Mariangela Melato
Un breve omaggio a quella che,a mio giudizio,è stata l’attrice italiana più brava del decennio settanta e di quelli successivi.Una delle più grandi attrici italiane della storia del cinema,Mariangela Melato
Basta guardarla
Per grazia ricevuta
La classe operaia va in paradiso
La violenza:quinto potere
Mimi metallurgico ferito nell’onore
La polizia ringrazia
Lo chiameremo Andrea
Film d’amore e d’anarchia
Sterminate gruppo zero
Travolti da un insolito destino
Di che segno sei?
Attenti al buffone
Caro Michele
Todo modo
Casotto
Il gatto
Dimenticare Venezia
Saxofone
Flash Gordon
Il pap’occhio
Il petomane
Notte greca con profilo a mandorla…
L’affare Makropulos
Il dolore
Un tram chiamato desiderio
Orlando furioso
Lulù
Vestire gli ignudi
Filomena Marturano
Con De Sica e Manfredi
Con Giancarlo Giannini e Lina Wertmuller
Con Ugo Tognazzi
Con Michele Placido e Vittoria Mezzogiorno
Mariangela Melato e Giuseppe Bertolucci
Con Eleonora Giorgi
Con Giancarlo Giannini
Con Renzo Arbore
Con il Presidente Carlo Azeglio Ciampi
Con Dacia Maraini
Con Vittorio De Sica
Con Elio Petri
Con Federico Fellini
Con Fernanda Pivano
Con Nino Manfredi
Con Mario Monicelli
Con il Presidente Napolitano
Con Nichetti
Con Massimo Ranieri
Con Stefania Sandrelli
Con Valentina Cortese
Con Monica Vitti
Con Gian Maria Volontè
Il cast di Segreti segreti
Per grazia ricevuta
Per grazia ricevuta è il secondo film diretto da Nino Manfredi,che nel corso della sua carriera cinematografica di regista girò 3 film, L’amore difficile, episodio L’avventura di un soldato ne1962,Per grazia ricevuta nel 1971 e infine il poco compreso ma affascinante Nudo di donna nel 1981.Un film bello e denso di significati,probabilmente autobiografico (anche se Manfredi non ha mai confermato la cosa) che sbancò i botteghini, divenendo nella stagione 1971 il film più visto in Italia davanti a kolossal americani come Piccolo grande uomo,Borsalino e Soldato blu e sopratutto davanti a film di enorme successo girati in Italia come Lo chiamavano Trinità e Anonimo veneziano.
Una prova da regista autorevole e di prim’ordine, che dimostra come Manfredi fosse a suo agio dietro la macchina da presa,molto più dei suoi colleghi “moschettieri” Sordi e Tognazzi,che tentarono anch’essi la via della regia,con esiti decisamente inferiori come qualità.E’ un Manfredi ispirato e a tratti lirico quello che propone questo film tutto incentrato sulla religiosità,in un periodo storico in cui l’influenza della chiesa sulla società era fortissimo e condizionante;la cosa più importante è l’equilibrio che l’attore ciociaro riesce a mantenere nel percorso del film, evitando l’anticlericalismo di facciata e sopratutto evitando di cadere nella polemica sterile e fine a se stessa.
La storia di Benedetto Parisi anzi diventa un’iperbole sui danni che una educazione religiosa troppo soffocante e punitiva possono avere sull’individuo,arrivando alla fine a condizionarne pesantemente la vita e cambiandone in modo determinante il percorso della stessa.Con la collaborazione di Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Luigi Magni con il quale Nino Manfredi girerà altri tre film a soggetto legato alla religiosità (memorabile In nome del Papa Re),Manfredi da corpo ad un soggetto elaborato eppure schematicamente semplice.L’idea di fondo è mostrare nella sua interezza,senza però prendere una posizione aperta,quello che un’educazione religiosa troppo opprimente e punitrice può combinare sia nella psiche di un individuo sia nel suo percorso di vita. A ben vedere Benedetto,il protagonista del film,è un’immagine riflessa dello stesso Manfredi,che da piccolo ebbe la tubercolosi e che guarì in modo sorprendente,lasciando nello stesso Manfredi il dubbio che lo accompagnerà tutta la vita su un effettivo miracolo intervenuto nella sua guarigione.
Un uomo è ricoverato in condizioni disperate in un piccolo ospedale di provincia. Ha tentato di uccidersi e un chirurgo accorre affannosamente per operarlo. In sala d’attesa,in preda a opposti stati d’animo c’è la sua compagna Giovanna,incinta e comprensibilmente tesa e la mamma di quest’ultima,che poco cristianamente vorrebbe che l’uomo morisse in modo da dare la figlia in sposa ad un avvocato.
Un salto indietro nel racconto,Benedetto è un orfano allevato dalla zia, in attesa di ricevere la prima comunione. E’ un ragazzo spigliato,come i suoi coetanei,che però vive una condizione particolare, ospite di sua zia che vorrebbe liberarsene e che gli condiziona pesantemente la vita con la sua religiosità confusa e contraddittoria.Un giorno il ragazzo,nascosto in un armadio, assiste ad un convegno amoroso della zia,che,scoperta,spaccia l’amante per Sant’Eusebio.
Dopo aver visto sua zia farsi il bagno nuda ed essere scoperto dalla stessa,Benedetto,preso dai sensi di colpa rifiuta di confessarsi e il giorno dopo, durante la prima comunione, il ragazzo fugge dalla chiesa e nel farlo precipita da una rupe.Si salva miracolosamente e da quel momento la sua vita è segnata.Portato in processione dalla folla festante, Benedetto viene affidato dalla scaltra zia che non desidera altro che di liberarsi di lui a dei francescani,dai quali Benedetto viene preso in custodia ed educato.
Diventa il beniamino dei fraticelli, da questi trattato con simpatia e affetto,sopratutto dal priore,che capisce come Benedetto non sia pronto alla vita religiosa.Sarà l’incontro con una maestrina,alla quale succhia dalla caviglia il veleno di una vipera, a scatenare nel giovane i primi irresistibili impulsi sessuali.Si allontana dal convento, dietro l’affettuoso consiglio del priore e da quel momento diventa un venditore ambulante di biancheria intima.Adesso è libero e potrebbe sperimentare le prime esperienze sessuali, ma ancora una volta i condizionamenti religiosi lo frenano,impedendogli così di vivere la sua naturale sessualità.Sarà l’incontro con un farmacista ateo e libertino a liberare Benedetto dal suo passato e dai suoi scrupoli;infatti il giovane si innamorerà della figlia del farmacista stesso,Giovanna,con la quale vivrà il primo rapporto d’amore.Ma i condizionamenti continueranno a farsi sentire subdolamente e….
Con senso della misura,usando una garbata ironia che mai supera la soglia della presa in giro benevola, Manfredi affronta lo spinoso argomento della religiosità senza mostrare di propendere per nessuna tesi. I miracoli del film,così come il finale aperto sono lasciati all’interpretazione dello spettatore, che può scegliere da che parte schierarsi.Ovviamente il grande attore ciociaro in qualche punto fa affiorare il suo garbato sarcasmo; il Benedetto che canta a squarciagola “Me pizzica me mozzicà” all’interno del convento non è propriamente politicamente corretto così come qua e la indizi sul suo modo di pensare e di vivere la religiosità fanno capolino (le scene con Benedetto piccolo che spia la zia,il presunto Sant’Eusebio ecc) ma restano garbatamente sullo sfondo.
E’ un Manfredi molto lontano dallo spirito popolare e popolano che ne avevano decretato il successo fino ad allora;l’attore un po’ caciarone e di stile romanesco lascia spazio ad un attore che mostra di avere il talento drammatico e “serio” nelle sue corde,come del resto dimostrerà nella sua lunghissima e felice stagione attoriale,con prove maiuscole come quelle fornite in In nome del Papa Re,Pane e cioccolata,Brutti sporchi e cattivi,film che esalteranno il suo talento spontaneo,la sua capacità di passare indifferentemente dai ruoli di attore comico a quello drammatico,dalle prove teatrali a quelle del musical (Rugantino) passando per la canzone popolare nel modo più autentico, come la sua personalissima interpretazione del grande successo di Petrolini Tanto pè cantà.
Un vero peccato che Manfredi in seguito abbia girato come regista il solo notevole Nudo di donna;il suo talento come regista era naturale,mostrava una predisposizione innata alla macchina da presa,ai tempi e ai ritmi del film,una capacità assolutamente straordinaria del dono della sintesi.
E’ la Ciociaria la protagonista secondaria del film;terra generosa,ubertosa e ricca di colore;Manfredi,ciociaro doc,inserisce Fontana Liri e le cascate di monte Gelato a Mazzano Romano tra i suggestivi luoghi nei quali gira il film;bella la fotografia e sopratutto ben assortito il cast nel quale figurano la bella e fresca Delia Boccardo (Giovanna) e Mariangela Melato,la maestrina che provocherà i primi turbamenti,Lionel Stander, ovvero Oreste il farmacista,che tanta importanza avrà per l’evolversi del personaggio benedetto e Mario Scaccia,il priore affettuosamente legato al giovane che capirà come la sua fede sia affatto ferma,portandolo fuori dagli angusti confini del convento.Bravi anche Paola Borbone e Tano Cimarosa,Veronique Vendell e Fiammetta Baralla,comprimari tutti ben oltre la soglia della sufficienza.Davvero un film di ottima fattura,nel quale superstizione ed elementi folkloristici della religione ben si sposano con la religiosità più intima,quella più autenticamente spirituale alla quale tutti aspirano alla ricerca di risposte spesso disattese proprio dalla natura stessa della religione,di fatto qualcosa di assolutamente intangibile e strettamente personale.
Il film ha avuto nel corso degli anni numerosi passaggi televisivi;è disponibile su You tube all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=DBjm4n_iR_g in una versione purtroppo non ben visibile. In streaming (versione decisamente migliore) è disponibile all’indirizzo http://www.nowvideo.li/video/27426b066492b
Per grazia ricevuta
Un film di Nino Manfredi. Con Nino Manfredi, Mario Scaccia, Lionel Stander, Mariangela Melato, Paola Borboni, Delia Boccardo, Véronique Vendell, Gianni Rizzo, Fausto Tozzi, Fiammetta Baralla, Enzo Cannavale, Tano Cimarosa, Gastone Pescucci, Ugo Adinolfi, Antonella Patti Commedia, durata 122 min. – Italia 1971
Nino Manfredi: Benedetto Parisi
Lionel Stander: Oreste Micheli
Delia Boccardo: Giovanna Visciani
Paola Borboni: Immacolata
Mario Scaccia: il priore
Fausto Tozzi: il professore
Mariangela Melato: la maestrina
Tano Cimarosa: zi’ Checco
Gastone Pescucci: l’avvocato
Alfredo Bianchini: il cappellano della clinica
Enrico Concutelli: un frate del convento
Paolo Armeni: Benedetto da bambino
Véronique Vendell: la ragazza “chiacchierata”
Gianni Rizzo: il prete del paese dove Benedetto vende la biancheria
Pino Patti: Don Quirino
Rosita Torosh: la giovane maestra della colonia
Antonella Patti: la zia di Benedetto
Enzo Cannavale: il paziente “sano” della clinica
Fiammetta Baralla: la suora della clinica
Luigi Uzzo: un infermiere della clinica
Mister O.K.: Fra Gesuino
Corrado Gaipa: Oreste Micheli
Laura Carli: Immacolata
Giorgio Piazza: il priore
Sergio Rossi: il professore
Emanuela Rossi: Benedetto da bambino
Nella Gambini: bambino amico di Benedetto
Pino Caruso: zì Checco
Mirella Pace: la zia di Benedetto/la ragazza “chiacchierata”
Mario Bardella: il prete del paese dove Benedetto vende la biancheria
Max Turilli: Don Quirino
Angiola Baggi: la giovane maestra della colonia
Isa Bellini: la suora della clinica
Enzo Liberti: un frate
Regia Nino Manfredi
Soggetto Nino Manfredi
Sceneggiatura Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Luigi Magni, Nino Manfredi
Produttore Angelo Rizzoli jr.
Fotografia Armando Nannuzzi
Montaggio Alberto Gallitti
Musiche Guido De Angelis
Scenografia Giorgio Giovannini
Costumi Danilo Donati
Trucco Giancarlo De Leonardis
L’Abbazia benedettina di San Cassiano
L’acquedotto di Nepi
Speco di san Francesco,Sant’ Urbano di Narni
Cascate di Monte Gelato e Mezzano Romano
Interno della chiesa di San Fortunato di Todi
Piazza Vittorio Emanuele a Todi in una vecchia foto
Piazza Vittorio Emanuele a Todi oggi
Villa Volpi a Sabaudia
“Nun te preoccupà, tanto non è morto, all’ultimo momento ha deciso di annà all’artro mondo!”
La vita, invece di viverla io me la dormo.
L’opinione di Jonas dal sito http://www.filmtv.it
Storia in tre tempi: un’infanzia da scavezzacollo sotto la fida protezione di sant’Eusebio; una giovinezza passata in convento ad aspettare un segno divino per nascondere la paura di affrontare la vita; la scoperta del mondo, il discepolato sotto un vecchio mangiapreti, l’amore con la soave Delia Boccardo. Il tutto viene rievocato in flashback, dopo un ricovero in ospedale per tentato suicidio. Il primo film diretto da un’icona nazional popolare come Nino Manfredi (se si eccettua un episodio di L’amore difficile) è un gesto di sorprendente coraggio, qualcosa di veramente raro nell’Italia democristiana. Ma sarebbe riduttivo considerarlo solo un pamphlet anticlericale, nonostante gli obiettivi polemici siano ben individuati (l’educazione sessuofoba, il miracolismo, l’esaltazione pseudoreligiosa, l’ipocrisia dei baciapile): è soprattutto la vicenda di un uomo pieno di dubbi e in cerca di risposte, prima respinto dagli esponenti della Chiesa (“Dio è pace, serenità, non è tormento”) e poi deluso dall’incoerenza di quello che si era scelto come maestro di vita (“non è morto, all’ultimo momento ha preferito andare all’altro mondo anche lui”). A ben vedere è un film che esplora le tracce quasi impercettibili, a volte paradossali, della presenza di Dio (cominciando dal nome del protagonista, Benedetto, e finendo con l’ultima battuta, “è stato proprio un miracolo”). Un film di fede, nonostante tutto: forse l’opera più bergmaniana che il cinema italiano abbia mai prodotto.
L’opinione di Mansueto dal sito http://www.mymovies.it
Chi dell’ “auto-morte” se ne intendeva, qualche tempo fa ci testimoniò che “Il suicida è come un carcerato che, nel cortile della prigione, vede una forca, pensa erroneamente che sia destinata a lui, evade nottetempo dalla sua cella, scende giù e s’impicca da sé”.Un lontano 1971, quando crebbi, un tal Benedetto di Castro de’ Volsci ci raccontò in 122 minuti la magnificazione “dell’intera storia umana”. Quell”elogia attraverò come un qualunque raggio cosmico ogni cellula del corpo di chi ne fu attratto; la riempì senza saperlo di luce e di spazio; di coscienza e di emozioni; di contenuto e contenente. Quel racconto fu la glorificazione sintetica di ogni dottrina; teologica e filosofica; psicologica e sociologica; medica ed estetica; commerciale e culturale. Tutto in un istante.Sincretismo gnoseologico. Come dire. Irenismo ed ecumenismo di ogni dottrina:quando la sensibilità umana (terza riga del libro del mondo) diventa poesia armonizzante di ogni distinzione e di ogni diversità della conoscenza!Qui c’è tutto. L’uomo e la donna. Il Tanathos e l’Eros. La colpa, la paura, il dubbio, la leggerezza più svanita, l’elegia del “chi sono”.Alle volte gli uomini compiono miracoli senza saperlo. Alle volte nessuno sa di quelli.Eppure questo superbo capolavoro della filmografia italiana (che pecca solo di vizi tecnici) diventa un mastodontico modello di studio per chi insegna, consolazione umana per chi soffe, costruzione critica per chi giuggioneggia, dissenso al senso per chi non crede.L’avventura umana sta tutta là. In un convento “totale” della Ciociaria. Nell’ambulante ardimentoso di lingerie. Nell’alieno e diafano amore verso Delia. Nella bestemmia redenta di una canaglia di farmacista. Nella fantasia dell’ingenuità più lieve. Nel matrimonio celebrato di un senza no. In una caduta e in un tuffo. In un’apetta col vecchietto. In un bicchiere fresco… ma d’acqua calda!Se volete chiedere a qualcuno chi mai voi siate, domandatevelo imberbi a voi stessi.Inoculatevi rilassati questo film.E se non v’è risposta….Beh; allora finalmente avrete capito tutto!Ma non ditelo a nessuno…”
L’opinione di Thegaunt dal sito http://www.filmscoop.it
Bello questo film con e di Nino Manfredi che affronta in maniera tuttaltro che banale i tanti lacci che non permettono di vivere a pieno la propria esistenza. La pellicola di Manfredi non vuole essere un’invettiva anticlericale, ma una riflessione sul vivere male la religione, in cui fede e superstizione hanno confini talmente sottili da confondersi e costellata fin dall’infanzia da una marcata repressione sessuale. L’ottimo film di Manfredi non solo è dotato di una sceneggiatura di qualità, ma offre una buona caratterizzazione dei personaggi, soprattutto nel bigottismo della Borboni e nella vitalità di Stander.
Nino Manfredi
Delia Boccardo
Mariangela Melato
Mario Scaccia
Flano del film
La colonna sonora,la celebre Me pizzica…me mozzica
Dimenticare Venezia
Una comunità tutta al femminile vive in una fattoria veneta; ci sono due giovani donne , Claudia e Anna, zia Marta e la balia/servitrice della casa l’anziana Caterina.
Le quattro donne convivono senza grossi problemi.
Anna è in pratica colei che si occupa della fattoria, dei raccolti e della gestione vera e propria della casa che è di proprietà di Marta una ex cantante lirica a riposo dal bel passato e dal carattere gioviale.
Claudia invece è un’orfana accolta nella casa e che lavora come maestra insegnando ai bambini del vicinato e gestendo anch’essa la fattoria alla quale presta la sua opera.
Marta ha un fratello, che ha vissuto con lei per molto tempo, prima di trasferirsi a Milano per impiantare un’attività di vendita di auto d’epoca.
L’uomo, Nicky, arriva nella fattoria con il compagno Picchio, che è un suo meccanico e che è legato a lui da un legame sentimentale.
L’arrivo dei due uomini porta una ventata di novità nella vita abitudinaria delle donne che abitano la fattoria e porta sopratutto a Nicky un malinconico “amarcord” della sua vita passata, quando da bambino scorazzava felice per i campi.
L’uomo ricorda quindi le sue prime pulsioni sessuali, l’amichetto assatanato che spiava le contadine che facevano il bagno nel fiume, tutta un’infanzia in fondo felice trascorsa in un posto ameno e vissuta con l’ingenuità tipica del bambino prima e adolescente poi.
Durante una festa matrimoniale a cui partecipano tutti gli abitanti della fattoria, Nicky incontra proprio il vecchio amico Rossino, quel bambino che gli aveva in qualche modo rivelato il mondo della sessualità, oggi sposato e padre di cinque figli.
Durante la festa, Rossino chiede a Marta di cantare arie del suo passato canoro, ma lo sforzo evidentemente (unito all’emozione) si rivela fatale per la donna; appena tornata alla fattoria la donna è colpita da un infarto e muore.
E’ come se l’incanto e la magia del passato venissero di colpo cancellati, lasciando il posto all’amara consapevolezza che il tempo è irrimediabilmente passato.
Privi del punto di riferimento di Marta, il vero collante che univa tutti, gli occupanti della casa decidono di trasferirsi.
Picchio, che è ormai in profonda crisi sentimentale con Nicky, porta con se Claudia e Anna (con la quale ha tentato di avere invano un rapporto sia sentimentale che sessuale), la vecchia balia Caterina decide di trasferirsi da un parente e l’ormai solo Nicky resta nella fattoria, indeciso sul da farsi, forse ancora legato a quel mondo ormai completamente dissolto che lo àncora al passato…
L’infanzia e l’adolescenza sono periodi bellissimi, indimenticabili e purtroppo irripetibili; se il ricordare i bei tempi passati può significare tuffarsi in un mondo ingenuo e incantato e conseguentemente guardare ad essi con un vena di sottile rimpianto, vivere in funzione di essi, rifiutarsi di crescere o peggio, pensare che si possa vivere in una specie di limbo incantato è un qualcosa che rischia di trasformarsi in una prigione di ricordi dalla quale si può uscire solo a prezzo di scelte dolorose e dell’obbligatorio passaggio all’età adulta.
I quattro personaggi principali di Dimenticare Venezia sono omosessuali, quindi vivono una situazione che già di per se tende ad allontanarli da quella che è la comunità dei “normali”, anche se poi in fondo la loro omosessualità è colpevolizzata solo dai soggetti che la vivono come una condizione in cui predomina il disagio.
Claudia e Anna, Nicky e Picchio in qualche modo si assomigliano sopratutto perchè tendono a rifugiarsi nel mondo dell’infanzia a scapito di un’età anagrafica ben lontana da quella dell’adolescenza
Forse non accettano la loro condizione di gay e lesbiche, forse sentono su di loro il peso di un rapporto che la società considera contro natura.
Non dimentichiamo che siamo sul finire degli anna settanta e che se la società ha fatto passi da gigante nel campo delle conquiste sociali (divorzio e aborto, pari dignità fra uomo e donna), i pregiudizi sull’omosessualità sono ancora profondamente radicati.
Colpa di tabù atavici, colpa anche dell’educazione religiosa repressiva della sessualità intesa già nella sua forma “normale” come sporca e moralmente discutibile, colpa di una società che non accetta il diverso in nessuna forma, che sia una diversità fisica (handicap di tutti i generi) o che sia una diversità sessuale.
Franco Brusati racconta tutto questo in un film che si sposta impercettibilmente su vari fronti, portando in scena i ricordi e il disagio, l’infanzia e l’età adulta, l’amicizia e l’amore; lo fa adottando uno stile narrativo che sembra rifarsi al cinema di Visconti o a quello di Bergman, quanto meno nelle atmosfere, nella scelta della lentezza dei dialoghi introducendo anche il meccanismo della ripresa dei ricordi con il personaggio fisicamente presente sulla scena, in una specie di sdoppiamento tra l’io presente e quello del passato.
Emblematica è la sequenza dei ricordi di una festa di compleanno di Marta, in cui Nicky è seduto sulla scala e guarda passare sua sorella Marta a cui è stata preparata una bellissima e intensa festa a sorpresa.
Lo snodo principale del film è probabilmente questo, il momento cruciale in cui il peso dei ricordi deve fare i conti con il presente, con l’età adulta dei protagonisti che oscuramente sentono di dovere un pesante tributo proprio alla loro adolescenza.
Il tempo però non lo si ferma, i ricordi devono restare tali per poter vivere il presente.
Un presente che è la somma algebrica di ciò che abbiamo fatto e di ciò che eravamo a cui va obbligatoriamente aggiunto il carico delle esperienze presenti; e che deve tener conto che, per dirla alla Rossella O’Hara “dopotutto domani è un altro giorno”, ovvero il chiudere una porta e aprirne un’altra, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo se vogliamo.
Il film di Brusati è molto intenso, intriso di momenti di malinconia alternati a momenti di gioia prima del finale che riporta tutti i personaggi alla loro dimensione giornaliera.
Un quotidiano che tutti sentono di dover affrontare spogliati dal peso (anche se dolce) dei ricordi e simboleggiato dall’abbandono della vecchia casa fattoria in cui tutto si era fermato, incluso il tempo e in cui la presenza di Marta fungeva da cordone ombellicale con il passato.
Dimenticare Venezia è quindi un film nostalgico, un film malinconico, un film a tratti commovente a tratti leggero e sottilmente ironico.
E’ anche un film che ha subito un ipocrita e ingiustificato ostracismo, principalmente a causa dell’argomento trattato, quell’omosessualità che ha sempre spaventato registi e produttori (almeno nel passato).
Brusati, regista nato a Milano e morto nel 1993 all’eta di settanta anni ha diretto come regista solo 8 film, tra i quali l’ottimo Pane e cioccolata; per Dimenticare Venezia, uscito nel 1979 nelle sale cinematografiche sceglie un cast di notevole spessore e assolutamente consono alla storia raccontata.
Mariangela Melato interpreta Anna, personaggio tormentato e spigoloso, che tenterà di uscire dalla sua personalissima condizione concedendosi a Picchio, con risultati nulli; la Melato, una delle attrici più brave e preparate del nostro cinema (oltre che del nostro teatro) disegna un personaggio pressochè perfetto, mentre Eleonora Giorgi che interpreta Claudia, pur essendo un filino sotto la Melato se la cava con bravura.
Bene anche il cast maschile con Erland Josephson che alterna momenti lirici a momenti di malinconia, caratterizzando con bravura il difficile personaggio di Nicky.
David Pontremoli e Mariangela Melato
Bravo anche David Pontremoli nel ruolo di Picchio, mentre Nerina Montagnani è la solita sicurezza.
In ultimo, elogio per la fotografia e per le belle musiche di Benedetto Ghiglia. Il film ha vinto il David di Donatello 1979 come miglior film e 2 Nastri d’Argento 1979 per la migliore attrice protagonista (Mariangela Melato) e per la migliore scenografia.
Un film programmato pochissimo e che purtroppo non risulta disponibile in versione Dvd.
Dimenticare Venezia
Un film di Franco Brusati. Con Mariangela Melato, Erland Josephson, Eleonora Giorgi, Hella Petri, Nerina Montagnani,Armando Brancia, Alessandro Doria, David Pontremoli, Fred Personne, Anne Caudry, Domenico Tittone, Patrizia Rubeo, Daniela Guzzi, Pia Hella Elliot, Peter Boom
Drammatico, durata 103 min. – Italia 1979.
Mariangela Melato: Anna
Eleonora Giorgi: Claudia
Erland Josephson: Nicky
Nerina Montagnani: Caterina
David Pontremoli: Picchio
Hella Petri: Marta
Regia Franco Brusati
Soggetto Franco Brusati
Sceneggiatura Jaja Fiastri
Casa di produzione Action Films
Distribuzione (Italia) Rizzoli Film
Fotografia Romano Albani
Montaggio Ruggero Mastroianni
Musiche Benedetto Ghiglia
Scenografia Luigi Scaccianoce
I vivi con i vivi e i morti con i morti; non facciamo casino.
Mamma è a casa che piange perché papà è un porco e va con le altre anche se lei è ancora bella e piacente: guarda che petto.
Quando è morto suo papà, ha voluto il cane vicino! Mai una volta che vogliano il prete!
Le recensioni qui sotto sono prese dal sito http://www.davinotti.com
Tutti i diritti riservati.
Opera di rara raffinatezza, ma anche di non comune tedio. Mi pare più che altro un esercizio di stile, di alto stile, ma dai contenuti non proprio ben articolati. Resta troppo spesso un senso di pesantezza, come nei flashback, e di sottolineature non necessarie (coma nella “vanitas” del pendolo, richiamata da altri oggetti oblugnhi e dondolanti). Notevoli le prestazioni degli attori, ma è troppo poco per cento interminabili minuti.
Quattro personaggi (due uomini e due donne) si riuniscono in una casa della campagna trevigiana per assistere la sorella di uno di loro, nei suoi ultimi giorni di vita. L’opera più celebrata di Franco Brusati ha un titolo che si riferisce al tentativo di dimenticare l’infanzia e la spensieratezza, accettando la fine delle cose e della vita. Il film presenta una grande raffinatezza formale che talvolta va a scapito della sostanza, a causa di una sceneggiatura dall’andamento vago e non sempre incisiva. Buona la prova degli attori.
Fellini, Bergman, Visconti: del primo si richiamano l’amarcord (c’è Brancia) e gli squarci onirici e circensi; del secondo, la dimensione femminile, il pacato intimismo, la presenza di Josephson; del terzo, la ricerca del pregio estetico di provenienza artistico-letteraria. Nonostante questi nobili riferimenti, si ha da subito l’impressione di assistere più ad un vuoto e ridondante esercizio di stile che ad un saggio di reali doti d’autore: e l’impressione diventa presto certezza. Purtroppo.
Ho trovato il film estrememente interessante, indipendentemente dalle analogie con gli stili di altri registi. Una delle scene erotiche, che giudico molto forte e credibile rispetto al panorama italiano (se si esclude Tinto Brass) è stata ben messa in scena. All’epoca il film ebbe molti giudizi positivi e allo stesso tempo molti che cercarono di ridimensionarlo. Secondo me resta l’opera di Brusati. Splendida e raffinata la colonna sonora.
Difficile rintracciare una qualche originalità in questa ricerca del tempo perduto di Brusati: l’eterno ritorno alla casa paterna che è nido accogliente e tana del lupo, ove assistiamo a un lungo faccia a faccia dei protagonisti con i fantasmi del passato, al termine del quale Nicky e Anna si scoprono essi stessi fantasmi, ansiosi di tornare in vita. Lascia perplessi il modo in cui viene rappresentata l’omosessualità, quasi un retaggio di mala-adolescenza. Venezia, la lirica, la vecchia governante, le festicciole… già visto, debole e fioco come la luce di un crepuscolo, di una candelina…
L’estetismo c’è ma non è sterilmente compiaciuto di se stesso (alla Bolognini) e se sono indubbi i continui riferimenti cinematografici, Brusati li sublima con uno stile personale che evita vacuità citazionistiche, riuscendo a colpire il cuore dello spettatore. Certo, non tutto è perfetto (alcune lungaggini, soprattutto nei flashback, potevano essere evitate e certe figure macchiettistiche spezzano l’atmosfera incantata e atemporale) ma il film resta un’opera d’autore viva e pulsante. Splendidamente sensuale la Melato, bravi tutti gli altri.
Casotto
Una calda domenica d’estate, litorale romano.
Sulla spiaggia di Ostia convergono persone disparate, venute a godersi la giornata al mare.
Il punto obbligatorio d’incontro è il casotto, una costruzione in legno adibita a spogliatoio comune; qui arrivano alla rinfusa i protagonisti della storia.
Le prime ad arrivare sono due sorelle ,Giulia e Bice, che praticheranno le loro arti seduttive su Alfredo Cerquetti, funzionario di una agenzia di assicurazioni;
Ninetto Davoli
Ugo Tognazzi
seguite alla spicciolata da uno strano sacerdote, custode di un segreto “intimo” davvero particolare, da due soldati appassionati di culturismo assolutamente narcisisti e poco interessati all’umanità che è a loro accanto, da due giovani benzinai, Gigi e Nando, che hanno rimorchiato due ragazze e che sperano nelle loro grazie, da una squadra di pallacanestro femminile, che dovrà necessariamente trovare un’altra sistemazione, da una coppia di fidanzati, con lui molto più grande di lei che cerca disperatamente un posto dove poter fare l’amore, da una famiglia con nipote giovanissima al seguito, incinta, che tenteranno di affibbiare ad un ingenuo ragazzotto,il tutto sotto gli occhi di un innocuo voyeur, che spia le mosse di tutti.
Le due amiche rimorchiate dai benzinai
La giornata scorre tra le vite dei protagonisti alle prese con situazioni mutuate dalla vita di tutti i giorni, quasi che la domenica mettesse in risalto le loro manie, le loro piccolezze, le loro debolezze, mescolate alla vita degli altri vicini.
Quando la giornata sarà conclusa, i vari personaggi avranno fatto esperienze diverse; la coppia di innamorati non sarà riuscita a ritagliarsi un solo attimo per dare sfogo alla loro passione, la famiglia con la nipote incinta riuscirà a dirottare e ad affibbiare a Gigi, uno dei due benzinai, la loro nipotina incinta, le due sorelle riusciranno a strappare una valigetta con il denaro all’agente delle assicurazioni, le due ragazze rimorchiate dai benzinai rimarranno a secco, perchè rivolti i loro sguardi sui due soldati culturisti verranno da questi bellamente ignorate.
Michele Placido
Il campionario assortito di varia umanità è lo specchio fedele dell’umanità quotidiano, con vizi e virtù, sfigata o fortunata, allegra e becera, sguaiata e furba, ironica e dolente; tutti i personaggi si muovono, agiscono per un fine ultimo, e in conclusione forse gli unici ad ottenere quanto si erano prefissi saranno la coppia di anziani coniugi che riesce a mollare il “peso” della nipotina incinta, sedotta e abbandonata, al fesso di turno e le due sorelle che pervicacemente riusciranno a derubare l’agente delle assicurazioni.
Sono quindi i più furbi, come al solito, a vincere la guerra tra poveri, anche se l’aggettivo poveri in questo caso è fuorviante; la popolazione del casotto non è di estrazione prevalentemente borgatara, ma popolare in senso stretto.
Franco Citti, braccio destro di Pasolini, getta uno sguardo ironico, a metà strada tra il divertito e il cinico, sulla gente di tutti i giorni; ne evidenzia virtù (poche), difetti e manie; lo fa senza mai alzare i toni, con una regia asciutta, mai volgare, senza mai eccedere con il romanesco, uscendo quindi dalla palude della commedia “burina”; in questo è agevolato, oltre che dalla sua personale bravura e da una sceneggiatura di prim’ordine, dal cast eccellente che mette su.
Ugo Tognazzi, una giovanissima Jodie Foster, Catherine Deneuve (in una piccolissima parte), Gigi Proietti, Mariangela Melato, Carlo Croccolo, Paolo Stoppa,Michele Placido, lavorano in perfetta armonia, aiutati anche dalla sceneggiatura solare, divincolati come sono da vestiti, da pose innaturali e da tutto ciò che funziona da pastoia nel film tradizionale.
Siamo al mare, in una baracca decente, ma siamo comunque nella spiaggia libera e in uno spogliatoio, non a Saint Tropez e tra gente fighetta; per cui c’è spazio per la candida e naturale predisposizione dell’attore a esprimere compiutamente la sua arte, svincolata dai formalismi.
Alla fine il film piace, per certi versi incanta, non annoia mai, sopratutto nelle parti in cui Citti divaga, come nel caso del sogno ad occhi aperti di Gigi; alla fine il prodotto risulta gradevole, ben confezionato e sopratutto ottimamente recitato.
Sergio Citti, che veniva dall’ottimo risultato conseguito con Storie scellerate, si conferma regista capace, attento; gli anni passati come aiuto regista e sceneggiatore di Pasolini, si vedono.
Franco Citti e Gigi Proietti
Casotto,un film di Sergio Citti. Con Paolo Stoppa, Jodie Foster, Ugo Tognazzi, Michele Placido, Mariangela Melato, Luigi Proietti, Carlo Croccolo, Gianni Rizzo, Franco Citti, Ninetto Davoli, Catherine Deneuve, Clara Algranti, Massimo Bonetti, Anna Melato
Commedia, durata 100 min. – Italia 1977
Ugo Tognazzi: Alfredo Cerquetti
Paolo Stoppa: Il nonno
Mariangela Melato: Giulia
Gigi Proietti: Gigi
Jodie Foster: Teresina Fedeli
Catherine Deneuve: Donna del sogno
Michele Placido: Vincenzino
Franco Citti: Nando
Carlo Croccolo: Carlo
Ninetto Davoli: Guardone
Clara Algranti: Iole
McKenzie Bailey: Il prete
Gino Barzacchi: Il fusto
Massimo Bonetti: Soldato culturista
Flora Mastroianni: La nonna
Katy Marchand: Ketty
Marco Marsili: Il nipotino
Anna Melato: Bice
Gianni Rizzo: L’allenatore
Franca Scagnetti: Donna grassa
Julie Sebestyen: Gloria
Gianrico Tondinelli: Paracadutista
Regia: Sergio Citti
Soggetto: Vincenzo Cerami
Sceneggiatura: Vincenzo Cerami e Sergio Citti
Fotografia: Tonino Delli Colli
Montaggio: Nino Baragli
Musiche: Gianni Mazza
Prodotto da: Mauro Berardi, Gianfranco Piccioli
Costumi: Mauro Ambrosino
Personaggi diversi si incrociano in una cabina balneare collettiva: un film corale, dunque, che rappresenta uno spaccato affabulatorio e grottesco della società, ma visto in una particolare condizione, quella dello spazio intimo (o presunto tale) nel quale far emergere la propria natura (anche in senso fisico e sessuale) e nel quale tramare le proprie mosse all’esterno. Il casotto è dunque luogo interiore e osceno che rivela le reali pulsioni e i segreti, che un acquazzone finale cercherà apocalitticamente e inutilmente di spazzare via. Acuto.
Estroso, disincantato, esplicito, interpretato da un cast tanto eterogeneo quanto compatto che entra ed esce da una cabina balneare relegando la spiaggia ostiense a semplice sfondo. Il focus sono le pulsioni umane più primitive (sesso, cibo, denaro) che Citti racconta con toni ora tipicamente borgatari (spacconerie balneari e “magnate” in compagnia), ora squallidi e trash (escrementi canini, genitali maschili al vento), ora persino soffici e onirici: ma tutto scorre perfettamente. Mazza procura uno score all’uopo tribale e percussivo.
Citti elabora un racconto particolare che si estrinseca nella quattro pareti di un casotto di spiaggia: vi transitano i problemi e le grettezze di una varia umanità. Ci sono pretese autoriali, giustificate anche dal livello dei collaboratori, che, però, non sempre si traducono in situazioni riuscite. Domina un linguaggio tragicomico di stampo popolare, alcuni attori lo interpretano alla grande, altri sembrano soltanto ospiti.
Splendido film grottesco dove Citti mescola divi di diverse altezze e stili per la sua idea di vita, dove le differenze si mescolano ma forse non si incontrano. Paradossale, a diversi registri. Notevole la coppia Proietti-Citti: ogni loro uscita (compreso il sogno di Proietti con Denevue) fa sbellicare e rimanda alla fame atavica. Una giovane Jodie Foster tra Placido e Stoppa non può non incuriosire.
Come riunire in un colpo solo film di genere (commedia) e film sperimentale. Al di là della riuscita del film, che comunque è molto godibile (ad ogni passaggio tv lo guardo sempre!) è interessante notare come questo film sia l’antesignano del Grande Fratello televisivo o di Camera Cafè. Un film molto avanti per i suoi tempi, di cui l’unico precedente è Chelsea Girls di Warhol (non a caso). Stramega cast di lusso (c’è pure una giovanissima Jodie Foster) su cui svettano Tognazzi, Stoppa, Proietti. Caustico, acido e grottesco. Quando trash e film d’autore convivono!
Questa è la vita: un casotto, tante persone con tante storie (e perversioni?) diverse, disgraziate, drammatiche il più delle volte, ma storie che vengono abilmente raccontate in commedia: tutto all’interno del grosso camerino protagonista. Citti riesce bene far abituare lo spettatore a questa impostazione, quindi a fronteggiare le limitazioni del budget; il merito è anche di un cast eccezionale (sono pochi i personaggi principali, di più quelli riempitivi) che fornisce meritevolissime interpretazioni. C’è una strana perversione di fondo. Meritevole.
Faccia di spia
Faccia di spia, di Giuseppe Ferrara, uscito nelle sale nel 1975, a tutti gli effetti non può essere considerato un vero flm, quanto piuttosto un documentario che spazia tra le nefandezze compiute da apparati segreti, in primis la Cia, nel periodo che va dai primi anni 60 all’epoca in cui fu girato il film. Vengono così ricostruiti, anche se in maniera per forza di cose sommaria, alcuni eventi che hanno caratterizzato la recente storia mondiale, con una parte dedicata anche all’Italia.
Si passa così dall’incidente della baia dei Porci, quando Kennedy autorizzò la disastrosa spedizione che doveva rovesciare Fidel Castro, all’uccisione di Ernesto Che Guevara in Bolivia, con immagini rprese dal vivo (alcune anche abbastanza rare) mescolate ad altre realizzate a colori, nella quale agiscono attori come Mariangela Melato, Giorgio Ardisson, Claudio Volontè; altri spezzoni di film documentano casi spinosi, come quelli di Ben Barka, Debré, Lumumba, con l’onnipresente Cia a muovere in maniera nemmeno tanto occulta i fili delle varie vicende.
La parte centrale del film, la più cruda, riguarda l’uso della tortura nei confronti degli oppositori politici; si assiste ad un tristissimo campionario di violenze, documentate con freddezza, come la violenza subita da una prigioniera in sud America,, costretta a restare nuda in equilibrio su due barattoli taglienti, seviziata poi con morsi e con candele accese vicino ai capezzoli, passando per atrocità di ogni genere, mutilazioni genitali, serpenti vivi inseriti nella vagina di una prigioniera, amputazione di braccia ecc.
Il finale del film è dedicato agli avvenimenti italiani e al caso Allende. Nella parte dedicata all’Italia, assistiamo alla carrellata dedicata ovviamente al caso Feltrinelli e alla sua morte mentre tentava di far saltare un traliccio dell’alta tensione, alla strage di Piazza Fontana, con l’arresto dell’anarchico Pinelli e alla sua successiva, misteriosa morte negli uffici del commissario Calabresi.
E altrettanto ovviamente, all’esecuzione dello stesso commissario e alla strage della Questura di Milano, una delle poche di cui si conosce il colpevole. Il finale del film è dedicato al golpe cileno, di cui si rese protagonista Pinochet; assistiamo all’attacco contro il presidente Allende e alla sua morte. Il finale del film vede un’immagine delle Twin towers gocciolanti sangue; per chi non l’avesse capito, un chiaro segnale sia del pensiero del regista sia una chiara indicazione di responsabilità.
Difficile valutare , dal punto di vista della mera critica cinematografica, un’opera che con il cinema centra molto relativamente.
Il film/documento sembra più un’operazione di denuncia, peraltro abbastanza ben confezionata, anche se apertamente schierata: a questo punto parlare di recitazione o di ruoli degli attori diventa pura accademia.
Segnalo comunque le prove di Mariangela Melato, che interpreta Tania, una rivoluzionaria cubana, di Riccardo Cucciolla, intenso nella sua parte di Giuseppe Pinelli, l’incolpevole anarchico accusato della strage di piazza Fontana. E ancora Dominique Boschero, una sofferta Licia Pinelli,Francesco Rabal nei panni di Mehdi Ben Barka, Claudio Volontè che interpreta il leggendario comandante Ernesto Che Guevara e infine Ugo Bologna nei panni di Salvador Allende e un somigliantissimo Marcello Mando che interpreta il commissario Luigi Calabresi.
Operazione propagandistica a parte, Faccia di spia ricorda in lunghi tratti un altro film documentario degli anni 70, Bianco e nero di Pietrangeli.
Faccia di spia, un film di Giuseppe Ferrara. Con Francisco Rabal, Riccardo Cucciolla, Mariangela Melato, Adalberto Maria Merli, Pietro Valpreda, Giorgio Ardisson, Marisa Mantovani, Gérard Landry, Umberto Raho, Dominique Boschero, Mario Novelli, Lou Castel, Alfredo Pea, Ugo Bologna, Claudio Volonté
Drammatico, durata 115 min. – Italia 1975.
Adalberto Maria Merli … Capitano Felix Ramos
Mariangela Melato … Tania
Francisco Rabal … Mehdi Ben Barka
Riccardo Cucciolla … Giuseppe Pinelli
Pietro Valpreda
Claudio Camaso … Che Guevara (come Claudio Volonté)
George Ardisson … Patrick
Ugo Bologna … Salvador Allende
Dominique Boschero … Licia Pinelli
Lou Castel … Torturatore
Gérard Landry … Mr. Rutherford
Marcello Mando … Commissario Luigi Calabresi
Regia Giuseppe Ferrara
Soggetto Giuseppe Ferrara
Produttore Gigi Martello
Fotografia Mario Masini
Montaggio Rita Algeri, Margerie Friesner
Effetti speciali Rino Carboni
Musiche Manos Hadjidakis
Trucco Otello Fava
Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto
Uno yacht è in navigazione sul Mediterraneo; a bordo c’è un gruppo variegato di ricchi e snob settentrionali, fra i quali spicca Raffaella Pavone Lanzetti , forse la più snob di tutte, piena di pregiudizi verso coloro che considera di classe sociale inferiore, oltre che un tantino razzista. Nei suoi dialoghi con gli amici, Raffaella non smette un attimo di rimarcare le differenze sociali tra loro ( e sopratutto lei) e la classe proletaria, incurante del personale di servizio. Fra i quali c’è Gennarino Carunchio , un meridionale dalle idee chiaramente di sinistra, costretto a tacere di fronte agli insulti che gli snob riservano loro.
Le cose cambiano radicalmente quando Gennarino, costretto ad accompagnare Raffaella in un’escursione, si ritrova in mezzo al mare con il gommone in avaria. Per loro fortuna, dopo una notte di sofferenza, la marea li spinge verso un’isola, dove i due scoprono di essere completamente soli. Gennarino, abituato ad arrangiarsi, riesce immediatamente a procurarsi cibo e fuoco, mentre l’altezzosa Raffaella, dopo un tentativo infruttuoso di usare l’arroganza per costringere Gennarino a cederle del cibo, si ritrova ben presto ad elemosinare il necessario per sopravvivere.
E’ un ribaltamento completo dei ruoli: da quel momento Gennarino si vendica delle umiliazioni subite a bordo: costringe la donna a umiliarsi, a chiamarlo signor Carunchio, fino a quando arriva anche a violentare la donna, sfogando in questo modo la sua frustrazione, ma non solo. In lui è come se agisse una forza proveniente da secoli di umiliazioni, e l’uomo non manca di farlo presente alla donna. Ben presto tra i due solitari naufraghi scoppia una vera e propria passione; la donna ben presto prende ad amare quello strano uomo, ben diverso da quelli che abitualmente frequenta.
Così, quando all’orizzonte compare lo yacht dei suoi amici, che non ha smesso di cercare i due naufraghi, la donna scongiura Gennarino di non farsi notare. Ma l’uomo ha dei dubbi sulla genuinità della loro relazione; così, quando alla fine i due vengono soccorsi e riportati a terra, i due si separano. Troppe le differenze che esistono tra loro, in una società che non è strutturata per privilegiare i sentimenti a scapito del ceto sociale.
Diretto da Lina Wertmuller nel 1974, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto è principalmente una straordinaria prova di due tra gli attori più bravi del cinema italiano: Mariangela Melato e Giancarlo Giannini.
La Melato incarna perfettamente la donna dai modi raffinati e allo stesso tempo così sgradevoli, quasi rappresentasse tutti i vizi, davvero tanti, e tutte le virtù, quasi inesistenti, della sua classe sociale;
Giannini oppone la sua capacità di rendere perfettamente l’idea di un uomo preda principalmente del rancore, verso il suo ceto sociale, ma anche tutta la rabbia di chi si vede trattato come un essere inferiore mentre ha tutte le capacità per essere solo e soltanto un uomo. Cosa che dimostra in mille modi, riuscendo ad adattarsi benissimo alla vita selvaggia dell’isola. Il film in fondo vive proprio sul dualismo che viene a crearsi tra i due mondi, in conflitto perenne; così tutta la vicenda finisce per essere retta, visivamente, dai due protagonisti. Aldilà delle due interpretazioni, il film si regge sulle splendide immagini dell’isola e sui dialoghi, che ricreano l’ambiente tipico dell’epoca in cui venne girato il film, le lotte definite, all’epoca, di classe. Alcune scene sono davvero indicative, come il gruppo di ricchi oziosi che legge l’Unità, o alcuni dialoghi in cui emerge la conflittualità esistente tra le due classi sociali.
Un film ovviamente non esente da pecche; alcuni dialoghi sono forzati, anche perchè i tempi risultano dilatati, uno dei difetti tipici della Wertmuller. Ma in effetti sono peccati veniali, e il film conserva una invidiabile freschezza.
Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, un film di Lina Wertmüller. Con Giancarlo Giannini, Mariangela Melato, Eros Pagni, Isa Danieli, Riccardo Salvino.Aldo Puglisi, Lorenzo Piani, Vittorio Fanfoni, Anna Melita Commedia, durata 125 min. – Italia 1974.
Giancarlo Giannini: Gennarino Carunchio
Mariangela Melato: Raffaella Pavone Lanzetti
Riccardo Salvino: Signor Pavone Lanzetti
Isa Danieli: Signora Carunchio
Regia Lina Wertmüller
Soggetto Lina Wertmüller
Sceneggiatura Lina Wertmüller
Produttore Romano Cardarelli per Medusa Film
Distribuzione (Italia) Medusa Film
Fotografia Giulio Battiferri, Giuseppe Fornari, Stefano Ricciotti
Montaggio Franco Fraticelli
Musiche Piero Piccioni
La poliziotta
Afflitta da un fidanzato egoista, da una famiglia in cui il padre è riverito come un sultano, da un datore di lavoro opprimente e negriero, la giovane Gianna langue sognando un futuro migliore. Dopo l’ennesimo soppruso sul lavoro, l’ennesima lite con il padre e dopo aver avuto il responso delle analisi, che escludono una sua maternità, Gianna molla tutto e parte verso Milano.
Mariangela Melato interpreta Gianna
Renato Pozzetto interpreta Alberto
Fermatasi a Ravedrate, la giovane vede il bando di concorso per vigili urbani e decide di iscriversi. Durante il corso, risulta la migliore in assoluto e di conseguenza viene assunta .Ben presto però la volenterosa ragazza scopre che all’interno del comune vige il clientelismo più sfrenato: le multe che la giovane somministra ai negligenti cittadini, vengono stracciate dal solerte comandante, ammanigliato con i poteri forti, fra i quali spiccano un industriale inquinatore e intrallazzatore, con zio cardinale e fratello senatore,
ed una serie di piccoli e ignobili faccendieri, come l’analista di un laboratorio che metterà a tacere lo scandalo più grave, l’inquinamento del fiume del paese ad opera degli scarichi dell’industria dell’uomo d’affari. Sabotata in tutti i modi, Gianna viene dapprima retrocessa al controllo sull’emigrazione; scopre il caso di una povera famiglia che vive con 15 congiunti in una catapecchia, non denuncia la cosa e finisce per dover ripartire da zero.
Dopo aver respinto il ritorno di fiamma dell’ex fidanzato, la donna, combattivamente, riesce a scatenare un putiferio contro l’amministrazione locale, ma tutto viene insabbiato, nonostante l’aiuto che le viene dal pretore Ruggero, innamorato di lei. Alla fine Gianna decide di rinunciare al suo incarico e va in stazione per prendere il treno che la riporterà a casa; ma viene raggiunta da Ruggero, che la obbliga a rimanere, mentre lui parte per Roma, per proseguire la sua battaglia. Una battaglia persa, che costerà ai due un trasferimento in Sicilia, che verrà però accolto come una liberazione, visto che i due si sposeranno.
Commedia in agrodolce girata da Steno nel 1974, La poliziotta, pur non rifuggendo dallo schema tipico della commedia all’italiana, se ne distingue per la conosciuta bravura di Steno, che infila qua e la stilettate al malcostume italiano, in particolare quello politico, quel malaffare che sarà la costante sia della prima che della seconda repubblica. A parte la denuncia, Steno affida alla Melato, brava e assolutamente sobria e lineare nella recitazione, il compito di usare la sua maschera e la sua abilità per rendere ancor più simpatico il personaggio di Gianna, femminista e integerrima persona dai costumi morali assolutamente irreprensibili.
Il cast del film è di notevole spessore e include Orazio Orlando nel ruolo del prefetto Ruggero, uomo che sacrifica la propria carriera per amore di Gianna, un odioso e spocchioso renato Pozzetto, abilissimo nel tratteggiare tutto gli aspetti negativi del suo personaggio, Claudio, il fidanzato di Gianna. Ci sono poi l’onnipresente Mario Carotenuto, il capo della polizia municipale, Alberto Lionello, nel ruolo del sofisticato e intrallazzatore Tarcisio, assessore al comune, oltre ad Alvaro Vitali, che interpreta l’inetto Fantuzzi, che ha il solo merito di essere nipote del Cardinale.
Film gradevole, quindi, con in mano una frusta che non prende mai il sopravvento, limitandosi a fustigare in maniera poco percettibile vizi e debolezze italiche;
ma l’intento di Steno non era quello.Come quasi sempre, Steno stigmatizza le cose, ci ride su e invita il pubblico a riflettere su quanto espone, senza tuttavia usare il vetriolo. Regista elegante, evita sempre le classiche situazioni un tantino pecorecce e molto scollacciate tipiche della commedia italiana, imbastendo un film che si lascia vedere con piacere, che fa riflettere e che sopratutto fa sorridere. Amaro, molto spesso.
La poliziotta, un film di Steno. Con Renato Pozzetto, Mariangela Melato, Orazio Orlando, Mario Carotenuto.Gigi Ballista, Alberto Lionello, Pia Velsi, Gianfranco Barra, Renato Scarpa, Armando Brancia, Alvaro Vitali, Umberto Smaila, Gianni Solaro Comico, durata 105 min. – Italia 1974.
Mariangela Melato: Giovanna Abbastanzi
Orazio Orlando: pretore Patanè
Mario Carotenuto: Capo della polizia
Armando Brancia: avvocato
Renato Scarpa: farmacista
Gianfranco Barra: aiutante del pretore
Umberto Smaila: figlio del sindaco
Renato Pozzetto: Claudio
Alberto Lionello: Tarcisio
Alvaro Vitali: Fantuzzi
Regia Steno
Soggetto Nicola Badalucco, Giuseppe Catalano, Sergio Donati, Luciano Vincenzoni
Sceneggiatura Sergio Donati, Luciano Vincenzoni
Produttore Carlo Ponti
Fotografia Alberto Spagnoli
Montaggio Raimondo Crociani
Musiche Gianni Ferrio
Scenografia Luigi Scaccianoce
Costumi Enrico Sabbatini
Il gatto
Ugo Tognazzi e Mariangela Melato
Amedeo e Ofelia, due fratelli, hanno ricevuto in eredità dal padre uno stabile fatiscente con diversi appartamenti, tutti locati a canone fisso. I due, gretti, avidi, meschini, tiranneggiano gli inquilini, sopratutto dopo la proposta di un’immobiliare, che vuole acquistare lo stabile per una somma enorme, 500 milioni pro capite, con l’unico vincolo del palazzo libero da inquilini. La morte sospetta del loro gatto porta i due all’azione: spiando i condomini, cercano di capire quali vizi possano nascondere, in modo da trovare finalmente il casus belli che permetta loro l’agognato sfratto. Il primo a fare le spese della perfida e laida coppia di guardoni è un disgraziato commissario di polizia, che finirà per passare attraverso una montagna di guai sia con i suoi superiori sia con la stampa.
Dalila Di Lazzaro
Amedeo e Ofelia iniziano così un’attività voyeuristica, che li porta a scoprire un piccolo bordello installato in uno degli appartamenti, frequentato da insospettabili avventori e da altrettanto insospettabili prostitute, fino alla scoperta (non casuale, ma costruita) di una improbabile centrale dello spaccio della droga, gestito da un gruppo di orchestrali in pensione.
Con il ricatto e con altri mezzi sporchi, i due riescono a mandar via quasi tutti gli inquilini. Sarà la scoperta di un omicidio a provocare un’ accelerazione degli eventi, e alla fine i due finalmente si ritrovano con lo stabile sgombro. Ma il diavolo fa le pentole, dimenticando i coperchi…….
Il gatto è un film grottesco, un classico lavoro alla Comencini, che assomiglia in maniera sinistra a Fratelli coltelli, film di molti anni successivo. Un prodotto in cui è difficile trovare un solo personaggio raffigurato in chiave positiva, a cominciare dai due avidi e amorali protagonisti, Amedeo-Ugo Tognazzi e Ofelia-Mariangela Melato, che si odiano, si disprezzano ma trovano nell’interesse un legame più forte del vincolo del sangue. I due usano mezzi bassi per muoversi comunque tra bassezze e miserie, in un universo costellato solo da persone alle quali non fanno difetto di certo le peggiori caratteristiche degli uomini.
Meschinità, grettezza, arrivismo, tutto il peggio delle qualità negative racchiuse in un microcosmo, uno stabile che è decrepito e fatiscente come la moralità di coloro che lo abitano, proprietari inclusi. La storia del gatto diventa quindi un pretesto per una frustata generale, inferta da Comencini nel suo classico stile, anche se non così appariscente come per esempio nel citato Fratelli coltelli o nel ben più nichilista L’ingorgo, storia in cui proprio le qualità negative dei protagonisti diventano il centro della storia. La similitudine più azzeccata potrebbe essere, fatta salva l’ambientazione, il sottoproletariato, con il film di Scola Brutti sporchi e cattivi: un’umanità resa cinica ed egoista, vista attraverso quella che sembra essere la molla principale delle mosse umane, l’interesse. Comencini forse non graffia come altre volte, scegliendo di rimanere in bilico tra la commedia nera, la farsa, infarcita di grottesco e di situazioni al limite del surreale.
Il gatto ha il suo limite proprio nell’essere monocorde, nel suo volere ad ogni costo dipingere in grottesco i personaggi del film stesso, rendendoli una massa amorfa di gente senza scrupoli, dignità o valori. Alla fine proprio le situazioni che si vengono a creare nel film diventano troppo macchinose: l’onorevole con la villa al mare accusato di aver avuto una relazione gay con un suo cameriere e di averlo ucciso, la ragazza dell’attico, cinica e amorale, che alla fine esce unica vera vincitrice dalla storia, i due stessi protagonisti principali, per i quali lo spettatore prova immediatamente repulsione e antipatia, caricaturizzati come sono, sin dal loro odioso dialetto milanese importato nella capitale. Un film quindi riuscito in parte, in cui le situaioni comico grottesche si accavallano, ma senza un ritmo ben definito. Un discorso a parte lo merita il cast, di rispetto: se Ugo Tognazzi e Mariangela Melato riescono, in qualche modo, a dare l’esatta dimensione della meschinità e dell’avidità ai loro personaggi, lo stesso non si può dire di Dalila Di Lazzaro, davvero a disagio nel ruolo della complessa inquilina dell’attico, così come poco convincente appare Philippe Leroy nei panni di in equivoco sacerdote. Il resto del film è popolato da caratteristi, che svolgono come possono il lavoro richiesto.
Film quindi in bilico tra luci ed ombre, comunque da vedere, come ogni prodotto del grande regista
Il gatto, un film di Luigi Comencini. Con Ugo Tognazzi, Philippe Leroy, Mariangela Melato, Dalila Di Lazzaro, Aldo Reggiani, Michel Galabru, Jean Martin, Matteo Spinola, Mario Brega, Adriana Innocenti, Armando Brancia, Raffaele Curi, Fabio Gamma, Bruno Gambarotta
Commedia, durata 115 min. – Italia 1977.
Ugo Tognazzi: Amedeo Pegoraro
Mariangela Melato: Ofelia Pegoraro
Dalila Di Lazzaro: Wanda
Michel Galabru: commissario Francisci
Jean Martin: avv. Legrand
Aldo Reggiani: Salvatore
Adriana Innocenti: Principessa
Armando Brancia: capo della polizia
Philippe Leroy: Don Pezzolla
Angelo Matacena: Garofalo
Bruno Gambarotta: l’avvocato dell’immobiliare
Luigi Comencini: vecchio violinista
Mario Brega: killer barbuto
Raffaele Curi: se stesso, telecronista
Fabio Gamma: la guardia del corpo di Garofalo
Matteo Spinola: speaker televisivo
Vittorio Zarfati: anziano al processo
Pino Patti: portiere dello stabile
Franco Santarelli: il brigadiere
Nerina Di Lazzaro: sig.ra Tiberini
Lino Fuggetta: sig. Tiberini
Regia Luigi Comencini
Soggetto Rodolfo Sonego
Sceneggiatura Rodolfo Sonego, Augusto Caminito, Fulvio Marcolin
Produttore Sergio Leone
Casa di produzione Rafran Cinematografica
Distribuzione (Italia) United Artists Europa
Fotografia Ennio Guarnieri
Montaggio Nino Baragli
Musiche Ennio Morricone
Scenografia Dante Ferretti
Costumi Danda Ortona