Così dolce, così perversa
Jean è un industriale sposato con Danielle, moglie algida e insoddisfatta del legame con il marito; che ha una relazione con la moglie di un collega. Classico triangolo amoroso, quindi. Un giorno Jean conosce l’inquilina del piano di sopra, Nicole, una splendida donna bionda, che Jean scopre ben presto essere perseguitata da Klaus, uomo malvagio e violento.
Jean si innamora ben presto, ricambiato, della splendida Nicole, mentre Danielle segue le avventure del marito con freddezza. La relazione tra i due è turbata però dalle intrusioni del manesco Klaus, tanto che un giorno arriva la resa dei conti. Salito nell’appartamento di Nicole, dal quale provengono urla disperate delle donna, Jean si trova davanti Klaus. Durante la colluttazione, l’uomo colpisce a morte Jean con un coltello, e poi, aiutato da Nicole, carica il corpo dell’industriale in un auto, che viene condotta fino ad una scarpata.
Qui viene gettata, e la macchina distrugge completamente le prove del delitto. Klaus e Nicole sono quindi complici, e hanno architettato il tutto con un fine preciso: impossessarsi delle sostanze dell’uomo. La vera ispiratrice del delitto è però Danielle, che aveva deciso di liberarsi del marito, con la complicità di Nicole, sua amante.
Ma Nicole, diabolicamente, fa credere alla donna che il marito sia ancora vivo, portando la donna all’esasperazione. Sarà Klaus a uccidere anche Danielle, e i due amanti a questo punto, riscosse le azioni di Jean, possono prendere il largo. Ma…..
Così dolce così perversa è parte della trilogia sexy diretta tra il 1968 e il 1971 da Umberto Lenzi, e segue Orgasmo, precedendo l’ultimo film del trittico, Paranoia. Tra i tre film è sicuramente il più debole, pur contando su un cast di ottimo livello: colpa di una sceneggiatura abbastanza improvvisata, di un ritmo decisamente troppo lento e sopratutto di una trama confusa e poco credibile, nonostante gli attori ci mettano tanta buona volontà per cercare di rendere il prodotto dignitoso.
Abbastanza inusuale il finale, che sembrerebbe suggerire un sequel, cosa che però non avvenne. Così dolce così perversa sconta anche una parte iniziale di trenta minuti abbondanti in cui non solo non accade nulla, ma si assiste alla rappresentazione di un normale dramma borghese, con i soliti coniugi annoiati che frequentano il solito club per ricconi a parlare del vuoto più assoluto.
Manca tensione, così come manca l’azione, il che finisce per ridurre di molto le già scarse potenzialità della pellicola; a poco serve la buona prova della sexy e seducente Carroll Baker, nelle vesti della perfida Nicole e di Erika Blanc in quelle della tormentata Danielle. Nel cast c’è un Jean Louis Trintignant svogliato, mentre c’è spazio per l’affascinante Helga Linè nel ruolo dell’amante di Jean. Il film ebbe comunque una buona accoglienza dal pubblico, anche se la critica rimase molto fredda; all’estero il film, chiamato So sweet…so perverse, venne ugualmente ben accolto, contribuendo a rinsaldare la fama di Lenzi.
Così dolce così perversa, un film di Umberto Lenzi. Con Jean-Louis Trintignant, Horst Frank, Carroll Baker, Erika Blanc, Dario Michaelis, Renato Pinciroli, Luca Sportelli, Beryl Cunningham Giallo, durata 92 min. – Italia 1969.
Carroll Baker: Nicole Perrier Helga Liné: Helena Horst Frank: Klaus Jean-Louis Trintignant: Jean Reynaud Erika Blanc: Danielle Irio Fantini: ospite alla festa Ermelinda De Felice: proprietaria dell’hotel Giovanni Di Benedetto: sig. Valmount Renato Pinciroli: portiere Gianni Pulone: il fotografo Lucio Rama: ospite alla festa Luigi Sportelli: ospite alla festa Beryl Cunningham: spogliarellista Paola Scalzi: amica di Helena Dario Michaelis: commissario di polizia Alessandro Tedeschi: uomo della commissione
Regia Umberto Lenzi Soggetto Luciano Martino Sceneggiatura Ernesto Gastaldi, Massimo D’Avack Produttore Mino Loy, Luciano Martino, Jean Paul Bertrand Fotografia Guglielmo Mancori Montaggio Eugenio Alabiso Musiche Riz Ortolani Costumi Giovanni Naitano



Il boss
E’ davvero un’impresa raccontare in maniera succinta la trama di Il boss, film del 1972 di Fernando Di Leo, uno dei registi più capaci del nostro cinema. Un film violento, in cui non si contano i morti, in una guerra di mafia che coinvolge tre famiglie dell’onorata società, un poliziotto marcio e un sottobosco fatto di onorevoli in odore di mafia, avvocati collusi sempre con l’onorata società e con la polizia che per una volta si limita a guardare, con il risultato finale di vedere decapitato il vertice della mafia stessa. Solo all’apparenza….
In una sala cinematografica un gruppo di 9 mafiosi si gode la visione di un film pornografico. Lanzetta,un killer al soldo del boss Carrasco, armato di un fucile lancia bombe, stermina gli uomini dal primo all’ultimo. Cocchi, unico superstite del gruppo, l’unico a non essere presente in sala, decide di vendicare l’affronto, e con l’aiuto dei suoi uomini fa sequestrare la figlia di Giuseppe D’Aniello, che è un amico e socio in affari di Carrasco, nonchè protettore dello stesso Lanzetta. Da Carrasco arriva a quest’ultimo un ordine preciso: evitare qualsiasi trattativa con Cocchi, in caso contrario, ovvero un cedimento di D’Aniello verso i rapitori, l’uomo deve essere eliminato.

Richard Conte è Don Carrasco, il Boss
Lanzetta riesce ad individuare il rifugio dei sequestratori, a liberare la ragazza, Daniela, una giovane drogata e ninfomane, uccidendo i sequestratori. L’uomo porta la ragazza nel suo rifugio, nel quale ha una storia di sesso con la stessa, proprio mentre all’esterno la guerra tra bande raggiunge l’apice. A farne le spese sarà proprio Cocchi, ucciso dal corrotto commissario Torri, uomo al soldo di Carrasco.
Henry Silva
Ma Lanzetta, che ha fiutato la trappola in cui vorrebbe farlo cadere Carrasco, uccide sia Torri che i sicari della mafia che erano in compagnia di Cocchi. Lanzetta e Pignataro, gli unici superstiti delle due famiglie vincenti, Carrasco e D’Aniello, decidono di eliminare il boss dei boss, Carrasco, e ci riescono, scatenando un inferno di fuoco sugli uomini del boss. La polizia, guidata dal questore di palermo, assiste imperturbabile agli eventi, limitandosi a tenere solo la conta dei morti ammazzati. Tra i due superstiti, Lanzetta e Pignataro, c’è uno di troppo……

Antonia Santilli è Daniela D’Aniello
Film complesso, velocissimo; per una volta Di Leo bada poco al discorso sociale, limitandosi a sfiorare il discorso denuncia sulle connessioni, sull’intreccio politica-mafia-istituzioni, privilegiando viceversa l’azione, le sparatorie e il ritmo. Se il film difetta di profondità, guadagna tutto sul piani della velocità,affidando tutto ad una serie impressionante di sparatorie, morti ammazzati, colpi di scena. Se l’impianto narrativo risulta troppo complesso, lo si deve alla volontà del regista di supplire ad una trama che (non dimentichiamo), è tratta da un romanzo, Il mafioso. Sicuramente di alto livello il cast:
– Richard Conte è Don Carrasco, con una caratterizzazione del personaggio così puntigliosa da far credere davvero ad una sua identificazione reale con il mafioso interpretato;
– Henry Silva, impassibile, freddo, spietato, è Lanzetta, il killer che riesce alla fine a sopravvivere a tutti gli scontri, agli agguati. Un’interpretazione di prim’ordine, la sua;
– Vittorio Caprioli è il questore, con un accento siciliano poco credibile, ma sempre all’altezza;
– Gianni Garko, nel ruolo del corrotto commissario Torri, anche lui con un accento siciliano assolutamente da dimenticare:
– Pier Paolo Capponi, sobrio e asciutto nel ruolo del mafioso Cocchi;
– Antonia Santilli, brava e sexy nel ruolo di Daniela;
– Corrado Gaipa, l’avvocato Rizzo, un altro specialista nelle interpretazioni di personaggi viscidi,
– Howars Ross, che interpreta Melende, uno degli uomini della banda di Cocchi, accreditato come Renato Rossini.
Gianni Garko
Il boss ebbe una serie di traversie giudiziarie, per un curioso incidente; il ministro Gioia, sentendosi diffamato in una sequenza del film in cui sembra venisse accostato il suo nome a quello di altri mafiosi, chiese il sequestro del film. La storia non ebbe seguito in quanto lo stesso ministro ritirò poi la denuncia.
Il boss, un film di Fernando Di Leo. Con Henry Silva, Vittorio Caprioli, Richard Conte, Antonia Santilli, Gianni Musy, Mario Pisu, Andrea Aureli, Andrea Scotti, Gianni Garko, Salvatore Billa, Corrado Gaipa, Giorgio Dolfin, Marino Masé, Pietro Ceccarelli, Claudio Nicastro, Sergio Ammirata, Pier Paolo Capponi
Thriller, durata 111 min. – Italia 1972.
Henry Silva: Nick Lanzetta
Richard Conte: Don Corrasco
Gianni Garko: Il commissario Torri
Pier Paolo Capponi: Cocchi
Antonia Santilli: Rina Daniello, figlia di Don Giuseppe
Vittorio Caprioli: Il questore
Claudio Nicastro: Don Giuseppe Daniello
Corrado Gaipa: L’avvocato Rizzo
Gianni Musy: Carlo Attardi
Mario Pisu: Onorevole Gabrielli
Fulvio Mingozzi: Un poliziotto
Marino Masé: Pignataro
Renato Rossini: Melende, uno dei sequestratori
Sergio Ammirata: Uno dei sequestratori
Andrea Scotti: Uno dei sequestratori
Empedocle Buzzanca: Il maresciallo
Bruno Bertocci: Il medico legale
Pietro Ceccarelli: Maione
Regia Fernando Di Leo
Soggetto dal romanzo “Il mafioso” di Peter McCurtin
Sceneggiatura Fernando Di Leo
Fotografia Franco Villa
Montaggio Amedeo Giomini
Musiche Luis Enriquez Bacalov
Scenografia Francesco Cuppini
Costumi Francesco Cuppini
La sanguisuga conduce la danza

Ci sono film così brutti che inducono quasi ad un sentimento di commozione, mentre i fotogrammi si succedono sullo schermo; è il caso di questo pseudo thriller di Alfredo Rizzo, girato nel 1975. Rizzo, un passato da caratterista nel cinema italiano, con qualche discreta prova in buoni film come Pane amore e fantasia, passò alla regia dirigendo alcune sciagurate pellicole dai titoli anche imbarazzanti, come Carnalità; La sanguisuga conduce la danza nelle pie intenzioni di Rizzo, rimaste alla fine tali, doveva essere un thriller con qualche suggestione erotica.
Femi Benussi
Doveva, appunto; il risultato finale è talmente piatto e sciatto da permettere a quest’opera di contendersi il poco ambito titolo di film più brutto del decennio settanta, grazie ad una trama praticamente inesistente, ad una recitazione a dir poco imbarazzante e ad uno svolgimento che si presta più al canovaccio di un film comico che del genere thriller.
La storia, di una pochezza disarmante, inizia con un ricco gentiluomo che si reca a visitare una scadente compagnia teatrale, impegnata in chissà quale rappresentazione. L’uomo si è invaghito di una delle protagoniste, che ricorda tanto sua moglie, scomparsa anni addietro. Così il gentleman (uno smarrito Rossi Stuart) invita la compagnia, nella quale lavorano alcune elle figliole, sulla sua isola, nel suo castello.
Il gruppo ovviamente accetta, ma all’arrivo ben presto accadono fatti strani. A parte l’ostilità del personale, iniziano strane morti, tutte consumate tramite decapitazione delle malcapitate, con tanto di sorpresa finale, durante un ridicolo confronto tra i sospettati, con un solerte ( e anche purtroppo imbarazzante) funzionario di polizia che smaschera il colpevole.
Patrizia Webley
A parte la già citata inconsistenza della trama, quello che sorprende di più nel film è la penosa ricostruzione ambientale; ridicola, per esempio, la scena del trasporto in barca della compagnia teatrale, con tanto di fumo proveniente dalla barca del regista che investe per qualche istante il gruppo di teatranti. Effetto nebbia? Mai vista una nebbia di pochi secondi in una splendida giornata di sole. Imbarazzanti le sequenze in bianco e nero rappresentanti tempeste inserite, senza alcuna logica, nella pellicola.
Forse Rizzo voleva far riferimento alla tempesta di Shakespeare, per nobilitare in qualche modo il film. Tra gli attori, a parte un imbarazzato Rossi Stuart, che sembra quasi divertirsi, tutti sulle righe gli altri attori; la povera Benussi sembra capitata per errore nel film, mentre le altre attrici si segnalano più che altro per la gradevolezza dei loro seni.
Insomma, una pellicola da evitare con cura, inconsistente, vuota e mal recitata. Uno dei pochi esempi di thriller italiano di bassa, bassissima lega.
La sanguisuga conduce la danza, un film di Alfredo Rizzo. Con Femi Benussi, Krista Nell, Giacomo Rossi Stuart, Luciano Pigozzi, Leo Valeriano, Barbara Marzano, Alfredo Rizzo,Patricia Webley
Giallo, durata 87 min. – Italia 1975.
Femi Benussi: Sybil
Giacomo Rossi-Stuart: Conte Richard Marnack
Krista Nell: Cora
Patrizia Webley: Evelyn
Luciano Pigozzi: Gregory
Mario De Rosa: Jeffrey, il maggiordomo
Barbara Marzano: Mary, la cameriera
Marzia Damon: Rosalind
Lidia Olizzi: Penny
Leo Valeriano: Samuel
Luigi Batzella: ispettore di Polizia (non accreditato)
Rita Silva: Margaret (non accreditato)
Regia Alfredo Rizzo
Soggetto Alfredo Rizzo
Sceneggiatura Alfredo Rizzo
Casa di produzione TO. RO. Cin.ca
Fotografia Aldo Greci
Montaggio Piera Bruni
Musiche Marcello Giombini
Scenografia Vanni Castellani
Costumi Maria Luisa Panaro
Trucco Sergio Angeloni
Anima persa
Cupo, tetro dramma famigliare diretto da Dino Risi nel 1976; Tino, un diciannovenne pittore poco convinto dei suoi mezzi, si reca a Venezia, ospite di un cugino di suo padre, Fabio, per frequentare una scuola di pittura. L’ingegner Fabio è una persona severa, colta, mentre sua moglie Elisa è una donna molto insicura, fragile e probabilmente anche dedita di nascosto all’alcool.

Vittorio Gasmann è l’Ingegner Bruno
Immediatamente Tino si rende conto dell’atmosfera claustrofobica della casa; una sera sente distintamente suonare un pianoforte, altre volte sente un calpestare di passi provenienti dalla soffitta. Chieste spiegazioni a sua zia, ne riceve in cambio vaghe risposte, così un giorno, grazie all’anziana servitrice di casa, apprende che in soffitta è rinchiuso Berto, un dottore esperto in scienze naturali che è fratello dell’ingegner Bruno, che vive segregato da tutto e isolato dopo aver perso il senno.
Poco alla volta Tino si rende conto che nella casa aleggia un mistero, terribile, sospeso nell’aria; tra mezze ammissioni, confessioni, Tino apprende da Elisa la storia di Berto: l’uomo è impazzito dopo aver causato la morte di Beba, la figlia di dieci anni del primo matrimonio di Elisa. L’uomo, che provava una passione morbosa per la bambina, aveva tentato di insidiarla, così un giorno Beba, scappando era caduta in un canale, affogando. Sorpreso da suo zio a rovistare con una sua amica modella di nudo in una stanza piena di ricordi della bimba, Tino aggiunge un tassello alla fosca storia; secondo la versione dell’ingegner Fabio, Beba è morta a causa di sua madre, che non aveva curato una sua polmonite, perchè gelosa dell’affetto che la bambina provava per lui.
Poco convinto dalle due versioni, Tino indaga e scopre che nella tomba di famiglia dell’ingegnere in realtà la bambina non è sepolta. Non solo: scopre anche che suo zio ha mentito sul lavoro, che non è più dipendente dell’azienda del gas da oltre 15 anni e che passa molto del suo tempo libero dilapidando il patrimonio della moglie al gioco. Sempre più turbato, Tino decide di conoscere il famoso Berto, rinchiuso in soffitta, e quando entrerà nella stanza, tutto il quadro della situazione diventerà chiaro all’improvviso, provocando la sua fuga da quella casa opprimente, con i suoi segreti e le sue bugie, immersa in un’aria di fosca pazzia.

“Perché i pazzi, come i bambini, conoscono la verità”
Sospeso tra il thriller, il dramma e il giallo, Anima persa regge benissimo fin quasi alla fine il suo copione; atmosfera opprimente, decadente, amplificata da una casa che sembra un museo settecentesco pieno di mistero e ombre. Fin quasi alla fine, dicevo, perchè proprio il finale lascia aperte le porte a una serie di domande, perchè spiazza lo spettatore con la sua soluzione imprevista, lasciando dubbi sui racconti dei protagonisti. Forse non è nemmeno questo il punto debole, quanto l’illogicità della situazione che si verrà a creare, con Beba che da figlia si trasforma in moglie, aprendo una voragine nella sceneggiatura.
Però, al di là di questo, il film si lascia guardare quasi come un thriller, pur nell’eccesso della recitazione di Vittorio Gasmann, troppo tesa al teatro e poco al cinema, pur al solito eccezionale per espressività. Brava anche Catherine Deneuve, che tratteggia benissimo il carattere docile, quasi succube di Elisa, una donna con molte ombre, assolutamente incomprensibile nel gioco che sosterrà fino alla fine. Bene anche Danilo Mattei, che forse alla fine risulta il migliore, con quella sua aria spersa di giovane candido messo di fronte ad una storia troppo grande per lui. Molti i dialoghi di rilievo, come quello tra Bruno ed Elisa: ““A volte penso che mi piacerebbe vivere in un rebus (Bruno)”. “Perchè, non è così? Non viviamo tutti dentro un rebus?/Elisa) ” , oppure la confessione di Elisa al nipote, preludio del drammatico finale: “Gli anni sono come una gomma che tutto cancella. Leggera, invisibile. Piano piano passa sugli occhi, sul naso, sulla bocca e rende tutto sfumato, incerto, confuso. Questa gomma la sento passare e ripassare ogni istante“. O ancora le parole che l’ingegner Bruno dice a Tino passando davanti al manicomio: “”Povere creature, colpevoli soltanto di non aver accettato il buon senso e le sue regole infami. Lo sai perché li tengono rinchiusi? Perché i pazzi, come i bambini, conoscono la verità. E la gente ha paura della verità“. Pazzia, claustrofobia, aria malsana, malata; questo si respira nel film prima della ventata di aria fresca rappresentata dalla partenza di Tino da Venezia, quando dice al gondoliere che lo trasporta ” I miei disegni valgono meno delle tele su cui sono stati fatti ” Un bel film, da riscoprire.
Anima persa, un film di Dino Risi. Con Vittorio Gassman, Catherine Deneuve, Danilo Mattei, Ester Carloni, Anicée Alvina, Gino Cavalieri, Michele Capuist, Ester Canoni
Thriller, b/n durata 100 min. – Italia 1977.
Vittorio Gassman: Fabio Stolz
Catherine Deneuve: Elisa Stolz
Danilo Mattei: Tino
Anicée Alvina: Lucia
Ester Carloni: Annetta
Michele Capnist: Il duca
Gino Cavalieri: professor Sattin
Regia Dino Risi
Soggetto Giovanni Arpino
Sceneggiatura Dino Risi, Bernardino Zapponi
Produttore Pio Angeletti Adriano De Micheli
Fotografia Tonino Delli Colli
Montaggio Alberto Galliti
Musiche Francis Lai
Scenografia Luciano Ricceri
Costumi Luciano Ricceri

Paranoia
Un grave incidente automobilistico costringe la bella e affascinante Helene a dover rinunciare alle corse; rimasta anche senza soldi, accetta riluttante di passare un breve periodo di ferie nella villa spagnola dell’ex marito, Maurice, che nel frattempo ha sposato Costance, una donna più anziana di lui, con una figlia ma sopratutto con tanti, tanti soldi. Al suo arrivo nella splendida villa della donna, Helene scopre che è stata proprio la ricca Costance che ha insistito per averla come ospite; la donna ha in mente un piano.
Servirsi di Helene come esca per sedurre l’ex marito, portarlo ad una gita in barca e sopprimerlo. La donna, sicura delle infedeltà del marito ha organizzato il tutto per liberarsi di un uomo che ormai disprezza, e propone ad Helene l’omicidio di Maurice, promettendo alla stessa una lauta ricompensa in cambio del suo aiuto. Il giorno dell’agguato arriva, e Maurice, Costance e Helene salgono in barca e si dirigono al largo.
a all’ultimo momento Helene non se la sente di uccidere l’uomo; Maurice colpisce Costance con il fucile subacqueo e la uccide, e getta il corpo in mare. La polizia prende per buona la versione dei due ex coniugi, ma a sospettare l’omicidio ecco che arriva Susan, figlia di Costance. La ragazza mostra di sapere cosa è successo, ma ecco il colpo di scena; Helene si accorge che Maurice e Susan hanno una relazione, e che è questo il vero motivo per cui Costance aveva deciso di uccidere Maurice.
Ma i due amanti diabolici hanno progettato tutto e si sbarazzano anche di Helene. Il piano è perfettamente riuscito, ma ecco la sorpresa finale.
Diretto da Umberto Lenzi, Paranoia, film del 1970, è un avvincente e credibile thriller, giocato molto sugli sguardi, sugli atteggiamenti, sulla psicologia dei vari personaggi, interpretati davvero bene dal ben assortito cast, che comprende la bellissima Carroll Baker nel ruolo della sventurata Helene, di Jean Sorel nel ruolo di Maurice, della Proclemer in quello di Costance, per finire con Marina Coffa, star dei fotoromanzi Lancio, assolutamente a suo agio nel ruolo di Susan.
Un film di ottima fattura, che chiude il trittico di Lenzi iniziato con l’ottimo Orgasmo e proseguito un tantino meno bene con Cosi dolce così perversa. Sorretto da un’incalzante colonna sonora, Paranoia si lascia guardare fino alla parola fine, grazie ad una trama non banale, a quel tocco di torbido erotismo, mai volgare, che aggiunge un’atmosfera morbosa al film, che si avvale di una sceneggiatura una volta tanto esente da buchi visibili, anche se tendente in maniera pericolosa al semplicismo.. Bella sicuramente la location, la splendida Palma di Maiorca. Un film sicuramente ancora oggi vedibile.
Il film è ora disponibile su Youtube all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=xj4ifiT6XUg in un’ottima versione digitale.
Paranoia – un film di Umberto Lenzi , con Carroll Baker; Jean Sorel; Marina Coffa; Anna Proclemer; Alberto Dalbes 1970
Carroll Baker: Helen
Jean Sorel: Maurice Sauvage
Luis Dávila: Albert Duchamps
Alberto Dalbés: Dr. Harry Webb
Marina Coffa: Susan Sauvage
Anna Proclemer: Constance Sauvage
Lisa Halvorsen: Solange (con il nome Liz Halvorsen)
Manuel Díaz Velasco: Miguel
Jacques Stany: James
Rossana Rovere: Infermiera
Calisto Calisti: Dottore
Alfonso de la Vega: Chauffeur
Regia Umberto Lenzi
Soggetto Marcello Coscia, Rafael Romero Marchent
Sceneggiatura Marcello Coscia, Rafael Romero Marchent, Marie Claire Solleville
Casa di produzione Día P.C., Eagle, Medusa Produzione, Tritone Cinematografica
Fotografia Guglielmo Mancori
Montaggio Enzo Alabiso, Stanley Frazen, Antonio Ramírez de Loaysa
Musiche Gregorio García Segura, Nino Rota
Solamente nero

Stefano e Paolo sono due fratelli, molto uniti ma diversissimi tra loro; il primo, Stefano, è un docente di matematica, il secondo un sacerdote. Accogliendo l’invito di Don Paolo, Stefano, che ha dei problemi di esaurimento nervoso, si reca presso un’isola della laguna di Venezia, nella canonica del fratello.
Qui ben presto Stefano si rende conto che il posto è il meno adatto per curarsi; difatti suo fratello è oggetto di una serie di lettere anonime, oltre che della chiara ostilità di un gruppo di persone dedite a strani riti, sedute spiritiche in primis, condotti da una fattucchiera equivoca, a cui partecipano il Conte Mariani, l’ostetrica Nardi, il dottor Aloisi. Sull’isola, Stefano conosce una giovane e bella arredatrice, Stefania, con la quale lega immediatamente e avvia una relazione. Stefano inizia ad indagare sull’origine e sulle motivazioni delle misteriose lettere minatorie, scoprendo da subito che tutto sembra ricondursi alla morte di una ragazza, avvenuta anni prima.

Stefania Casini nel ruolo di Stefania

Massimo Serato è il Conte Mariani
Ma l’arrivo di Stefano mette in moto un meccanismo mortale; ad uno alla volta vengono uccisi, in sequenza, il Conte Mariani, omosessuale e vizioso, che ha una relazione con un giovanissimo, seguito subito dopo dalla morte della madre di Sandra, dalla morte del dottor Aloisi e da quella della fattucchiera, oltre che dalla morte misteriosa dell’ostetrica.
Il tutto sembra motivato da una sete di vendetta, ma in realtà le cose stanno differentemente. sarà grazie ad una vecchia macchina per scrivere, con un difetto di scrittura di un carattere, che Stefano riuscirà a far combaciare tutti gli eventi, giungendo alla scoperta dell’imprevedibile verità.

Stefania Casini e Lino Capolicchio
Solamente nero, film del 1978 diretto da Antonio Bido, è un solido giallo con venature noir, basato su una trama e una sceneggiatura credibili, una volta tanto non fondato su sangue e omicidi a gogo. Immerso nell’atmosfera cupa e quasi decadente della laguna veneta, il film si regge con credibilità grazie alle performance dei vari attori. Bravissimo Lino Capolicchio, che tratteggia la figura tormentata di Stefano da par suo, dandogli spessore e credibilità, così come brava è Stefania Casini nel ruolo di Stefania, bella e dotata di un magnetismo che portano lo spettatore a simpatizzare immediatamente con il suo personaggio. Altrettanto bravi sono due personaggi fondamentali per l’economia della storia,
ovvero Massimo Serato, vecchia gloria del cinema italiano nel ruolo dell’ambiguo conte Mariani, e Juliette Meyniel, come al solito perfetta caratterista nel ruolo della fattucchiera. Un film che non ha ritmi eccelsi, e che proprio in virtù di questa lentezza sembra voler approfondire i dettagli, le atmosfere, cercando di recuperare un tipo di cinema che sia un’assieme di più componenti, non soltanto l’effetto brivido momentaneo o l’uccisione brutale tout court. Anche il finale risulta particolarmente ben costruito, credibile.
Belle le musiche di Stelvio Cipriani, che contribuiscono ad incupire la già tetra atmosfera del film, che ha una location assolutamente in tema con il film.
Solamente nero, un film di Antonio Bido. Con Massimo Serato, Craig Hill, Stefania Casini, Lino Capolicchio,Laura Nucci, Alfredo Zammi, Luigi Casellato, Sonia Viviani, Juliette Meyniel
Giallo, durata 106 min. – Italia 1978.
Lino Capolicchio: Stefano D’Arcangeli
Stefania Casini: Sandra Sellani
Craig Hill: Don Paolo
Massimo Serato: conte Mariani
Juliette Mayniel: sig.ra Nardi
Laura Nucci: matrigna di Sandra
Attilio Duse Sciascia: Gasparre, il sacrestano
Gianfranco Bullo: figlio della Nardi
Luigi Casellato: sig. Andreani
Alfredo Zammi: commissario di polizia
Alina De Simone: Medium (con il nome Alicia Simoni)
Emilio Delle Piane
Sonia Viviani: sig.na Andreani
Sergio Mioni: dr. Aloisi
Fortunato Arena: Antonio, l’oste (non accreditato)
Antonio Bido: uomo al cimitero (non accreditato)
Regia Antonio Bido
Soggetto Antonio Bido, Domenico Malan
Sceneggiatura Marisa Andalò, Antonio Bido, Domenico Malan
Casa di produzione Produzioni Atlas Consorziate, Webi di Erwin Wetzl e Antonio Bido
Fotografia Mario Vulpiani
Montaggio Amedeo Giomini
Musiche Stelvio Cipriani (eseguite dai Goblin)
Costumi Ferroni
Trucco Massimo Giustini
Lo squartatore di New York
Inizio dalla fine; questo film di Lucio Fulci è una delusione. Divenuto un cult per motivi abbastanza misteriosi, per altro; forse sarà stata la concomitanza di due elementi di cui il film abbonda, il connubio sempre valido sesso-violenza, forse l’atmosfera cupa e morbosa in cui il film è immerso, un’atmosfera malata, reale, forse la combinazione di questi fattori più altri, inspiegabili.
Fatto sta che il film, con il passare degli anni, è diventato quasi il simbolo della produzione di un regista tra i più bravi e tecnicamente dotati del cinema italiano. E allora perchè parlo di delusione? Semplicemente perchè la sceneggiatura è molto lacunosa, la recitazione a tratti irritante (vedere il pessimo Andrea Occhipinti, per esempio), perchè aldilà dello splatter tutto appare preso per i capelli, messo assieme alla rinfusa con un risultato finale di dubbia validità.
Partiamo dall’inizio, e dalla scena che da il via al film; un uomo, che gioca con il suo cane sulle rive dell’Hudson, fiume di New York, si vede riportare la mano di un cadavere. E’ quello di una donna, che è stata orrendamente sventrata. Il tenente Williams non dedica molto tempo alla cosa, perchè, come fa notare all’anatomo patologo, “a New York muoiono assassinate 10 persone al giorno e sette sono donne “.
Poco tempo dopo tocca ad una studentessa finire massacrata, all’interno di un ferry boat; abbiamo già una prima descrizione dell’assassino, che parla in falsetto, con la voce di Paperino. Questo secondo omicidio, avvenuto con le stesse modalità del primo, porta il tenente Williams a sospettare dell’esistenza di un serial killer. Mentre è a letto con Kitty, una prostituta, il tenente riceve una telefonata del misterioso assassino, che lo sfida annunciandogli, sempre parlando in falsetto con la irritante voce di Paperino, una serie di omicidi.
Il tenente decide così di consultare uno psicologo, l’ambiguo dottor Davis, che però si limita ad annunciargli l’impossibilità, visti gli elementi in mano al tenente, di identificare in qualche modo la causa scatenante degli omicidi. L’assassino si rifà vivo poco dopo; in un quartiere a luci rosse, una donna, Jane, assiste ad uno spettacolo porno. Al suo fianco c’è un uomo misterioso, con la mano destra priva di due dita.
La donna si masturba durante l’esibizione degli attori, e subito dopo l’assassino colpisce ancora, uccidendo con una bottiglia la ragazza protagonista del live show erotico. Jane, sempre alla ricerca di forti emozioni, sobillata anche dal marito, si reca in un quartiere abitato da ispanico americani, dove cerca di concedersi un’altra delle sue trasgressioni. Qui però viene umiliata da due giovani portoricani, e la donna fugge.
Nel frattempo Faye, una brillante studentessa, viene molestata e inseguita in metro da un uomo con la mano mancante di due dita. Si rifugia, dopo una corsa, in un cinema, dove viene aggredita dal misterioso serial killer; la donna riesce a sfuggire all’attacco e si risveglia in ospedale, con il tenente Williams che le chiede spiegazioni. La ragazza fornisce al tenente la descrizione dell’uomo on le due dita in meno, e in tal modo da il via alle indagini che ora hanno qualcosa di concreto su cui muoversi.
Intanto Jane ha agganciato il misterioso uomo dalla mano monca; lo segue in un albergo e si fa legare ad un letto. Ma alla fine dell’amplesso, mentre l’uomo dorme, ascolta il comunicato della polizia, con quella che è la descrizione del killer presunto. La donna si libera e fugge, ma viene uccisa in albergo. La polizia identifica l’uomo dalla mano monca: è Mikos Scellenda, erotomane e modello di foto porno.
Scatta la caccia, che però porta ad una scoperta inaspettata. L’uomo viene rinvenuto cadavere 8 giorni dopo. Nel frattempo il misterioso killer si è fatto beffe del tenente, portandolo ad una cabina telefonica nella quale ha attivato un registratore, mentre nel frattempo fa ascoltare in diretta a Williams le fasi delle sevizie e della successiva morte di Ketty, la prostituta che il tenente frequenta.
Mi fermo qui con la descrizione della trama, perchè da questo punto in poi l’assassino è facilmente identificabile. Non c’è un vero colpo di scena finale, perchè negli ultimi minuti si intuisce il finale, anche se mancano le motivazioni degli omicidi. La trama, fin quà, pur tra vari contorcimenti, ha retto. Non regge il finale, frettoloso e a tratti inverosimile, così come sono inverosimili alcune scene, Una, in particolare, ha anche del comico: Faye viene inseguita in una metro deserta ( a New York!), dal misterioso uomo con la mano monca.

Non solo: quando la ragazza esce dalla stazione della metro, è inseguita per le strade sempre dallo stesso uomo, e durante il lungo percorso non si vede un’anima viva in giro. A parte queste incongruenze, appare forzatissimo l’inserimento del personaggio di Jane, la ninfomane a caccia di emozioni, così come appare inspiegabile per lunghi tratti la figura di Mikos, che agisce evidentemente per conto del serial killer, ma la cui figura non è mai centrata nelle motivazioni dei suoi comportamenti, nè lo sarà in seguito. A tratti la mano del regista è sicura, ferma; a tratti è impacciata, colpa probabilmente dei buchi della sceneggiatura, colpa della voglia di stupire attraverso scene splatter che in seguito saranno ampiamente sforbiciate dai censori. Il film, violentemente pessimista e cinico, rischia il naufragio in vari punti, concludendosi poi in maniera frettolosa. Aiutano poco po le performance degli attori, fra i quali si possono segnalare, come degne di menzione, quelle di Howard Ross e di Alessandra Delli Colli. Poco credibili quelle di Malco, che interpreta lo psicologo, quella di Jack Hedley nel ruolo del tenente Williams e sopratutto quella di Andrea Occhipinti, personaggio chiave della storia, fidanzato di Faye, interpretata da un’incerta Almanta Keller.Tante ombre, poche luci.

Fulci ha già superato, nel 1982, data di uscita di Lo squartatore di New york, la sua fase più creativa. D’ora in poi girerà film di modesto livello, con l’unica eccezione del durissimo e crudo Gatto nel cervello. Film per fulciani accaniti, quindi, coloro che perdonano tutto ad un regista entrato con questo film nella parte meno importante della sua luminosa carriera.
Lo squartatore di New York, un film di Lucio Fulci. Con Jack Hedley, Howard Ross, Almanta Keller, Andrea Occhipinti, Daniela Doria, Paolo Malco,Zora Kerova, Alessandra Delli Colli, Cinzia De Ponti Thriller, durata 92 min. – Italia 1982.
Jack Hedley: Tenente Williams
Howard Ross: Mikos Scellenda
Andrea Occhipinti: Peter Bunch
Alessandra Delli Colli: Jane Lodge
Paolo Malco: Dottor Davis
Daniela Doria: Kitty
Zora Kerowa: donna del sexy show
Lucio Fulci: funzionario di polizia
Urs Althaus: uomo del sexy show
Cinzia De Ponti: studentessa
Almanta Keller: Fay Majors
Regia Lucio Fulci
Soggetto Gianfranco Clerici, Vincenzo Mannino, Lucio Fulci
Sceneggiatura Gianfranco Clerici, Vincenzo Mannino, Lucio Fulci, Dardano Sacchetti
Produttore Fabrizio De Angelis
Casa di produzione Fulvia Film
Fotografia Luigi Kuveiller
Montaggio Vincenzo Tomassi
Musiche Francesco De Masi
Scenografia Massimo Lentini
Costumi Massimo Lentini
Trucco Manlio Rocchetti, Luigi Rocchetti, Rosario Prestopino (assistente), Franco Di Girolamo (assistente)
Il profumo della signora in nero
Un regista pittore, una trama complessa, dark ma alo stesso tempo affascinante e misteriosa, un’attrice tra le più brave nel genere thriller, una colonna sonora sinuosa, lenta, affascinante e avvolgente, una fotografia che sembra presa di petto da tele espressioniste; mescoliamo tutto e avremo un risultato cinematografico di eccellenza, un’opera tra le più affascinanti e complesse del cinema degli anni settata.
La storia di Silvia, una giovane dottoressa in chimica, sospesa tra normalità e follia, in un complesso gioco di luci e ombre, dove è difficile capire cosa sia la realtà, se poi di realtà si può parlare, è un pretesto; il pretesto per affrontare, visivamente, un gioco di luci, di ombre, di penombre.
Barilli ha una concezione del cinema raffinata come una tela metafisica; ogni singolo fotogramma del film va analizzato e metabolizzato, inserito in un contesto globale che alla fine va rismontato, perchè porta a infinite vie, non a una soluzione univoca. Così, la trama portante, ovvero il trauma subito da Silvia, che ha assistito da piccola ad una torbida scena di sesso tra la mamma e il compagno, finisce per mescolarsi al complotto che sembra stringere come un laccio la ragazza, con quei volti che si sovrappongono; gli africani, la medium cieca, il vicino di casa che da ai suoi gatti da mangiare cibo con dentro un sito umano.

La causa scatenante del trauma di Silvia
Un complotto che però immaginiamo, ma del quale non abbiamo certezza; perchè la mente di Silvia vacilla, ondeggia, come quel volto di donna che ogni tanto appare, come un profumo che lo spettatore non può immaginare, perchè il cinema non ha una memoria olfattiva, ma che sembra aleggiare nei fotogrammi, quasi a rendersi tangibile.
Mimsy Farmer è Silvia, Lara Wendel è la bambina misteriosa
Cosa è reale e cosa no, in questo film? Forse è reale l’africano, che con tono serio dapprima e scherzoso alla fine, dice “Laggiù nel nostro paese esistono ancora alcune sette che ogni anno scelgono delle vittime a loro insaputa. Con fatture terribili e pratiche demoniache li portano alla follia…e alla morte. E’ una sfida alla morte, all’occulto, alle tenebre e la vittima morirà con un antico sacrificio. Occorre tempo… e pazienza… per entrare in un cervello. E’ una prova di forza mentale dell’uomo contro la sua debolezza. Ah ah ah ah! Le ho fatto paura? Stavo solo scherzando, signorina Silvia….”
Così come reale (forse) è il vecchio amante della mamma, che la segue fino alla vecchia casa dove abitava da bambina, che cerca di stuprarla, e che Silvia uccide con un colpo di sasso alla testa. Di reale ad un certo punto sembra esserci solo la follia che possiede come un demone, minuto dopo minuto, la fragile mente di Silvia, catapultandola attraverso esperienze, visioni, incontri, che sembrano frutto del sogno, o, specularmente della dimensione dell’incubo. Questa è solo una delle chiavi di lettura del film; ognuno può in effetti leggerci quello che crede, guardare ad esso come il semplice racconto della deriva della personalità della protagonista, oppure vederci un thriller un tantino elaborato e forse incomprensibile.
Ma nessuno può dire di restare deluso dall’accavallarsi delle immagini, costruite con arte e perizia, e rese scenograficamente con grande abilità e mestiere. semplicemente perfetta è Mimsy Farmer, grande attrice alle prese con un ruolo complicatissimo e di difficile resa. Compito svolto alla perfezione, perchè è proprio il personaggio di Silvia a creare inquietudine, sorpresa, sgomento. Un personaggio inafferrabile, perso in un mondo inaccessibile, siderale.
Un film bello, straordinariamente bello; i pochi ad averlo stroncato sono i soliti scribacchini che al cinema andavano a sorbirsi film cecoslovacchi con sottotitoli in coreano. Quelli, cioè, che dal cinema ricavano l’unica cosa che per loro conta davvero: uno stipendio. Un cenno agli attori, tutti in stato di grazia; l’enigmatico Mario Scaccia, il perfido e laido Orazio Orlando, la bella Carla Mancini, sempre ad alto livello nelle sue interpretazioni. E poi lei, la citata Farmer; non bella, ma magnetica e felina come poche altre.
Il profumo della signora in nero, un film di Francesco Barilli. Con Mario Scaccia, Mimsy Farmer, Maurizio Bonuglia, Orazio Orlando,Carla Mancini, Renata Zamengo, Nike Arrighi
Drammatico, durata 101 min. – Italia 1974.
Mimsy Farmer: Silvia
Renata Zamengo: sua madre
Maurizio Bonuglia: Roberto
Mario Scaccia: Rossetti
Orazio Orlando: Nicola
Carla Mancini: Elisabetta
Luigi Antonio Guerra: suo collega
Donna Jordan: Francesca
Lara Wendel (accreditata come Daniela Barnes: bimba
Margherita Horowitz (non accreditata): Signora Lovati
Regia Francesco Barilli
Sceneggiatura Francesco Barilli, Massimo D’Avack
Produttore Euro International Film
Distribuzione (Italia) Euro International Film
Fotografia Mario Masini
Musiche Nicola Piovani
Scenografia Franco Velchi
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Notevole opera prima, pittoricamente impeccabile e capace di momenti finissimi (la Farmer che scrive con grafìa infantile fa venire i brividi): imperdibile. Bellissima la colonna sonora di Piovani. Il favoloso palazzo in cui abita la Farmer è a Roma, in Piazza Mincio. Questo di Barilli è uno dei film in cui il ruolo di Carla Mancini è visibilissimo.
Leggenda vuole che il soggetto di questo “gioiello” del brivido italiano nasca da una reale esperienza (sei mesi vissuti in Congo) del regista: esperienza maturata perché inizialmente Barilli fu scritturato per la sceneggiatura de Il paese del sesso selvaggio (poi diretto da Umberto Lenzi). Su commissione l’autore modificò l’idea iniziale basata su un soggetto “impegnato” a favore di un “dramma” ispirato a Rosemary’s Baby. Da segnalare la presenza del bravo caratterista Mario Scaccia. Ottimo.
Non solo è ossessionata da cupi ricordi dell’infanzia che si materializzano attorno a lei, ma c’è un qualche strano complotto che la circonda. Film inquietante, calato in un’atmosfera di mistero che la rivelazione finale genialmente accresce anziché sciogliere. Un mistero che avvolge ogni persona, ogni luogo e ogni oggetto, grazie a una notevole sensibilità registica che sa ben miscelare visioni, suoni, presenze (con un’efficace Mimsy Farmer ben spalleggiata dal resto del cast) in un malsano ritmo avvolgente. Un’ottima opera prima.
Elegante, raffinato thriller psicologico-cannibalico, debitore di Polanski (l’edifico e i condomini à la Rosemary’s Baby), ma anche creditore (il pre-finale, che precorre L’inquilino del terzo piano). La Farmer è protagonista nel ruolo che le riesce meglio, grazie al suo volto angelico-demoniaco e l’ottimo Scaccia è inquietante nella sua affabilità. La Farmer da piccola è interpretata da una biancovestita e “baviana” Lara Wendel.
Splendido thriller, di chiara matrice polanskiana, con venature horror e finale gustosamente grandguignolesco. Il film ha un ritmo che, sebbene non sia teso e frenetico, avvolge lentamente lo spettatore tessendo attorno a lui una ragnatela vischiosa da cui è impossibile liberarsi. Barilli è anche molto bravo nel creare un clima di crescente mistero attorno alla protagonista che, gradualmente accerchiata, sprofonderà sempre più in un baratro di orrore fino allo sconvolgente ed inaspettato finale. Una piccola perla da non mancare assolutamente.
Buon esordio cinematografico di Francesco Barilli, indubbiamente debitore verso Roman Polanski, che a suo tempo fu massacrato dalla critica ufficiale. Il ritmo lento non impedisce alla pellicola di creare un buon clima di tensione e l’interpretazione di Mimsy Farmer è degna di nota. Da segnalare la bellissima fotografia ad opera di Mario Masini. Purtroppo Barilli dopo questo film firmò solo Pensione paura per poi sparire praticamente dalla circolazione. Merita sicuramente almeno una visione.
Macabro e poetico. Barilli confeziona con cura un bell’horror-thriller molto psicologico, dove realtà e finzione si mescolano, senza rinunciare a momenti splatter (il finale da inserire negli annali tra i finali più inquietanti). Brava la Farmer, notevole anche Scaccia, parti molto più visibili del solito per i due CSC, la Mancini e Guerra. Da citare la scena nella casa abbandonata. Molto bello, buone musiche. Consigliato.
Ottimo film. La regia è straordinaria e riesce a creare un clima onirico e sottilmente angosciante, aiutata della bellissima fotografia. Peccato soltanto per la totale mancanza di ritmo, che spesso porta alla noia. Nell’ultimo quarto d’ora comunque siamo dalle parti del capolavoro. Bravissima Mimsy Farmer e ottima la colonna sonora. Da vedere sicuramente.
Un filo di tensione caratterizza la pellicola ma alla lunga è troppo labile per far veramente presa. Complice una direzione degli attori poco brillante (la stessa Farmer percorre l’intero film con poca convinzione). Barilli ha il merito di non sconfinare nell’effettaccio e tentare piuttosto una strada psicologica, ma lo fa senza graffiare e perdendosi su elementi poco credibili tipo la magia nera. Meritano invece le musiche di Piovani e la scelta degli ambienti. Polanski rimane lontano.
Interessante anche se con un leggerissimo velo di “fuffa” questo horror che di Argento non ha quasi nulla. Siamo, come tutti dicono, dalle parti di Polanski ma nessuno ricorda Repulsion, che c’entra molto con la paranoia della Farmer. Graficamente ad altissimi livelli, malinconico come pochi thriller italiani, grazie alle belle musiche di Piovani, in cui Morricone si fonde al suo stile placido e melanconico che troveremo in Moretti. Sì, la sceneggiatura è improbabile, ma il fascino c’è tutto e i tempi morti sono una marcia in più. Interessante, suggestivo.
Thriller psicologico molto lento quasi cadenzato e soprattutto angosciante, anche se non va mai a culminare nella paura vera e propria. La protagonista è azzeccata nel ruolo della donna fragile e repressa, tutto il cast di contorno invece non ha molta importanza, se non quando i nodi verranno al pettine. Sceneggiatura contorta, probabilmente va interpretata; finale spiazzante assolutamente non prevedibile.
Notevole horror, pesante e malsano, psicologico… anzi di più. La mente è vittima e cerca di difendersi fino alla fine dagli attacchi del male, sempre più ardito e diabolico nella sua azione. Le implicazioni sociali sono irrilevanti, mentre il contrasto tra il moderno vissuto e l’antico tenuto in sordina, ma pronto a manifestarsi a preparazione ultimata, è davvero ben esplicitato. Il finale è molto originale, lascia stupefatti e nega tutte le supposizioni elaborate durante la visione. Menzione speciale per Mimsy Farmer, specialissima per Jho Jhenkins.
Una Roma estiva, semideserta, uno splendido palazzo liberty al Coppedé, la bellezza diafana e ambigua di Mimsy Farmer, una storia di traumi sepolti, paranoia e vampirismo. Un po’ lento all’inizio, poi si rimane piacevolmente avvolti nell’annebbiamento dei confini tra passato e presente, tra realtà e incubo, tra persecutori e vittime… Echi polanskiani evidenti, ma declinati in maniera originale in un ottimo psico-thriller-horror.
Come esordio è senz’altro formidabile. La fotografia e i colori sono bellissimi. Il soggetto è sicuramente originale e distante dalle mode del periodo. Buone anche le interpretazioni. Eppure nell’insieme qualcosa non mi convince: la storia non appassiona, troppo cerebrale e poco credibile. Complessivamente risulta un po’ forzato, anche nella soluzione finale.
Sinistro e visionario (emblematica la citazione di Alice nel paese delle meraviglie), trova in inattese scene d’orrore il corrispettivo della sua morbosità psicologica. Penalizzato dal famoso confronto con Polanski, ma Barilli sembra averne pienamente personalizzato la poetica: tant’è che se i rimandi a Rosemary’s baby sono riconoscibilissimi, qui addirittura si anticipano alcune suggestioni de L’inquilino del terzo piano. Cast azzeccato, musiche stupende, set naturali: un film straordinario.
Protagonista è la meravigliosa Mimsy Farmer nei panni di Silvia Hacherman, una giovane donna fragile ed un poco paranoica ossessionata dal ricordo della madre, morta in circostanze che per buona parte del film appaiono misteriose. La narrazione sembra procedere con una certa lentezza, quasi alla Polanski, ma il finale dà un senso a questa scelta. L’elegantissima regia del poco prolifico Barilli, interpreti di contorno azzeccatissimi e una confezione di buon taglio fanno il resto.
Ottimo esordio alla regia per l’attore Francesco Barilli, che punta troppo in alto sbirciando su Rosemary’s Baby ma dimostrandosi comunque indubbiamente all’altezza. Buona la direzione del cast, con un ottimo e sornione Scaccia e una bravissima Farmer sanguinaria ma infantile al tempo stesso che compie un percorso psicologico interessante. Tanta la suspence, soddisfacenti le scene di sangue e letteralmente sbalorditiva la fotografia; peccato per la scarsa sceneggiatura. Uno dei migliori horror italiani. Voto: ****.
La prima volta che lo vidi ne rimasi scioccato, infino impietrito. Poi, rivedendolo, mi accorsi di come questo capolavoro acquistasse i toni di una terrificante fiaba nera (la Farmer e lei stessa bambina – Lara Vendel – che non a caso leggono Alice nel paese delle meraviglie). La Roma agostiana e disabitata, poi, aumenta l’angoscia. Credo che Barilli avesse in testa l’Images altmaniano arrivando, quasi, ad eguagliarlo. Il finale, poi, è qualcosa di veramente terrificante e scioccante. Uno dei migliori horror degli anni ’70, italiani e non.
Non può non rimandare per molti versi a Polanski questa pellicola eppure, nonostante il suo evidente debito verso tale regista, riesce ad acquistare una dimensione tutta sua grazie a una protagonista in parte (una discreta Mimsy Farmer), uno score musicale appropriato e atmosfere estremamente ambigue e sottilmente angosciose. La storia regge bene nonostante qualche pesantezza qua e là e il finale, per quanto enigmatico, sferra un colpo di frusta allo spettatore.
Opera prima di Barilli e del Maestro Nicola Piovani. Formidabile. Uno degli horror italiani più affascinanti di sempre, ben diretto e con una fotografia che per certi aspetti sembra anticipare le cromìe di Tovoli in Suspiria; in molti frangenti sembra di essere dentro un quadro… Angosciante, claustrofobico, malsano, inquietante. Il ritmo è lento e sinuoso come un serpente e aumenta d’intensità negli ultimi meravigliosi 20 minuti che conducono lo spettatore all’incubo di un finale raggelante e indimenticabile. Un film affascinante.
Affascinante nero gotico che vira presto nell’horror, in cui un racconto non nuovissimo, di complotti e vicini, diventa l’occasione per Barilli di un raffinato esercizio di stile, in cui più che l’orrore e la violenza conta la paura strisciante, l’angoscioso isolamento della protagonista coi suoi fantasmi, l’impossibilità – anche per lo spettatore – di conoscere il reale. E che culmina in 20′ finali d’antologia. Adeguata Mimsy Farmer.
Splendido e angosciante, claustrofobico, opprimente e pure esoterico. Un film che mi ha fatto venire spesso i brividi e che lascia l’amaro in bocca per un finale che, candidamente, ammetto di non capire. L’incubo e la malattia mentale dell’ottima Farmer escono fuori piano piano ma sono niente di fronte ai vicini e conoscenti che si dimostreranno ben più efferati di lei.
Non violentate Jennifer
Jennifer, una bella giornalista e scrittrice, sceglie per poter scrivere in santa pace, di recarsi in un posto remoto dell’entroterra americano. Qui ha preso in fitto un magnifico villino che si affaccia su uno specchio d’acqua.Al suo arrivo conosce un meccanico che è contemporaneamente il gestore di una pompa di benzina, ma sembra essere una conoscenza temporanea, e la ragazza si insedia nel posto bucolico.
Ma la pace durerà poco; il gruppo locale di giovani,fra i quali c’è un giovane ritardato, dopo averla seguita, la violenta ripetutamente, dapprima nel bosco, e poi, non contenti, nella sua dimora. Sfuggita miracolosamente alle sevizie, piagata nel corpo e nell’animo, la ragazza si vendicherà atrocemente. Trama scarna, essenziale, per un film violentissimo e assolutamente anacronistico per l’epoca in cui venne girato, il 1978, sopratutto per il tema trattato, lo stupro di gruppo, e maggiormente per la sua scarna essenzialità.
Nel film manca un qualsiasi commento musicale, il cast è ridotto all’osso, e il contrasto tra il paesaggio ridente e tranquillo della campagna e la violenza cieca e brutale che si abbatterà dapprima sulla ragazza e in seguito sul branco appaiono come un uragano su un mare calmo come l’olio. La storia, anche se semplice, all’apparenza, diventa un lungo incamminarsi incontro all’orrore, in un crescendo di violenza raramente riportato con tanta crudezza sullo schermo.
Il tema dello stupro è amplificato da immagini forti, come la sodomizzazione a cui viene sottoposta la ragazza nel bosco, abbarbicata ad una roccia, mentre il branco segue divertito la scena. Non è l’unica immagine forte e disturbante del film; quando Jennifer viene violentata dal più ottuso del gruppo, il giovane fattorino ritardato, si capisce che il regista ha voluto colpire con forza mediante un impatto visivo senza mediazioni. Ed è esattamente quello che vediamo dopo la prima parte di studio, portata avanti con un ritmo volutamente lento, scarno. Lo spettatore non prova eccessiva simpatia per Jennifer perchè il personaggio non è approfondito, di lei non sappiamo nulla, sembra un’anonima figura portata di peso nella storia
Ma nel momento topico del film, la violenza, gli assurdi discorsi fatti dai giovani all’interno di un bar, in cui si mescolano terrificanti stereotipi sulle donne di città, provocatrici e adescatrici, diventano la chiave di lettura dei fatti successivi. C’è un’America bigotta e paesana, provinciale e oscurantista, che probabilmente esisteva in realtà, ad affiorare in tutta la sua insensatezza.
L’evirazione
Con il passare del tempo, assistendo alle sevizie portate ai danni della ragazza, si finisce per parteggiare con essa, si desidera davvero una sua vendetta, che puntualmente arriva. Le scene dell’evirazione del giovane meccanico, le successive uccisioni, feroci e truculente, del branco di lupi assassini, senza pietà e assolutamente privi di una morale sensata, appaiono quasi giustificati agli occhi dello spettatore, che tira un sospiro di sollevo assaporando con Jennifer l’amaro gusto della vendetta.
Non violentate Jennifer ha numerose incongruenze, cadute di ritmo, imperfezioni visive e narrative, oltre che problemi nell’interpretazione dei personaggi, che non appaiono particolarmente ferrati nella recitazione. Tuttavia è un calcio nello stomaco, bene assestato, forse ben aldilà dell’effettiva volontà di Meir Zarchi, il regista. Come già detto, il personaggio di Jennifer non è psicologicamente approfondito, appare privo di una sua identità; tuttavia va riconosciuta a Zarchi la necessità di mantenersi freddo e didascalico nel racconto, quasi il suo non fosse un film, ma un documentario sulla violenza sessuale, brutale e inconcepibile, pur essendo così diffusa, sopratutto oggi. Un film in chiaro oscuro, pur nella sua dignitosa capacità di sollevare il problema stupro; che indulge fatalmente, nella parte finale, su immagini choc, così come erano choc le immagini della violenza sessuale.
Non un qualsiasi film rape and revenge, quindi, ma una storia sulla quale meditare, anche a distanza di 30 anni dalla sua uscita sugli schermi. Un film che ebbe una vita travagliata, con sequestri e bandi in varie parti del mondo, ma che oggi è possibile rivedere; una cosa da fare, non tanto per rivalutare la pellicola, ma per guardare con occhio vigile a quella che sembra purtroppo essere una costante della società, l’incapacità di prendere esempio dagli errori per evitarne il ripetersi degli stessi.
Non violentate Jennifer,un film di Meir Zarchi. Con Camille Keaton, Eron Tabor, Richard Pace Drammatico, durata 93 min. – USA 1978
Camille Keaton: Jennifer Hills
Eron Tabor: Johnny
Richard Pace: Matthew Lucas
Anthony Nichols: Stanley
Gunter Kleemann: Andy
Alexis Magnotti: moglie di Johnny
Tammy Zarchi: figlia di Johnny
Terry Zarchi: figlio di Johnny
Traci Ferrante: cameriera
William Tasgal: facchino
Isaac Agami: macellaio
Ronit Haviv: ragazza del supermercato
Regia Meir Zarchi
Sceneggiatura Meir Zarchi
Produttore Meir Zarchi, Joseph Zbeda
Casa di produzione Cinemagic Pictures
Fotografia Nouri Haviv
Montaggio Spiro Carras (versione internazionale rieditata), Meir Zarchi
Effetti speciali Beriau Picard, William Tasgal
L’etrusco uccide ancora
Jason, archeologo americano, fa una scoperta importante mentre è in Umbria, nelle vicinanze di Spoleto: una tomba etrusca con un dipinto murario raffigurante Thuculcha, dio etrusco dell’oltretomba, mentre è in procinto di uccidere una giovane coppia. Contemporaneamente, nella vicina Spoleto, sta per iniziare il festival dei due mondi, in cui sono presenti dei conoscenti di Jason.
C’è Nikos Samarakis, direttore d’orchestra, la bella moglie Myra, (vecchia compagna di Jason ed ex amante), il figlio Igor e il coreografo Stephen. Poche ore dopo la scoperta della tomba, due giovani che erano intenti ad amoreggiare vengono uccisi ferocemente all’interno della stessa.
La presenza di un paio di scarpe di colore rosso, usate generalmente dalle ballerine, spinge l’incaricato delle indagini, il commissario Giuranna a sospettare dapprima del coreografo Stephen, e in seguito proprio di Jason. Ma un nuovo omicidio ingarbuglia ancora di più le indagini; a cadere questa volta sotto i colpi del misterioso assassino è Igor che si era appartato in una stalla con la fidanzata Giselle.
Il giovane, benchè ferito, riesce a sopravvivere, mentre la ragazza muore. Il commissario interroga il giovane, nella speranza di ricavare degli indizi utili alle indagini, ma Igor non è in grado di fornirli. A questo punto il maggior sospettato è proprio Jason, che in passato, durante una lite, aveva cercato di uccidere la sua ex amante Myra, attuale compagna dell’anziano direttore d’orchestra.
Ipotesi che si rivela infondata, nel momento esatto in cui il custode della necropoli e la sua giovane compagna vengono brutalmente assassinati. A risolvere il caso, apparentemente, arriva la morte di Nikos, che presenta però dei lati oscuri. Jason, infatti, non crede alla confessione lasciata dal direttore d’orchestra, e arriverà alla soluzione del caso,e ad identificare l’insospettabile colpevole.
L’etrusco uccide ancora, film del 1972 diretto da Armando Crispino, è un solido giallo, con elementi thriller, ben recitato e con poche lacune nella sceneggiatura; girato a poco più di un anno dal thriller di Argento L’uccello dalle piume di cristallo, appare come un giallo canonico senza glielementi splatter di molta produzione successiva. Ambientato in un’Umbria magnifica, in una Spoleto che appare arcana e misteriosa, il film si regge benissimo grazie anche alla sequenza logica degli avvenimenti, alla sottile opera psicologica che Crispino segue senza sbavature, assecondato anche da un cast di sicuro livello, con Alex Cord a interpretare Jason, l’archeologo ex alcolizzato, che appare tormentato dai fantasmi del passato e dalla relazione con Myra, una bella e brava Samantha Eggar, poco sfruttata, misteriosamente, dal cinema italiano.
Nel film appaiono anche, in ruoli minori, la caratterista Carla Mancini, Wendi D’Olive e il bravo e sfortunato Enzo Cerusico, in una parte minore, quella dell’assistente di Jason. Buona la scelta di utilizzare il requiem di Verdi nel momento topico del film, mentre se qualche appunto va mosso, riguarda il tentativo non riuscito di crispino di voler ad ogni costo creare suspence, mentre sarebbe stato meglio non calcare troppo la mano, lasciando alle immagini il compito di illustrare le varie fasi della storia.
In definitiva, comunque, siamo di fronte ad un buon prodotto, che ebbe un lusinghiero successo di pubblico, anche se limitato ad esso. I critici, infatti, mossero molti appunti ad una sceneggiatura vista come lacunosa, e alla recitazione che molti trovarono approssimativa.
L’etrusco uccide ancora, un film di Armando Crispino. Con John Marley, Enzo Cerusico, Alex Cord, Samantha Eggar,Enzo Tarascio, Nadia Tiller, Horst Frank, Daniela Surina, Mario Maranzana, Cinzia Bruno, Wendy D’Olive, Carla Mancini, Rodolfo Bigotti
Giallo, durata 105 min. – Italia 1972.
Alex Cord: Jason Porter
Samantha Eggar: Myra Shelton
John Marley: Nikos Samarakis
Nadja Tiller: Leni Samarakis
Enzo Tarascio: IL’ispettore Giuranna
Horst Frank: Stephen
Enzo Cerusico: Alberto
Carlo De Mejo: Igor Samarakis
Daniela Surina: Irene
Vladan Milasinovic: Otello
Christina von Blanc: Velia
Mario Maranzana: Sergente.Vitanza
Wendy D’Olive: Giselle
Pier Luigi D’Orazio: Minelli
Ivan Pavicevac: Poliziotto
Cinzia Bruno: Motociclista
Rodolfo Bigotti: Motociclista
Carla Mancini
Rosita Torosh
Alessandro Angeloni
Pietro Fumelli
Carla Brait: Danzatrice
Regia Armando Crispino
Soggetto Bryan Edgar Wallace
Sceneggiatura Lucio Battistrada, Armando Crispino e Lutz Eisholz
Produttore Artur Brauner
Casa di produzione Central Cinema Company Film
Fotografia Erico Menczer
Montaggio Alberto Gallitti
Musiche Riz Ortolani
Scenografia Giantito Burchiellaro
Costumi Luca Sabatelli


































































































































































































































































































