malinconico e cantato sull’onda del rimpianto,testimoniato dalla frase “se er monno va come va,che ce voi fa?“,opera dei fratelli Labionda (Oliver Onions)
Il film è disponibile in una versione discreta all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=JW7fHTso3Zk&t=25s.
Vi consiglio caldamente la sua visione.
Trastevere
Un film di Fausto Tozzi. Con Nino Manfredi, Leopoldo Trieste, Rosanna Schiaffino, Vittorio De Sica, Milena Vukotic, Umberto Orsini, Vittorio Caprioli, Ottavia Piccolo, Nino Musco, Enrico Formichi, Rossella Como, Gina Mascetti, Luciano Pigozzi,
Stefano Oppedisano, Marcella Valeri, Fiammetta Baralla, Enzo Cannavale, Carlo Gaddi, Nerina Montagnani,
Vittorio Fanfoni, Gigi Ballista, Don Powell, Giorgio Maulini, Lino Coletta Commedia, durata 104 min. – Italia 1971.
Scene censurate
Nino Manfredi: Carmelo Mazzullo
Rosanna Schiaffino: Caterina Peretti, detta Rama
Vittorio Caprioli: Don Ernesto
Ottavia Piccolo: Nanda
Vittorio De Sica: Enrico Formichi
Leopoldo Trieste: Il professore
Mickey Fox: Sora Regina
Milena Vukotic: Delia
Gigi Ballista: Il conte
Ronald K. Pennigton: Kerry
Luigi Uzzo: Cesare
Lino Coletta: Alvaro Diotallevi
Don Powell: John
Rossella Como: Teresa
Fiammetta Baralla: Gigliola
Enzo Cannavale: Straccaletto
Nino Musco: Il brigadiere
Luigi Valanzano: Sor Alfredo, il barista
Stefano Colazingari: Il figlio di Straccaletto
Marcella Valeri: Sora Nicolina
Lino Murolo: Il poliziotto
Goffredo Pistoni: Sor Toto
Luciano Pigozzi: Righetto
Vittoria Di Silverio: sora Amalia
Ada Passari: Sora Filomena
Olga De Marco: Sora Cesira[1]
Gérard Boucaron: Checco
Alberto Ciaffone: Settimio Rotoletti
Gina Mascetti: Sora Gertrude
Bruno Ciangola: Andrea
Franca Scagnetti: Sora Maria
Enrico Formichi: Il sagrestano
Carlo Gaddi: Parente di Righetto
Annarosa Garatti: Una donna alla finestra
Vittorio Fanfoni: Pierre
Stefano Oppedisano: Gaston
Leonardo Benvenuti: Il finanziere
Regia Fausto Tozzi
Sceneggiatura Fausto Tozzi
Produttore Alberto Grimaldi, Enzo Provenzale
Casa di produzione PEA
Fotografia Arturo Zavattini
Montaggio Nino Baragli, Carlo Reali
Musiche Oliver Onions
Scenografia Giantito Burchiellaro
“Quello che nun ho capito è se tu ar posto del cervello hai il peperone in umido o una manciata di segatura bagnata de piscio”
“Credete che dopo l’ultima enciclica der Papa se possa pija er cafè?”
“Come sei bello! Hai un viso da bambina su un corpo di gigante spirituale!”
“La guida tedesca: “Meno due,uno…fuoco…(il cannone del Giancolo tarda tre secondi)…Ecco,i soliti italiani…”
L’ammazzatina
Lo spiantato barone siciliano Mimì Galluzzo ha sposato,per interesse,la figlia di un ricchissimo mafioso,la bella e svampita Rosalba Cetraro.
Quando il suocero viene ammazzato il barone si trova di fronte a due sgradite sorprese;l’uomo ha lasciato un documento compromettente riguardante
i suoi amici mafiosi e un testamento nel quale la beneficiaria è la moglie.
Che Mimì non sopporta più.
La donna infatti sembra solo interessata ad avere un figlio,ragion per cui il barone è tormentato dalle stravaganti richieste della donna,che lo sottopone a tour de force erotici a base di strampalate richieste.
Mimì si trova anche a barcamenarsi tra altre due donne,Maria Camerò, che possiede il documento che l’uomo tanto cerca che però la donna vuol cedere solo in cambio della promessa di un matrimonio e la spogliarellista Eva,altra donna bella e svampita.
All’improvviso un altro problema:Rosalba,stressata dal fatto di non restare incinta,sembra perdere il senno (sembra,appunto) e viene ricoverata in un istituto psichiatrico.
Spinto da Maria,che adesso è diventata sua amante a disfarsi della moglie,il barone cerca inutilmente di ucciderla,infilandosi in una serie di tragicomici incidenti.
Alla fine Mimì non solo non si libererà della moglie,ma la sostituirà in manicomio,mentre Rosalba,che non è mai impazzita,riesce finalmente a coronare il suo sogno di diventare madre e contemporaneamente incassare la miliardaria eredità.
L’ammazzatina,film diretto nel 1975 dall’esordiente (alla regia) Ignazio Dolce,attore di qualche fama nel decennio sessanta,è un opera bislacca in precario equilibrio tra farsa,commedia e satira di costume.
Un equilibrio che avrebbe richiesto,alla macchina da presa,la presenza di un regista scafato e che vede invece l’improvvisato Dolce barcamenarsi alla men peggio in una storia molto debole già in partenza,mancando al film stesso un orientamento preciso.
Pur contornato da un cast di ottimi comprimari,il film naufraga dopo pochi minuti per l’incapacità di prendere una strada precisa.
La satira di costume non affiora mai,mentre ad essere evidenti sono i soliti stereotipi sul macho siciliano spiantato e arrivista,rappresentato dal solito barone spiantato e donnaiolo,una delle figure classiche,ahimè,del cinema ad ambientazione sicula.
Stereotipate sono anche le figure dei mafiosi che si avvicendano nel film,mafiosetti in doppio petto che sembrano prese di petto da un’operetta mentre a fare capolino con sospetta puntualità sono le grazie delle varie protagoniste.
Seni al vento per Karin Schubert (Eva,l’amante spogliarellista) e Erika Blanc,per Andrea Ferreol (Maria) e persino per Paola Quattrini,che interpreta la svampita ma all’occorrenza furbissima moglie del barone.
Nei cui panni c’è un Pino Caruso alla sua prima,vera opera da protagonista;che assolve in maniera puntuale,pur non assecondato da un ruolo decisamente poco comico e al tempo stesso nemmeno drammatico che si trova ad affrontare.
Un buon equipaggio non può tenere a galla una barca che fa acqua da tutte le parti;la storia è stroppo debole,la sceneggiatura rabberciata e ondivaga,priva di una direzione precisa.
Si sarebbe potuto salvare tutto usando l’arma classica della comicità,ma evidentemente Dolce non ha le giuste capacità,ragion per cui
ben presto il film perde di interesse diventando anonimo se non soporifero.
Peccato,perchè la presenza di altri ottimi caratteristi,come Vittorio Caprioli,Tano Cimarosa,Empedocle Buzzanca,Leopoldo Trieste e Pupo De Luca avrebbe permesso un risultato decisamente migliore se al servizio di una sceneggiatura meno anonima e debole.
Null’altro da dire,davvero,se non la debita segnalazione della presenza,dopo tempo immemorabile,di una riduzione decente su You tube all’indirizzo
https://www.youtube.com/watch?v=Ph9mHbimln4,versione qualitativamente buona.
L’ammazzatina
Un film di Ignazio Dolce. Con Andrea Ferreol, Leopoldo Trieste, Vittorio Caprioli, Paola Quattrini, Erika Blanc, Pino Caruso, Tano Cimarosa,Empedocle Buzzanca, Don Powell, Karin Schubert Commedia, durata 100 min. – Italia 1975
Pino Caruso … Mimì Galluzzo
Paola Quattrini … Rosalba Cetraro
Andréa Ferréol … Maria Camerò
Karin Schubert … Eva
Vittorio Caprioli … Commissario Pafuso
Tano Cimarosa … Pasqualino Mosco
Empedocle Buzzanca… Notaio
Don Powell … Hippie
Erika Blanc … Erika
Leopoldo Trieste … Tuccio Langatta
Pupo De Luca … Brigadiere Bragolin
Regia: Ignazio Dolce
Sceneggiatura:Pier Francesco Pingitore,Mario Castellacci,Ange Bastiani
Musiche:Piero Umiliani
Fotografia:Claudio Cirillo
Montaggio:Raimondo Crociani
Production design:Saverio D’Eugenio
Costumi:Massimo Bolongaro
Ignazio Dolce,Paola Quattrini e Pino Caruso sul set del film
Perdutamente tuo… mi firmo Macaluso Carmelo fu Giuseppe
Carmelo Macaluso ha trentacinque anni, quindici dei quali passati in Germania.
E’ un ex emigrante, figlio di un mezzadro siciliano che si suicidò per aver contratto un debito con l’affittuario delle terre su cui lavorava, debito non più restituito.
Dopo tanti anni è arrivata l’ora della rivincita, per Carmelo.
Ha lavorato duramente, ma ha risparmiato cento milioni e ora viaggia in Mercedes e al rientro nel paesino da quale è emigrato anni addietro ha la soddisfazione di vedere gli sguardi di invidia dei compaesani.
Il primo gesto plateale è l’apertura di un libretto di risparmio, contenente i cento milioni faticosamente guadagnati, seguito dalla restituzione del mezzo milione del debito contratto da suo padre, che il siciliano, sprezzante, raddoppia.
Stefano Satta Flores
Macha Meril
Sempre inseguendo il sogno di una rivincita, Carmelo accetta la corte interessata della baronessa Lamia, moglie del barone proprietario delle terre su cui lavorava suo padre.
La donna è anche disposta ad un matrimonio di interesse, ma per sua fortuna Carmelo è avvisato delle vere intenzioni della baronessa da Don Calogero, che a sua volta vuol far sposare il giovane con la figlia.
Carmelo inizia a capire che la realtà del suo paese non è quella che aveva lasciato tanti anni prima, che l’avidità, la grettezza e l’interesse sono molle potentissime, che fanno del suo denaro non certo un mezzo di rivalsa, ma un concreto rischio di essere avvicinato solo per motivi di interesse.
Finirà in malo modo,con Carmelo che, dopo varie peripezie, perderà tutti i soldi.
In un drammatico e amaro dialogo impossibile con suo padre morto, Carmelo racconterà il modo in cui ha guadagnato i suoi soldi e riprenderà il treno verso la Germania, povero in canna come era partito.
Commedia amara e con una garbata vena di satira sociale, Perdutamente Tuo,mi Firmo Macaluso Carmelo fu Giuseppe è un film piacevole ed interessante che narra una storia di emigrazione molto simile a quella narrata in Pane e cioccolata di Brusati, in cui però la storia è capovolta.
Carmelo ha fatto soldi con il duro lavoro.
Ha lavorato in una birreria, per poi prendere servizio in un garage e in ultimo ha affittato dieci materassi a compatrioti che come lui hanno cercato fortuna in una terra indifferente e se vogliamo ostile.
Il suo sogno di una rivincita sulla vita ma sopratutto sul paese e sul barone che ha costretto suo padre al suicidio si infrange malinconicamente davanti ad una serie di situazioni che Carmelo non è pronto ad affrontare.
Il paese che ha lasciato lo respinge, per invidia sopratutto ma anche perchè la mentalità meschina dei suoi abitanti è impossibile da scardinare.
Lo scopriamo attraverso i vari volti che si susseguono nel racconto, pieno di personaggi avidi, gretti; per Carmelo, più simile ad un agnello che al lupo calato per mostrare la sua forza a chi lo aveva costretto all’emigrazione, non c’è scampo.
Il finale amarissimo vede il siciliano dividere lo scompartimento di seconda classe con tre emigranti in Germania, ai quali racconta la storia di un emigrante partito tanti anni prima e tornato ricco “con cento milioni e una Mercedes 220 diesel che ha perso tutto per colpa di una ragazza minorenne“.
E’ l’ultima umiliazione, perchè i tre scoppiano a ridere di fronte a tanta ingenuità: “cento milioni per una fimmina?” sarà il loro commento beffardo e spietato.
Vittorio Sindoni, regista del film, realizza un ritratto grottesco e amaro della Sicilia della provincia, in cui con toni garbati e mai sopra le righe racconta una storia di un perdente diventato vincente che vuole stravincere e finisce viceversa per ritornare perdente.
Il regista siciliano, diventato in seguito fertile regista di fiction televisive utilizza al meglio l’ottimo cast di cui dispone, piegandolo al servizio di una commedia di costume che ha come difetto qualche pausa e qualche sbavatura ma anche al suo attivo una storia crudele quanto basta interpretrata magnificamente dal compianto Stefano Satta Flores, uno che con i perdenti aveva grande dimestichezza (come dimenticare lo splendido ritratto di Nicola Palumbo in C’eravamo tanto amati).
L’attore napoletano, prematuramente scomparso nel 1985 a soli 48 anni è interprete di classe: lo dimostra giganteggiando in un film che sembra essere al suo servizio, in cui l’identificazione con il personaggio triste e sconfitto di Carmelo è quasi assoluta.
Cinzia Monreale
Attorno a lui si muovono gli altri attori ingaggiati per il cast, nel quale ognuno fa la sua parte con diligenza:molto brava (ed affascinante) Macha Meril nel ruolo della baronessa Lamia, bravo anche Umberto Orsini in quello dell’avvocato amante della baronessa.
Bella e brava Cinzia Monreale, un’attrice che avrebbe meritato ben altro spazio nelle produzioni a cui ha partecipato, mentre ci sono camei preziosi per Luciano Salce e Marisa Laurito.
Perdutamente Tuo,mi Firmo Macaluso Carmelo fu Giuseppe è un film rimasto per tantissimi anni in un angolo, prima di essere riproposto dai canali Mediaset; oggi ci sono in rete copie di buon livello del film, che può anche essere visionato su You tube in versione completa.
Perdutamente tuo… mi firmo Macaluso Carmelo fu Giuseppe
Un film di Vittorio Sindoni. Con Leopoldo Trieste, Macha Méril, Stefano Satta Flores, Cinzia Monreale,Pino Ferrara, Luciano Salce, Giuliano Persico, Umberto Orsini, Renato Pinciroli, Vito Cipolla, Marisa Laurito, Deddi Savagnone Commedia, durata 100′ min. – Italia 1976.
Stefano Satta Flores: Carmelo Macaluso
Leopoldo Trieste: don Calogero Liotti
Macha Méril: Baronessa Valeria Lamia
Cinzia Monreale: Jessica
Umberto Orsini: avvocato Vito Orsini
Luciano Salce: Barone Alfonso Lamia
Marisa Laurito: Tindara Liotti
Roberto Della Casa: Impiegato di banca
Pino Ferrara: L’avvocato difensore
Renato Pinciroli: don Saverio
Deddi Savagnone: La moglie di don Calogero
Regia Vittorio Sindoni
Soggetto Ghigo De Chiara, Vittorio Sindoni
Sceneggiatura Ghigo De Chiara, Vittorio Sindoni
Produttore Luciano Giotti
Fotografia Safai Teherani
Montaggio Mariano Faggiani
Musiche Enrico Simonetti
Scenografia Vittorio Sindoni
Il paese di Stignano
Gerace
Caulonia
Villa Caristo a Stignano
Il saprofita
Il giovane Ercole studia da seminarista, in attesa di prendere i voti; ma in seguito ad un trauma, perde apparentemente la voce ed è costretto quindi a lasciare il seminario. Grazie alle conoscenze mondane del Superiore del seminario, Ercole finisce a servizio del generale Augusto Bezzi e di sua moglie Clotilde, baronessa.
La coppia ha due figli, Brunilde e il giovane Parsifal, costretto all’immobilità su una sedia a rotelle.
Ercole riesce immediatamente a farsi benvolere sia da Clotilde che da Parsifal; mentre con la baronessa l’ex seminarista allaccia quasi subito una relazione sessuale con Parsifal Ercole sembra legare in maniera speciale. Il giovane Parsifal infatti lo adora, anche quando scopre che tra lui e sua madre c’è una relazione.
Che Parsifal cerca di ostacolare, inutilmente.
Nel frattempo il Generale,dopo un litigio con la Baronessa che gli rimprovera di essere diventato un vecchio inutile cosa che del resto fa Brunilde, compie un gesto estremo lanciandosi da un balconcino della casa, proprio mentre Clotilde e Ercole sono impegnati in un focoso amplesso.
La morte del generale sembra paradossalmente sopire le tensioni della casa e le vite dei protagonisti scorrono tranquille.
Un giorno Clotilde, consigliata dal parroco Don Vito decide di inviare Ercole e Parsifal a Lourdes, in un estremo tentativo di trovare una soluzione ultraterrena alla menomazione di Parsifal.
Durante il viaggio i due conoscono Teresa Adiutori, una bella e morigerata giovane che accompagna sua nonna in Francia; ben presto il giovane Parsifal, in piena tempesta ormonale, si lega morbosamente alla ragazza ma non ha fatto i conti con il suo accompagnatore Ercole.
Che seduce la ragazza; scoperto durante un convegno amoroso (sul letto nel quale dorme la nonna di Teresa), Ercole insegue per il corridoio dell’albergo Parsifal che gli sta urlando contro e con un calcio fa precipitare giù per le scale il ragazzo, che muore.
Quasi miracolato dall’insano gesto, Ercole riprende a parlare e alla gente accorsa alle grida di Parsifal, presenta il tutto come un miracolo invitando i presenti alla preghiera…
Saprofita (termine derivato dal greco) indica quegli organismi che si nutrono di materia organica morta o in decomposizione; e tale appare il giovane e opportunista Ercole, che forse finge una afasia post traumatica semplicemente per sfuggire alla vita sacerdotale, per la quale forse non è tagliato.
E Il saprofita è il titolo di questa interessante opera prima di Sergio Nasca, che precede lo splendido Vergine e di nome Maria che nel 1975 lo impose all’attenzione del pubblico.
Il saprofita esce nelle sale nel 1974 ed è accolto in maniera controversa dal pubblico e dalla critica, se vogliamo con ottime motivazioni.
Il film ha una trama interessante, uno spunto di partenza che si presta ad un’analisi sui vizi delle famiglie borghesi meridionali, tema molto sfruttato ma capace di offrire continui spunti di riflessione.
Ercole è un personaggio ambiguo, come del resto ci appare da subito; freddo e glaciale, aiutato in questo dalla sua impossibilità di comunicare (voluta o subita ha un’importanza relativa), riesce ad installarsi nella famiglia Bezzi come un parassita, pronto a sfruttare le contraddizioni della famiglia stessa.
La Baronessa Clotilde è preda facile: bella e trascurata da un marito molto più anziano di lei, che non può più avere rapporti con sua moglie per una menomazione ( o semplicemente per gli stravizi in cui è vissuto, come rimproveratogli dalla moglie), Clotilde trova nel bel tenebroso Ercole un surrogato di felicità, che compra con regali in denaro, convincendo Ercole ancor più della bontà della sua scelta.
Il saprofita Ercole si installa quindi come farebbe una tenia nel suo ospite, sfruttando la situazione e ricavandone sesso e soldi. Poichè la Baronessa è ancora una splendida donna, il sacrificio è meno duro del preventivabile.
Unico ostacolo è Parsifal, un giovane gretto e meschino, costretto su una sedia a rotelle dalla quale sogna di evadere e che nel frattempo però spia sua madre e il suo amico/nemico Ercole nei convegni amorosi.
Non migliore è Brunilde, una ragazza astiosa in competizione con sua madre.
Memorabile la sequenza in cui con fare da donna consumata tenta un approccio con Ercole, venendo da quest’ultimo respinta.
Nella parte finale del film, la meno convincente e la più discontinua, seguiamo il percorso sulla strada mistico-religiosa che porterà l’improbabile coppia di amici/nemici a Lourdes, attraverso la conoscenza casuale della bella e bigotta Teresa fino all’amaro epilogo che vedrà la morte di Parsifal.
Se in Il saprofita funziona almeno parzialmente l’analisi cruda dei vizi della famiglia protagonista a non funzionare è il quadro d’assieme, molto discontinuo e frammentato.
Momenti felici si alternano a momenti in cui il sarcasmo e la voglia di pungere di Nasca perdono l’orientamento, finendo per creare un panorama generale confuso e contraddittorio.
Colpa dell’inesperienza, forse o colpa anche di una sceneggiatura non lineare, colpa della voglia di Nasca di stigmatizzare i personaggi che delinea, tutti preda di pulsioni e difetti caratterizzati all’eccesso.
Non c’è un solo personaggio che induca alla simpatia nel film e forse questo alla fine pesa nell’economia della pellicola.
Tutto è troppo marcatamente negativo, dal saprofita Ercole al giovane Parsifal, dalla baronessa al generale passando anche per i personaggi minori del film come Don Vito e Brunilde.
Tuttavia da questo quadro confuso emerge un ritratto al vetriolo della famiglia medio borghese che ha una sua consistenza, così come può essere definito ben realizzato il quadro di una società ipocrita e moralista anche nelle manifestazioni di fede.
Certo a colmare la misura arriva anche il personaggio della bigotta Teresa, che avrebbe potuto risollevare il film da un nichilismo che abbiamo respirato sin dal primo minuto di proiezione; ma Nasca va fino in fondo e ci propone un ultimo personaggio meschino e perdente lasciando finire il film su un binario che ha tracciato dall’inizio, quello della dissoluzione morale.
Il cast del film è molto eterogeneo e comprende un buon Al Cliver quasi mefistofelico e impenetrabile alle emozioni, come del resto rappresentato dall’accostamento con un parassita che si nutre di beni materiali installandosi nel suo ospite pronto a sfruttarne al massimo le pulsioni vitali.
Valeria Moriconi
Janet Agren
Bellissima e affascinante Valeria Moriconi, valente attrice di teatro che disegna geometricamente la figura della Baronessa abbagliata e offuscata dai sensi, così come discreta è Janet Agren nel ruolo di Teresa.
Poco sopra la sufficienza Giancarlo Marinangeli, a tratti indisponente ben aldilà dell’antipatia che suscita il suo personaggio; rivedremo l’attore in Peccatori di provincia, in Ritratto di borghesia in nero e in Cicciolina amore mio, prima della sua eclissi cinematografica.
Un film discontinuo, a tratti rozzo a tratti efficace, ma opera comunque molto interessante e di pregio.
Per fortuna il film è stato recentemente digitalizzato splendidamente ed è quindi visionabile in una versione che ha sostituito quella logora e inguardabile delle vecchie VHS.
Il saprofita
Un film di Sergio Nasca. Con Valeria Moriconi, Janet Agren, Leopoldo Trieste, Al Cliver, Cinzia Bruno, Rina Franchetti, Marisa Traversi, Dada Gallotti, Valentino Macchi, Nerina Montagnani, Daniele Dublino, Clara Colosimo, Luca Sportelli, Giancarlo Badessi, Giancarlo Marinangeli, Carlo Monni Drammatico, durata 100′ min. – Italia 1974
Al Cliver: Ercole
Valeria Moriconi: La baronessa Clotilde
Leopoldo Trieste: Don Vito
Janet Agren: Teresa
Rina Franchetti: Bigotta di chiesa
Nerina Montagnani: La serva del Santone
Clara Colosimo: Signora alla veglia funebre
Giancarlo Badessi: Superiore del Seminario
Carlo Monni: Generale Augusto Bezzi
Cinzia Bruno: Brunilde
Valentino Macchi: Fascista al funerale
Giancarlo Marinangeli: Parsifal, figlio di Clotilde
Pia Morra: Addolorata, servetta
Regia Sergio Nasca
Soggetto Sergio Nasca
Sceneggiatura Sergio Nasca
Fotografia Giuseppe Acquari
Montaggio Erminia Morani, Giuseppe Giacobino
Musiche Sante Maria Romitelli
Scenografia Giorgio Luppi
Reazione a catena (Bay of blood)
Una villa situata all’interno di una baia deserta e semi-selvaggia è teatro di una serie di tragici avvenimenti.
La struttura è di proprietà della contessa Federica Donati, che vi vive in completo ritiro in compagnia del marito.
Una sera l’anziana contessa viene uccisa da una mano misteriosa; la donna è costretta a infilare la testa in un cappio, morendo così strangolata.
L’assassino ( lo sappiamo subito) è stato il marito, ma ben presto il quadro muta direzione, perchè anche l’uomo viene ucciso, colpito da un killer che lo accoltella.
Un nuovo cambio di scena introduce un altro personaggio; si tratta di Franco Ventura, un architetto speculatore che altro non attendeva che la morte della contessa Donati per poter avviare un processo di cementificazione a scopo turistico della baia, cosa alla quale la vecchia contessa si era sempre opposta.
Claudine Auger interpreta Renata Donati
Ventura, dopo aver salutato la sua amante Laura, si avvia verso la baia, forte anche della mancanza di sospetti della polizia, che ha archiviato il caso come suicidio, avendo ritrovato un biglietto in cui la contessa annunciava il suicidio (evidentemente falso) e non avendo trovato traccia del marito.
Nel frattempo nella baia arrivano quattro ragazzi, due maschi e due ragazze straniere, venuti a passare una giornata di relax; una di queste giovani, mentre fa il bagno rimane incastrata in una corda alla sommità della quale è legato il corpo del marito della contessa Donati.
La ragazza, spaventata a morte, fugge nuda per l’imbarcadero e poi verso la boscaglia, ma qui viene raggiunta dal misterioso assassino e uccisa brutalmente a colpi di falce.
Stessa sorte tocca i restanti ragazzi; l’assassino dopo essersi liberato uccidendolo di uno dei giovani, uccide gli altri due ragazzi con un tremendo colpo di lancia mentre i due sono impegnati in un rapporto sessuale.
Sulla tragica baia arrivano altri personaggi; sono Renata Donati, figlia dei due morti assassinati e suo marito Alberto con i due figli, un bambino e una bambina.
Alla donna viene immediatamente riservato uno choc.
Nella barca del pescatore Simone infatti trova il corpo del padre, coperto da un grosso polipo; il pescatore si giustifica dicendo di averlo appena pescato, ma le cose sono destinate a complicarsi ulteriormente.
Nella villa dell’architetto Ventura la giovane Renata scopre con orrore la presenza dei corpi dei quattro ragazzi massacrati, e riesce a sfuggire all’uomo che la assale con un’accetta.
I due figli di Alberto e Renata, interpretati dai bravissimi Renato Cestiè e Nicoletta Elmi
Dopo averlo ferito con un paio di forbici, Renata fugge verso suo marito.
Ancora un arrivo imprevisto; è quello di Anna, moglie di Paolo Fossati (entomologo) una coppia che vive nella baia.
Per pura casualità Anna scopre i cadaveri nella villa di Ventura, ma finisce orrendamente decapitata, mentre suo marito Paolo viene ucciso dal marito di Renata per timore che chiami la polizia e riferisca ciò che ha visto.
Ad uccidere Anna infatti è stata Renata.
Perchè?
Lo apprendiamo da due brevi flashback.
Prima però assistiamo all’arrivo sulla scena del delitto di Laura, l’amante di Ventura, che la invita ad andare da Simone.
Simone in realtà è il figlio naturale della contessa Federica Donati; è stato lui ad uccidere la madre e il patrigno simulando il suicidio della contessa e occultando il cadavere del patrigno stesso, uccidendo in seguito i quattro sventurati ragazzi che avevano scoperto il corpo dell’uomo.
Il tutto per poter vendere la licenza edilizia della baia a Ventura; ma Simone capisce che Laura e Ventura lo hanno manipolato.
L’ormai celebre fotogramma della morte dei due ragazzi
Uccide così la donna, ma viene a sua volta abbattuto da Alberto.
I due diabolici complici sembrerebbero averla fatta franca, ma c’è l’ennesimo colpo di scena in arrivo….
Reazione a catena di Mario Bava (girato nel 1971) è un film complesso con una struttura a mosaico e una trama ampia e purtroppo a tratti anche farraginosa e confusa.
Se da un lato vanno esaltati quelli che sono i pregi del film, ovvero la sua crudezza nel mostrare i dettagli più efferati dei vari delitti che si susseguono, la solita accurata ricercatezza tipica di Bava nella fotografia, l’impeccabile recitazione del cast molto ben assortito, dall’altro non si può non notare una certa approssimazione nello svelare i retroscena che portano i vari protagonisti (tutti in qualche modo indissolubilmente legati fra loro) a scannarsi per il solito vil denaro.
Ma a Bava probabilmente la cosa interessava poco; il film mostra una misoginia, un’amarezza e una visione cinica della realtà che a ben vedere sono l’asse portante della pellicola.
nessuno dei personaggi che incontriamo nel film merita una lacrima o un banale “peccato” man mano che assistiamo all’orgia di sangue scatenata dalla morte della vecchia contessa.
Sono tutti personaggi negativi, il marito della contessa e l’avido Ventura, l’assassino Simone e i due terrificanti coniugi Renata e Alberto e in ultimo anche i due figli della coppia, che assicureranno una giustizia sommaria chiudendo il cerchio, con quei due sorrisi luciferini che spuntano sui loro volti infantili quando sparano ai genitori.
Un’umanità malata, quindi, vittima del desiderio di possesso e di ricchezza, un’umanità che paga però con la vita le proprie debolezze.
Sono tutte morti slasher, violentissime, con primi piani che in fondo hanno fatto la storia del cinema thriller/giallo, stabilendo dei canoni che saranno replicati all’infinito dai tantissimi epigoni che il film vanterà.
Bava gioca con gli effettacci, distribuisce morti ammazzati a tutto spiano ;alla fine di tutti i protagonisti restano vivi solo i bambini che innocenti non sono, perchè ammazzano i loro genitori non sappiamo quanto per gioco e quanto per crudele e innata malvagità.
Memorabili le sequenze dell’impiccagione della vecchia contessa, della morte della ragazza uccisa da una falce (Brigitte Skay) con i particolari in primo piano e poi l’apoteosi dei due morti trafitti in un colpo solo mentre fanno l’amore. Da citare anche il rinvenimento del corpo del vecchio conte in una barca, con il volto coperto da un polpo.
Il finale mostra un Bava amarissimo, come amaro era stato nello svolgimento del film stesso; per capire la rivoluzione copernicana del Bava di questo film basta pensare a quello che era stato il suo film precedente, 5 bambole per la luna d’agosto (1970) da lui poco amato e va detto, anche dal suo pubblico.
Brigitte Skay
E’ un Bava ormai maturo, cinico e disincantato, che all’età di 56 anni ha ormai la possibilità di esprimersi come crede.
Ed è anche fortunato, il regista ligure perchè per una volta viene lasciato libero di comporre e scomporre, di adattare e riadattare senza il solito fiato sul collo del produttore che premeva per il lavoro finito.
In condizioni ideali, il regista produce uno dei primi 5 film thriller italiani di sempre, che ispirerà altri registi e che farà da caposcuola a tanti prodotti successivi.
Qualche nota sul cast: tutti decisamente bravi dalla Auger a Pistilli, passando per Laura Belli e Leopoldo Trieste.
Da segnalare la giovanissima Nicoletta Elmi, che interpreterà diversi film del genere giallo.
Reazione a catena,un film di Mario Bava. Con Luigi Pistilli, Claudine Auger, Isa Miranda, Claudio Volonté, Anna Maria Rosati, Leopoldo Trieste,Chris Avram, Brigitte Skay
Horror, durata 81 min. – Italia 1971
Claudine Auger: Renata Donati
Luigi Pistilli: Alberto
Laura Betti: Anna Fossati
Claudio Volonté: Simone
Leopoldo Trieste: Paolo Fossati
Isa Miranda: Federica Donati
Chris Avram: Franco Ventura
Anna Maria Rosati: Laura
Brigitte Skay: ragazza che si tuffa
Paola Rubens: ragazza trafitta
Roberto Bonanni: Roberto
Guido Boccaccini: Luca
Giovanni Nuvoletti: conte Filippo Donati
Nicoletta Elmi: figlia di Alberto
Renato Cestiè: figlio di Alberto
Regia Mario Bava
Soggetto Franco Barberi, Dardano Sacchetti
Sceneggiatura Mario Bava, Filippo Ottoni, Joseph McLee, Sergio Canevari (non accreditato), Francesco Vanorio (non accreditato)
Produttore Giuseppe Zaccariello, Fernando Franchi
Fotografia Mario Bava
Montaggio Carlo Reali
Effetti speciali Carlo Rambaldi
Musiche Stelvio Cipriani
Scenografia Sergio Canevari
Costumi Enrico Sabbatini
Trucco Franco Freda
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Ci sono cose notevoli (fotografia da urlo, musica godibile, inquadrature eccezionali, immagini indimenticabili), ma i passaggi della trama sono svolti in maniera talora confusa, o frettolosa, problema che una seconda visione non risolve più di tanto. Il celebrato finale mi sembra incollato (e pure male) col nastro adesivo. Cast godibile, con qualche presenza non proprio centrata (Brigitte Skay che fa la ragazzina…), ma col grande Leopoldo Trieste (doppiato da Amendola!). Certo è che entomologi e oggetti acuminati ricordano qualcosa di antico…
La “Reazione a Catena” è quella innescata dal desiderio di ereditare, che spinge un gruppo di loschi personaggi a compiere azioni inimmaginabili. Nessuno è quello che appare e soprattutto nessuno è meritevole di vivere. È un Bava nerissimo, quello che firma il primo splatter italiano, dietro suggerimento di Dardano Sacchetti (qua al suo primo vero lavoro -dopo Il gatto a nove code – in sede di sceneggiatura); dove non c’è scampo, dove l’economia della storia (“Ecologia del Delitto” ed “Antefatto” sono i titoli alternativi) porta inevitabilmente alla morte.
Bava scatenato in uno dei suoi capolavori. La trama è solo un pretesto per un efferato commentario sociale e, soprattutto, per un saggio di virtuosismo. Con nonchalance da gran signore il Maestro butta là una citazione di Borges (!) affidata a Chris Avram (!!), risolvendo in trenta secondi e due inquadrature un corto circuito fra cultura alta e popolare su cui altri hanno scritto tomi pallosissimi. Grandi Trieste e la Betti, peccato (si fa per dire) per il doppiaggio, tanto più che nella versione inglese Trieste si doppiò da sè.
Discreto thriller piuttosto splatter, girato con mestiere ma con qualche ingenuità, che fa dell’ambientazione e proprio delle scene più violente e sanguinarie i suoi punti di forza. La sceneggiatura invece, abbastanza sconclusionata, non aiuta lo spettatore, che può però contare su alcune caratterizzazioni interessanti e riuscite, come quelle dei coniugi, lui appassionato d’insetti e lei di occulto, che nonostante rasentino la macchietta, danno colore e carburante alla pellicola. Il finale lascia parecchio di stucco (una sorta di tragica burla). Un’occhiata, comunque, la merita di certo.
Misantropo e splatter, il vertice dell’arte più delirante di Bava, nonché prototipo del fortunato filone slasher. Zoom onnipresente, soggettive e primi piani a iosa e splendida fotografia. Omicidi efferatissimi e fantasiosi, poi ripresi pari pari in altri film, come Venerdì 13 e Tenebre. Finale spiazzante e cinico, all’insegna dello humour più nero. I personaggi sono insetti insignificanti e senz’anima, in balia della Morte, ma le caratterizzazioni dei rispettivi attori, comunque, molto buone.
Strepitoso thriller di Bava in cui il regista romano è al suo meglio. Un vero e proprio capolavoro del genere slasher, amato, imitato e straimitato da tantissimi registi americani e non. Basti vedere come la serie “Venerdi 13” (un esempio su tutti: l’assassinio della coppia che copula) saccheggi a piene mani da questo gioellino della nostra cinematografia del brivido. Per l’epoca fu un notevole choc visivo: il sangue, infatti, scorre a fiumi. In più, rispetto ai suoi epigoni, Bava colora il suo film con note di ironica e corrosiva cattiveria.
Faide familiar-commerciali attorno alla proprietà di un ameno laghetto, con morti a go-go, preferibilmente tramite accettate. Come spesso accade in film di questo tipo, i personaggi principali sono quasi tutti più o meno ambigui e/o antipatici, tanto da alimentare i sospetti nei loro confronti, mentre i comprimari/carne da macello assicurano la dose di tette nude e sesso facile. Alcuni omicidi sono piuttosto truculenti, ma la trama è inutilmente complicata, il livello della recitazione scarso (si salvano Betti e Trieste, coppia stramba)
Film fondamentale, ma non per questo riuscito al 100%. Fondamentale perché rappresenta il primo esempio di quello che negli anni a venire sarà un filone di grande successo di pubblico: il cosiddetto “slasher”. Una serie di omicidi legati uno all’altro da un esile sviluppo narrativo. Non riuscito al 100% perché proprio la trama è la parte debole del film, anche se indubbiamente, in pellicole di questo genere, non è la cosa fondamentale. Forse visto all’epoca della sua uscita poteva essere maggiormente apprezzato. Comunque da vedere.
Fondamentale. Il film che ha ispirato decine di successivi slasher movie americani, diretto dal nostro genio Mario Bava, che dirige un film sanguinosissimo con delitti feroci per l’epoca e che funzionano ancora (memorabile la testa tagliata alla Betti), ma che soprattutto gode della particolarissima costruzione della storia: una vera e propria reazione a catena. Ineccepibile anche il cast e lo score di Stelvio Cipriani. Essenziale.
Il più bel film di Bava e uno dei migliori thriller italiani. Regia e fotografia sono di livelli altissimi: non c’è un’inquadratura fuori posto e ogni singola scena riesce in qualche modo a dire qualcosa di interessante. La sceneggiatura, crudele ma innovativa, procede in un crescendo di cattiverie che culmina in un finale tanto ironico quanto cinico (e sicuramente imprevedibile). Perfetto il cast e bellissima la colonna sonora di Cipriani, ricca di temi e incredibilmente adatta al film.
Quanto a varietà di omicidi e componente visionaria siamo dalle parti di Argento. Bava ci aggiunge una guida degli attori degna di questo nome (vedi Pistilli e Trieste), location e musiche di sicuro effetto, un filo logico tirato ma che non si spezza. Difetta piuttosto nel montaggio e nella cura dei dettagli, tipo la Skay che muore e respira ancora (il pancino la tradisce). Diciamo che gestire tredici omicidi così poliedrici porta a trascurare cose più banali..
Film seminale, ma per una mala razza come Venerdì 13. Ciò non toglie che sia un film genialoide, con degli ammazzamenti magistrali e per l’epoca inediti (il polpo sulla faccia del defunto Nuvoletti…). Un tocco di ironia finale mette pace a tanti adulti cattivi e bramosi; può sembrare ridicolo ma in realtà è la strizzata d’occhio amara di un piccolo genio del cinema che, senza accorgersene, sarà padre di tanti altri autori (da Argento – il peggiore – fino ad Almodovar e Tarantino – il migliore).
Un Bava scatenato se ne infischia della logicità e nessi narrativi, per offrirci una sarabanda infernale di omicidi. È un film molto divertente e molto splatter, con effetti speciali (curati da Carlo Rambaldi) che ancora oggi lasciano stupiti per il loro realismo. Dalla sua ha anche un cast di tutto rispetto, impensabile per una produzione italiana di oggi. Ma dove è veramente magnifico è nella resa fotografica: carrelli e zoomate creano delle soluzioni quasi optical. È soprattutto un film da guardare, da “percepire” sulla pelle. È nato lo slasher.
Molto bello. Ha ispirato (si nota sopratutto la scena dell’amplesso finito… male) molti film d’oltreoceano ma come al solito ingiustamente ha avuto meno successo. Ottimo il cast, bella fotografia, ottime le scene degli omicidi… Unica pecca? Il finale.
Galeotta fu la baia. Delitto su delitto, per uomini e donne senza scupoli. Così tanto, da indurmi a rifiutare qualsivoglia verosimiglianza. Reazione a catena, una catena intricata, ma che conduce allo stesso lucchetto. Un destino beffardo, che premia l’inconsapevolezza e l’ingenuità, l’anti premeditazione a scopo di lucro. Ecologia di un delitto, l’interazione poco amichevole tra uomini e ambiente, ma soprattutto tra uomini e uomini, col danaro terzo incomodo. Delitti, mutilazioni e fendenti vari ammirevoli per fantasia. **1/2
Primo slasher della storia del cinema: banale nella trama, efferato e seriale nei delitti. Bava tiene a cuore l’aspetto moralistico. Sin dall’inizio crea analogie tra uomini e insetti, così che anche il secondo titolo del film (Ecologia del delitto) acquisti un senso. La pellicola presenta un forte utilizzo dello zoom, abbinato ad un continuo fuoco/fuori fuoco. In tal modo, Bava mostra e non mostra, afferma e poi nega, come nell’inquietante finale ribaltato. Film che dà la spinta a Venerdì 13 di Sean Cunningham e allo slasher in genere.
Cattivo e a tratti ironico; non si può per questo film non riconoscere a Bava di aver dato un contributo fondamentale ad un genere (o filone che sia) che col tempo ha mostrato sempre meno cose e che già qui ha messo in evidenza i punti deboli. Non si può non riconoscere un ottimo impianto visivo ma anche concettuale, in questa festa di omicidi dove il delitto brutale assume un aspetto raffinato ed elegante, tutto materiale che assorbirà Argento. Ma troppi sofismi e troppo pensiero rendono pesante e poco interessante una trama debole di suo.
Malia, vergine e di nome Maria
Torino, anni settanta, estrema periferia della città.
Tra baracche, ladri, lavoratori e pensionati, prostitute e truffatori, la vita scorre scandita dalla miseria e dall’emarginazione sociale.
C’è chi per sopravvivere ricorre alla vendita di filtri d’amore dai dubbi risultati e chi è costretta, come Maddalena, a prostituirsi per sopravvivere e per aiutare il proprio pappa, c’è l’omosessuale di per se già discriminato dalla sua provenienza e c’è chi come la mamma di Maria, una ragazza epilettica, specula sulle capacità della ragazza di predire il futuro.
E’ un’umanità dolente e sofferente, che ha una sua fede primitiva infarcita però di riti e credenze pagane, a cui inutilmente Don Vito, il bravo parroco locale cerca di mettere un freno.
Don Vito è un prete d’altri tempi, consapevole della difficoltà di portare il suo messaggio pastorale tra gente che è costretta a vivere in condizioni sociali aberranti, ai limiti di una civiltà del benessere che ha attirato una folla di disperati dal sud con il miraggio della ricchezza.
Tutto si è invece trasformato nel trapianto da una realtà di miseria e fame ad una realtà dove è cambiata solo la geografia del paesaggio.
Tra questi emarginati, dove la sopravvivenza è davvero legata solo ad un ipotetico intervento divino, da tutti auspicato come l’unica soluzione alla squallida realtà che vivono, avviene un miracolo, o meglio, quello che la gente del posto suppone tale.
La quattordicenne Maria, durante una riunione in cui deve predire la buona sorte ai presenti, viene colta da una crisi epilettica e cade in uno stato di catalessi.
Tutti gli abitanti della borgata la credono morta incluso Don Vito che le impartisce l’estrema unzione e ne ordina i funerali.
Durante la notte la ragazza si sveglia dal coma in cui era caduta, con ovvia sorpresa di tutti, inclusa quella della mamma che la crede uno spirito malvagio.
Per gli abitanti della borgata è un miracolo, testimoniato in seguito dal fatto che la ragazza risulta essere incinta.
Poichè Maria è solo una bambina e non ha avuto rapporti sessuali con nessuno dei borgatari, ecco che tutti gridano al miracolo.
Una intensa Andrea Ferreol è Maddalena, la prostituta
Ad approfittarne è sopratutto la madre, che mette su un fiorente commercio legato al miracolo; nel frattempo Don Vito viene richiamato dalle alte sfere ecclesiastiche che lo rimproverano di non aver avuto polso nella gestione del caso, lasciando che la superstizione si impadronisse della gente del posto.
Inutilmente il prelato cerca di convincere il giudicante delle difficoltà di guidare un gregge che si affida ormai a Dio quasi come l’unica soluzione alle traversie quotidiane, attraverso una fede istintiva in cui si mescolano antichi retaggi incluse le forme più estreme di superstizione.
La vicenda tocca il culmine quando si apprende la verità sulla maternità della ragazza; il padre del nascituro altri non è che il nipote di Don Vito, ovvero Rocco, un ragazzo minorato che durante il coma della ragazza ha approfittato di lei.
Quando Don Vito svela alla borgata intera radunata davanti alla casa di Maria la verità, la gente, delusa e indignata, tenta di linciare sia la ragazza, sia Don Vito e Rocco.
Maddalena e il suo pappone interrotti nell’intimità dalle urla di Maria
Alla fine tutto si sistema; Maria abortisce e viene spedita con Rocco da una parente di Don Vito, che decide di abbandonare l’abito talare ma di restare tra la sua gente, non più come prete, ma come uomo che ne condivide il destino e la dura vita.
Malia, vergine e di nome Maria, diretto da Sergio Nasca nel 1975 è un film molto bello, addirittura eccellente, girato con mano ferma e idee chiare su una sceneggiatura assolutamente originale.
Nasca, che veniva dalla buona prova di Il saprofita, riesce a descrivere con intelligenza e indubbia capacità la vita difficile dei meridionali trapiantati, le loro condizioni di degrado morale e sociale, la difficoltà di integrazione con un mondo che non li capisce e spesso non li accetta, il loro rapporto con la religione, che diventa l’unica speranza di redenzione da un rpesente fatto di squallore e miseria.
La presunta resurrezione di Maria
Memorabile la sequenza iniziale in cui degli incaricati del comune, tutti torinesi Doc, fanno domande assurde agli abitanti per stilare il censimento degli abitanti, tipo “Quanti bagni ha”, “quali sono i suoi svaghi”, domande retoriche nella loro follia perchè rivolte ad una realtà che a mala pena riesce a racimolare di che vivere, per soddisfare solo incombenze più immediate, mangiare e avere un tetto sulla testa.
Il regista punta l’indice non solo sulle condizioni di degrado economico e materiale, ma sopratutto su quelle spirituali in cui versa l’umanità che popola la borgata; privi di riferimento, gli abitanti si affidano a quanto di peggio può esserci nell’estremo rifugio della fede, ovvero la superstizione, che finisce per condizionare pesantemente la vita di ognuno di loro.
Turi Ferro, bravissimo, è Don Vito
Il tutto mentre la chiesa, l’organo che dovrebbe occuparsi della salute delle loro anime, deputa al povero Don Vito la terribile responsabilità di “pascolare le loro anime”; e Don Vito, uomo onesto e coraggioso, si sforza inutilmente di impartire il suo messaggio, arrivando alla fine al gesto estremo di lasciare la tonaca, consapevole ormai dell’assoluta inutilità di poter modificare la situazione solo con le belle parole e i messaggi di speranza.
Il coraggioso film di Nasca coglie nel segno, dipingendo quindi un ritratto cupo, forte e vivido di una realtà scomoda, spesso accantonata.
Lo fa con un linguaggio diretto, scenograficamente ben rappresentato e ottimamamente recitato dalle sue componenti artistiche.
L’equivoco tra Maddalena e Don Vito
Seganlo quindi l’ottimo Turi Ferro nei panni del coraggioso Don Vito, la brava Andrea Ferreol in quelli della prostituta Maddalena, della ex bambina dei miracoli Cinzia De Carolis in quelli di Maria, di un insolitamente drammatico Alvaro Vitali che intrepreta Rocco e ancora una intensa Clelia Matania nel ruolo della mamma di Maria, di Leopoldo Trieste nei panni del mago Nicola e di Enzo Cannavale nei panni di Simone.
L’annuncio alla popolazione della borgata
Il film ebbe un buon successo di critica ma anche varie vicissitudini; venne accusato infatti di vilipendio della religione e di blasfemia, anto da dover modificare il titolo da Vergine e di nome Maria, in Malia.
Un atteggiamento bigotto e incredibilmente ottuso da parte di qualche magistrato che chiudeva gli occhi sulla dilagante pornografia per aprirli di colpo su un film scomodo, coraggioso e difficile, uno di quelli che aveva l’unico torto di far pensare.
Malia, vergine e di nome Maria, un film di Sergio Nasca. Con Tino Carraro, Leopoldo Trieste, Andréa Ferréol, Cinzia Carolis, Turi Ferro, Clelia Matania, Nicola Di Pinto, Renato Chiantoni, Franco Pesce, Marco Mariani, Renato Pinciroli, Dada Gallotti, Enzo Cannavale, Valentino Macchi, Sandro Dori, Marino Masé, Giancarlo Badessi, Alvaro Vitali
Drammatico, durata 95 min. – Italia 1975-77.
Turi Ferro – Don Vito
Andréa Ferréol – Maddalena
Cinzia De Carolis – Maria
Alvaro Vitali – Rocco
Clelia Matania – Anna, madre di Maria
Renato Pinciroli – Giuseppe
Leopoldo Trieste – Nicola
Enzo Cannavale – Simone
Jean Louis – Luca
Sandro Dori – Matteo
Tino Carraro – Il vescovo
Giampiero Vinciguerra -Prospero
Regia Sergio Nasca
Soggetto Sergio Nasca
Sceneggiatura Sergio Nasca
Casa di produzione Cipdi
Fotografia Giuseppe Aquari
Musiche Sante Maria Romitelli
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“Coraggioso e insolito, attacca la religione tradizionale tutta dogmi e colpevole di diffondere tra il sottoproletariato ignoranza e credulità. Riuscitissima per questo l’ambientazione in una baraccopoli torinese popolata da immigrati meridionali ed emarginati, poverissimi e superstiziosi. Molto ricco il cast, in cui spiccano Turi Ferro prete concreto e perspicace, Vitali chierichetto muto, Masè coriaceo lenone, Ferreol prostituta redenta, Trieste fattucchiere capellone, Carraro viscido vescovo.
Una delle non poche rivisitazioni evangeliche in chiave moderna che il nostro cinema ci regalò negli anni ’70. Il film, che vanta un ottimo cast, mi è piaciuto nonostante qualche forzatura, in virtù di una regìa che ha evitato gli scivoloni nel ridicolo ed anche di un finale spiazzante e perfettamente logico. La De Carolis, enfant prodige del nostro cinema finita poi nell’erotico, è già piuttosto disturbante a 15 anni.
Sfolgorante opera del sottovalutato Sergio Nasca, che aiutato da un ottimo cast prende brillantemente di petto le ambiguità della Chiesa, l’ignoranza e la bassezza del sottoproletariato e l’avidità disumana del capitale, in un ritratto grottesco ma azzeccato, duro e mai consolatorio, di un’Italia non così dissimile da quella odierna. Bene Turi Ferro, Alvaro Vitali giustifica l’impegnativa etichetta di attore felliniano.
Interessante e originale, capace di mettere il dito nella piaga (e infatti subì un sequestro da parte della censura cattolica). Sbagliata la scelta di basare il finale non tanto sul colpo di scena, quanto sulle sue conseguenza, ma è un difetto su cui si può sorvolare. Davvero curiosi alcuni personaggi e veramente odiosa la bambina miracolosa, perfettamente impersonata da Cinzia De Carolis. Anche il resto del cast è notevole e vede come protagonista il bravo Turi Ferro. Tra gli interpreti secondari attori come Trieste, Vitali e Cannavale.
Un film classificabile come “commedia nera” ma che strizza l’occhio a situazioni pruriginose e fintamente ecclesiali (il titolo rimane piuttosto eloquente, in questo senso). “Malia” miscela riti esorcistici, commedia nera, film religioso (e nello stesso qual tempo scabroso) e si serve di un cast ricco e variopinto. Parzialmente anticipatore di alcune tematiche (meglio analizzate nel successivo Brutti sporchi e cattivi), il film di Nasca riprende l’ambientazione di borgata (ma stavolta a Torino) de Lo scopone scientifico.
Indubbiamente buono. Non lascia adito a interpretazioni, da quanto il messaggio è chiaro. La più grossa piaga è l’ignoranza, ma le istituzioni fanno di tutto per mantenerla tale, non permettendo neppure che questa povera gente si crei l’illusione di un miracolo, quando quest’ultimo è creato da usanze, superstizioni o mistificazioni ancora più dannose della cultura tradizionale. Eccellente Turi Ferro.
Alla sua uscita il film provocò un notevole scandalo, comprensibilmente, e fu sequestrato. Nasca era un regista discontinuo (vedasi il pallosissimo D’annunzio) ma capace di guizzi non indifferenti come in questo caso.”
A Venezia…un dicembre rosso shocking
Come si possa tradurre Don’t look now in A Venezia un dicembre rosso shocking resterà per sempre un mistero.
Perchè questo film non è assolutamente un horror,ma un thriller parapsicologico.
Uno dei migliori in assoluto.
Baxter (Donald Sutherland),un restauratore,è a Venezia con la moglie (Julie Christie).
I due fuggono dal passato,dalla perdita della loro bimba,affogata in uno stagno.
A Venezia la donna conosce una sensitiva,che la mette in guardia sul pericolo di restare in città.
E dice di aver parlato proprio con la bimba morta.
Baxter crede solo che la moglie sia impazzita ,ma ben presto visioni premonitrici e altri segni gli spiegheranno che in effetti la moglie non solo non è pazza,ma…
Una Venezia meravigliosamente demodè,immersa quasi sempre nella nebbia.
Due attori straordinari,un film fatto di flashback,sempre in attesa che accada qualcosa.
Una tensione palpabile,che si respira per tutto il film,sul quale sembra sempre gravitare un’oscura minaccia. Sin dalle prime scene,con la morte della bimba nello stagno,si capisce che il film non è un horror qualsiasi,ma qualcosa di più misterioso.
Nicholas Roeg riesce a catturare l’attenzione proprio con l’atmosfera;quella dell’albergo di Venezia,dove i due coniugi,che hanno lasciato l’altro figlio in un college,cercano disperatamente di riallacciare i nodi della vita insieme;oppure con la descrizione analitica delle due sorelle,una delle quali sensitiva,che sembra guardare con gli occhi dell’anima quella donna disperata per la perdita della propria bimba.
Visioni premonitrici,nebbia,tensione palpabile,in una città che sembra quasi sospesa in un’altra vita;il romanzo di Daphne Du Maurier prende corpo e si anima di vita propria,elegantemente e misteriosamente. Roeg,dopo L’uomo che cadde sulla terra,filma un altro capolavoro,che in Italia ebbe meno successo di quello che sarebbe stato lecito aspettarsi;ma A Venezia un dicembre rosso shocking è un film che richiede attenzione,immedesimazione in un’atmosfera che non ha nulla dei classici film del genere.
Oggi,rivedendolo dopo trent’anni,si riscopre il fascino di una pellicola girata da un grande regista e due attori in stato di grazia,la bellissima Julie Christie e Donald Sutherland.
A Venezia…un dicembre rosso shocking,
un film di Nicolas Roeg. Con Clelia Matania, Donald Sutherland, Julie Christie, Massimo Serato, Leopoldo Trieste, Sergio Serafini, Bruno Cattaneo, Renato Scarpa, Giorgio Trestini, Hilary Mason, David Tree Titolo originale Don’t Look Now. Drammatico, durata 110 min. – Gran Bretagna, Italia 1973.
Julie Christie: Laura Baxter
Donald Sutherland: John Baxter
Hilary Mason: Heather
Clelia Matania: Wendy
Massimo Serato: vescovo Barbarrigo
Renato Scarpa: commissario Longhi
Giorgio Trestini: operaio
Leopoldo Trieste: Alessandro
David Tree: Anthony Babbage
Ann Rye: Mandy
Nicholas Salter: Johnny Baxter
Sharon Williams: Christine Baxter
Sergio Serafini: operaio
Bruno Cattaneo: investigatore Sabion
Adelina Poerio: la nana
Regia Nicolas Roeg
Soggetto Daphne Du Maurier
Sceneggiatura Allan Scott e Chris Bryant
Fotografia Anthony B. Richmond e Nicolas Roeg
Montaggio Graeme Clifford
Musiche Pino Donaggio (la canzone Colori di dicembre è interpretata da Iva Zanicchi)
Scenografia Giovanni Soccol