Il giudizio universale
In una qualsiasi mattinata napoletana,con la gente impegnata nel quotidiano,una voce inquietante rimbomba nel cielo annunciando,per le 18.00,il giudizio universale.
All’inizio la cosa viene presa sotto gamba da tutti;ma con il passare delle ore,sopratutto con l’intervento della tv che amplifica l’avvenimento e con la voce che sempre più regolarmente annuncia il giudizio il comportamento della gente inizia a passare dalla superficialità allo sgomento e alla paura.
Le reazioni sono variegate;qualcuno inizia a pentirsi dei propri peccati,altri cadono in uno stato di prostrazione,altri fanno finta di nulla e cercano di proseguire la loro vita regolarmente.
In città c’è il ballo del Duca,avvenimento mondano di grande importanza,alcuni sono impegnati nella ricerca di un abito adatto per l’occasione,un avvocato maneggione cerca di difendere e mostrare come innocente un poveraccio che ha usurpato un titolo nobiliare,un losco figuro si muove sordidamente per acquistare bambini poveri da rivendere in America a copie senza figli,un marito scopre la moglie adultera con il suo miglior amico mentre la gente è occupata nelle quotidiane fatiche,sempre con l’orecchio alla voce roboante che ricorda il fatidico evento delle 18.00…
Vittorio De Sica,subito dopo il grandissimo successo di La ciociara del 1960,dirige l’anno successivo Il giudizio universale,ricostituendo con Cesare Zavattini il sodalizio dell’anno precedente e che alla fine porterà la celebre coppia a creare assieme ben venti film.
Il giudizio universale è un film senza una trama precisa,costituito com’è da una miriade di piccoli avvenimenti che,visto che siamo Napoli,potremmo chiamare “fattarielli“.
Un caleidoscopio di personaggi,ognuno preso nel suo quotidiano,ognuno alle prese con piccoli e grandi problemi,ma anche visto nell’appartenenza ad una collettività fragile e indaffarata,un formicaio impazzito nel quale l’individualità è legata,nel film, ad una serie di personaggi visti con bonarietà mista a irriverenza.
La paura del “giudizio universale” scatena reazioni dissimili,che vanno dal pentimento alla paura passando per emozioni variegate che si stampano sui volti dei protagonisti,nelle loro azioni e in fin dei conti in un quotidiano che non ha più un futuro.
Tante piccole storie,dicevo.
Che però alla fine formano un quadro incompleto proprio per la superficialità delle storie affrontate;quello che conta,per De Sica,sono le reazioni istintive e il frammento del quotidiano vissuto dai vari protagonisti.
Nel finale della pellicola,con la roboante voce che comincia a giudicare l’umanità mentre si scatena un violento temporale c’è spazio per la consueta e garbata ironia di De Sica;tutte le promesse fatte si dileguano con il sole,come la voce che all’improvviso scompare mentre la varia umanità,dimenticati i buoni propositi e la paura,riprende a vivere come se nulla fosse accaduto.L’imminente tragedia si trasforma in farsa.
Film diseguale per forza di cose,Il giudizio universale alla fine è poco più di un esercizio di stile e una passerella della scuderia De Laurentiis;un cast stellare che va da Gassman a Manfredi e Sordi (il più convincente di tutti nel ruolo del losco trafficante di bambini) alla Mangano
affolla un film che commercialmente fu un fiasco clamoroso.
Anche la critica storse in naso e va detto,con qualche ragione.
Troppa carne al fuoco,troppi personaggi e poca omogeinità delle situazioni alcune delle quali aldilà del macchiettismo,anche come resa,non solo come regia.
De Sica alterna cose buone ad altre meno buone a cose pessime.
Molto belli i personaggi del mediatore di bambini (Sordi),dei due popolani alla ricerca del posto di guardiaportone del san Carlo di Napoli (Franchi e Ingrassia) e quello dell’uomo che scopre come la moglie lo abbia cornificato con il suo miglior amico (Paolo Stoppa).
Molto meno riusciti i siparietti con la Mangano e Palance e quello di Lino Ventura,padre alle prese con una figlia poco più che adolescente viziata e capricciosa.
Una sfilata di grandi nomi per un film riuscito in parte e frettolosamente dimenticato,sicuramente un mezzo passo falso (totalmente economicamente) nella carriera di De Sica.
Il giudizio universale
Un film di Vittorio De Sica. Con Paolo Stoppa, Vittorio Gassman, Fernandel, Alberto Sordi, Melina Mercouri, Renato Rascel, Maria Pia Casilio, Giacomo Furia, Silvana Mangano, Alberto Bonucci, Andreina Pagnani,Giuseppe Porelli, Elisa Cegani, Agostino Salvietti, Regina Bianchi, Marisa Merlini, Mario Passante, Lamberto Maggiorani, Ugo D’Alessio, Nino Manfredi, Nando Angelini, Domenico Modugno, Carlo Taranto, Akim Tamiroff,Luigi Bonos, Pasquale Cennamo, Franco Franchi, Jimmy Durante, Ernest Borgnine, Jack Palance, Georges Rivière, Lino Ventura, Anouk Aimée, Ciccio Ingrassia, Eleonora Brown, Lilly Lembo, Mike Bongiorno
Commedia, b/n durata 95 min. – Italia 1961.
Paolo Stoppa: Giorgio
Vittorio Gassman: Cimino
Anouk Aimee: Irene
Melina Mercouri: la forestiera
Silvana Mangano: signora Matteoni
Jack Palance: signor Matteoni
Fernandel: il vedovo
Ernest Borgnine: il borseggiatore
Eleonora Brown: Giovanna
Elisa Cegani: la madre di Giovanna
Lino Ventura: il padre di Giovanna
Jimmy Durante: l’uomo dal grande naso
Vittorio De Sica: l’avvocato
Renato Rascel: Coppola
Alberto Sordi: il mediatore di bambini
Nino Manfredi: cameriere nell’hotel dell’ambasciatore
Ciccio Ingrassia e Franco Franchi: i disoccupati
Andreina Pagnani: ospite in casa Matteoni
Domenico Modugno: il cantante
Marisa Merlini: una madre
Mike Bongiorno: se stesso
Akim Tamiroff: il regista
Lamberto Maggiorani: un povero
Lilli Lembo: annunciatrice Tv
Maria Pia Casilio: cameriera
Alberto Bonucci: ospite in casa Matteoni
Don Jaime de Mora y Aragón: l’ambasciatore
Giuseppe Porelli: l’accompagnatore delle personalità
Ugo D’Alessio: un Pulcinella
Pietro De Vico: venditore ambulante
Gigi Reder: il pazzariello
Regia Vittorio De Sica
Soggetto Cesare Zavattini
Sceneggiatura Cesare Zavattini
Produttore Dino De Laurentiis
Fotografia Gábor Pogány
Montaggio Adriana Novelli
Effetti speciali Giuseppe Metalli
Musiche Alessandro Cicognini
Scenografia Pasquale Romano
Trastevere
Irriverente e a tratti goliardico,sottilmente anticlericale e a volte blasfemo,pieno di difetti che però alla lunga diventano pregi.
Trastevere,opera prima ed unica di Fausto Tozzi, comprimario di buona caratura,è il sogno di un attore che si realizza e diventa realtà,un film
in cui non mancano certo idee originali e una ridanciana visione del proletariato del più celebre dei quartieri romani,Trastevere.
L’attore romano,che negli anni 50 recitò in film di largo successo come Casta diva e Casa Ricordi o Beatrice Cenci per anni aveva coltivato il sogno di dirigere un film scopertamente popolare.
L’occasione arrivò finalmente nel 1971,quando riuscì a convincere il produttore Alberto Grimaldi ad affidargli la direzione di Trastevere,del quale scrisse anche la sceneggiatura.
Un film che ebbe una gestazione travagliata e che quando uscì nelle sale dovette subire tagli della censura (assolutamente immotivati)
oltre che un rimaneggiamento in alcune sequenze girate e che furono tagliate in fase di montaggio,principalmente per volontà del produttore.
Tagli e mutilazioni che però non compromettono l’equilibrio del film,che per sua natura e per sceneggiatura non contempla un andamento univoco,essendo principalmente una raccolta di storie legate ad un comune filo conduttore,quello delle vicissitudini della cagnetta Mao che,smarrita improvvidamente da un cantante lirico,finirà per passare di mano in mano attraverso un viaggio nel popolare quartiere romano,in cui vivono personaggi stravaganti ed eccessivi,eppure così vicini all’autentico spirito popolare romanesco.
Il viaggio di Mao è l’occasione per conoscere lo spirito autenticamente popolare di alcuni personaggi,chiaramente ispirati al vero;il contrabbandiere che per non finire in galera ci manda in sua vece una povera vecchia,l’usuraia che muore durante un pellegrinaggio,l’hippie suicida dopo una relazione omosessuale con un ricco e laido aristocratico,il vedovo che insegue implacabilmente l’uomo che gli aveva ucciso la moglie prostituta,
il vizioso che fa si che la moglie abbia una relazione sessuale con un macellaio ecc.
Una galleria di personaggi forse troppo caricaturati,grotteschi nella loro mancanza di morale e di pudore,ma che in qualche modo sono riconoscibili nei vizi e virtù di un proletariato che anni dopo un altro regista,Scola,avrebbe descritto spietatamente usando l’ambientazione delle baraccopoli romane in Brutti sporchi e cattivi.
Come dicevo,il film subì alcuni rimaneggiamenti;uno riguarda una sequenza che inquadra due pescatori,uno dei quali tira su un preservativo;la battuta “questa è tutta colpa del Papa,che se non si opponeva alla pillola stò schifo nun se vedeva”
venne giudicata irriguardosa e censurata,così come venne tagliata l’innocente sequenza girata a piazza Navona in cui la Schiaffino,vestita da hippy viene apostrofata da un gruppo di giovinastri,uno dei quali dice “ammazzala quant’è bona,c’ha un culo che parla“mentre un altro chiede “ma che è indiana?” e l’ultimo,con il solito sarcasmo romanesco di fronte alla noncuranza della donna,risponde “no,è stronza”
Come si può leggere,battute che in seguito sarebbero divenute la norma,ma che a inizi del 1971 facevano scandalizzare i moralisti benpensanti della commissione censura.
Fausto Tozzi morì nel 1978,quindi solo sette anni dopo aver realizzato questo film,senza più avere la possibilità di esprimere un talento registico che indubbiamente possedeva;
lo si può notare nella freschezza dei dialoghi,nella vena autenticamente popolana dei dialoghi,nell’irriverenza con cui tratta argomenti delicati e sopratutto nella genuina rappresentazione di un mondo,quello trasteverino,che oggi è indissolubilmente scomparso, avendo lasciato il posto ad un quartiere meno spontaneo e folkloristico,in cui tutto sembra ormai artefatto,ad uso e consumo degli immancabili turisti che popolano la capitale.
Un film oggi assolutamente non più proponibile come tematica;un certo tipo di cinema è scomparso quando il dio denaro ha definitivamente spento le velleità di tanti cineasti coraggiosi che sfidavano la morale,il costume e le stesse produzioni proponendo opere coraggiose,spesso non equilibrate,confuse,ma assolutamente spontanee.
Nel cast di Trastevere figurano numerosi grandi nomi,che vanno da quello di Nino Manfredi a quello di Vittorio De Sica,dalla splendida e indimenticabile Rosanna Schiaffino (qui nel suo unico nudo cinematografico) ad un elenco impressionante di bravi attori,che compaiono in parti molto piccole ma significative,come Vittorio Caprioli e Ottavia Piccolo,Leopoldo Trieste e Milena Vukotic,Gigi Ballista e Rossella Como fino a Enzo Cannavale,napoletano doc che interpreta un popolano trasteverino.
Tagliate invece in fase di distribuzione le parti di Martine Brochard , Riccardo Garrone e Umberto Orsini.
Trastevere è un film che va recuperato,perchè mostra con spirito autentico uno spaccato borgataro di Roma com’era ormai quasi mezzo secolo addietro;un viaggio non solo nello spirito della borgata,ma un percorso quasi archeologico,in una Roma assolata e autentica,
tra personaggi di ogni tipo.Un viaggio tra viuzze e osterie,condite da un linguaggio sicuramente colorito,ma specchio fedele dell’anima autenticamente popolare della borgata.
Venne accolto con diffidenza da molti critici,poco avvezzi alla spontaneità e molto più alle atmosfere costruite,false come un euro cinese.
Bello il tema iniziale,malinconico e cantato sull’onda del rimpianto,testimoniato dalla frase “se er monno va come va,che ce voi fa?“,opera dei fratelli Labionda (Oliver Onions)
Il film è disponibile in una versione discreta all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=JW7fHTso3Zk&t=25s.
Vi consiglio caldamente la sua visione.
Trastevere
Un film di Fausto Tozzi. Con Nino Manfredi, Leopoldo Trieste, Rosanna Schiaffino, Vittorio De Sica, Milena Vukotic, Umberto Orsini, Vittorio Caprioli, Ottavia Piccolo, Nino Musco, Enrico Formichi, Rossella Como, Gina Mascetti, Luciano Pigozzi,
Stefano Oppedisano, Marcella Valeri, Fiammetta Baralla, Enzo Cannavale, Carlo Gaddi, Nerina Montagnani,
Vittorio Fanfoni, Gigi Ballista, Don Powell, Giorgio Maulini, Lino Coletta Commedia, durata 104 min. – Italia 1971.
Scene censurate
Nino Manfredi: Carmelo Mazzullo
Rosanna Schiaffino: Caterina Peretti, detta Rama
Vittorio Caprioli: Don Ernesto
Ottavia Piccolo: Nanda
Vittorio De Sica: Enrico Formichi
Leopoldo Trieste: Il professore
Mickey Fox: Sora Regina
Milena Vukotic: Delia
Gigi Ballista: Il conte
Ronald K. Pennigton: Kerry
Luigi Uzzo: Cesare
Lino Coletta: Alvaro Diotallevi
Don Powell: John
Rossella Como: Teresa
Fiammetta Baralla: Gigliola
Enzo Cannavale: Straccaletto
Nino Musco: Il brigadiere
Luigi Valanzano: Sor Alfredo, il barista
Stefano Colazingari: Il figlio di Straccaletto
Marcella Valeri: Sora Nicolina
Lino Murolo: Il poliziotto
Goffredo Pistoni: Sor Toto
Luciano Pigozzi: Righetto
Vittoria Di Silverio: sora Amalia
Ada Passari: Sora Filomena
Olga De Marco: Sora Cesira[1]
Gérard Boucaron: Checco
Alberto Ciaffone: Settimio Rotoletti
Gina Mascetti: Sora Gertrude
Bruno Ciangola: Andrea
Franca Scagnetti: Sora Maria
Enrico Formichi: Il sagrestano
Carlo Gaddi: Parente di Righetto
Annarosa Garatti: Una donna alla finestra
Vittorio Fanfoni: Pierre
Stefano Oppedisano: Gaston
Leonardo Benvenuti: Il finanziere
Regia Fausto Tozzi
Sceneggiatura Fausto Tozzi
Produttore Alberto Grimaldi, Enzo Provenzale
Casa di produzione PEA
Fotografia Arturo Zavattini
Montaggio Nino Baragli, Carlo Reali
Musiche Oliver Onions
Scenografia Giantito Burchiellaro
“Quello che nun ho capito è se tu ar posto del cervello hai il peperone in umido o una manciata di segatura bagnata de piscio”
“Credete che dopo l’ultima enciclica der Papa se possa pija er cafè?”
“Come sei bello! Hai un viso da bambina su un corpo di gigante spirituale!”
“La guida tedesca: “Meno due,uno…fuoco…(il cannone del Giancolo tarda tre secondi)…Ecco,i soliti italiani…”
Signori e signore buonanotte
Un telegiornale immaginario,il TG3 (che nel 1976 non c’era ancora),un conduttore aggressivo e al tempo stesso
preoccupato di seguire con attenzione le forme della sua valletta,la denuncia della corruzione,dell’invadenza della chiesa,le storture
della televisione della quale già si intravedevano i mali futuri,le forze armate,il capitalismo.
Tanti bersagli per un film ambizioso inquadrabile nel genere satirico probabilmente un po becero e sfilacciato,ma coraggioso e graffiante,
allestito dalla Cooperativa 15 maggio,creata dai registi Age, Benvenuti, Comencini, De Bernardi, Loy, Maccari, Magni, Monicelli, Pirro, Scarpelli e Scola e che includeva quindi il gotha del cinema italiano degli anni 70.
Una cooperativa nata più che altro per caso,come racconta Monicelli: “Eravamo un gruppo di amici e l’avevamo fatta più che altro per stare insieme,si scrivevano le sceneggiature in modo piacevole,poi con l’andar dell’età qualcuno aveva messo su famiglia,qualcun altro faceva la sua strada e non ci incontravamo più al di fuori del lavoro:per mangiare,per divertirci o per andare a fare una scampagnata o per giocare a pallone.
Allora abbiamo trovato quella scusa della Cooperativa e siamo stati assieme più di due anni,abbiamo litigato ma bene o male
è stata una cosa positiva,almeno dal punto di vista psicologico…”
Mettere assieme un gruppo di registi diversissimi tra loro significa assemblare un film per forza di cose discontinuo; Signori e signore buonanotte lo è,anche se il risultato finale resta comunque di alto livello proprio grazie all’ironia,al sarcasmo e all’evidente voglia di graffiare che unisce il gruppo di amici che collabora alla pellicola.
Stili diversi,che affiorano nei vari sketch che costituiscono l’asse portante del film,nel quale a fare da trait d’union c’è un conduttore televisivo
impegnato anche nel ruolo di inviato speciale,ruolo grazie al quale ha la possibilità di avvicinare personaggi stravaganti che però hanno in comune il fatto di essere coloro che gestiscono il vero potere,quello politico ed economico.
Paolo T.Fiume,il conduttore,avvicina per esempio un ministro truffaldino e luciferino,corrotto fino al midollo che con faccia tosta degna di miglior sorte sostiene di essere stato eletto dagli elettori e di avere quindi il diritto di sfruttare il suo potere,anche usando mezzi illeciti per l’arricchimento personale.
In uno degli altri filmati del telegiornale,si vede l’Avvocato (somigliantissimo ad Agnelli) che,rapito,sostiene che la sua liberazione avverrà grazie agli operai delle sue aziende, che verseranno spontaneamente ciascuno qualche giornata di salario per riavere in azienda il loro datore di lavoro.
Mentre Fiume mostra il frutto delle sue interviste o manda in onda filmati surreali,la Tv segue i consueti programmi,che includono Una lingua per tutti,un telefilm ecc.
Qui il surreale prende il sopravvento;il telefilm “La bomba” ,per esempio,mette alla berlina la polizia.
In una stazione di polizia scatta l’allarme attentato quando si rinviene una sveglia dimenticata in una borsa da una distratta signora;scoperta la verita
i dirigenti,pur di non fare brutta figura simulano un vero attentato che però finisce per fare strage di poliziotti.
Tre sketch sono ambientati a Napoli,città da sempre contraddittoria e scenario ideale per fare della denuncia mascherata da satira,che è poi il vero obiettivo del cast di registi; in uno un Vescovo premia un ragazzo costretto a fare da papà e a lavorare come uno schiavo per mantenere la numerosa famiglia.
Il ragazzo,schiacciato dalla vita miserabile che fa,torna a casa e si uccide.
Sempre a Napoli viene girata l’intervista al professor Schmidt,che ha “studiato” un metodo sicuro per eliminare la sovra popolazione della città,ovvero mangiare i bambini eliminando così alla radice il problema.
Fiume partecipa ad una tavola rotonda proprio nella città campana,alla quale partecipano gli amministratori della città.
Il programma prevede l’intervento del pubblico da casa,ma di fronte alla interminabile sequela di insulti che si riversa sui politici,questi ultimi
finiscono per andare su tutte le furie,mangiandosi anche la ricostruzione della città fatta in torrone presente nello studio.Alla fine andranno via non prima di aver rubato l’orologio dell’esterrefatto Fiume.
Il tono degli inserti è questo;il film è una lunga sequenza di graffianti attacchi al mondo politico e delle istituzioni.
Non manca l’attacco al vetriolo fatto nei riguardi della chiesa,un conclave in cui tutti i partecipanti,pur di essere eletti papa,non esitano a far fuori i rivali.
Sarà il più malandato di tutti (almeno all’apparenza) ad avere la meglio,grazie ad un piano assolutamente insospettabile portato avanti con pazienza e che gli permetterà, una volta eletto,di far fuori gli ultimi candidati rimasti.
Corrosivo e irriverente,Signori e signore buonanotte snocciola,uno dietro l’altro,i difetti italici;lo fa con un linguaggio a tratti becero e greve,con trovate spesso irreali al limite del demenziale,ma con forza degna di un uragano.
Non c’è un’istituzione che si salvi dal linguaggio scenico iconoclasta scelto dai registi,ognuno con un suo tocco personale.
Lieve e ironico a volte,pesante come un maglio altre.
La Cooperativa assembla un cast assolutamente straordinario per un film in cui i protagonisti stanno in scena solo per il tempo del loro sketch,ad eccezione di Mastroianni che interpreta Fiume,il conduttore televisivo.
Gassman e Manfredi,Villaggio e Tognazzi,Adolfo Celi e Mario Scaccia dividono la scena con attrici come Andrea Ferreol,Senta Berger e Monica Guerritore,Lucretia Love.
Tanti comprimari di valore che arricchiscono di professionalità un film come già detto molto discontinuo,in cui cose eccellenti si mescolano,senza soluzione di continuità,a cose decisamente meno belle e a tratti anche volgari.
Per una volta però non c’è il consueto campionario di natiche e seni,anzi.
La presenza femminile nel film è ridotta all’osso, il che a ben vedere è un limite in senso profetico del film.
La Tv del futuro,come ben sappiamo,sarà occupata militarmente da scosciate e puttanoni,da donne capaci di ogni bassezza pur di ottenere un posto al sole.
Cosa che accadrà anche nella politica,dove anche se in maniera nettamente inferiore,l’universo femminile mostrerà di aver assimilato la lezione del passato,in una diffusa corruzione di costumi
che non farà invidia a quello maschile.
Fra tutti gli episodi che compongono il film,quello interpretato da Manfredi e diretto da Magni è di gran lunga il più armonico e crudele,accanto a quello del bambino lavoratore;
ma tutto il film alla fine centra i bersagli che erano negli obiettivi e pur non ottenendo ai botteghini quanto era nelle premesse e nei propositi,alla fine è operazione coraggiosa e di sicura qualità.
Si ride amaro,ci si indigna,ci si costerna.
C’è tutta l’Italia dei vizi e della corruzione,una volta tanto vista solo nei suoi aspetti peggiori.
Non c’è un lampo di luce,un raggio di sole.
Un presagio degli anni di fango e della triste realtà attuale.
Il film è disponibile su You tube in una ottima versione all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=Qj3eDlKptB8
Signore e signori, buonanotte
Un film di Luigi Comencini, Mario Monicelli, Nanni Loy, Ettore Scola, Luigi Magni. Con Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Adolfo Celi, Marcello Mastroianni, Senta Berger, Lucretia Love, Carlo Croccolo, Andrea Bosic, Camillo Milli, Eros Pagni, Franco Angrisano, Gianfranco Barra, Gabriella Farinon, Monica Guerritore, Angelo Pellegrino, Carlo Bagno Commedia, durata 119 min. – Italia 1976
Marcello Mastroianni: Paolo T. Fiume
Nino Manfredi: cardinale Felicetto de li Caprettari
Ugo Tognazzi: generale / pensionato
Paolo Villaggio: prof. Schmidt / presentatore quiz
Vittorio Gassman: agente della CIA / ispettore Tuttunpezzo
Adolfo Celi: Vladimiro Palese
Senta Berger: signora Palese
Monica Guerritore: assistente di Paolo
Felice Andreasi: valletto
Andréa Ferréol: Edvige
Sergio Graziani: cardinale Canareggio
Mario Scaccia: cardinale Piazza-Colonna
Franco Scandurra: cardinale decano
Carlo Croccolo: questore
Eros Pagni: commissario Pertinace
Gianfranco Barra: portiere Nocella
Renzo Marignano: intervistatore a Milano
Angelo Pellegrino: giornalista
Camillo Milli: capitano La Pattuglia
Duccio Faggella : artificiere Tirabocchi
Luca Sportelli: onorevole Lo Bove
Regia Age, Benvenuti, Comencini, De Bernardi, Loy, Maccari, Magni, Monicelli, Pirro, Scarpelli, Scola
Soggetto Agenore Incrocci, Leo Benvenuti, Luigi Comencini, Piero De Bernardi, Nanni Loy, Ruggero Maccari, Luigi Magni, Mario Monicelli, Ugo Pirro, Furio Scarpelli, Ettore Scola
Sceneggiatura Agenore Incrocci, Leo Benvenuti, Luigi Comencini, Piero De Bernardi, Nanni Loy, Ruggero Maccari, Luigi Magni, Mario Monicelli, Ugo Pirro, Furio Scarpelli, Ettore Scola
Casa di produzione Cooperativa 15 maggio
Distribuzione (Italia) Titanus Distribuzione
Fotografia Claudio Ragona
Montaggio Amedeo Salfa
Musiche Lucio Dalla, Antonello Venditti, Giuseppe Mazzucca e Nicola Samale
Scenografia Lucia Mirisola, Lorenzo Baraldi e Luciano Spadoni
Costumi Lucia Mirisola, Lorenzo Baraldi e Luciano Spadoni
Una lingua per tutti
La bomba
Sinite parvulos
L’ispettore Tuttunpezzo
Il personaggio del giorno
Il Disgraziometro
Santo Soglio
La cerimonia delle cariatidi
Paolo T. Fiume: Scusi ma… ma che cacchio sta dicendo?
Ministro: Io sto dicendo che l’elettorato vede in me un prevaricatore. Se invece voleva scegliere un uomo probo, onesto e per bene, ma che dava i voti a me? Addio ragazzo. Andiamo, andiamo.
Paolo T. Fiume: Ma… ma tu guarda che fijo de ‘na mignotta!
Una notizia da Roma: l’assessore generale ha ordinato l’immediata demolizione del rudere di un tempio romano del IV secolo a.c., che sorgeva abusivamente davanti alla villa con piscina
dell’imprenditore edile Marcazzi, deturpando l’armonia della villa stessa.
Onorevole non crede sarebbe opportuno, in attesa di conoscere la verità, di dare la dimissioni dalla sua alta carica…
Giovanotto, dimettermi: mai! Questa sarebbe una mossa sbagliata!
Lei vorrebbe dire che le sue di dimissioni sarebbero un implicito riconoscimento delle accuse…
Ma no, no: io non mi dimetto per combattere la mia battaglia da una posizione di privilegio. Dal mio posto posso agevolmente controllare l’inchiesta, inquinare le prove, corrompere i testimoni: posso, insomma, fuorviare il corso della giustizia.
Onorevole, ma non è irregolare, contro la legge?
Ah no giovanotto, io le leggi le rispetto, e soprattutto la legge del più forte. E siccome in questo momento io sono il più forte intendo approfittarne, è mio dovere precipuo!
Ma dovere verso chi, scusi?
Ma verso l’élettorato che mi ha dato il voto per ottenere da me posti, licenze, permessi, appalti, perché li spalleggi in evasioni fiscali, in amministrazioni di fondi neri, crolli di dighe mal costruite, scandali, ricatti, contrabbando di valuta.
Scusi, ma che cacchio sta dicendo?
Io sto dicendo che l’élettorato vede in me un prevaricatore. Se invece voleva scegliere un uomo probo, onesto e per bene, ma che dava i voti a me? Addio ragazzo…
L’opinione di paochi dal sito http://www.mymovies.it
Bastano 2 ore per innamorarsi di questo gioiello della nostra cinematografia. Minuti in cui un manipolo ben organizzato di registi ed attori già affermati disegna l’Italia di allora (e di oggi) con battute graffianti, immagini evocative e divertimento sempre sostenuto da amore per il proprio paese. “Signore e signori, buonanotte” si muove così all’interno di un TG3 immaginario (allora ancora non esisteva) il cui conduttore/giornalista (un Mastroianni divertito e divertente), accompagnato dalla sua dolce vallettina (una Guerritore tutta miciosa), lancia servizi, propone interviste, legge notizie che portano alla visione dei tanti episodi in cui il film è realizzato. A distanza di tanti anni quasi tutti gli episodi sono di una sconcertante aderenza alla realtà attuale. Politici che restano aggrappati alle loro poltrone “altrimenti come posso fare leggi per me, pagare giudici e colleghi in parlamento se non da una posizione dominante?!” Pensionati che per vivere devono ricorrere agli espedienti più creativi. Trasmissioni di intermezzo che poco hanno da invidiare a quelle inutili che ci propinano ogni giorno Mediaset e Rai (dai reality ai quiz show) Ma soprattutto tanta politica che tocca tutto e tutti: il lavoro minorile, Napoli, la corruzione, il Vaticano, le forze armate. Tutto diventa ancora più godibile grazie all’ottima scrittura dei singoli episodi che al talento sconfinato dei tanti interpreti. Scegliere tra uno degli spezzoni è impossibile. Bisogna guardarli, riguardarli, pensarli realizzati allora ad inizi anni 70 e calati oggi nel 2014. Insomma è un film da venerare, creativo, coraggioso, come l’intervista ad un ministro che nonostante gli scandali clamorosi non si dimette e anzi si crogiola con sfrontatezza nella sua posizione di “più forte”. Amiamolo. E’ uno dei nostri patrimoni.
Opinioni tratte dal sito http://www.davinotti.com
Multimic80
Film godibile che riesce ad alternare momenti in cui prevale la parte comica ad altri in cui prevale la riflessione sociale. Mastroianni straordinario trascinatore, una Guerritore nel fiore della sua bellezza, un irresistibile Villaggio, ottimo Tognazzi, bravissimo Manfredi. Tra i caratteristi buono il cameo di Adolfo Celi, i ruoli di Mario Scaccia e Sergio Graziani, cardinali assetati di potere.
Gigi90
Oggi potrebbe sembrare un po’ lento, ma per l’epoca è stato sicuramente un film d’avanguardia: qui forse per la prima volta si mette alla berlina la televisione italiana. Gli spot parodiati, il finto TG3 (che non esisteva ai tempi) e il quiz “Il disgraziometro” sembrano un Maccio Capatonda ante litteram. Alcuni episodi mi sono sembrati noiosi; si salvano quelli con Paolo Villaggio.
Homesick
Composito ma uniforme sia come parodia del palinsesto televisivo che come satira di mali incurabili dell’Italia (corruzione, prassi clientelare, nepotismo, clericalismo, gerontocrazia, questione meridionale, povertà…). Il linguaggio, spesso goliardico e grossolano, è comunque riscattato dal sommo cast: Mastroianni mezzobusto che preannuncia Max Cipollino di Boldi, Tognazzi pensionato indigente, i duplici Villaggio e Gassman, Manfredi tertius gaudens tra i due litiganti Scaccia e Graziani. La Love ci insegna inglese con l’anatomia.
Il giocattolo
La rivincita di un uomo qualunque.O anche la giustizia fai da te che si sostituisce all’ordine costituito.O ancora una pistola come prolunga fallica in grado di diventare una ragione di vita.O altro ancora,scegliete voi.Le chiavi di lettura di Il giocattolo sono tante,molteplici.
E ognuna si incastra perfettamente nella sceneggiatura del film che Giuliano Montaldo dirige nel 1979 in un momento storico particolarmente confuso;l’Italia è ancora sotto choc dal cruento episodio di Via Fani,durante il quale ha scoperto un terrorismo ormai avviato allo scontro frontale con lo stato e senza più mediazioni.La parabola crudele e violenta del terrorismo stesso sta per volgere al termine (anche se ci saranno colpi di coda negli anni 80) ma questo gli italiani non lo sanno.C’è solo molta paura,in giro,c’è voglia di sicurezza,di tranquillità.Invece gli episodi cruenti legati al terrorismo e alla malavita organizzata (sono gli anni della banda della Magliana) hanno diffuso insicurezza e instabilità.
Montaldo scrive una sceneggiatura in cui questi temi entrano da una porta secondaria,almeno all’apparenza;viceversa una lettura attenta propongono drammaticamente sullo sfondo le vere motivazioni del film,nel quale il personaggio di Barletta,uomo placido e dalla vita qualunque viene coinvolto in qualcosa molto più grande di lui e finisce per diventare un simbolo della ribellione del cittadino qualsiasi alla violenza quotidiana.Ma non bisogna farsi attrarre dalla facile lettura univoca di questo aspetto del film;nello stesso sono toccati più temi,quello dell’amicizia e quello del quotidiano di una vita anonima,quello del sociale e quello del quotidiano di tutti coloro che si trovarono a vivere quegli anni straordinari ma al tempo stesso così complicati,in un periodo storico che traghettò l’Italia dagli anni di piombo agli incredibili anni ottanta,quelli del tutto è a portata di mano e quelli della vita da cicale che avrebbero fatto da incubatrice alla grande crisi socio economica degli anni duemila.
Il protagonista della pellicola è un uomo assolutamente e totalmente anonimo, il ragionier Vittorio Barletta;vita tranquilla,una delle tantissime nascoste nelle pieghe di una metropoli violenta e disumanizzante,vita condizionata dalla frustrazione sul lavoro ma sopratutto dalle precarie condizioni di salute di sua moglie Ada.L’unica consolazione del “ragiunier” sono gli orologi,che Vittorio ama e ai quali dedica il tempo libero;il lavoro è frustrante,sopratutto perchè Vittorio lo svolge alle dipendenze di un suo ex compagno di scuola,Nicola Griffo, che lo fa lavorare alle sue dipendenze non certo per amicizia.Griffo è un’affarista senza scrupoli,che ha trovato in Vittorio un comodo e servile collaboratore sul quale scaricare le eventuali responsabilità di affari sporchi nei quali quotidianamente si muove.
Così Vittorio divide un’esistenza soffocante, disumanizzante, stretto fra una falsa amicizia,un lavoro insoddisfacente e una moglie malata.Sarà una rapina in un supermercato a segnare una svolta imprevedibile nella sua vita.Coinvolto nella sparatoria seguente all’atto criminale,Vittorio resta ferito seriamente ad una gamba;durante la riabilitazione conosce un poliziotto,Sauro Civera,che gli mostra immediatamente simpatia.Vittorio è meridionale come Sauro,napoletano;la matrice comune,l’identità che i due ritrovano nel sentire e nel vedere,in quell’essere emigrati in una terra fondamentalmente ostile li avvicina e tra loro nasce un rispetto e un’amicizia solida.
Sarà il poliziotto a cambiare per sempre la vita di Vittorio il giorno in cui lo porta ad un poligono e gli fa sparare i primi colpi di pistola.Sotto lo sguardo allibito dell’istruttore del poligono (il compianto Daniele Formica),Vittorio mostra un talento naturale nell’uso della pistola tanto da centrare tutti i bersagli.Sauro regala a Vittorio una pistola,che lo stesso avrà modo di usare contro un bersaglio umano una sera nella quale le vite dei due finiscono per dividersi definitivamente;Sauro muore in un conflitto a fuoco e Vittorio uccide uno dei banditi.
Per il ragionier Barletta la vita diventa un incubo.Se per i cittadini è un eroe che ha fatto vendetta da se,per i malviventi è diventato un nemico.Vittorio viene perseguitato con minacce,mentre la situazione di salute di sua moglie continuano a peggiorare.Con il cuore colmo di angoscia la vita prosegue,ma sempre più alienante;una sera Vittorio viene circondato da alcuni malviventi. Dopo aver finto paura,spara e ferisce alcuni malviventi.Ora non è più solo un giustiziere ma anche un uomo pericoloso,che la polizia incrimina per eccesso di legittima difesa.La situazione precipita.Vittorio viene incarcerato proprio mentre sua moglie si aggrava;una sera riceve la visita della figlia di Griffo,Patrizia,che lo seduce e poi racconta tutto a suo padre.Griffo decide di licenziare Vittorio,non prima di essersi re intestato conti e danari detenuti da Vittorio.Ora per il ragioniere è davvero finita.
Medita vendetta e di usare per l’ultima volta il giocattolo,la sua fedele pistola ma…Un Nino Manfredi una volta tanto non romano presta il volto all’anonimo Vittorio Barletta con misura e drammaticità,come del resto richiesto dalla sceneggiatura.Alla quale collaborò lo stesso attore ciociaro,mostrando la sua poliedricità come autore e sopratutto un camaleontismo incredibile come attore.Basti pensare alle due grandi interpretazioni successive in Cafè express e in Nudo di donna (terza e ultima regia dell’attore),in cui metterà in scena due personaggi differenti e complessi.
Il giocattolo è un film molto interessante, al quale si può riconoscere un difetto grosso anche se non capitale,ovvero l’aver voluto mettere troppa carne al fuoco contemporaneamente alla descrizione della figura,tutto sommato dolente,di un ragioniere qualsiasi alle prese con vicende troppo più grandi di lui.Ma la regia scorre veloce e grazie ad un cast estremamente misurato e di valore naviga a gonfie vele fino all’amaro finale e alle parole profetiche (un po retoriche) che Barletta e sua moglie pronunciano,
””Ma dove sono tutti?”
“E dove sono? Sono tutti lì davanti alla televisione!”
“Ma qualcuno avrà pure sentito lo sparo…?”
“Ma ormai chi vuoi che s’accorga di un colpo di pistola?”
Una resa del cittadino qualunque che capisce di essere un granello di sabbia in un deserto.Sicuramente a tratti affiora l’ombra del qualunquismo,alcune scene e alcuni concetti sono davvero tagliati con l’accetta.Ma l’impianto narrativo resta di prim’ordine e la maschera dolente di Manfredi copre alcune inevitabili grossolanità della trama.Tributi a Un borghese piccolo piccolo di Monicelli (la vendettad i un uomo qualsiasi in questo caso sull’assassino del figlio),Il giustiziere della notte (un uomo abile con la pistola fa giustizia da se) e L’arma di Squitieri.Per quanto riguarda il citato cast,straordinario Arnoldo Foa, unico nei ruoli di “antipatico”,che spesso gli venivano affidati per quella sua aria a metà strada tra il canagliesco e l’aristocratico.Bravissimo il compianto Vittorio Mezzogiorno,bravissimo nel ruolo del poliziotto Sauro che inizierà Barletta all’uso della pistola,mentre decisamente brave sono le principali interpreti femminili,ovvero Marlene Jobert che rende perfettamente la fragile e malata Ada,Pamela Villoresi nel ruolo della figlia di Griffo,Patrizia (memorabile la scena dei “gorillini”che intende rifilare al padre) e infine Olga Karlatos,nobile e bellissima nel ruolo della moglie dello scaltro Nicola Griffo.
Molte luci,mescolate a diverse ombre; Montaldo passa dalle biopic Giordano Bruno e Sacco e Vanzetti ad una storia che comunque affonda le radici nella storia degli anni di piombo.Lo fa a modo suo,con lucidità ma anche con mano pesante.Un film controverso,comunque da vedere.
Pur passando spesso in tv,Il giocattolo non ha ancora una versione digitale.E’ presente in una versione presa dalla tv su You tube all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=f8Hif5fxvTU
Il giocattolo
Un film di Giuliano Montaldo. Con Nino Manfredi, Olga Karlatos, Marlène Jobert, Pamela Villoresi, Arnoldo Foà, Vittorio Mezzogiorno, Loris Bazzocchi, Mario Brega, Mario Cecchi, Carlo Bagno, Luciano Catenacci, Arnaldo Ninchi, Renato Scarpa, Daniele Formica Drammatico, durata 118 min. – Italia 1979
Nino Manfredi: Il ragioniere Vittorio Barletta
Olga Karlatos: Laura Griffo
Marlène Jobert: Ada, sua moglie
Pamela Villoresi: Patrizia Griffo
Arnoldo Foà: Nicola Griffo
Vittorio Mezzogiorno: Sauro Civera
Loris Bazzocchi
Mario Brega: Un rapinatore
Mario Cecchi
Carlo Bagno: Lo scopino del carcere
Luciano Catenacci: “Gorilla” di Griffo
Arnaldo Ninchi: L’intervistatore della tv
Renato Scarpa: L’armaiuolo
Daniele Formica: Gualtiero l’istruttore di tiro
Margherita Horowitz: Proprietaria della pizzeria
Regia Giuliano Montaldo
Soggetto Sergio Donati
Sceneggiatura Sergio Donati, Giuliano Montaldo, Nino Manfredi
Produttore Claudio Mancini, Sergio Leone
Fotografia Ennio Guarnieri
Montaggio Nino Baragli
Musiche Ennio Morricone
Scenografia Luigi Scaccianoce
Costumi Franco Carretti, Erminia Ferrari Manfredi
“Eh, non lo so! Oggi si rischia la vita tutti i minuti; vale la pena di curarsi il mal di testa? Non lo so, fai te!”
“Questa è una 38 con bam masterpiece, canna da 165, 1332 gr. di peso, massima precisione, è un fatto di balistica, ma voi che cazzo ne sapete di balistica?”
L’opinione di Will Kane dal sito www.filmtv.it
Inquadrato fin dall’inizio come un uomo pavido e alle prese con situazioni troppo grosse per lui, Vittorio è un ometto sulla cinquantina senza pretese, che conduce una vita familiare monotona, ha una moglie con cui comunica relativamente, e spesso preferisce occuparsi della riparazione della sua collezione di orologi:fin quando non si ritrova nel bel mezzo di una rapina in un supermercato, dopodichè gli entra una fissa per le pistole e monta in lui una paranoia sempre crescente che lo porta ad affezionarsi troppo al peso di un’arma in mano. Su un tema del genere uscì, quasi contemporaneamente, “L’arma” di Squitieri con Stefano Satta Flores, ed è chiarissimo il riferimento all’operazione di Monicelli-Sordi con la riuscita di “Un borghese piccolo piccolo”. Anche se il cast tecnico è di prima categoria(Morricone però fa un pò troppo il verso a se stesso e “Indagine su un cittadino…”), Montaldo infarcisce di eccessi retorici copione e film fino a renderlo da drammatico grottesco, vedasi l’incredibile declamazione finale in una scena altrimenti di forte impatto, e non sfrutta bene un Manfredi che vorrebbe ripetere il numero di Albertone in veste violenta:abbastanza ambiguo nella fin troppo sottolineata tesi di base( la violenza è punita solo se a praticarla è un poveraccio come il protagonista? e allora che deve fare un uomo per recuperare rispetto e dignità, secondo la sceneggiatura), “Il giocattolo” sembra andare avanti a tastoni, dimenticandosi di un personaggio imprescindibile per la storia come quello di Vittorio Mezzogiorno dopo la sua dipartita.E se la coppia al centro della vicenda ha momenti di credibilità concreta, soprattutto quando l’uomo, di fronte alle difficoltà adotta un modo di reagire bambinesco e passivo, molti dei personaggi di contorno sembrano tagliati con l’accetta.
Opinioni tratte dal sito http://www.davinotti.com
B. Legnani
Incredibile come il film, dopo un primo tempo davvero buono, crolli nel secondo, laddove l’accettabile romanzesco si fa inverosimiglianza allo stato puro, ma non quella che s’amalgama col grottesco, bensì quella che fa dire “ma non è possibile…”, fino al bruttissimo, gratuito finale (non sapevano come chiudere il film?). Manfredi bravissimo, anche se talora la sagace ironia tipica dei suoi caratteri non si sposa benissimo col personaggio. Grandi pure Foà e Mezzogiorno: molto più del film, se viene preso nel suo complesso.
Galbo
Vero e proprio noir italiano, il film di Giuliano Montaldo è per molti versi complementare al capolavoro di Monicelli Un borghese piccolo piccolo. Gran parte del merito per la riuscita del film va ad un ottimo Nino Manfredi, che riesce a rendere con molta efficacia il ruolo di un uomo qualunque, completamente soggiogato dal possesso di un’arma che diventa mezzo per l’affermazione della propria personalità.
Homesick
Storia tragica che affronta i temi della delinquenza dilagante, il diritto alla legittima autodifesa, i rischi della giustizia privata, lo sciacallaggio e il cinismo dei giornalisti, le contraddizioni della legge. Superlativi Manfredi, che passa con disinvoltura dal comico al drammatico, lo spregiudicato affarista Foà, la malinconica ed apprensiva Jobert, la ninfomane Villoresi, il gagliardo Mezzogiorno. Da vedersi parallelamente a L’arma di Squitieri, con il quale, tra l’altro, condivide l’idea della pistola come estremo rimedio ad una virilità frustrata.
Markus
Il regista Giuliano Montaldo si cimenta nella commedia, narrando la vicenda drammatica di un modesto ragioniere, timido e riservato di giorno, ma giustiziere di notte (il richiamo a Il giustiziere della notte è evidente), adattandolo al clima terroristico dei nostri anni di piombo e aggiungendoci l’aggravante di aspetti psicologici che turbano il rapporto di coppia tra il ragioniere e la moglie, oltre che molti aspetti della società malsana, per altro ancora molto attuali.
Cangaceiro
Altra variazione italiana sul tema de Il giustiziere della notte dopo Un borghese piccolo piccolo. Manfredi dosa bene il suo sarcasmo e conferma una volta di più la propria bravura nei panni del povero Cristo solo e sprovveduto con moglie malaticcia a carico. Montaldo conferisce alla vicenda un’atmosfera cupa e plumbea che colpisce molto. La storia però soprattutto nella seconda parte perde di veridicità, risultando approssimativa, con un finale troppo melodrammatico e improbabile. Perfetta comparsata di Mezzogiorno, ossessive le musiche di Morricone.
In nome del Papa re
«Qui non finisce perché arrivano gli italiani, gli italiani arrivano proprio perché è finita»
Queste parole,pronunciate dal Cardinale Colombo da Priverno al suo fido perpetuo tre anni prima di quel fatidico 20 settembre 1870,giorno in cui cadde il potere temporale dei papi, rendono appieno il tramonto di un’epoca,durata un periodo lunghissimo,oltre 1100 anni,
I fatti narrati nel film del quale è protagonista assoluto proprio Mons.Colombo avvengono nel 1867,anno nel quale venne pronunciata l’ultima condanna a morte da parte della chiesa ai danni di due patrioti ,Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, accusati di aver provocato una strage facendo saltare la caserma Serristori in Roma causando la morte di oltre venti Zuavi.
Avvenimenti,quelli narrati dal regista Luigi Magni,recentemente scomparso,che squarciano l’oscurità che avvolge un periodo storico rimosso troppo in fretta dai libri di storia e che testimoniano l’aberrazione morale e ideologica di una religione che dimentica di sana pianta il perdono e finisce per utilizzare gli strumenti di uno stato per eliminare i “nemici”,colpevoli solo di opporsi ad una secolare ingiustizia rappresentata da un potere religioso asfissiante,che ottenebrò per secoli le coscienze delle masse a tutto vantaggio dei poteri costituiti.
Luigi Magni,autore della trilogia ideale che include oltre a In nome del papa re il bellissimo Nell’anno del Signore (1969) e il più discontinuo In nome del popolo sovrano (1990 ) narra l’episodio storico citato con garbo e ironia,creando la figura del Cardinale Colombo (peraltro storicamente esistita) e portando sullo schermo molto liberamente il racconto I segreti del processo Monti e Tognetti di Gaetano Sanvittore ,scritto in uno stile arguto e scanzonato ad onta della serietà dell’argomento trattato.
Magni fustiga senza pietà,dietro una narrazione quasi leggera ma al tempo stesso drammatica,i fatti di sangue di quel 1867 che vide la morte dei due patrioti,assassinati da un potere ormai logoro che tentava disperatamente di restare abbarbicato ad anacronistici splendori di un tempo irrimediabilmente dissolto.
La figura di Colombo,uomo pieno di buon senso in netta contrapposizione con i suoi colleghi miopi ai limiti della patologia giganteggia in un mondo di pigmei,addormentati dietro i sogni di uno splendore passato;celebre la scena del consiglio dei cardinali che deve decidere del destino dei due patrioti con un cardinale che si sveglia dal sonno per votare a favore della condanna a morte.
Una scena dolorosa,che stigmatizza e punta l’indice su un potere assoluto ormai corrotto e moribondo,come la corte di ruffiani che circondava la Santa sede e papa Pio IX, uomo ambiguo e machiavellico che alla fine sarà addirittura beatificato da papa Giovanni Paolo II nonostante la terribile macchia delle esecuzioni avvenute durante il suo pontificato.
Tornando al film,i protagonisti in realtà sono due;il citato Cardinale Colombo e l’epoca storica in cui avvennero i fatti narrati.
L’epoca è quindi quella del tramonto del potere temporale,a cui i fatti narrati dettero un colpo mortale.
Nel film viene raccontata la storia di Cesare Costa,il giovane figlio illegittimo della Contessa Flaminia accusato insieme agli amici Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti di aver provocato la strage descritta in inizio di narrazione;la donna,per salvare il figlio,si rivolge al Cardinale Colombo,rivelandogli che il ragazzo è suo figlio,frutto della relazione intercorsa tra i due anni addietro.
L’improvvisa scoperta della paternità mette in crisi Colombo,che tuttavia decide di intervenire nascondendo in casa sua sia il Costa che Teresa,la giovane fidanzata del ragazzo.
Un’operazione che si rivelerà inutile;Colombo non riuscirà a salvare il ragazzo,che verrà ucciso dal Conte Ottavio, marito di Flaminia che lo crede amante della moglie né i due patrioti,che verranno giustiziati dopo un processo farsa nel quale nonostante la difesa appassionata di Colombo verrà decretata la morte dei due giovani.
Il film termina con la presa di Porta Pia, che finalmente abbatterà un potere marcio e sanguinario e consegnerà Roma all’Italia e restituirà almeno in parte la Chiesa ad un ruolo storico più defilato,anche se purtroppo molto influente nel secolo successivo.
Magni descrive attentamente il periodo storico,creando figure dolenti come quella di Colombo e paradossali come quella del Generale gesuita,il cosiddetto papa nero,al quale il Cardinale,con un gesto di estremo coraggio nega l’assoluzione e la comunione nel drammatico finale.
Film anticlericale,sicuramente.
Ma con tante buone ragioni.
Le figure legate alla chiesa appaiono grottesche nel film,disumane,come del resto è disumano un potere che si arroga il diritto di giustiziare due giovani vite dimenticando in toto le fondamenta stesse della fede e sopratutto il perdono.
Ma Magni bada più a fornire un quadro storico degli avvenimenti il più veritiero possibile;ci riesce grazie anche alla presenza di un gigantesco Manfredi,in un uno dei suoi ruoli drammatici più intensi della carriera,quello dell’ironico,dolente e arguto Colombo,uomo in crisi non tanto con la fede quanto con le gerarchie ecclesiali,che avverte lontanissime anni luce dalla gente e dalla realtà.
L’appassionato discorso che Colombo/Manfredi tiene davanti al Sant’Uffizio resta una delle cose più importanti della carriera di Manfredi.
L’ironia mista a disperazione e consapevolezza dell’inutilità delle proprie parole sono rese in modo magistrale dal grande attore ciociaro.
Magni,dopo aver utilizzato Manfredi nel ruolo di Pasquino nel suo bellissimo Nel giorno del signore,film nel quale aveva scritturato un cast all stars (la Cardinale,Sordi,Tognazzi,Salerno,Hossein,lo stesso Manfredi ecc.) sceglie per questo film dei comprimari di grande valore,come Carlo Bagno, godibile e insuperabile partner di Manfredi nel ruolo del perpetuo saggio ma anche petulante,come salvo Randone,luciferino nel ruolo del generale dei Gesuiti e la bravissima Carmen Scarpitta nel ruolo della contessa Flaminia.
Il gruppo è ben affiatato,la sceneggiatura è ottima,i costumi dell’epoca ricostruiti fedelmente,la colonna sonora (e la bandiera di tre colori è sempre stata la più bella,noi vogliamo sempre quella noi vogliam la libertà) adeguata e in tema.
Bisogna però tornare un attimo sul ruolo di Manfredi;serio,arguto e faceto,malinconico e irriverente,il suo cardinale Colombo appartiene più alla sfera dei grandi che al limitato e indolente mondo ecclesiale;un pensatore che usa troppo il cervello e poco l’obbedienza (come suggerirebbe il generale dei Gesuiti) e quindi assolutamente pesce fuor d’acqua e pecora nera del gregge ecclesiale.
La mimica e il volto di Manfredi si adattano e di volta in volta sembrano fondersi in una maschera quasi tragica,quella del testimone di un mondo in dissoluzione, rappresentante suo malgrado di un ordine,di una “specie” ormai condannata dalla storia.
Perchè tale appare la gerarchia ecclesiastica,nel film;una casta ancorata ai privilegi,fantasma muto di un’epoca per fortuna scomparsa,oscurantista e corrotta,che ha prodotto guasti incalcolabili nel corso della storia.
Bravo quindi Magni a stigmatizzare con l’ironia quel potere,senza usare il becero anticlericalismo immotivato di altri suoi colleghi.
Un film assolutamente fondamentale per capire e conoscere un’epoca così travagliata come quella raccontata nel film.
In nome del Papa re
Un film di Luigi Magni. Con Nino Manfredi, Carmen Scarpitta, Danilo Mattei, Ron, Giovannella Grifeo,Carlo Bagno, Ettore Manni, Salvo Randone, Camillo Milli, Giovanni Cianfriglia, Gabriella Giacobbe, Renata Zamengo, Luigi Basagaluppi, Giovanni Rovini Drammatico, durata 105 min. – Italia 1977.
Nino Manfredi: mons. Colombo da Priverno
Danilo Mattei: Cesare Costa
Carmen Scarpitta: contessa Flaminia
Giovannella Grifeo: Teresa
Carlo Bagno: il perpetuo Serafino
Ettore Manni: conte Ottavio
Gabriella Giacobbe: Maria Tognetti
Camillo Milli: don Marino
Rosalino Cellamare: Gaetano Tognetti
Giovanni Rovini: presidente tribunale
Salvo Randone: Generale Gesuita
Nino Dal Fabbro: procuratore
Renata Zamengo: Lucia Monti
Luigi Basagaluppi: Giuseppe Monti
Regia Luigi Magni
Soggetto Gaetano Sanvittore (romanzo I segreti del processo Monti e Tognetti)
Sceneggiatura Luigi Magni
Produttore Franco Committeri
Casa di produzione Jupiter Generale Cinematografica
Fotografia Danilo Desideri
Montaggio Ruggero Mastroianni
Musiche Armando Trovajoli
Scenografia Lucia Mirisola
Costumi Lucia Mirisola
“Sembra ieri che i leoni ce se magnavano ar colosseo”
“A Roma cambiano i tempi ma tanto chi se ne accorge;magari ve credete che siamo qui ancora a condannare Giordano Bruno”
“La nostra legge non cambia:deriva direttamente dal vangelo.
“Noi crediamo nell’obbedienza,loro nelle bombe;e certo che hanno torto ma non per questo abbiamo ragione noi”
“Le greggi vanno di qua,vanno di la,vanno dove capita;ma il pascolo è tutto del signore”
“E mo’ me poi pure sparà, perché m’hai gia sparato!”
“Però, mori’ a vent’anni fa incazzà.
Eh…i ribelli morono sempre a vent’anni: pure quando nun morono. “
“D’altra parte, io come lo crescevo? Lo mandavo alla caccia alla volpe, lo allevavo tra servi e carrozze, lo facevo diventare come il conte Ottavio… un imbecille. “
“Giovanotti, a Roma c’è la guerra, è inutile che se lo nasconnemo. E qui so’ zompati per aria ventitré soldati di un esercito che, siccome è er nostro, ce po’ pure dispiace’, ma sapete chi è stato a falli zompa’? […] soldati di un altro esercito che non è il nostro, un esercito in borghese. Ma stiamo attenti, eccellentissimi padri, che quando un esercito è in borghese, è un esercito di popolo, e cor popolo, ce se sbatte sempre er grugno. “
I misteri del processo Monti e Tognetti, di Gaetano Sanvittore
Il prete di vettura.
“V’ha in Roma una classe di preti diseredati, che non hanno alcuna
parte nell’orgia dei lauti _piatti_ e delle grasse prebende. Questi
sciagurati vengono chiamati comunemente _preti di vettura_.
Per essi il maggior provento di lucro è quello che traggono dai
mortori; e perciò a somiglianza dei corvi costoro fiutano l’odore dei
morti, e calano a stormo sul fresco cadavere di un estinto.
La loro opera, tanto per l’_associazione_, come per la messa, viene
appigionata da un sensale, che contratta _a cottimo_ col sagrestano
della parocchia, gli fornisce un dato numero di preti, e distribuisce
a ciascuno di essi la dovuta mercede. La parte migliore del mortorio
rimane naturalmente al sensale e al sagrestano; quelli che ne ricavano
minor profitto sono i preti di vettura.
Questi preti traggono dunque una magra esistenza, accanto alle
lautezze dei prelati e dei cardinali. Potrebbero paragonarsi al
mendico che raccatta le briciole sotto la mensa dell’Epulone.
Un prete di vettura, fra i cinquanta e i sessant’anni, piccolo, magro,
con un viso da buon uomo, su cui stavano dipinte le afflizioni di una
vita stentata, il quale rispondeva appunto al nome di don Omobono,
sgambettava per le vie di Roma, nella mattina del giorno 22 ottobre
1867.
Il suo cappello colle ale disfatte, il suo abito stretto e monco, le
calze di un nero rossastro, e le scarpe scalcagnate attestavano lo
stato poco florido delle sue finanze; mentre i lineamenti del suo
volto smunto portavano l’impronta della timidezza e della
rassegnazione.”
L’opinione di Paolo89 dal sito http://www.mymovies.it
Chiamatelo come volete: pietra miliare, cult, must. In nome del papa re è un film imprescindibile, uno di quei film che i guri americani dei manuali di sceneggiatura farebbero a gara per avere nei loro libri.
Ma non basta: Nino Manfredi è bravissimo e perfettamente convincente nella parte di un monsignore membro della Sacra Consulta, dalla fede genuina e pieno di buon senso. Ecco perchè quando un’influente contessa gli chiede di salvare il suo figlio segreto Cesare, rivoluzionario reo di aver partecipato a un attentato contro degli zuavi francesi filo-papali, cerca prima di convincerlo a tornare dalla madre e poi lo nasconde con la forza in casa sua. Il conflitto più grande, però, non è contro l’autorità che sta cercando Cesare. È contro il potere giuridico, temporale, che la Chiesa esercita in modo ottuso e intransigente, commettendo gli stessi soprusi che commetterebbe una qualsiasi altra istituzione statale ma giustificandoli dietro la parola di Dio. Ma non basta, ancora: la vicenda, drammatica e avvincente, è racchiusa in una cornice di sagace ironia, critica intelligente e umorismo, magnificamente alternati sia dall’interpretazione di Manfredi e dei suoi comprimari (Salvo Randone soprattutto), sia dai ritmi calibrati della narrazione. Il genere di meccanismo che gratifica sia chi guarda un film per puro piacere personale, sia chi lo fa con più consapevolezza perchè del mestiere. Poco importa che In nome del papa re abbia vinto quattro Nastri d’argento, perchè un’opera di valore la si riconosce a prescindere dai riconoscimenti ‘ufficiali’.
Da notare e ricordare: una coppia di scene, set-up e pay-off, in cui Manfredi dà la Comunione alla madre di uno dei condannati, rifiutato e al Generale Gesuita / Salvo Randone poi, questa volta negandogliela lui. Che bellezza!
L’opinione di Galbo dal sito http://www.davinotti.com
Probabilmente il film più riuscito di Luigi Magni, racconta una storia che investe la curia della Roma papalina, durante i moti risorgimentali.
Il film si avvale di un’ottima ricostruzione ambientale, realizzata anche grazie all’ausilio del linguaggio popolare verace, ma nello stesso tempo non ostico. Ottima inoltre la prova degli interpreti, tra i quali spiccano Nino Manfredi e il grande Salvo Randone. Da vedere.
L’opinione di Ianrufus dal sito http://www.davinotti.com
Invito i più giovani a recuperare questa splendida prova di Nino Manfredi su DVD (è un Medusa, uscito già da qualche anno) perché è la testimonianza di come ancora 30 anni fa era possibile in Italia fare pellicole belle e di grande successo (fu campione d’incasso in tempi di Guerre Stellari di Lucas). Magni e Manfredi disegnano atmosfere già bazzicate in un bel episodio di Signore e signori, buonanotte oltre che nel mitico Nell’anno del signore, altro campione d’incassi nel 1969!
L’opinione di Anthony f.dal sito http://www.filmscoop.it
Capolavoro sulla Roma Risorgimetale, secondo della famosa “Trilogia Papalina”, diretto magistralmente da Luigi magni, con un grande Nino Manfredi nei panni del giudice pontificio, monsignor Colombo da Priverno, chiamato da molti “Don Colombo”. La sceneggiatura è brillante, ricca di freschezza e di pura ironia, basata, tra l’altro, su fatti storici, realmente accaduti, e su documenti risalenti al periodo dell’ambientazione ottocentesca, tra cui “I segreti del processo Monti e Tognetti” di Gaetano Sanvittore, 1869, Milano. Le scenografie sono ben curate e soprattutto realizzate in maniera accurata e lineare; la regia di Magni, ottima sotto in punto di vista, con i suoi leggeri movimenti di macchina da presa, con le sue inquadrature lente ed accurate e con i suoi leggiadri primi piani, simili a quelli leoniani; le musiche del maestro Armando Trovajoli sono incantevoli e trascinanti, tra cui mi sento di citare il famoso canto “La Bandiera dei Tre Colori”; e gli interpreti, guidati dal grande Nino Manfredi, semplicemente magistrali.
Superiore persino a “Nell’Anno del Signore”.
L’opinione di signor Joshua dal sito http://www.filmtv.it
(…) Ma la vera abilità del regista, sta più che altro nel saper cambiare registro così rapidamente, e quasi in ogni scena, mantenendo però sempre alta la credibilità, e sempre presente il sentimento dell’opera davvero immenso). È un peccato, quindi, che una pellicola così ambiziosa e riuscita, venga fatta concludere in un finale tanto retorico, e completamente fuori posto: nella scena dell’omicidio di Cesarino, si rasenta quasi il ridicolo, con il marito tirato a lucido, la madre che corre dal figlio guerrafondaio senza versare una lacrima, ed i deliri assurdi di quest’ultimo, nonché l’immediata fuga dell’ignorante fidanzatina del ragazzo. È proprio un peccato, perché immediatamente dopo, c’è una delle scene più belle e potenti di tutto il film: gli inquisitori vanno da Manfredi che sta celebrando la messa, e quando passa di fronte al corrotto “capo”, mentre sta dando la comunione, gli dice “A te no”, e viene giù la sala (metaforicamente parlando). Riamane comunque un opera importante, che si fa notare soprattutto per un Nino Manfredi in stato di grazia che buca lo schermo, una colonna sonora bellissima, ed una storia fondamentalmente intelligente ed attuale.
Per grazia ricevuta
Per grazia ricevuta è il secondo film diretto da Nino Manfredi,che nel corso della sua carriera cinematografica di regista girò 3 film, L’amore difficile, episodio L’avventura di un soldato ne1962,Per grazia ricevuta nel 1971 e infine il poco compreso ma affascinante Nudo di donna nel 1981.Un film bello e denso di significati,probabilmente autobiografico (anche se Manfredi non ha mai confermato la cosa) che sbancò i botteghini, divenendo nella stagione 1971 il film più visto in Italia davanti a kolossal americani come Piccolo grande uomo,Borsalino e Soldato blu e sopratutto davanti a film di enorme successo girati in Italia come Lo chiamavano Trinità e Anonimo veneziano.
Una prova da regista autorevole e di prim’ordine, che dimostra come Manfredi fosse a suo agio dietro la macchina da presa,molto più dei suoi colleghi “moschettieri” Sordi e Tognazzi,che tentarono anch’essi la via della regia,con esiti decisamente inferiori come qualità.E’ un Manfredi ispirato e a tratti lirico quello che propone questo film tutto incentrato sulla religiosità,in un periodo storico in cui l’influenza della chiesa sulla società era fortissimo e condizionante;la cosa più importante è l’equilibrio che l’attore ciociaro riesce a mantenere nel percorso del film, evitando l’anticlericalismo di facciata e sopratutto evitando di cadere nella polemica sterile e fine a se stessa.
La storia di Benedetto Parisi anzi diventa un’iperbole sui danni che una educazione religiosa troppo soffocante e punitiva possono avere sull’individuo,arrivando alla fine a condizionarne pesantemente la vita e cambiandone in modo determinante il percorso della stessa.Con la collaborazione di Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Luigi Magni con il quale Nino Manfredi girerà altri tre film a soggetto legato alla religiosità (memorabile In nome del Papa Re),Manfredi da corpo ad un soggetto elaborato eppure schematicamente semplice.L’idea di fondo è mostrare nella sua interezza,senza però prendere una posizione aperta,quello che un’educazione religiosa troppo opprimente e punitrice può combinare sia nella psiche di un individuo sia nel suo percorso di vita. A ben vedere Benedetto,il protagonista del film,è un’immagine riflessa dello stesso Manfredi,che da piccolo ebbe la tubercolosi e che guarì in modo sorprendente,lasciando nello stesso Manfredi il dubbio che lo accompagnerà tutta la vita su un effettivo miracolo intervenuto nella sua guarigione.
Un uomo è ricoverato in condizioni disperate in un piccolo ospedale di provincia. Ha tentato di uccidersi e un chirurgo accorre affannosamente per operarlo. In sala d’attesa,in preda a opposti stati d’animo c’è la sua compagna Giovanna,incinta e comprensibilmente tesa e la mamma di quest’ultima,che poco cristianamente vorrebbe che l’uomo morisse in modo da dare la figlia in sposa ad un avvocato.
Un salto indietro nel racconto,Benedetto è un orfano allevato dalla zia, in attesa di ricevere la prima comunione. E’ un ragazzo spigliato,come i suoi coetanei,che però vive una condizione particolare, ospite di sua zia che vorrebbe liberarsene e che gli condiziona pesantemente la vita con la sua religiosità confusa e contraddittoria.Un giorno il ragazzo,nascosto in un armadio, assiste ad un convegno amoroso della zia,che,scoperta,spaccia l’amante per Sant’Eusebio.
Dopo aver visto sua zia farsi il bagno nuda ed essere scoperto dalla stessa,Benedetto,preso dai sensi di colpa rifiuta di confessarsi e il giorno dopo, durante la prima comunione, il ragazzo fugge dalla chiesa e nel farlo precipita da una rupe.Si salva miracolosamente e da quel momento la sua vita è segnata.Portato in processione dalla folla festante, Benedetto viene affidato dalla scaltra zia che non desidera altro che di liberarsi di lui a dei francescani,dai quali Benedetto viene preso in custodia ed educato.
Diventa il beniamino dei fraticelli, da questi trattato con simpatia e affetto,sopratutto dal priore,che capisce come Benedetto non sia pronto alla vita religiosa.Sarà l’incontro con una maestrina,alla quale succhia dalla caviglia il veleno di una vipera, a scatenare nel giovane i primi irresistibili impulsi sessuali.Si allontana dal convento, dietro l’affettuoso consiglio del priore e da quel momento diventa un venditore ambulante di biancheria intima.Adesso è libero e potrebbe sperimentare le prime esperienze sessuali, ma ancora una volta i condizionamenti religiosi lo frenano,impedendogli così di vivere la sua naturale sessualità.Sarà l’incontro con un farmacista ateo e libertino a liberare Benedetto dal suo passato e dai suoi scrupoli;infatti il giovane si innamorerà della figlia del farmacista stesso,Giovanna,con la quale vivrà il primo rapporto d’amore.Ma i condizionamenti continueranno a farsi sentire subdolamente e….
Con senso della misura,usando una garbata ironia che mai supera la soglia della presa in giro benevola, Manfredi affronta lo spinoso argomento della religiosità senza mostrare di propendere per nessuna tesi. I miracoli del film,così come il finale aperto sono lasciati all’interpretazione dello spettatore, che può scegliere da che parte schierarsi.Ovviamente il grande attore ciociaro in qualche punto fa affiorare il suo garbato sarcasmo; il Benedetto che canta a squarciagola “Me pizzica me mozzicà” all’interno del convento non è propriamente politicamente corretto così come qua e la indizi sul suo modo di pensare e di vivere la religiosità fanno capolino (le scene con Benedetto piccolo che spia la zia,il presunto Sant’Eusebio ecc) ma restano garbatamente sullo sfondo.
E’ un Manfredi molto lontano dallo spirito popolare e popolano che ne avevano decretato il successo fino ad allora;l’attore un po’ caciarone e di stile romanesco lascia spazio ad un attore che mostra di avere il talento drammatico e “serio” nelle sue corde,come del resto dimostrerà nella sua lunghissima e felice stagione attoriale,con prove maiuscole come quelle fornite in In nome del Papa Re,Pane e cioccolata,Brutti sporchi e cattivi,film che esalteranno il suo talento spontaneo,la sua capacità di passare indifferentemente dai ruoli di attore comico a quello drammatico,dalle prove teatrali a quelle del musical (Rugantino) passando per la canzone popolare nel modo più autentico, come la sua personalissima interpretazione del grande successo di Petrolini Tanto pè cantà.
Un vero peccato che Manfredi in seguito abbia girato come regista il solo notevole Nudo di donna;il suo talento come regista era naturale,mostrava una predisposizione innata alla macchina da presa,ai tempi e ai ritmi del film,una capacità assolutamente straordinaria del dono della sintesi.
E’ la Ciociaria la protagonista secondaria del film;terra generosa,ubertosa e ricca di colore;Manfredi,ciociaro doc,inserisce Fontana Liri e le cascate di monte Gelato a Mazzano Romano tra i suggestivi luoghi nei quali gira il film;bella la fotografia e sopratutto ben assortito il cast nel quale figurano la bella e fresca Delia Boccardo (Giovanna) e Mariangela Melato,la maestrina che provocherà i primi turbamenti,Lionel Stander, ovvero Oreste il farmacista,che tanta importanza avrà per l’evolversi del personaggio benedetto e Mario Scaccia,il priore affettuosamente legato al giovane che capirà come la sua fede sia affatto ferma,portandolo fuori dagli angusti confini del convento.Bravi anche Paola Borbone e Tano Cimarosa,Veronique Vendell e Fiammetta Baralla,comprimari tutti ben oltre la soglia della sufficienza.Davvero un film di ottima fattura,nel quale superstizione ed elementi folkloristici della religione ben si sposano con la religiosità più intima,quella più autenticamente spirituale alla quale tutti aspirano alla ricerca di risposte spesso disattese proprio dalla natura stessa della religione,di fatto qualcosa di assolutamente intangibile e strettamente personale.
Il film ha avuto nel corso degli anni numerosi passaggi televisivi;è disponibile su You tube all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=DBjm4n_iR_g in una versione purtroppo non ben visibile. In streaming (versione decisamente migliore) è disponibile all’indirizzo http://www.nowvideo.li/video/27426b066492b
Per grazia ricevuta
Un film di Nino Manfredi. Con Nino Manfredi, Mario Scaccia, Lionel Stander, Mariangela Melato, Paola Borboni, Delia Boccardo, Véronique Vendell, Gianni Rizzo, Fausto Tozzi, Fiammetta Baralla, Enzo Cannavale, Tano Cimarosa, Gastone Pescucci, Ugo Adinolfi, Antonella Patti Commedia, durata 122 min. – Italia 1971
Nino Manfredi: Benedetto Parisi
Lionel Stander: Oreste Micheli
Delia Boccardo: Giovanna Visciani
Paola Borboni: Immacolata
Mario Scaccia: il priore
Fausto Tozzi: il professore
Mariangela Melato: la maestrina
Tano Cimarosa: zi’ Checco
Gastone Pescucci: l’avvocato
Alfredo Bianchini: il cappellano della clinica
Enrico Concutelli: un frate del convento
Paolo Armeni: Benedetto da bambino
Véronique Vendell: la ragazza “chiacchierata”
Gianni Rizzo: il prete del paese dove Benedetto vende la biancheria
Pino Patti: Don Quirino
Rosita Torosh: la giovane maestra della colonia
Antonella Patti: la zia di Benedetto
Enzo Cannavale: il paziente “sano” della clinica
Fiammetta Baralla: la suora della clinica
Luigi Uzzo: un infermiere della clinica
Mister O.K.: Fra Gesuino
Corrado Gaipa: Oreste Micheli
Laura Carli: Immacolata
Giorgio Piazza: il priore
Sergio Rossi: il professore
Emanuela Rossi: Benedetto da bambino
Nella Gambini: bambino amico di Benedetto
Pino Caruso: zì Checco
Mirella Pace: la zia di Benedetto/la ragazza “chiacchierata”
Mario Bardella: il prete del paese dove Benedetto vende la biancheria
Max Turilli: Don Quirino
Angiola Baggi: la giovane maestra della colonia
Isa Bellini: la suora della clinica
Enzo Liberti: un frate
Regia Nino Manfredi
Soggetto Nino Manfredi
Sceneggiatura Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Luigi Magni, Nino Manfredi
Produttore Angelo Rizzoli jr.
Fotografia Armando Nannuzzi
Montaggio Alberto Gallitti
Musiche Guido De Angelis
Scenografia Giorgio Giovannini
Costumi Danilo Donati
Trucco Giancarlo De Leonardis
L’Abbazia benedettina di San Cassiano
L’acquedotto di Nepi
Speco di san Francesco,Sant’ Urbano di Narni
Cascate di Monte Gelato e Mezzano Romano
Interno della chiesa di San Fortunato di Todi
Piazza Vittorio Emanuele a Todi in una vecchia foto
Piazza Vittorio Emanuele a Todi oggi
Villa Volpi a Sabaudia
“Nun te preoccupà, tanto non è morto, all’ultimo momento ha deciso di annà all’artro mondo!”
La vita, invece di viverla io me la dormo.
L’opinione di Jonas dal sito http://www.filmtv.it
Storia in tre tempi: un’infanzia da scavezzacollo sotto la fida protezione di sant’Eusebio; una giovinezza passata in convento ad aspettare un segno divino per nascondere la paura di affrontare la vita; la scoperta del mondo, il discepolato sotto un vecchio mangiapreti, l’amore con la soave Delia Boccardo. Il tutto viene rievocato in flashback, dopo un ricovero in ospedale per tentato suicidio. Il primo film diretto da un’icona nazional popolare come Nino Manfredi (se si eccettua un episodio di L’amore difficile) è un gesto di sorprendente coraggio, qualcosa di veramente raro nell’Italia democristiana. Ma sarebbe riduttivo considerarlo solo un pamphlet anticlericale, nonostante gli obiettivi polemici siano ben individuati (l’educazione sessuofoba, il miracolismo, l’esaltazione pseudoreligiosa, l’ipocrisia dei baciapile): è soprattutto la vicenda di un uomo pieno di dubbi e in cerca di risposte, prima respinto dagli esponenti della Chiesa (“Dio è pace, serenità, non è tormento”) e poi deluso dall’incoerenza di quello che si era scelto come maestro di vita (“non è morto, all’ultimo momento ha preferito andare all’altro mondo anche lui”). A ben vedere è un film che esplora le tracce quasi impercettibili, a volte paradossali, della presenza di Dio (cominciando dal nome del protagonista, Benedetto, e finendo con l’ultima battuta, “è stato proprio un miracolo”). Un film di fede, nonostante tutto: forse l’opera più bergmaniana che il cinema italiano abbia mai prodotto.
L’opinione di Mansueto dal sito http://www.mymovies.it
Chi dell’ “auto-morte” se ne intendeva, qualche tempo fa ci testimoniò che “Il suicida è come un carcerato che, nel cortile della prigione, vede una forca, pensa erroneamente che sia destinata a lui, evade nottetempo dalla sua cella, scende giù e s’impicca da sé”.Un lontano 1971, quando crebbi, un tal Benedetto di Castro de’ Volsci ci raccontò in 122 minuti la magnificazione “dell’intera storia umana”. Quell”elogia attraverò come un qualunque raggio cosmico ogni cellula del corpo di chi ne fu attratto; la riempì senza saperlo di luce e di spazio; di coscienza e di emozioni; di contenuto e contenente. Quel racconto fu la glorificazione sintetica di ogni dottrina; teologica e filosofica; psicologica e sociologica; medica ed estetica; commerciale e culturale. Tutto in un istante.Sincretismo gnoseologico. Come dire. Irenismo ed ecumenismo di ogni dottrina:quando la sensibilità umana (terza riga del libro del mondo) diventa poesia armonizzante di ogni distinzione e di ogni diversità della conoscenza!Qui c’è tutto. L’uomo e la donna. Il Tanathos e l’Eros. La colpa, la paura, il dubbio, la leggerezza più svanita, l’elegia del “chi sono”.Alle volte gli uomini compiono miracoli senza saperlo. Alle volte nessuno sa di quelli.Eppure questo superbo capolavoro della filmografia italiana (che pecca solo di vizi tecnici) diventa un mastodontico modello di studio per chi insegna, consolazione umana per chi soffe, costruzione critica per chi giuggioneggia, dissenso al senso per chi non crede.L’avventura umana sta tutta là. In un convento “totale” della Ciociaria. Nell’ambulante ardimentoso di lingerie. Nell’alieno e diafano amore verso Delia. Nella bestemmia redenta di una canaglia di farmacista. Nella fantasia dell’ingenuità più lieve. Nel matrimonio celebrato di un senza no. In una caduta e in un tuffo. In un’apetta col vecchietto. In un bicchiere fresco… ma d’acqua calda!Se volete chiedere a qualcuno chi mai voi siate, domandatevelo imberbi a voi stessi.Inoculatevi rilassati questo film.E se non v’è risposta….Beh; allora finalmente avrete capito tutto!Ma non ditelo a nessuno…”
L’opinione di Thegaunt dal sito http://www.filmscoop.it
Bello questo film con e di Nino Manfredi che affronta in maniera tuttaltro che banale i tanti lacci che non permettono di vivere a pieno la propria esistenza. La pellicola di Manfredi non vuole essere un’invettiva anticlericale, ma una riflessione sul vivere male la religione, in cui fede e superstizione hanno confini talmente sottili da confondersi e costellata fin dall’infanzia da una marcata repressione sessuale. L’ottimo film di Manfredi non solo è dotato di una sceneggiatura di qualità, ma offre una buona caratterizzazione dei personaggi, soprattutto nel bigottismo della Borboni e nella vitalità di Stander.
Nino Manfredi
Delia Boccardo
Mariangela Melato
Mario Scaccia
Flano del film
La colonna sonora,la celebre Me pizzica…me mozzica
Pane e cioccolata
Un film sull’immigrazione.
Ma non un film qualsiasi.
Pane e cioccolata è un amarissima storia di ordinaria emigrazione, la vicenda personale di un uomo che percorre il proprio calvario, comune a quello di tantissimi italiani, che sin dagli inizi del secolo scorso hanno dovuto abbandonare la propria terra per una serie infinita di motivi.
L’emigrazione ha portato nel corso degli ultimi cento anni ad avere molti più italiani fuori dal suolo natio di quanti abbiano poi effettivamente popolato lo stivale.
E Franco Brusati, regista di questo film uscito nelle sale nel 1973, altro non fa che raccontare la vicenda di un uomo come tanti, costretto a vivere in terra straniera portato la dalla mancanza di lavoro e di prospettive di un paese che, quando si svolgono gli eventi narrati, era uscito dagli anni del boom economico per attraversare una delle cicliche crisi che hanno da sempre reso l’Italia un paese bello e impossibile.
Parlare di emigrazione mi porterebbe lontano, val la pena allora ricostruire la storia di Giovanni Garofoli detto Nino, protagonista del film.
Un emigrato del centro Italia, uno della Ciociari; siamo quindi lontani dallo stereotipo dell’emigrato siculo o campano, pugliese o calabrese.
Nino è da 3 anni in Svizzera, sempre alla disperata ricerca di un lavoro più o meno dignitoso; è stato assunto in prova presso un hotel, ma un colpo di sfortuna gli nega il permesso di soggiorno.
E’ stato fotografato mentre orinava contro un albero, per giunta sotto gli occhi di una donna.
Una foto che lo ritrae è stata consegnata alla polizia, così Nino non ha alcuna soluzione che quella di darsi alla clandestinità.
Riesce a riparare presso Elena, una profuga greca sfuggita al suo paese per non dover vivere sotto la dittatura del regime dei colonnelli.
Da qui inizia la sua parabola discendente: assunto da un miliardario italiano, che ha trovato riparo in Svizzera dopo esser stato condannato per bancarotta, Nino si illude di aver sistemato i suoi problemi.
Non è così, perchè l’industriale, che si è fatto consegnare i miseri risparmi di Nino, è sull’orlo della bancarotta.
Difatti l’uomo si uccide, lasciando nella disperazione più nera Nino.
Ora non ha più soldi, non ha un lavoro, non ha un tetto ed è un clandestino.
Scenderà ancor più la scala verso l’inferno, andando a vivere con un gruppo di persone che, clandestini come lui, vivono in condizioni miserevoli in un pollaio, sopravvivendo proprio grazie ai polli che uccidono.
La degradante esperienza paradossalmente lo spinge a tentare un’impossibile integrazione; si tinge i capelli di biondo e si mescola alla gente.
Ma ancora una volta un colpo di sfortuna lo porta sulla soglia dell’abisso; mentre è in un bar, assiste ad una partita dell’Italia e al goal della nazionale italiana si lascia andare ad un urlo di gioia.
scoperto, decide che è ora di tornare a casa.
La Svizzera non lo vuole e lui è stanco di una vita ancor più umiliante di quella che faceva in Italia.
Inaspettatamente Elena lo raggiunge alla stazione e gli consegna il permesso di soggiorno per un altro semestre; ma Nino ha ormai deciso di partire e parte con il treno destinazione Italia.
Sul treno che lo riporta in Italia, però, accade qualcosa…
Superbo e tristissimo affresco sulla vita di un emigrante che altri non è che la rappresentazione drammatica di tante storie sconosciute di gente che, partita con una valigia di cartone ha dovuto affrontare mille problemi, dalla cultura alla lingua alle abitudini, Pane e cioccolata rappresenta il miglior cinema italiano.
Quello che non indulge al pietismo, ma che, con uno stile quasi documentaristico, racconta storie difficili e tristi, amare e apocalittiche.
Nino rappresenta l’italiano volenteroso, ma sconfitto, battuto dallo stile di vita e dalle condizioni di vita stesse di una nazione dalle mille contraddizioni come l’Italia.Un paese in lenta ma drammatica trasformazione, che ha abbandonato i sogni di grandezza per scoprire i gravissimi problemi interni.
Anche se non siamo ancora nel cuore degli anni di piombo, siamo nel periodo dell’inflazione a due cifre, in quello in cui la recessione e una fortissima disoccupazione stanno provocando gravi problemi di sicurezza pubblica e di ordine sociale.
Nino tenta disperatamente una precaria integrazione; respinto e non di certo per sua colpa, alla fine cede.
Ma alla fine, orgogliosamente, mostrerà di che pasta è fatto; non accetterà la sconfitta, anzi.
Sicuro di poter avere una rivalsa, scenderà dal treno, complice anche il “Simmo ‘e Napule paisà” intonato dagli emigranti di ritorno.
In questa sequenza, meravigliosa, c’è tutta l’amarezza ma anche la voglia di rivincita di un uomo che non si arrende a quello che è un destino scritto, una strada segnata.
Un atto d’orgoglio e Nino riaffronta la sua vita difficile perchè non vuole sentirsi sconfitto, non vuole tornare nel suo paese da vinto.
Che poi è anche la stessa scelta operata da tantissimi altri Nino, che hanno avuto la forza e il coraggio di integrarsi, di vivere in paesi lontani a distanze abissali dalla propria cultura d’origine, dagli affetti e dalla propria amata terra.
Franco Brusati, valente scrittore di sceneggiatura e ottimo e fine regista,torna alla regia dopo quella perla sul tema dell’incomunicabilità che era stato I tulipani di Harlem, dirigendo così uno dei suoi otto film diretti dietro la macchina da presa, a sei anni da quel gioiello che sarà il malinconico Dimenticare Venezia.
Sceglie come protagonista della sua storia l’attore più versatile del cinema italiano, quel Nino Manfredi che, ciociaro di nascita, rappresenta la perfetta simbiosi tra recitazione e personaggio, con una resa della figura di Nino che resta una delle cose più belle della sua carriera e del cinema italiano in generale.
Il resto del cast serve solo da contorno, incluso il bravo Dorelli sacrificato nel ruolo del miliardario evasore poi suicida.
Diverse le sequenze indimenticabili nel film, a partire da quella già ricordata in cui Nino, che ha colorato i suoi capelli di biondo per integrarsi anche fisicamente con gli svizzeri che esulta al goal della nazionale italiana, in un momento di rivincita che ha del patriottico o quella amarissima del pollaio, sopratutto quella in cui Nino guarda fare il bagno nudi dei giovani nel laghetto la vicino.
Un film bellissimo e indimenticabile, che ebbe un gran successo sopratutto all’estero, dove milioni di emigranti ebbero modo di riconoscersi nella storia narrata e di identificarsi con lo straordinario personaggio di Nino.
Pane e cioccolata è un film di facile reperibilità e passa con una certa regolarità sulle tv commerciali.
Pane e cioccolata
Un film di Franco Brusati. Con Nino Manfredi, Paolo Turco, Gianfranco Barra, Tano Cimarosa, Ugo D’Alessio,Johnny Dorelli, Umberto Raho, Giorgio Cerioni, Anna Karina, Max Delys, Geoffrey Copleston, Francesco D’Adda, Federico Scrobogna, Nelide Giammarco, Manfred Freyberger Commedia, Ratings: Kids+16, durata 115′ min. – Italia 1973.
Nino Manfredi: Giovanni “Nino” Garofoli
Johnny Dorelli: industriale italiano
Anna Karina: Elena
Paolo Turco: Gianni
Ugo D’Alessio: il vecchio
Tano Cimarosa: Giacomo
Gianfranco Barra: il turco
Giacomo Rizzo: Michele
Giorgio Cerioni: ispettore
Francesco D’Adda: Rudiger
Geoffrey Copleston: Boegli
Federico Scrobogna: Grigory
Max Delys: Renzo
Umberto Raho: maître d’hotel
Nelide Giammarco: la bionda
Manfred Freyberger: lo svizzero sportivo
Regia Franco Brusati
Soggetto Franco Brusati
Sceneggiatura Franco Brusati, Jaja Fiastri, Nino Manfredi
Produttore Maurizio Lodi-Fe
Fotografia Luciano Tovoli
Montaggio Mario Morra
Musiche Daniele Patucchi
Scenografia Guido Patrizio e Luigi Scaccianoce
L’opinione di Dergio Buttironi tratta dal sito http://www.mymovies.it
Ottimo Manfredi (fate caso curiosamente abituato a girare film su treni e ristoranti ) ottimo anche Dorelli …Tutti bravi attori e comparse…. Un livello di merito ancora superiore va attribuito a Franco Brusati, il quale ha preso in mano una storia se vogliamo semplice, l’ha manipolata con tanta abilità, buon gusto, eccellente senso del ritmo e della misura… Ha saputo accompagniare lo spettore lungo tutto il film, giocando sempre sui contrasti I BUONI-I CATTIVI I RICCHI-I POVERI I BELLI-I BRUTTI penso che questa possa essere una chiave di lettura. Ha saputo mettere in evidenza il disagio del personaggio calato in una realtà a lui non congrua, alla ricerca continua ( e in un certo senso inutile) della propria identità…. Eccelente lungometraggio che voorremmo rivedere all’infinito, tipico di quei pochi prodotti cinematografici pregevoli. Non vorrei dimenticare le belle musiche di accompagniamemto, anch’esse ben miscelate… Che dire di più se non manifestare un po di tristezza, nel comprendere che film così non se ne fanno più. Basati sulla semplicita quotidiana ( senza effetti speciali) ma che trovano la loro forza comunicativa nella direzione, nella recita, nei tempi, nelle inquadrature, nel buon gusto in generale… Bei tempi, al termine della visione lo spettatore si sentiva a sua insaputa, magari, ma più ricco, questo era il GRANDE CINEMA….
L’opinione dell’utente Maso tratta dal sito http://www.filmtv.it
Brusati si ritaglia un posto d’onore al fianco dei grandi autori della commedia all’italiana con questo film amarissimo sull’immigrazione e le conseguenti umiliazioni a cui deve inchinarsi il protagonista, un Nino Manfredi intensissimo, immagine in carne ossa e rabbia di quell’italiano fuoriuscito dalla sua realtà difficoltosa e piombato in un’altra ancor più spietata in cui tutto è amplificato dalla discriminazione.
La trovata illuminante di Brusati è la pennellata surreale e quasi odisseica che colora la storia ma attenzione: le risate sono comandate dalla tristezza più profonda, la disperazione che affligge il povero Giovanni Garofoli le spinge fuori per scacciare via a pedate grosse lacrime di rassegnazione distillate nelle contorsioni del destino in cui inciampa sempre più pesantemente lungo il suo sfortunato cammino; molte di queste disavventure sono entrate nella antologia delle scene
indimenticabili del genere e di conseguenza della carriera dell’impagabile attore romano: la buccia d’arancia è una trovata istantanea che colpisce con la semplicità, mentre la celeberrima scena del goal di Fabio Capello è molto complessa a livello emotivo e tecnico, mi ha sempre entusiasmato l’idea di ripetere con dei primi piani la gioia ma anche il crollo emotivo del protagonista, la sequenza della famiglia che vive nel pollaio quasi deformata dal lavoro è surreale e disturbante allo stesso tempo e rasenta l’inserto favolistico, mentre di scottante attualità è il suicidio dell’industriale interpretato da Johnny Dorelli, disperata e profonda è invece l’esecuzione del pezzo “L’omo non è de legno” in cui la nostalgia per la terra d’origine e i propri cari sovrasta la voglia di distrarsi per un attimo dalla dura realtà di essere emigrato in Svizzera, nazione popolata da gente insensibile, intollerante e pure un pò stronza: Manfredi chiude da par suo l’amara sequenza con una frase emblematica che pesa come un macigno nonostante siano passati molti anni “E’ tutta la vita che ci fregano con la chitarra e il mandolino e ancora cantiamo”.
Brusati non si è più ripeteuto a questi livelli ma in nessun altro suo film ha avuto a disposizione un attore fuori categoria come Nino Manfredi e forse neanche una sceneggiatura tanto fantasiosa adagiata su un racconto di così sentita attualità per il periodo in cui il film uscì, mi viene da pensare che se procediamo con questi piccoli passi potrebbe essere attuale nuovamente.
Alla fine il buon Nino nazionale non sa neanche lui se crepare di fonduta e crauti o bucatini alla amatriciana.
L’opinione dell’utente ellerre tratta dal sito http://www.davinotti.com
Pilastro della commedia italiana, racconta con triste umorismo la storia di un emigrato italiano in Svizzera che, nonostante viva l’amara realtà dello straniero in cerca di lavoro, riesce comunque a salvaguardare una sua dignità al cospetto di altri nella sua stessa situazione. Il grande Nino Manfredi interpreta al meglio il ruolo. Anche i personaggi secondari sono condotti con maestria: Johnny Dorelli su tutti nella parte del milionario sull’orlo del collasso finanziario.
Girolimoni,il mostro di Roma
Roma, 31 marzo 1924.
Emma Giacomini,una bambina di 4 anni, viene rapita e sottoposta a sevizie da un bruto; verrà ritrovata la sera stessa a Monte Mario, con addosso i segni della brutale violenza subita ma ancora viva.
E’ da questo fatto di cronaca nera, realmente accaduto, che Damiano Damiani parte, nel 1972,per girare un film ispirato ad una serie di fatti di cronaca che sconvolsero l’Italia nel periodo tra il 1924 e il 1928, anno in cui cessarono gli abominevoli delitti che vennero collegati alla mano di Gino Girolimoni, un fotografo romano che venne accusato dei delitti e che invece era assolutamente,totalmente innocente.
Il film ripercorre quindi l’odissea del trentacinquenne romano (all’epoca del primo caso di pedofilia) attraverso una descrizione ambientale accurata anche se non storicamente aderente ai fatti.
Nino Manfredi
La vita del fotografo ( un tantino gaudente e donnaiolo) viene così mostrata in parallelo ai fatti storici, quindi agli avvenimenti che videro coinvolte altre cinque bambine che vennero stuprate e uccise.
Delitti che avvennero in un momento storico particolare, che cominciarono in quel 1924 denso di avvenimenti che portarono il nostro paese ad un ventennio di storia assolutamente drammatico, con gli inizi della dittatura fascista e, sempre nel 1924, la morte del deputato socialista Giacomo Matteotti, che di fatto segnò l’inizio della parte più violenta della storia del regime fascista.
Il 5 giugno 1924 scompare Bianca Carlieri di anni ( il triste delitto della Biocchetta), con conseguente sollevazione popolare sull’onda dell’emozione che tale fatto suscitò nell’opinione pubblica stessa.
Solo 5 giorni più tardi verrà ucciso Matteotti e in questo clima il regime fascista si trovò ad affrontare due emergenze di diversa portata storica ma dall’impatto enorme sull’opinione pubblica.
Il rinvenimento dei corpi provocò l’ira del Duce, attentissimo all’immagine di efficienza e di garantismo dell’ordine pubblico che Mussolini stesso amava dare alla sua politica.
Così la polizia fascista venne sguinzagliata alla ricerca del fantomatico pedofilo assassino, senza che le stesse forze di polizia cavassero un ragno dal buco.
Pressati così da vicino dal primo ministro, i capi della polizia si affannarono a cercare qualcuno che potesse avvicinarsi all’identikit dell’assassino; e lo individuarono nello sfortunato Gino Girolimoni, un agiato fotografo che aveva l’unica colpa di essere single, di amare la bella vita e di aver tentato di avvicinare una ragazzina dodicenne.
Costei lavorava presso una ricca signora, vero oggetto del desiderio dello scapolo romano; tanto bastò alla polizia per catturare l’inesistente mostro.
Il 2 maggio 1927 Girolimoni venne arrestato e la notizia venne letteralmente data in pasto ai giornali.
L’uomo non poteva essere responsabile del primo fatto di cronaca in quanto nel momento che avvenne era addirittura fuori Roma, ma alle solerti forze dell’ordine fasciste ciò non interessava.
Il colpevole era stato catturato e tanto bastava.
Inizia così per lo sfortunato Girolimoni un’odissea che si protrarrà per quasi un anno, quando l’uomo venne scarcerato per mancanza di indizi.
In realtà fu lo stesso giudice istruttore a chiedere l’assoluzione per non aver commesso il fatto, ma per Girolimoni questo fu l’inizio della fine.
Mentre i giornali dell’epoca avevano strombazzato il suo arresto, con titoloni in prima pagina, gli stessi non dedicarono che quattro righe sul fondo dei giornali alla sua liberazione.
L’uomo finì ai margini della società, con ancora addosso l’ombra infamante del sospetto, nonostante fosse totalmente innocente; sopravvisse facendo il ciabattino o riparando biciclette, ma divenne poverissimo e si spense nel più assoluto anonimato nel 1961.
Ritornando al film, Damiani ricostruisce da maestro le atmosfere della Roma del ventennio, inclusa quella da caccia all’untore che sconvolse la città nei quattro anni citati. Grande la scelta dell’attore principale, quel Nino Manfredi che a ben vedere può essere considerato l’attore italiano più completo di sempre.
Memorabile la sua interpretazione, sofferta, dell’uomo che si vede rinfacciare ingiustamente una colpa infamante e che passa come in un incubo da belle donne (e bella vita) all’inferno del carcere e al sospetto che comunque accompagnerà la sua vita.Tutti bravi gli altri attori, con menzione particolare alla bellissima Angela Covello che interpreta una modella.
Una vicenda, quella di Girolimoni, da prendere come esempio per illustrare una delle tante nefandezze del ventennio fascista, un periodo storico che i revisionisti tentano inutilmente di abbellire quasi fosse un’epoca di prosperità e non viceversa un’epoca segnata dal sopruso e dalla violenza.
Il film è disponibile in versione completa (anche se di qualità non eccelsa) a questo indirizzo:http://youtu.be/FcW6znsyt3A
Girolimoni, il mostro di Roma
Un film di Damiano Damiani. Con Nino Manfredi, Guido Leontini, Orso Maria Guerrini, Anna Maria Pescatori, Mario Carotenuto, Silvio Bagolini, Vittorio Duse, Arturo Dominici, Umberto Raho, Stefano Oppedisano, Eleonora Morana, Fortunato Arena, Luigi Casellato, Luciano Catenacci, Elio Zamuto, Gabriele Lavia, Claudio Nicastro, Renata Zamengo, Angela Covello Drammatico, durata 125′ min. – Italia 1972.
Nino Manfredi: Gino Girolimoni
Gabriele Lavia: Tarquinio Tirabosco
Eleonora Morana: la moglie di Tarquinio
Orso Maria Guerrini: Gianni Di Meo, il giornalista
Guido Leontini: il brigadiere Apicella
Mario Carotenuto: il vetturino Sterbini
Laura De Marchi: la domestica degli osti Marcocci
Luciano Catenacci: Benito Mussolini
Arturo Dominici: l’ingegnere Jaccarino
Ennio Antonelli: l’amante della madre di ‘Biocchetta’
Luigi Antonio Guerra: il popolano reticente alla firma della denuncia
Nello Pazzafini: Fiaccarini, il preparatore dell’obitorio
Regia Damiano Damiani
Soggetto Damiano Damiani, Fulvio Gicca Palli, Enrico Ribulsi
Sceneggiatura Damiano Damiani, Fulvio Gicca Palli, Enrico Ribulsi
Produttore Bruno Todini
Fotografia Marcello Gatti
Montaggio Nino Baragli
Musiche Riz Ortolani
Scenografia Umberto Turco
Costumi Mario Ambrosino
Due foto di Gino Girolimoni,la vera vittima dell’affaire Girolimoni
Due prime pagine, vergognose, in cui si parla di mostro catturato
Brutti sporchi e cattivi
Un’umanità brutta, sporca e cattiva, che vive emarginata in una baraccopoli ai margini della metropoli in condizioni di degrado fisico e morale, in cui tutti sono pronti a far tutto pur di galleggiare in un’esistenza anonima e segnata dalla miseria e dall’abbrutimento
Un microcosmo popolato da accattoni e ladri, puttane e truffatori, un’umanità segnata anche fisicamente da tratti somatici spesso ripugnanti, in cui vige una promiscuità in cui non c’è alcuna regola morale, nella quale fioriscono rapporti incestuosi e rapporti proibiti tra e con minorenni; questo è il quadro d’assieme del film di Scola, che indica proprio nel titolo le caratteristiche specifiche di questa massa amorfa di individui che sono per l’appunto brutti sporchi e cattivi.
Siamo alla periferia di Roma, in un campo densamente popolato e strutturato a macchia di leopardo con costruzioni fatiscenti in cui vivono, in condizioni assolutamente proibitive quelli che sono gli emarginati e i reietti della società civile; fra essi spicca la famiglia allargata di Giacinto Mazzatella, un emigrato pugliese privo di un occhio dal carattere dispotico, che alloggia in una baracca in cui vivono due dozzine di persone.
Promiscuità nella baracca
Tra esse ci sono la consorte di Giacinto, la mamma, i figlie le figlie, le nuore che occupano come bestie la cadente costruzione; Giacinto non si fa scrupoli di trattare tutti come animali, assolutamente indifferente a qualsiasi forma di morale. Lo vedremo infatti circuire sua nuora, portarsi a casa una prostituta e imporla come sua compagna alla moglie e al parentame,usare la sua cinica a abominevole morale per dominare e tiranneggiare la pletora di persone che lo circonda, tutti in qualche modo costretti a ruotare attorno alla sua figura.
Giacinto sa di poter dominare gli altri in virtù del possesso di un milione di lire, somma che gli è stata riconosciuta come indennizzo per aver perso un occhio; quel milione ovviamente fa gola a tutti e lui lo nasconde nei luoghi più improbabili, fino a scordarsi talvolta il nascondiglio in cui lo ha messo.
Nino Manfredi
Allora Giacinto diventa ancor più disumano se vogliamo; la sua furia si abbatte su tutti, fino al momento in cui ritrova il denaro e torna quindi ad una dimensione meno diabolica.
Il precario equilibrio della gente della barracca si dissolve il giorno in cui porta a casa Iside, una formosa prostituta napoletana con la quale si è dato alla bella vita, iniziando a dilapidare il suo piccolo gruzzolo.
Per la famiglia è un’onta intollerabile; non è il gesto in se a scatenare le ire, perchè ben altre cose accadono in quella succursale d’inferno che è la baracca, ma è lo spreco di denaro la molla scatenante, perchè su quel denaro ci fanno affidamento un pò tutti.
Così, con un complotto di famiglia grottesco e tragico si arriva alla decisione finale; Giacinto deve morire.
Gli avvelenano la pasta, ma il piccolo Lucifero si salva, perchè è scaltro, perchè assomiglia ad un topo, uno di quelli che infestano il campo; così, conscio di esser stato avvelenato con un topicida, Giacinto si salva ingerendo acqua salata e vomitando il micidiale intruglio.
La sua vendetta scatta puntuale: vende la baracca ad un altro gruppo di disperati, acquista una vecchia auto e si gode la scena dell’arrivo degli emigrati che si scontra con la sua famiglia. Poi da fuoco alla barracca; adesso le famiglie senza casa sono due, ma la soluzione c’è.
E Giacinto torna ad occupare il suo ruolo di re della corte dei miracoli; si fa nascondere il denaro nel braccio che adesso porta ingessato e giganteggia dall’alto del ritrovato potere.
Brutti sporchi e cattivi è un film grottesco all’eccesso, cattivissimo e nichilista, in cui si muove un’umanità sperduta e senza bussola, in cui non c’è un solo personaggio che non risenta della situazione di degrado morale in cui vive.
E la degradazione la avvertiamo in quasi tutte le scenette costruite dal regista, quell’Ettore Scola che con questo film raggiunge le vette della sua poetica; siamo di fronte ad un piccolo capolavoro che riesce nell’impresa di capovolgere gli stereotipi imposti dalla morale corrente, in cui i poveri sono solamente sfortunati protagonisti della vita sociale.
In questo film si ribaltano le prospettive, perchè affiora l’altra faccia di un’umanità fatta di poveri che non sono solo tali dal punto di vista economico, ma lo sono dal punto di vista etico e morale, una massa amorfa priva di dignità e regole, di sentimenti e sopratutto un’umanità istintiva preda delle peggiori pulsioni.
Scola dipinge quindi un sottoproletariato che assomiglia a quello pasoliniano solo per l’habitat nel quale si muove; non ha speranze, questo popolo di disperati e non le ha perchè è marcio dentro, perchè è cattivo di suo, perchè ha un comportamento asociale e anarchico.
Non ci sono leggi che tengano, non c’è armonia o pulizia morale in questo girone dantesco; nella barracca ( e il discorso lo si può allargare a tutto il campo) si vive assieme per opportunità personale, perchè non c’è altro posto in cui ripararsi, mangiare e espletare i propri bisogni.
Emblematica a tal fine la figura della ragazzina che riempie l’acqua per la famiglia; è l’immagine di apertura e la vediamo guardare, con occhi sognanti e ancora se vogliamo puri in direzione della città, che sembra lontana anni luce dall’alto della cupola di san Pietro. La rivedremo nelle scene finali andare ancora a riempire l’acqua, ma questa volta incinta.Un’immagine desolante, ancora stagliata con la città in lontananza, assolutamente indifferente ai drammi di gente che vive esistenze al più infimo livello animalesco.
Scola smonta quindi un mito, quello del povero sfortunato e ne fa un mito all’opposto, creando le condizioni per la nascita di un’altra frazione di sottoproletariato, quello senza speranza e senza futuro.
Un mondo in cui vige una legge della giungla ancor più crudele, perchè popolata da esseri pensanti eppure allo stesso tempo preda degli istinti più ciechi.
Quando nel 1976 il grandissimo regista di Trevico mette mano alla sceneggiatura di questo film è reduce dal successo di uno dei capolavori del cinema italiano, quel C’eravamo tanto amati in cui aveva fatto capolino tutta l’amarezza e il cinismo di un uomo che vede e analizza come farebbe un patologo con un cadavere la vita e la società; è il momento più fecondo e profondo del regista, che di li a poco avrebbe consegnato alla storia del cinema altri capolavori come Una giornata particolare, La terrazza e La famiglia.
Beryl Cunningham
Parte della critica è stata poco indulgente con Scola e questo non deve sorprendere; i critici spocchiosi, abituati a vedere film incomprensibili salutati come manifesto del mondo moderno poco potevano capire di un’ars poetica così amara e cinica, che per certi versi tanto assomiglia a quella di Monicelli, pur essendo naturalmente diversa e di diverso respiro.
Brutti sporchi e cattivi è un film disturbante, amaro e grottesco, cattivo fin nel midollo ed è sopratutto la titanica prova d’attore di Nino Manfredi, che interpreta il satanico Giacinto con una compenetrazione nel personaggio assoluta e totale.
Abbiamo conosciuto bene l’attore ciociaro, tanto da sapere perfettamente che lui umanamente è agli antipodi dal personaggio interpretato; eppure quella caratterizzazione perfetta, quell’aria luciferina, quel suo essere personaggio dannato e senza speranza è così trasfigurato da farci chiedere legittimamente se in fondo nell’animo dell’attore non albergasse una piccola parte di quel Giacinto così splendidamente interpretato.
La prostituta Iside
Perchè Manfredi/Giacinto alla fine sembrano un tutt’uno; e poichè abbiamo conosciuto il Manfredi sornione e ironico, allegro e gentile gli facciamo credito di una capacità interpretativa straordinaria, in questo ruolo che sarà uno dei più intensi realizzati in una carriera straordinaria.
E’ proprio con Scola che Manfredi raggiunge l’apice della sua abilità, della sua capacità di creare personaggi straordinariamente reali.
Ed è con questo film che l’attore ciociaro può, a pieno titolo, fregiarsi dell’immagine figurata di primo degli attori del nostro cinema.
L’avvelenamento di Giacinto
Tornando al film è difficile scegliere scene rappresentative dello stesso, visto il percorso lineare dello stesso, la discesa agli inferi di questo gruppo di umani così poco umani; a dover scegliere obbligatoriamente segnalerei la scena iniziale e quella finale che ho citato con protagonista la ragazzina che perde la purezza iniziale proprio in virtù del lassismo morale che impera nella barracca, la scena del congresso carnale tra uno dei figli e la cognata avvenuto all’interno della barracca stessa mentre tutti dormono e segnata dalla frase “Ahò, la faccia da mignotta ce l’hai, er fisico pure. nun vedo perché nun dovresti esse all’altezza della situazione“, l’oltraggioso rapporto tra uno dei fili e Iside (la prostituta) anch’esso caratterizzato dal fulminante assunto “Sono uno di famiglia“, il primo incontro tra Giacinto e Iside sotto un gigantesco cartellone pubblicitario, uno dei totem della civiltà dei consumi oppure la scena più grottesca e cattiva del film, il momento in cui buona parte della famiglia accompagna la vecchia nonna a riscuotere la pensione, un corteo di straccioni che invade le strade di una Roma indifferente e repellente.
L’incendio della baracca
Un film contestato, a volte poco capito e che ha diviso come in pochi casi il pubblico e la critica; segno della vitalità, della forza dirompente di una pellicola capace di generare discussioni violente, riflessioni e capace di sovvertire canoni precostruiti.
Un viaggio all’inferno e nell’inferno, dal quale siamo fuori, fortunatamente.
Forse.
Brutti sporchi e cattivi
Un film di Ettore Scola. Con Nino Manfredi, Marcella Michelangeli, Marcella Battisti, Francesco Crescimone, Silvia Ferluga, Zoe Incrocci, Adriana Russo, Franco Marino, Ennio Antonelli, Beryl Cunningham, Ettore Garofalo, Maria Bosco Commedia, durata 115′ min. – Italia 1976.
Nino Manfredi: Giacinto Mazzatella
Francesco Anniballi: Domizio
Ennio Antonelli: l’oste
Marcella Battisti: Marcella Celhoio
Maria Bosco: Gaetana
Giselda Castrini: Lisetta
Francesco Crescimone: il commissario
Beryl Cunningham: la baraccata di colore
Alfredo D’Ippolito: Plinio
Giancarlo Fanelli: Paride
Silvia Ferluga: la maga
Marina Fasoli: Maria Libera
Ettore Garofolo: Camillo
Zoe Incrocci: la madre di Tommasina
Franco Marino: padre Santandrea
Marco Marsili: Vittoriano
Franco Merli: Fernando
Marcella Michelangeli: impiegata postale
Clarisse Monaco: Tommasina
Linda Moretti: Matilde
Luciano Pagliuca: Romolo
Giuseppe Paravati: Tato
Aristide Piersanti: Cesaretto
Silvana Priori: Moglie di Paride
Giovanni Rovini: la nonna Antonecchia
Adriana Russo: Dora
Maria Luisa Santella: Iside
Mario Santella: Adolfo
Assunta Stacconi: Assunta Celhoio
Regia Ettore Scola
Soggetto Ruggero Maccari, Ettore Scola
Sceneggiatura Ruggero Maccari, Ettore Scola
Produttore Carlo Ponti
Fotografia Dario Di Palma
Montaggio Raimondo Crociani
Effetti speciali Fratelli Ascani
Musiche Armando Trovajoli
Scenografia Luciano Ricceri, Franco Velchi
Costumi Danda Ortona
Trucco Francesco Freda
I picari
Su una galera che naviga per rotte sconosciute facciamo conoscenza con due personaggi pittoreschi: Lazzarillo de Tormes e Guzman de Alfarache.I due, legati allo stesso remo, si raccontano le vicissitudini che li hanno portati a condividere lo stesso destino. Lazzarillo de Tormes, nato in una famiglia numerosa e poverissima, con una madre costretta a prostituirsi per procacciare cibo ai numerosi figli, è stato ceduto dalla famiglia ad un mendicante cieco e furbissimo.L’uomo ha insegnato a Lazarillo tutti i trucchi per sopravvivere di espedienti e carità, ma alla fine viene beffato dal giovane aiutante, stanco delle sue angherie e della sua avarizia. Guzman de Alfarache non ha conosciuto la miseria, perchè suo padre era un artigiano di valore, un orologiaio molto apprezzato ma con un vizio, quello del gioco.
Esperto giocatore di dadi, l’uomo viene sorpreso a barare e finisce così impiccato.Accolto in una famiglia nobile come “coadiuvante pedagogico”, Guzman scopre a sue spese di essere caduto dalla padella nella brace.Il suo compito infatti consiste nel subire le punizioni in loco del rampollo ignorante e maleducato della nobile famiglia.Stanco dei soprusi, Guzman scappa; così ritroviamo i due avventurieri legati al remo della galera, che li sta trasportando verso un oscuro destino.
Claudio Bisio, il capo degli ammutinati
Ma il caso vuole che l’equipaggio dei galeotti di bordo decida di ammutinarsi e cosi dopo rocamboleschi colpi di scena Lazarillo e Guzman vengono scaraventati fuori dalla nave e approdano miracolosamente su una spiaggia.Dopo un’altra avventura, in cui riescono con l’inganno a farsi liberare da un fabbro dalle catene che li imprigionavano, i due avventurieri inseguiti dalle locali guardie finiscono per dividere le proprie strade.Cosi Guzman va a servizio di un nobile ridotto in miseria, che verrà incarcerato per debiti mentre Lazarillo più fortunato diventa un attore, lavoro grazie al quale può permettersi di girare con un ricco abito utilizzato per le scene.I due amici si reincontrano e grazie all’abito di Lazarillo truffano un gioielliere e con i proventi della truffa acquistano una prostituta con l’intenzione di cederla di volta in volta in cambio di denaro.
Ma Rosario, la prostituta, si concede solo a chi le garba così alla fine diventa motivo di discussione tra i due amici con conseguente lite finale e nuova separazione dei loro destini.Che però sono fatalmente destinati a incrociarsi: Lazarillo diventa assistente del boia e un giorno si trova davanti l’amico Guzman condannato a morte per omicidio.Con un ennesimo colpo di teatro, Lazarillo riesce a far liberare Guzman, facendo impiccare in vece sua un povero ladro, mentre allo stesso Guzman Lazarillo taglia la mano, pena riservata ai ladri.Nel finale, troviamo ancora una volta i due amici impegnati nel furto di latte da un pastore che pascolava il suo gregge di pecore.
A distanza di 21 anni dal capolavoro L’armata Brancaleone, Mario Monicelli riprende l’atmosfera del film medioevale trasportandolo in un’ambientazione spagnoleggiante di ispirazione picaresca, prendendo spunto dal romanzo di autore ignoto Lazarillo De Tormes, ambientato nel 1500. Questa volta i protagonisti non sono gli straccioni dal linguaggio ameno che attraversano un’Italia ignorante e popolata da gente superstiziosa, bensi due avventurieri che si imbarcano in imprese grottesche, quasi tutte condannate a fallire miseramente.I due protagonisti, Lazarillo e Guzman, hanno appreso dalla strada l’arte di arrangiarsi e tentano di mettere a frutto quanto imparato, sempre però con alterne fortune.
Non sono affatto due anime candide, come per esempio era il Brancaleone da Norcia protagonista dell’Armata Brancaleone, quanto piuttosto due simpatici gaglioffi che la vita ha costretto ad un’esistenza da vagabondi.Se per Lazarillo la scuola del vecchio mendicante ha avuto una funzione preminente facendolo diventare furbo e scaltro, per Guzman la morte ingloriosa del padre ha funzionato solo come detonatore di un’improvvisa libertà che il giovane non ha saputo ne potuto sfruttare, finendo per incontrare Lazarillo al remo di una galera che li conduce verso una sorte ignota.
I due compagni finiscono così per attraversare in lungo e in largo la Spagna, sempre inseguiti o dalle guardie o perseguitati da un destino infausto. E si imbattono nel corso della loro vita, in personaggi altrettanto “sfiagti”, come il Marchese Felipe de Aragona incontrato da Guzman che per poter mettere sotto i denti qualcosa è costretto a fare due volte la comunione o come il mendicante cieco che diventa la guida cattiva e cinica di Lazarillo. La galleria dei personaggi incontrati dal duo è ampia e variegata e passa dal precettore che picchia Guzman in loco del pargolo nobile ciuco e maleducato fino al gioielliere che i due truffano prima di venire truffati a loro volta da un vecchio ruffiano che rifila loro la bella Rosario, prostituta che va solo con chi piace a lei.
Vittorio Gassman è il Marchese Felipe de Aragona
L’allestimento artistico del film, ovvero il cast che lavora in questa pellicola è di assoluto prim’ordine; si va da Nino Manfredi, cieco e truccato quasi come nel film di Scola Brutti sporchi e cattivi che da vita ad un personaggio a tratti ributtante, ovvero il mendicante spilorcio e cattivo che però funziona da guida verso la vita dura del picaro per il giovane Lazarillo, passando per Vittorio Gasmann sobrio e dolente nei panni del nobile Felipe de Aragona, che alle guardie incaricate di arrestarlo presenta i suoi averi, una brocca, una ciotola e un pitale.Naturalmente poi ci sono i due veri protagonisti: Enrico Montesano nel ruolo di Lazarillo e Giancarlo Giannini in quello di Guzman.
A sinistra Enrico Montesano, Lazarillo
Entrambi lavorano bene mostrando un affiatamento che nell’economia del film si rivelerà prezioso; nessuno dei due tenta di prevalere sull’altro e lo spettacolo è assicurato. Merito anche del resto del cast, nel quale troviamo attori del calibro di Paolo Hendel, il precettore leggermente sadico del nobile rampollo e Claudio Bisio, il capo degli ammutinati della galera, il grande Bernard Blier nel ruolo del magnaccia e Giuliana De Sio in quella della prostituta Rosario, che mostra abbondantemente le sue grazie il che è davvero un bel vedere. C’è spazio anche per Vittorio Caprioli nel ruolo del bandito Mozzafiato e per Enzo Robutti in quello del comandante della galera che subirà l’ammutinamento.Segnalazione per la particina di Sabrina Ferilli che interpreta la figlia del magnaccia che vende Rosario. Se I Picari non è un capolavoro lo si deve solo ad una certa discontinuità del film, che manca di omogeinità e che sembra più affidato a degli sketch improvvisati dal duo Montesano- Giannini che ad un percorso più organico della pellicola.
Nino Manfredi, il mendicante cieco
Tuttavia il maestro Monicelli sorprende ancora con un opera affascinante e divertente in maniera misurata, alla luce sopratutto del mezzo fiasco di critica e di pubblico rimediato con Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1984) che farà da preludio a quel gioiello che è Speriamo che sia femmina (1986), che sarà il lavoro precedente a questo film.Monicelli è un maestro, un grande regista, capace di amalgamare alla perfezione i cast pur in presenza di soggetti difficili come il romanzo Lazarillo De Tormes, dal quale il regista si discosta parecchio. Il romanzo infatti, narrato in prima persona dal protagonista, racconta la vita errabonda del giovane Lazzarillo nella Spagna di Carlo V prima di accasarsi felicemente con la serva di un vinaio, che dividerà con il vinaio stesso. Monicelli introduce quindi il personaggio di Guzman, che appare leggermente meno furbo e cinico di quello di Lazarillo, forse perchè di estrazione piccolo borghese la dove l’amico viene dal proletariato più povero e indigente.Questo contrasto lo si avverte nel film, e nel finale sarà proprio Guzman a pagare il prezzo più alto, sfuggendo all’impiccagione ma non al taglio della mano, operato dallo scaltro Lazarillo che però così gli salverà la vita.In definitiva, un buon film che mostra come il cinema italiano degli anni ottanta vivesse purtroppo solo delle performance dei grandi registi come Monicelli, probabilmente il più grande interprete della cinematografia italiana.
I picari, un film di Mario Monicelli. Con Giancarlo Giannini, Enrico Montesano, Giuliana De Sio, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Bernard Blier, Paolo Hendel, Cristina Marsillach, Sabrina Knaflitz, Maria Luisa Armenteros Gonzales, Maria Casanova, Juan Carlos Naya, Claudio Bisio, Sabrina Ferilli, Blanca Marsillach, Vittorio Caprioli, German Cobos, Sal Borgese, Aldo Sambrell, Enzo Robutti, Jesus Guzman, Donatella Ceccarello. Commedia, durata 128 min. – Italia 1987.
Giancarlo Giannini: Guzman de Alfarache
Enrico Montesano: Lazarillo de Tormes
Vittorio Gassman: Marchese Felipe de Aragona
Nino Manfredi: il mendicante cieco
Giuliana De Sio: la prostituta Rosario
Bernard Blier: il magnaccia
Paolo Hendel: il precettore
Vittorio Caprioli: Mozzafiato
Enzo Robutti: Capitano della nave
Blanca Marsillach: Ponzia
Maria Casanova: Donna incinta
Juan Carlos Naya: Venditore di ceramiche
Claudio Bisio: il capo dei rematori ammutinati
Salvatore Borghese: il nostromo
Sabrina Ferilli: giovane prostituta figlia del protettore
Regia Mario Monicelli
Soggetto Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Suso Cecchi d’Amico, Mario Monicelli, dal romanzo spagnolo Lazarillo de Tormes (1554)
Sceneggiatura Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Suso Cecchi d’Amico, Mario Monicelli
Produttore Giovanni Di Clemente
Casa di produzione Clemi Cinematografica, Producciones Cinematograficas Dia
Distribuzione (Italia) Warner Bros. Italia
Fotografia Tonino Nardi
Montaggio Ruggiero Mastroianni
Musiche Lucio Dalla e Mauro Malavasi
Scenografia Enrico Fiorentini
Costumi Lina Nervi Taviani
Trucco Manuel Martín, Mario Scutti
Le recensioni appartengono al sito http://www.davinotti.com
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
Film apprezzabile per l’ottima (e verosimile) resa ambientale, scenografica e di costume dell’italia picaresca del ‘500, affidata alla maestria e al grande mestiere di Mario Monicelli in una delle sue ultime grandi produzioni cinematografiche. Il film è meno valido sul versante della sceneggiatura fatta più di spezzoni e singoli episodi e poco organica, difetto tuttavia che si tende a dimenticare a causa delle performances molto buone di gran parte del cast.
Due picari vagano per la Spagna combinandone di tutti i colori. A vent’anni da Brancaleone, Monicelli torna a filmare un’epoca storica reinventata, con immutato gusto della rivisitazione e spirito guittesco. Qui però l’invenzione non va oltre la serie di sketch comici e le storielle da commedia all’italiana trasferita in costume. Insomma, operazione non riuscita in un film troppo lungo e senza nerbo, che ha l’unico pregio di scorci visivi del tardo 500 spagnolo. Il resto è buon mestiere senza anima.
Con tutti questi attori, guidati da un valido regista, ci si poteva aspettare di più. Il film non è male, ma non tutto funziona (la parte con la De Sio, per quanto generosamente svestita, è un po’ troppo tirata); e nonostante l’indiscussa bravura di Giannini e Montesano, la pellicola finisce per trascinarsi un po’, anche se ha i suoi buoni momenti (il mendicante Manfredi, la fregatura dei cannoli e il pappone a gestione familiare). Sicuramente vedibile, ma poteva essere meglio.
Forse l’ultimo grande film di un grande regista. Ottima prova di Montesano e Giannini, ma sarebbe da citare tutto il cast… Monicelli riesce a dare l’idea di un intero periodo, tra miseria, fame e guerra, non dimenticandosi però di far ridere con zampate di quelle che si ricordano. Infatti la difficile miscela tra le parti “serie” e quelle più prettamente da commedia all’italiana è molto ben riuscita. Sicuramente un film da vedere.
Ma Lazzarillo de Lormes non era spagnolo? E allora perché si senton diversi mortacci? Una coppia di attori in buona vena, ma il film è di quelli della senilità di vari autori; cioè, si sente odore di set e si vede che le comparse son comparse. Riciclata la gag delle paste de Il mattatore (qui son cannoli). La De Sio sfodera un derrière da urlo, ma dura poco. Un film stanco, riscattato da qualche guizzo simpatico.
La confezione è notevole con i costumi, le scenografie e l’ambientazione curatissimi. Quando apriamo il pacchetto però ci accorgiamo che dentro non c’è molto oltre alle disavventure seriali dei due protagonisti che, peraltro, tra loro si sposano abbastanza bene. I flashback iniziali servono solo a proporci un Manfredi cieco mendicante e l’Hendel precettore manesco e a conti fatti di tutto il film quello che resta di più è la comparsata di Gassman nobile decaduto. Tanto fumo ma poco arrosto…
L’ottima ricostruzione storico-scenografica ed una trama divertente e non banale fanno di questo film uno degli ultimi grandi film di Monicelli. Buona parte del merito va sicuramente allo splendido cast che, oltre alla coppia di protagonisti, trova nella comparsata di Gassmann uno dei suoi momenti più felici.
Buon film di Mario Monicelli. Ciò in cui rende di più è nella perfetta ricostruzione di costumi, luoghi e atmosfere del 500; per quanto riguarda la sceneggiatura, ci sono alti e bassi, c’è poco d’autore e molto da commedia italiana (specie nelle scene con la prostituta); tra i furtarelli e qualche buona gag i ritmi sono sostenuti e nel complesso si lascia seguire fino alla fine per la bravura dell’ampio e vasto cast (Montesano e Giannini sono splendidi, ma al pari è anche Gassman).
Il film è ottimo per alcuni spunti, ma sopratutto per un cast veramente all’ altezza; la mano di Monicelli è sicura, vigorosa ed esperta, la trama ammiccante ma sincera, senza sbavature. Gassman è ben trattenuto, Giannini giusto, la De Sio splendida prostituta.