Un borghese piccolo piccolo
Nel 1981 Franco Battiato,cantautore siciliano,compone Bandiera bianca;nel brano ci sono alcuni passi che sembrano riecheggiare la trama del film di Monicelli,Un borghese piccolo piccolo.
“Mr. Tamburino non ho voglia di scherzare. rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare” o anche “Quante squallide figure che attraversano il paese com’è misera la vita negli abusi di potere“o ancora “Ho sentito degli spari in una via del centro quante stupide galline che si azzuffano per niente” sono perifrasi della pellicola di Monicelli,il de profundis personale del grande regista nei confronti della commedia all’italiana,quel filone florido della cinematografia italiana che aveva disegnato un’Italia profondamente diversa da quella dipinta dallo stesso regista
in tante commedie graffianti ma sostanzialmente solo ironiche sul “paese che non c’è” o sul “paese senza memoria” raccontato da Sciascia.
Siamo nel 1977,l’aria è bruma,anzi plumbea.
Non a caso siamo negli anni di piombo,in un paese dilaniato che ha perso la sua innocenza già da un decennio,con un boom economico ormai solo nella memoria e in preda ad una crisi morale e culturale senza precedenti.
Quasi avesse perduto ogni speranza sugli italiani (ma anche sull’umanità,ahimè),Monicelli consegna alla cinematografia un’opera crudele e senza speranza,in cui tutti i gangli del consesso civile sembrano incancreniti,preda di metastasi diffuse,un paese senza bussola e alla deriva,moralmente e umanamente raso al suolo.
Non si salva nulla,in Un borghese piccolo piccolo.
Il gatto a nove code di Monicelli sferza il sociale,il privato,il politico;è un film anticlericale ( il prete parla di unica speranza dell’umanità attraerso la morte) ma principalmente è un film nichilista.
L’italiano medio,il borghese piccolo piccolo (due aggettivi dequalificanti a significare la nullità umana del personaggio) esce a pezzi da questo ritratto al vetriolo degli italici vizi;un padre che elargisce consigli qualunquistici “Pensa a te, Mario, pensa solo a te! Ricordati che in questo mondo basta fare sì con gli occhi e no con la testa, che c’è sempre uno pronto che ti pugnala nella schiena“,che ricorre al servilismo più abietto pur di realizzare i propri sogni di uomo fallito portando il proprio figlio (poco più che un inetto) ad affiancarlo nel lavoro.
Le speranze di ogni padre si sublimano in senso negativo in un uomo che non insegna al proprio figlio il rispetto verso se stesso ma lo porta drammaticamente ad essere un’ameba nella società,un altro valido (invalido) rappresentante di quella maggioranza silenziosa
che nel decennio settanta assistette immobile alla disgregazione del tessuto sociale.
C’è spazio per un altro carcinoma mortale della società,quella massoneria responsabile di nefandezze senza fine che nel 1981 si scopri aver metastatizzato tutte le componenti più importanti della società;tutti ricorderanno la loggia P2,con i suoi iscritti che appartenevano a tutte le categorie cardine,dall’esercito alla magistratura,dall’imprenditoria al giornalismo,alla cultura.
Monicelli questo non lo sa ma sferza senza pietà.
Non c’è un solo aspetto della vita civile che non venga brutalizzato,non c’è nulla e nessuno che possa essere salvato.
La trama:
la vita di Giovanni Vivaldi,grigio travet impiegato dello stato ruota attorno alle aspettative che nutre per suo figlio Mario,un giovane da poco diplomato.
Mario è un ragazzo qualsiasi,senza particolari doti;compiace la volontà di suo padre perchè in realtà non ha ambizioni se non quella di assecondare Giovanni,ormai vicino alla pensione e che sogna di poterlo far assumere al ministero.
Per far ciò Giovanni non esita a far quanto di più basso può un uomo;arriva a strisciare ai piedi dei dirigenti superiori,non esita a farsi massone durante una cerimonia al limite del farsesco e con l’aiuto del dottor Spaziani alla fine riesce a sapere la traccia del tema del concorso.
Ma il giorno fatidico in cui finalmente il suo Mario si appresta a superare la prova,i due si trovano coinvolti in una sparatoria e Mario muore.
La vista del figlio riverso sull’asfalto,la contemporanea malattia della moglie che non supera lo choc lo portano sulle soglie della follia.
Chiamato dalla polizia per un riconoscimento,Giovanni fa finta di non identificare l’omicida del figlio e da quel momento si trasforma in un implacabile giustiziere.
Catturato con uno stratagemma il giovane assassino,lo trasporta in un capanno e lo sevizia fino alla morte,atroce spettacolo al quale fa assistere anche la moglie…
Un borghese piccolo piccolo esce nel 1977,nel periodo storico che ho descritto.
Non c’era molta voglia di ridere,in quei tempi.
Inflazione a due cifre,terrorismo diffuso,crisi economica;l’Italia è appena uscita dalla crisi petrolifera che aveva disastrato l’economia,dalle domeniche a piedi,dall’emergenza colera e sta per avviarsi alla parte finale degli anni di piombo,che culmineranno l’anno successivo con il rapimento dell’onorevole Aldo Moro.
Non ride nemmeno Alberto Sordi,che pure fino ad allora era stato il massimo rappresentante cinematografico dell’italietta,di quel paese dai tanti vizi e dalle poche virtù che l’attore romano aveva messo alla berlina fino ad allora.
E disegna un personaggio che ha fatto della mediocrità uno stile di vita.
Un personaggio che non ispira alcuna simpatia,verso il quale non si prova pietà.
Forse perchè vediamo realizzati in lui molti dei nostri stili di vita,molte delle nostre debolezze.
Sordi giganteggia creando visivamente un personaggio sconfitto,che abiura anche ai principi in cui crede;è un cattolico che diventa un massone,un cattolico che arriva ad uccidere dopo aver seviziato la sua vittima,colpevole certo ma verso la quale non ha la minima pietà che pure dovrebbe essere insita nella sua fede.
Questo principio,violato da Giovanni,lo ritroviamo nell’omelia del prete “…quegli uomini che mangiano,dormono,bevono,si accoppiano.defecano e poi vanno all’altro mondo,soltanto chi come noi è costretto ogni giorno ad ascoltare nel confessionale i racconti che gli uomini fanno delle loro sporcizie,delle loro nequizie,può esprimere un parere sul genere umano,sulla futilità delle cose terrene,degli stati,dei re,sulla vita nascosta dentro le case,se io dovessi dare un mio giudizio complessivo, emettere una sentenza io volentieri invocherei il diluvio universale ed emetterei una sentenza inappellabile di morte generale”
E’ l’apoteosi del nichilismo.
Un film come detto all’inizio,crudele.
Non c’è un solo personaggio che si salvi in questo film.
Si pensi al dottor Spaziani,interpretato dal solito grande Romolo Valli,che riceve Giovanni mentre si sta facendo cadere dai capelli la abbondante forfora!
Un film che purtroppo sembra oggi riproporre tematiche tornate di grande attualità…
Per chi volesse vedere il film,c’è una versione di discreta qualità a questo indirizzo: http://www.dailymotion.com/video/x5vhnf5
Un borghese piccolo piccolo
Un film di Mario Monicelli. Con Shelley Winters, Alberto Sordi, Vincenzo Crocitti, Romolo Valli, Pietro Tordi, Mimmo Poli, Renato Romano, Roberto Antonelli, Ettore Garofalo, Paolo Paoloni, Renato Scarpa, Enrico Beruschi, Renato Malavasi, Francesco D’Adda, Ettore Garofolo, Renzo Carboni, Marcello Di Martire, Edoardo Florio Drammatico Durata 122 min. – Italia 1977
Alberto Sordi: Giovanni Vivaldi
Shelley Winters: Amalia Vivaldi
Romolo Valli: Dott. Spaziani
Vincenzo Crocitti: Mario Vivaldi
Renzo Carboni: Assassino
Enrico Beruschi: Cameriere
Renato Scarpa: Prete
Regia Mario Monicelli
Soggetto Vincenzo Cerami (omonimo romanzo)
Sceneggiatura Sergio Amidei, Mario Monicelli
Produttore Luigi e Aurelio De Laurentiis
Casa di produzione Auro Cinematografica
Distribuzione (Italia) Cineriz
Fotografia Mario Vulpiani
Montaggio Ruggero Mastroianni
Musiche Giancarlo Chiaramello
Scenografia Lorenzo Baraldi
Costumi Gitt Magrini
Incipit romanzo
Per ingannare il tempo in attesa che la caffettiera fischiasse, con un mozzicone di matita ritrovata nel fondo di un cassetto, sopra un brandello della busta del pane si mise a calcolare: fece qualche moltiplicazione, qualche sottrazione, divise i pensionati per tanti bambini; tolse qualche anno per prudenza, qualche altro per contemplare gli imprevisti e un buon dieci per cento d’errore.
Togli e metti, per navigare sicuro verificò il problema con la prova del nove. Decise che più o meno gli restavano quindici anni da vivere, che non poteva escludere i cento anni e che comunque dieci erano quasi matematici
« Pensa a te, Mario, pensa solo a te! Ricordati che in questo mondo basta fare sì con gli occhi e no con la testa, che c’è sempre uno pronto che ti pugnala nella schiena.
D’altronde io e tua madre siamo soddisfatti: abbiamo un figlio ragioniere, che vogliamo di più? Per noi gli altri non esistono. Tu ormai sei sistemato,
noi siamo vecchi: non c’abbiamo altre ambizioni. Tutto quello che vogliamo è morire in pace, con la coscienza a posto. »
“Mario: Spaziani che ne facciamo di Mario?
Dr. Spaziani: Di chi?
Mario: Mario mio! Che lo buttiamo in mezzo alla strada? oppure gli facciamo fare l’operaio?”
“Ama chi ti ama, fosse pure un cane!”
“Mario, non siamo soli, dietro di noi c’è il Grande Incognito, il Capo sconosciuto della massoneria. Stiamo calmi, e se facciamo il nostro dovere, coll’aiuto di chi può, ce la faremo.”
“Alla fine, sempre, prima di chiudersi nei rispettivi uffici, gli impiegati si trovavano d’accordo che l’istituzione di una sana pena di morte avrebbe messo a tacere definitivamente tutta la violenza di questo mondo.”
Il giudizio universale
In una qualsiasi mattinata napoletana,con la gente impegnata nel quotidiano,una voce inquietante rimbomba nel cielo annunciando,per le 18.00,il giudizio universale.
All’inizio la cosa viene presa sotto gamba da tutti;ma con il passare delle ore,sopratutto con l’intervento della tv che amplifica l’avvenimento e con la voce che sempre più regolarmente annuncia il giudizio il comportamento della gente inizia a passare dalla superficialità allo sgomento e alla paura.
Le reazioni sono variegate;qualcuno inizia a pentirsi dei propri peccati,altri cadono in uno stato di prostrazione,altri fanno finta di nulla e cercano di proseguire la loro vita regolarmente.
In città c’è il ballo del Duca,avvenimento mondano di grande importanza,alcuni sono impegnati nella ricerca di un abito adatto per l’occasione,un avvocato maneggione cerca di difendere e mostrare come innocente un poveraccio che ha usurpato un titolo nobiliare,un losco figuro si muove sordidamente per acquistare bambini poveri da rivendere in America a copie senza figli,un marito scopre la moglie adultera con il suo miglior amico mentre la gente è occupata nelle quotidiane fatiche,sempre con l’orecchio alla voce roboante che ricorda il fatidico evento delle 18.00…
Vittorio De Sica,subito dopo il grandissimo successo di La ciociara del 1960,dirige l’anno successivo Il giudizio universale,ricostituendo con Cesare Zavattini il sodalizio dell’anno precedente e che alla fine porterà la celebre coppia a creare assieme ben venti film.
Il giudizio universale è un film senza una trama precisa,costituito com’è da una miriade di piccoli avvenimenti che,visto che siamo Napoli,potremmo chiamare “fattarielli“.
Un caleidoscopio di personaggi,ognuno preso nel suo quotidiano,ognuno alle prese con piccoli e grandi problemi,ma anche visto nell’appartenenza ad una collettività fragile e indaffarata,un formicaio impazzito nel quale l’individualità è legata,nel film, ad una serie di personaggi visti con bonarietà mista a irriverenza.
La paura del “giudizio universale” scatena reazioni dissimili,che vanno dal pentimento alla paura passando per emozioni variegate che si stampano sui volti dei protagonisti,nelle loro azioni e in fin dei conti in un quotidiano che non ha più un futuro.
Tante piccole storie,dicevo.
Che però alla fine formano un quadro incompleto proprio per la superficialità delle storie affrontate;quello che conta,per De Sica,sono le reazioni istintive e il frammento del quotidiano vissuto dai vari protagonisti.
Nel finale della pellicola,con la roboante voce che comincia a giudicare l’umanità mentre si scatena un violento temporale c’è spazio per la consueta e garbata ironia di De Sica;tutte le promesse fatte si dileguano con il sole,come la voce che all’improvviso scompare mentre la varia umanità,dimenticati i buoni propositi e la paura,riprende a vivere come se nulla fosse accaduto.L’imminente tragedia si trasforma in farsa.
Film diseguale per forza di cose,Il giudizio universale alla fine è poco più di un esercizio di stile e una passerella della scuderia De Laurentiis;un cast stellare che va da Gassman a Manfredi e Sordi (il più convincente di tutti nel ruolo del losco trafficante di bambini) alla Mangano
affolla un film che commercialmente fu un fiasco clamoroso.
Anche la critica storse in naso e va detto,con qualche ragione.
Troppa carne al fuoco,troppi personaggi e poca omogeinità delle situazioni alcune delle quali aldilà del macchiettismo,anche come resa,non solo come regia.
De Sica alterna cose buone ad altre meno buone a cose pessime.
Molto belli i personaggi del mediatore di bambini (Sordi),dei due popolani alla ricerca del posto di guardiaportone del san Carlo di Napoli (Franchi e Ingrassia) e quello dell’uomo che scopre come la moglie lo abbia cornificato con il suo miglior amico (Paolo Stoppa).
Molto meno riusciti i siparietti con la Mangano e Palance e quello di Lino Ventura,padre alle prese con una figlia poco più che adolescente viziata e capricciosa.
Una sfilata di grandi nomi per un film riuscito in parte e frettolosamente dimenticato,sicuramente un mezzo passo falso (totalmente economicamente) nella carriera di De Sica.
Il giudizio universale
Un film di Vittorio De Sica. Con Paolo Stoppa, Vittorio Gassman, Fernandel, Alberto Sordi, Melina Mercouri, Renato Rascel, Maria Pia Casilio, Giacomo Furia, Silvana Mangano, Alberto Bonucci, Andreina Pagnani,Giuseppe Porelli, Elisa Cegani, Agostino Salvietti, Regina Bianchi, Marisa Merlini, Mario Passante, Lamberto Maggiorani, Ugo D’Alessio, Nino Manfredi, Nando Angelini, Domenico Modugno, Carlo Taranto, Akim Tamiroff,Luigi Bonos, Pasquale Cennamo, Franco Franchi, Jimmy Durante, Ernest Borgnine, Jack Palance, Georges Rivière, Lino Ventura, Anouk Aimée, Ciccio Ingrassia, Eleonora Brown, Lilly Lembo, Mike Bongiorno
Commedia, b/n durata 95 min. – Italia 1961.
Paolo Stoppa: Giorgio
Vittorio Gassman: Cimino
Anouk Aimee: Irene
Melina Mercouri: la forestiera
Silvana Mangano: signora Matteoni
Jack Palance: signor Matteoni
Fernandel: il vedovo
Ernest Borgnine: il borseggiatore
Eleonora Brown: Giovanna
Elisa Cegani: la madre di Giovanna
Lino Ventura: il padre di Giovanna
Jimmy Durante: l’uomo dal grande naso
Vittorio De Sica: l’avvocato
Renato Rascel: Coppola
Alberto Sordi: il mediatore di bambini
Nino Manfredi: cameriere nell’hotel dell’ambasciatore
Ciccio Ingrassia e Franco Franchi: i disoccupati
Andreina Pagnani: ospite in casa Matteoni
Domenico Modugno: il cantante
Marisa Merlini: una madre
Mike Bongiorno: se stesso
Akim Tamiroff: il regista
Lamberto Maggiorani: un povero
Lilli Lembo: annunciatrice Tv
Maria Pia Casilio: cameriera
Alberto Bonucci: ospite in casa Matteoni
Don Jaime de Mora y Aragón: l’ambasciatore
Giuseppe Porelli: l’accompagnatore delle personalità
Ugo D’Alessio: un Pulcinella
Pietro De Vico: venditore ambulante
Gigi Reder: il pazzariello
Regia Vittorio De Sica
Soggetto Cesare Zavattini
Sceneggiatura Cesare Zavattini
Produttore Dino De Laurentiis
Fotografia Gábor Pogány
Montaggio Adriana Novelli
Effetti speciali Giuseppe Metalli
Musiche Alessandro Cicognini
Scenografia Pasquale Romano
Polvere di stelle
Questo articolo è dedicato alla mia bellissima amica Ylva
Polvere di stelle,film diretto da Alberto Sordi nel 1973 è uno dei ricordi cinematografici più belli che conservi nella memoria, aldilà del valore intrinseco e artistico del film, pure non trascurabile.
Avevo solo 15 anni quando la troupe diretta da Sordi scelse Bari per girare buona parte del film; la sera in cui venne girata la sequenza del trionfo dei due protagonisti della storia, Mimmo Adami e Dea Dani (Alberto Sordi e Monica Vitti) tra le centinaia di comparse che agitavano le bandiere americane all’interno del Petruzzelli c’ero anch’io,lieto di far parte di quel mondo fatato che amavo tanto.
Come dicevo un film discreto,forse l’opera migliore di Alberto Sordi,attore di valore ma poco più che mediocre regista.
Ricordo che alla prima del film provai ben più che delusione; le riprese fatte a Bari riprendevano il Petruzzelli,il glorioso Albergo delle Nazioni, dove Sordi e la Vitti trascorsero il tempo impiegato per girare gli esterni baresi e parte del Lungomare.Fu uno choc vedere che il porto che compariva nel film non era quello di Bari,bensi quello di Napoli,nel quale ormeggiavano navi americane.
Fu un colpo basso,quella finzione si trasformò per un breve periodo in una specie di favola agrodolce,il cinema mostrava come effettivamente quello che vedi altro non è che fantasia con scarsa aderenza alla realtà.
Pensieri di un adolescente,naturalmente,quasi un paradigma della vita,nella quale le illusioni lasciano il posto all’amara realtà…
Polvere di stelle è un film sull’avanspettacolo,forma di rappresentazione estremamente popolare almeno fino al primo dopoguerra,una fucina nella quale si sono forgiati decine,centinaia di attori che poi diverranno la colonna portante del nostro cinema,come Toto,Macario e tanti,tanti altri.
Un mondo malinconicamente svanito nel nulla man mano che passavano gli anni e nuove forme di comunicazione si sostituivano a quella forma di spettacolo che gli italiani hanno sempre amato,l’avanspettacolo, con i suoi lustrini e le pailettes,le battute e i doppi sensi,le ballerine e i vestiti sfavillanti.
Un mondo che Luciano Salce aveva raccontato in maniera esemplare in Basta guardarla del 1970,vero e proprio padre putativo del film di Sordi,che si ispira palesemente proprio all’opera di Salce.
La storia racconta le vicende agro dolci di due personaggi del mondo del vaudeville,Mimmo Adami capocomico e di sua moglie Dea Dani, soubrette della compagnia e fedele compagna di Mimmo.
La Compagnia grandi spettacoli Dani Adami vivacchia a Roma nel periodo dell’occupazione alleata;la fame,la mancanza di denaro spingono il gruppo ad accettare una pericolosa rappresentazione in Abruzzo, zona di guerra non ancora liberata e che le altre compagnie di avanspettacolo scansano come la peste.
C’è l’armistizio e la compagnia viene fatta prigioniera dalle truppe naziste e dai fascisti;sarò solo grazie a Dea che riacquisteranno tutti la libertà.
La donna infatti è costretta a darsi al federale responsabile della zona;imbarcatisi alla volta di Venezia,vengono dirottati verso Bari dai partigiani e giungono in una città dove la presenza delle truppe alleate e massiccia.
Qui riescono a mettere su una rappresentazione nel teatro Petruzzelli,ottenendo un grande successo grazie alla voglia di divertimento delle truppe che non badano certo alla grana grossa della comicità dello spettacolo Polvere di stelle,messo in scena dalla ditta Adami-Dani
Mentre Mimmo è sempre più euforico per l’improvviso successo,Dea si innamora di un marinaio americano per scoprire poi che lo stesso torna in America senza mantenere la promessa di portarla con se.
Approdati a Roma,Mimmo e Dea cercano invano una scrittura e scoprono amaramente che a nessuno interessa il loro spettacolo;abbandonati anche dal resto della compagnia,i due si avviano mestamente sul viale del tramonto,costretti a vivere solo di rimpianti dei bei giorno in cui a Bari erano divenuti delle star.
Film troppo lungo,ma godibile in alcune parti,con un inizio fiacco e un finale amaro e ben disegnato.
In sintesi è questo il bilancio finale del film diretto da Sordi,uno dei suoi 19 film dietro la macchina da presa.
Dal 1967 al 1973,data di uscita di Polvere di stelle,Sordi dirige Scusi, lei è favorevole o contrario?,Un italiano in America,Amore mio aiutami,un episodio del film collettivo Le coppie e Fumo di Londra con risultati altalenanti.
Se come attore è indiscutibile la sua capacità di dare corpo e spessore ai personaggi interpretati grazie anche alla sua celebre camaleontica e macchiettistica faccia,come regista Sordi ha grossi limiti nella capacità di senso del ritmo e della misura, mali di cui soffre inevitabilmente Polvere di stelle.
Ad una prima parte fiacca e piuttosto incolore Sordi rimedia strada facendo riuscendo a dare corpo al racconto delle peripezie della scalcinata compagnia che il personaggio di Mimmo Adami dirige con risultati degni di miglior causa.
Il palcoscenico Sordi lo divide con Monica Vitti,che si conferma ancora una volta attrice di razza,finendo spesso per rubare la scena allo stesso Sordi e dando corpo ad un personaggio per certi versi malinconico e perdente con capacità artistiche davvero notevoli.
La storia del film, la sua sceneggiatura,pur con grosse pause approda ad un finale molto malinconico nel quale il talento istrionico dei due attori si rivela in tutta la sua efficacia.
Indubbiamente ben ricostruito il dramma di coloro che,prima e dopo l’armistizio, furono costretti a fare i conti con la miseria e la povertà,barattando spesso la dignità per un pezzo di pane.
Sordi,pur non riuscendo mai a trovare le corde giuste per smuovere i sentimenti profondi che avrebbero avuto bisogno di ben altra trattazione riesce comunque a non svaccare mai e a mantenere un equilibrio narrativo lodevole.
Sostanzialmente un film di buona fattura a cui giovano le ricostruzioni degli scenari,ambientati a Roma,Bari,Napoli e Pescara rituffate nel film ai giorni in cui si prospettava la liberazione dopo un ventennio carico di tantissime ombre e pochissime luci.
Bene il cast,belle le location e i costumi,bene anche le musiche incluso il celebre leit motif “Ma ‘ndo vai se la banana non ce l’hai?bella Hawaiana attaccate a sta banana… ‘ndo vai?se la banana non ce l’haivieni con mente la faro’ vede’…”volgarotta canzone dei doppi sensi che però la coppia rende irresistibile.
Un film di discreta fattura,lontano dall’essere un capolavoro ma di discreta qualità che ne consigliano la visione
Un film di Alberto Sordi. Con Monica Vitti, Carlo Dapporto, Alberto Sordi, John Philip Law, Wanda Osiris,Mimmo Poli, Dino Curcio, John Karlsen, Lorenzo Piani, Alfredo Adami, Pietro Ceccarelli, Franco Angrisano, Alvaro Vitali Commedia, durata 142 min. – Italia 1973.
Alberto Sordi: Mimmo Adami
Monica Vitti: Dea Dani
John Phillip Law: marinaio americano
Wanda Osiris: se stessa
Edoardo Faieta: Don Ciccio Caracioni
Carlo Dapporto: se stesso
Franco Angrisano: federale
Dino Curcio: capostazione di Pizzico
Franca Scagnetti: zia di don Ciccio
Alfredo Adami: comico Bisteccone
Lorenzo Piani
Luigi Antonio Guerra
Piero Virgintino: direttore del teatro Petruzzelli
Antonio Abramonte: direttore d’orchestra della compagnia
Alvaro Vitali: ballerino di tip-tap
Marcello Martana: se stesso
Luciano Martana: se stesso
Giulio Massimini : se stesso
Pietro Ceccarelli: soldato tedesco strangolato sulla nave
Regia Alberto Sordi
Soggetto Ruggero Maccari
Sceneggiatura Alberto Sordi, Ruggero Maccari, Bernardino Zapponi
Produttore Edmondo Amati per Capitolina Produzioni Cinematografiche
Distribuzione (Italia) Fida Cinematografica
Fotografia Franco Di Giacomo
Montaggio Raimondo Crociani
Musiche Piero Piccioni
Scenografia Mario Garbuglia
L’opinione di LorCio dal sito http://www.filmtv.it
All’origine del più ambizioso film di Alberto Sordi c’è un mondo che il nostro cinema raramente ha saputo raccontare: l’avanspettacolo, e più in particolare la vita delle compagnie d’avanspettacolo durante l’occupazione tedesca. Un tema che Fellini aveva sviluppato in un episodio nella rapsodia di Roma dell’anno prima, che il vecchio amico Sordi decide di presentare acriticamente all’interno di un temerario affresco nazionalpopolare. La prima parte è una celebrazione dell’arte recitativa di Sordi e Monica Vitti, scatenati nei panni di Mimmo e Dea, che consegnano alle antologie il numero di Ma ando’ Hawaii? (se la banana non ce l’hai) e l’incontro alla stazione con nostra signora Wanda Osiris (o meglio Osiri, come imbecillità italiota comandava). I due mattatori hanno l’occasione di manifestarsi artisti completi e veraci, ma è evidente la mancanza di un bravo regista dietro la macchina da presa (ci sarebbe voluto un Luigi Zampa, ma anche uno Steno in buona vena).
Non a caso l’assenza di ritmo si sente nel corso dello spettacolo (la versione estesa dura due ore e mezza) e il tono melodrammatico della seconda parte è troppo autocompiaciuto per coinvolgere, così come è abbastanza telefonata la storia tra Vitti e John Phillip Law. D’altro canto il reparto tecnico è più che apprezzabile (fotografia evocativa di Franco Di Giacomo, scenografie di Mario Garbuglia) e c’è un guizzo non indifferente quando gli immensi (nonostante gli eccessi generati dalla mancanza di un efficace direttore d’attori, malgrado il regista sia un grandissimo attore: ma stavolta il gigionismo è funzionale ai personaggi-guitti) Sordi e Vitti cantano L’amore è un treno sul terrazzo dell’ambasciata a Bari (in fondo Polvere di stelle è una sorta di musical casereccio, romanocentrico, nostalgico), sintesi non solo del film, ma proprio del mood della storia (gran lavoro di Piero Piccioni).
L’opinione di galbo dal sito http://www.davinotti.com
Nostalgico omaggio al teatro di rivista italiano nel periodo storico della seconda guerra mondiale (è ambientato negli anni 1943-1945), è un film non del tutto riuscito. Se piacevole risulta infatti la ricostruzione storica e dello spirito del cabaret fatto con pochi mezzi e tantissima fantasia, il film risulta troppo frammentato e basato sulla macchietta e sulla gag estemporanea che dotato di una storia (e sceneggiatura) organica. Risulta comunque uno spettacolo tutto sommato gradevole, grazie ai bravissimi protagonisti.
L’opinione di graf dal sito http://www.davinotti.com
Probabilmente il più riuscito tra i film diretti da Sordi. Evocando le gesta comiche, impacciate e patetiche di due commedianti poco più che guitti, Mimmo Adami (Sordi) e Dea Dani (Vitti), celebra un mondo ormai scomparso con un grande sentimento di tenerezza che sfocia, alla fine, in un malinconico necrologio. I numeri comici, i balletti, le danze, i lustrini, i sogni di gloria ma anche le fatiche dei viaggi, la fame, gli odori, i fetori, l’umidità delle pareti scrostate delle sale: ecco la poesia allegra e desolata del teatro d’avanspettacolo. Nostalgico.
La vecchia scritta del Petruzzelli
A passeggio su Lungomare Nazario Sauro (da notare l’assenza delle barriere frangiflutto)
La rotonda di Piazza Diaz
A passeggio di sera sul lungomare
L’esterno del Petruzzelli
Il rimpianto sipario del Petruzzelli andato distrutto nell’incendio del 27 ottobre 1991
Il Petruzzelli
Anni 70,prima dell’incendio
Il Bottegone,storico negozio adiacente al Politeama Petruzzelli
Il rogo
Questo articolo è dedicato alla mia bellissima amica Ylva
La più bella serata della mia vita
Un industriale romano, Alfredo Rossi, viaggia verso la Svizzera proveniente da Milano.
A bordo della sua auto ha una grossa somma di denaro, che l’uomo deve esportare in barba alle leggi valutarie.
L’arrivo in Svizzera riserba all’uomo una sgradita sorpresa; la banca dove deve depositare il denaro è chiusa, per cui Alfredo si ritrova nell’imbarazzo di dover occupare il suo tempo in attesa della riapertura della banca stessa.
Si mette quindi alla ricerca di un albergo, ma si imbatte in una motociclista e la segue lungo le montagne.
Un nuovo imprevisto lo blocca ancora: la sua Maserati si pianta di colpo, così alla fine si reca ad un vicino castello per chiedere ospitalità.
Qui si imbatte in un “simpatico” gruppo di ex magistrati che vivono sotto lo stesso tetto dopo essere andati in pensione.
Per gioco, Alfredo accetta di farsi processare dai quattro, che sembrano sapere sul suo conto molto di più di quello che Alfredo racconta.
Così poco alla volta lo squallore morale del personaggio emerge, sotto le domande incalzanti dei quattro giudici.
Il rito si conclude con la sua condanna a morte: così Alfredo, dopo una serata di bagordi, va a letto e durante la notte sogna di andare a morte mentre la bella motociclista (che lo ha servito a tavola durante la serata precedente) gli gira attorno con la moto.
La mattina, ancora spaventato dal sogno della notte, Alfredo si vede recapitare il conto della sua permanenza al castello.
I quattro giudici infatti usano il sistema di creare tutta la messinscena proposta ai danni di Alfredo a tutti i turisti facoltosi che hanno la ventura di capitare nel loro castello.
Alfredo paga e va via ma lo attende una bruttissima sorpresa….
Tratto da un romanzo di Friedrich Dürrenmatt, La panne. Una storia ancora possibile edito nel 1956, La più bella serata della mia vita esce sugli schermi italiani nel 1972, diretto da Ettore Scola e su sceneggiatura dello stesso regista e di Sergio Amidei.
Il film si differenzia molto dal romanzo, e questo non aiuta di certo l’economia del film che si smarrisce per due motivi fondamentali
-Il primo è la presenza di un Alberto Sordi bravo ma strabordante, egocentrico che ingombra con il suo talento finendo per diventare l’elemento accentratore del film e lasciando in disparte tutto il resto; i quattro giudici, francesi non solo per nascita ma anche per flemma, sembrano annichiliti dalla vitalità dell’Albertone;
– il secondo è la mancanza di un ritmo lineare della pellicola, che accelera, decelera e poi sonnecchia per lunghi tratti.
Molte le differenze con il testo teatrale, troppe; se nel film troviamo ancora i quattro giudici che imputano ad Alfredo il delitto da lui commesso ai danni del suo ex principale, alla fine il film si discostra troppo dal finale del testo originale.
Mentre nel romanzo Alfredo sceglie in qualche modo di pagare i suoi errori con un suicidio rituale, nel film le cose cambiano radicalmente ed Alfredo trova la morte in ben altro modo, quindi non scegliendo personalmente l’espiazione, ma subendola dal caso.
Scola, uno dei maestri del cinema italiano, tenta di dare un percorso personale al film, ma alla fine se ne discosta troppo e trasforma la drammaticità del racconto di Dürrenmatt in qualcosa di completamente diverso; Sordi contribuisce in maniera determinante così alla fine manca proprio l’omogeneità al racconto.
Pure il film non è da bocciare, perchè per alcuni tratti proprio le sue pecche conferiscono un tono di leggerezza al racconto che lo rendono quasi simile ad una commedia.
E qui vale il solito discorso sulle possibilità di adattare con accuratezza testi letterari nati per ben altri scopi; Scola fa come buona parte di coloro che riduce pieces per teatro o letterarie, modifica a suo piacimento senza badare all’aderenza con il testo originale.
Fa bene, fa male?
Visto il risultato la risposta sarebbe scontata, ma va anche detto che perlomeno ci prova, discostandosi anche da buona parte della produzione del cinema di inizi anni settanta, quasi sempre poco attento a tematiche “profonde”
Per quanto riguarda i quattro giudici, Scola sceglie i mostri sacri del cinema francese: Michel Simon, Charles Vanel, il meno conosciuto Claude Dauphin e Pierre Brasseur lo ripagano con interpretazioni quasi in carta carbone.
Poco liberi di muoversi a piacimento, i quattro subiscono lo strapotere di sordi e si limitano a svolgere il loro compitino.
Bene invece l’affascinante Janet Agren in un ruolo che l’attrice sente e che svolge nel migliore dei modi.
In ultimo, segnalazioni di merito per le musiche di Armando Trovajoli e per la fotografia di Claudio Cirillo.
La più bella serata della mia vita, di Ettore Scola, con Janet Agren, Alberto Sordi, Michel Simon, Charles Vanel, Pierre Brasseur, Jean-Claude Dauphin, Claude Dauphin, Bruno Boschetti, Giuseppe Maffioli
Commedia, durata 108 min. – Italia 1972.
Alberto Sordi: Alfredo Rossi
Michel Simon: Avvocato Zorn
Janet Agren: Simonetta
Charles Vanel: Giudice Dutz
Claude Dauphin: cancelliere Bouisson
Pierre Brasseur: Conte La Brunetiere
Giuseppe Maffioli: Pilet
Regia Ettore Scola
Soggetto La panne. Una storia ancora possibile
Sceneggiatura Ettore Scola, Sergio Amidei
Produttore Dino De Laurentiis
Fotografia Claudio Cirillo
Montaggio Raimondo Crociani
Musiche Armando Trovajoli
Scenografia Luciano Ricceri
Citazioni dal romanzo:
“Noi quattro qui seduti a questo tavolo siamo ormai in pensione e perciò ci siamo liberati dell’inutile peso delle formalità, delle scartoffie, dei verbali, e di tutto il ciarpame dei tribunali. Noi giudichiamo senza riguardo alla miseria delle leggi e dei commi.”
“Il suo è un delitto perpetrato in modo così raffinato da essere brillantemente sfuggito, è ovvio, alla giustizia dello stato”
Io e Caterina
Enrico Menotti, uomo d’affari italiano, ha una vita famigliare abbastanza problematica.
Ha una moglie, Marisa, con la quale vive un menage di coppia basato sul completo disinteresse, mentre ha come amante la bella segretaria Claudia.
Se Marisa lo tormenta da un lato con la sua presenza ossessionante, Claudia gli rimprovera le scarse attenzione che le dedica.
Così, durante un viaggio negli Usa, Enrico si confida con l’amico Arturo, rivelandogli tutti i problemi che ha con le donne che frequenta.
Arturo gli fa conoscere Catherine, un robot che svolge tutti i lavori in casa dell’uomo; l’automa non solo governa la casa senza discutere, è obbediente e silenziosa, una specie di donna-schiava sotto forma elettronica.
Enrico decide così di acquistare un esemplare di robot domestico, che battezza Caterina; i primi tempi di coabitazione tra l’uomo e l’automa sono addirittura idilliaci, tanto che Enrico si sbarazza in rapida successione prima della moglie, poi della cameriera e infine dopo una lite originata da uno scambio di regali, anche dell’asfissiante amante.
Ma le cose iniziano lentamente a cambiare; il robot Caterina all’inizio si mostra impeccabile, poi inizia ad assumere comportamenti quasi umani.
Si lamenta di essere sola e chiede ad Enrico di poter stare in sua compagnia mentre l’uomo la sera assiste ai programmi televisivi.
Il tanto agognato sogno di indipendenza di Enrico va in frantumi quando l’uomo incontra Elisabeth, una ex dipendente di sua moglie.
Da vero viveur, Enrico corteggia la splendida donna e alla fine riesce a convincerla a seguirlo a casa.
Ma l’ostilità di Caterina diventa immediatamente lampante; il robot assume caratteristiche quasi umane, mostrando gelosia e ostilità.
Così la sera quando il robot si accorge che Elisabeth intende passare la notte nel letto di Enrico, devasta la casa provocando la fuga della donna.
Enrico si rende conto di aver sostituito le “sue” donne con un essere meccanico che lo tratta da padrone riverendolo e servendolo in ogni cosa, ma anche rendendolo prigioniero di una situazione non dissimile da un matrimonio umano.
Alberto Sordi regista valeva sicuramente molto meno del Sordi attore, e lo dimostra compiutamente con questo film del 1980, che segue la mediocre partecipazione alla regia nel film Dove vai in vacanza?, nel quale aveva diretto il segmento Le vacanze intelligenti.
Io e Caterina, pur avendo una trama di qualche interesse, sicuramente inusuale nel descrivere il rapporto tra uomo e donna sotto forma di robot, ma in questo caso talmente umanizzata da averne praticamente tutti i difetti tipici (o almeno imputati) della donna, finisce per diventare una fiera paesana non solo di luoghi comuni ma anche sonnolenta e sciatta.
Sordi tira fuori un film debolissimo, con una tematica di fondo che definire detestabile è davvero riduttivo; un maschilismo bieco e assolutamente non condivisibile permea ogni singola scena del film.
Le donne che vi vengono descritte sono gelose e possessive, grette e anche poco intelligenti, a cominciare dalla moglie, descritta come un essere avido e senza sentimenti passando per l’amante e finendo con Elisabeth, donna senza cervello ma dalle forme sinuose, tipico esempio di oca buona per una notte sola.
Ed è questo a irritare principalmente nel film, questo atteggiamento maschilista davvero inqualificabile, portato all’esasperazione nella simbologia robot donna/donna umana, quasi che il fatto di essere femmina implichi necessariamente una predisposizione “genetica” ad alcuni difetti.
A parte il maschilismo imperante, il film è lento, non ha ritmo ed è assolutamente privo anche di humour, a meno che non si voglia considerare umorismo il rapporto di schiavitù che viene a crearsi tra i due universi, l’uomo e il robot e lo svolgimento dello stesso, con la fase penosa della distruzione della casa da parte di Caterina ormai diventata un totem, un feticcio femminile che incarna tutti gli pseudo vizi che vengono spesso imputati alle donne.
La tradizionale doccia di Edwige Fenech
Il tutto diventa così un mortificante esempio di cinema visto con un’ottica assolutamente fuorviante, quella di un Sordi misogino e antifemminista davvero sorprendente in un uomo che amava l’universo femminle e che ne vantava le qualità.
Un film quindi non solo povero di idee e discutibile nella tematica di base ma anche irritante come i suoi personaggi.
Non si salva davvero nessuno, a partire da Arturo, il primo dei maschilisti interpretato da un Rossano Brazzi poco convincente per passare a Catherine Spaak, che riesce però a rendere davvero odioso il personaggio di Claudia amante di Enrico.
Sordi è piatto e monotono, mentre la Fenech quanto meno è in smagliante forma fisica e lo dimostra nelle scene di nudo sotto la doccia, spiata dall’enigmatica Caterina che non ha ancora mostrato la sua ostilità verso la “rivale”.
Un film in cui davvero non si salva nulla, da evitare in tutti i modi.
Io e Caterina,un film di Alberto Sordi. Con Alberto Sordi, Rossano Brazzi, Catherine Spaak, Edwige Fenech, Valeria Valeri, Elisa Mainardi, Victoria Zinny, Ugo Bologna, Sandra Mantegna, Andy Miller, Fiorella Buffa, Danuta Chwalek, Andrea Gracco, Susan Scheerer, Daniela Caroli
Commedia, durata 105 min. – Italia, Francia 1980.
Alberto Sordi … Enrico Menotti
Edwige Fenech … Elisabeth
Catherine Spaak … Claudia Parise
Valeria Valeri … Marisa Menotti
Rossano Brazzi … Arturo
Ugo Bologna … Passeggero dell’aeroplano
Elisa Mainardi … Teresa
Victoria Zinny … Susan
Fiorella Buffa … Femminista
Susan Scheerer … Pamela
Regia di Alberto Sordi
Scritto da Rodolfo Sonego e Alberto Sordi
Prodotto da Raimondo Castelli , Gianni Hecht Lucari e Alberto Sordi
Musiche originali di Piero Piccioni
Fotografia di Sergio D’Offizi
Montaggio di Tatiana Casini Morigi
Scenografie di Lorenzo Baraldi
Arredatore Osvaldo Desideri
Costumi di Bruna Parmesan
Effetti speciali di Giovanni Corridori e Germano Natali
Le recensioni qui sotto appartengono al sito http://www.davinotti.com
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Una delle prove più opache del Sordi attore e regista, del quale inizia a vedersi un accenno di parabola discendente. La storia del robot che sostituisce in un colpo tutte le figure femminili della vita è buona, ma la sceneggiatura non la sfrutta adeguatamente, facendone derivare così una sorta di parabola maschilista, dalla facile quanto scontata morale. Sordi e simpatico, ma ciò non basta a salvare il film dal naufragio.
Il robot io ce l’ho e tu no. Parafrasando un altro film con la Spaak, la storiella è tutta qui. Il solito maschio italiano sordiano, che come noto ce lo meritiamo, alle prese con le donne che lo scocciano. Allora si compra un robot-domestica che si umanizza e diventa gelosa. Ritmo zero, gag invecchiatissime, il Sordi declinante e trombonesco delle peggiori occasioni, che recita dal suo piedistallo. Era scarso allora, rivisto oggi è francamente terribile.
Gli Anni Ottanta di Alberto Sordi si aprono con un film che definisco “conservatore” ed ovviamente maschilista (ma è una costante per Albertone…). L’idea della donna robot che sostituisce quella in carne ossa è geniale, anche se messa in scena in quel periodo sembrava quasi una risposta arrogante al pensiero femminista del decennio precedente; forse Sordi arriva un po’ tardi sull’argomento, visto che eravamo già ampiamente in periodo “riflusso”. Il film lo amo, perché amo Sordi e mi riconosco in molti suoi pensieri e movenze. Ottima, come sempre, la musica di Piero Piccioni.
Nonostante una brillante idea, la donna robot, che verrà più volte ripresa in futuro e nonostante l’Albertone nazionale, la Fenech ed una splendida Spaak, il film ha ben poco da dire. Cosa se ne ricorda? Un po’ di gigioneggiamenti del nostro, due bellissime donne, battute e situazioni mal sfruttate ed una colonna sonora orecchiabile, per quanto scioccherella. Perderselo non sarebbe un peccato!
Un vero peccato che Sordi si sia fatto prendere dalla megalomania, perché anche in questo film (tutt’altro che memorabile) vederlo recitare è sempre piacevole (benché sia sempre lo stesso Sordi, in fondo). Il problema è che alla fine il film si riduce a questo: una macchina da presa che segue Sordi per novanta minuti, scadendo forse nel puro autocompiacimento. La morale sordiana, poi, non è certo un mistero e, considerando che si parla del 1980, la sua posizione sulle donne pare “leggermente” anacronistica.
L’idea era buona, ma la realizzazione è scaduta in maniera farsesca e carente. Una robottina che sostituisce la donna nelle faccende domestiche senza avere pretese di sorta, ma il robot mostra gelosia ed impedisce al suo padrone avventure galanti con scontati risultati. Sordi aveva da tempo perso la vena creativa e lo ribadisce in questa pellicola, in cui vorebbe scavare nella psicologia femminile ma scade nel qualunquismo più assoluto.
Certo: la satira qui è banalotta e il ruolo della donna (siamo nel 1980) in anni immediatamente post-femministi viene dileggiato in modo superficiale. Tuttavia Sordi è abilissimo nel reggere praticamente da solo il peso di tutto il film, con la vicenda che si svolge quasi interamente nella lussuosa casa tra lui e la donna-robot. A sprazzi il protagonista, che si atteggia a maturo dongiovanni e uomo di mondo, lascia trasparire la malinconia del vivere da solo e senza veri affetti. Tardosordiano.
Caterina, una donna robot e dunque oggetto, è il sogno del Dottor Menotti che con una sola manovra si disfa di tutte le donne della sua vita che gli chiedono troppo. La sceneggiatura di Sonego sembra restare buona solo in potenza, Sordi regista non ne eleva il soggetto e il film arriva ad occupare una posizione mediocre nella sua filmografia, sia per uno stile un po’ anonimo sia per la facile lezioncina sul maschilismo e la donna oggetto.
Quelle strane occasioni
Quelle strane occasioni e un film del 1976 strutturato in tre episodi diretti da tre ottimi registi italiani, ovvero Nanni Loy, Luigi Magni e Luigi Comencini.
Tre episodi in bilico tra la tradizionale commedia all’italiana e la commedia sexy, a cui strizza l’occhio in particolare l’episodio 1, diretto da Nanni Loy ma non firmato dal regista, sicuramente a disagio sia per la tematica trattata sia per le scene di nudo presenti nello stesso episodio.
Episodio 1, Italian Superman
Paolo Villaggio e Valeria Moriconi
Giobatta è uno sfigato venditore di castagnaccio, da lui soprannominato kastanjakken, che ha scelto l’Olanda per vendre il suo prodotto, con ben scarsi risultati.
L’uomo è sposato con Gabriella italiana come lui, che con Giobatta divide una misera abitazione ricavata in un barcone ancorato in uno dei canali di Amsterdam.
Nonostante la buona volontà, Giobatta fatica a sbarcare il lunario; ma una sera le cose cambiano radicalmente.
Un gruppo di teppisti lo deruba, ma durante la perquisizione corporale a cui viene sottoposto lo sventurato italiano, uno dei rapinatori si rende conto che Giobatta ha una dote molto particolare, ovvero è un superdotato sessualmente.
Così Giobatta viene trasportato di peso dal proprietario di un locale notturno dove si esibiscono coppie in live show, spettacoli in cui una coppia si produce in performance sessuali dal vivo.
Giobatta fa credere alla moglie di aver venduto tutti i suoi prodotti alla regina d’ Olanda, ma dopo qualche giorno le sue bugie vengono clamorosamente a galla.
Gabriella infatti, abituata a spremere sessualmente come un limone il marito, si rende conto che l’uomo non riesce più ad accontentarla.
Così dopo averlo seguito, scopre la verità sul lavoro dell’uomo.
Ne segue una furibonda lite, durante la quale Giobatta fa presente alla moglie la loro nuova situazione economica; la coppia infatti ora ha una nuova lavatrice, la tv a colori, vive decisamente meglio rispetto al passato, ai giorni in cui Giobatta era costretto a vendere qualche pezzo di castagnaccio.
La donna così decide di diventare lei la partner del marito nei live show, ma Giobatta, intimidito dalla presenza della moglie, non riesce a ripetere gli exploit precedenti.
Malinconicamente, sarà costretto a fare il portiere e a reclamizzare la moglie che si esibisce con un forzuto turco.
Episodio 2, Il cavalluccio svedese.
Antonio è un professionista dalla mentalità molto retrograda; è sposato con la bellissima Giovanna della quale è gelosissimo e ha una figlia, Paola, che controlla in maniera addirittura ossessiva.
L’ipocrita equilibrio della famiglia, in cui madre e figlia sono costrette a vivere, nascondendo la loro vita privata ad Antonio, viene rotto definitivamente da Cristina.
La ragazza, figlia di un collega con cui Antonio ha lavorato in Svezia, amico anche di Giovanna, arriva all’improvviso in casa di antonio proprio mentre madre e figlia sono assenti.
La ragazza, disinibita e sfrontata, rivela la sera durante la cena che da piccola aveva preso una cotta per Antonio.
Così la notte, complice un furioso temporale, la ragazza si infila nel letto di Antonio.
Al risveglio l’indomani Antonio riceve la telefonata di Paola, che sentendo rispondere al telefono Cristina e sentendo il padre ansimante, mangia la foglia e racconta al padre di essere rimasta a casa di un suo amico.
Antonio è costretto così a ingoiare il rospo; l’uomo infatti ha raccontato a Cristina l’esatto opposto sui rapprti esistenti in famiglia.
La ragazza, credendo che la famiglia sia disinibita come la sua, racconta ad Antonio che suo padre ha avuto una breve ma intensa relazione con Giovanna.
Al ritorno della moglie, l’evidente malumore di Antonio si manifesta in un laconico “io faccio finta di non sapere, ma quando voglio so tutto”
Episodio 3, L’ascensore.
Stefania Sandrelli è Donatella
Siamo a Roma, in un torrido week end di ferragosto, in uno stabile elegante della città si incontrano casualmente Mons.Ascanio, in visita alla sua amante (una bellissima vedova) e Donatella, una avvenente abitante dello stabile.
I due prendono l’ascensore, che durante la salita si blocca.
Nonostante i due prigionieri chiedano ripetutamente aiuto, nessuno ascolta l’appello.
Così alla fine anche se a malincuore Mons. Ascanio e Donatella sono costretti a coabitare in attesa di soccorsi.
Che però non arrivano; complice lo spazio ristretto in cui i due sono costretti a vivere, accade il fattaccio.
I due verranno liberati solo dopo molte ore; Ascanio così può raggiungere la sua amante, alla quale raccomanda di cambiare le molle del letto, perchè Donatella sa che in casa della donna arriva un misterioso amante con il quale la bella vedova si da alla pazza gioia.
Nino Manfredi
I tre episodi, molto diversi tra loro, ma con una sola tematica di fondo, il sesso visto come elemento aggregante ma anche discriminante e soggetto ideale per un discorso molto vario sull’ipocrisia e perbenismo che circonda la materia, possono essere considerati gradevoli, anche se siamo lontani da discorsi impegnati sulla reale portata del problema.
Sicuramente il più riuscito è Italian superman, diretto da Nanni Loy, non tanto per la tematica trattata, quanto per le situazioni paradossali in cui vengono a trovarsi i coniugi protagonisti dello sketch.
Ottimo Paolo Villaggio, anche se per l’ennesima volta il suo personaggio è troppo simile a Fantozzi mentre sicuramente scalore desta la parte della bravissima valeria Moriconi alle prese con un personaggio scabroso.
L’attrice esibisce splendidi nudi, anche se non viene mai ripresa in primo piano; bene anche Flavio Bucci, che compare nei panni del direttore del locale porno.
Di buona fattura l’episodio 2, Il cavalluccio svedese, diretto da Luigi Magni con mano leggera e piglio ironico.
Nei rapporti tra la famiglia Pecoraro il regista inserisce l’elemento sessuale come discriminante dei rapporti interni alla famiglia stessa; l’ipocrisia che vi regna non troverà soluzione nemmeno nel finale, quando Antonio scoprirà come le due donne di casa in realtà abbiano una doppia vita.
Paola è la figlia ribelle, Giovanna la moglie adultera; entrambe però probabilmente hanno una giustificazione per le loro gesta, ovvero quella gelosia morbosa che attanaglia Antonio.
Il discorso non è ampliato, ma l’episodio è più girato tra le righe che esplicitamente.
Bene sicuramente Manfredi, bellissima la Karlatos.
Luigi Comencini è il regista del terzo episodio; riesce ad imbastire un sottile e amaro apologo sull’ipocrisia attraverso i dialoghi che intrecorrono tra Alberto Sordi e Stefania Sandrelli, gli ottimi protagonisti dell’episodio stesso.
Regia asciutta, divertita: Comencini non si sforza troppo affidando ai due attori il compito di alleggerire l’atmosfera claustrofobica dell’episodio stesso, tutto girato in un ascensore.
In ultima analisi un film di discreto livello, godibile, ben recitato .
Quelle strane occasioni, un film di Luigi Comencini, Luigi Magni. Con Nino Manfredi, Valeria Moriconi, Paolo Villaggio, Alberto Sordi, Stefania Sandrelli, Olga Karlatos, Beba Loncar, Giovannella Grifeo
Commedia a episodi, durata 115 min. – Italia 1976.
Episodio 1:
Paolo Villaggio … Giobatta
Lars Bloch… Gestore locale
Valeria Moriconi … Gabriella moglie di giobatta
Flavio Bucci … Réné Bernard il direttore del locale
Episodio 2:
Nino Manfredi … Antonio Pecoraro
Olga Karlatos … Giovanna
Giovannella Grifeo … Paola
Jinny Steffan … Cristina
Episodio 3:
Alberto Sordi … Mons. Ascanio La Costa
Stefania Sandrelli … Donatella
Beba Loncar … Vedova Adami
Regia Luigi Comencini, Nanni Loy, Luigi Magni
Soggetto Sergio Corbucci, Rodolfo Sonego
Sceneggiatura Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Rodolfo Sonego
Produttore Fausto Saraceni
Fotografia Armando Nannuzzi, Claudio Ragona, Aldo Tonti
Montaggio Nino Baragli, Franco Fraticelli, Ruggero Mastroianni
Musiche Piero Piccioni
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Non visto per oltre un trentennio: potevo tranquillamente allungare il periodo. Pessimo l’episodio con Villaggio (male sfruttata la Moriconi). Mediocre quello, telefonato, con Manfredi (si salvano le dinamiche dei primi minuti: poi, se non ci fosse il protagonista a usare con maestrìa tempi e espressioni, sarebbe inguardabile). Mediocre pure quello con Sordi, che esagera, salvandosi solo nella “confessione” e nel finale, con biglietto da visita e teoria del libero arbitrio.
Tre episodi di qualità altalenante, anche se – in generale – realizzati con certa cura. Mattatore dell’intera operazione è Nanni Loy, all’opera con Villaggio per dare corso al segmento più divertente e riuscito (Italian superman). Segue il peggior pezzo della trilogia (Il cavalluccio svedese), nel quale Manfredi non viene valorizzato come meriterebbe. A finire un Sordi monotematico, limitato da una sceneggiatura contenuta a causa di una location quasi claustrofobica (L’ascensore). Si ricorda, però, di quest’ultima parte l’affascinante presenza della Sandrelli, in un ruolo “perturbante”.
Tre episodi: il superdotato Villaggio in versione pornocomica (regia di Loy, non firmata); l’architetto Manfredi insidiato da una giovane svedese (Magni); il monsignore Sordi chiuso in ascensore con una spregiudicata ragazza (Comencini). Nel complesso il film è piuttosto scarso nonostante i tre pezzi da novanta coinvolti. L’episodio migliore rimane, nonostante tutto, il terzo, in cui Sordi può disegnare sottilmente un altra maschera delle sue, senza la grossolanità del primo o la piattezza del secondo.
Una commedia non troppo riuscita e assai poco originale: l’episodio con Villaggio è volgare e fantozziano, quello di Manfredi scontato e senza mordente. Decisamente meglio l’ultimo, “L’ascensore”, con un Sordi monsignore alle prese con una scosciatissima e vacanziera Stefania Sandrelli.
Viste le firme e gli interpreti a disposizione una cocente delusione. Di risate, infatti, se ne fanno poche e la colpa non è solo degli attori un po’ sottotono ma anche e soprattutto di una sceneggiatura bolsa e poco originale priva di verve e di mordente. Non è certo inguardabile ma avrebbe potuto essere ben altro.
Commedia ad episodi non eccelsa ma neppure disprezzabile. Il top è raggiunto dall’episodio di Nino Manfredi, divertente e non volgare, con la splendida Jinny Steffan a fare da spalla. Dalle parti della sufficienza gli altri due: risicata nel caso di “Italian superman”, poco più che una barzelletta, abbondante, in “L’ascensore”, un po’ prolisso ma con qualche trovata niente male. In ogni caso bravissimi i tre protagonisti (anche se Villaggio non fa che riproporre il suo solito personaggio in stile Fantozzi) e ottima la fotografia. Si può vedere.
Un tris di episodi natalizi (cinepanettone ’76) a mio parere ben confezionati, grazie anche alla presenza di attori di peso ed anche a una manifestazione di erotismo per i tempi piuttosto esplicita. Il primo episodio con Villaggio, (Italian superman) è un mio piccolo culto ed è molto divertente, ma il secondo con Manfredi (il cavalluccio svedese) è il mio preferito, poiché il suo sottile umorismo romanesco qui trova la massima espressione. Il terzo episodio con Sordi, (L’ascensore) è curioso ed eroticamente stuzzicante.
Il Marchese del Grillo
Siamo nei primi anni dell’ottocento, la vicenda è ambientata a Roma durante il pontificato di Pio VII.
Il marchese Onofrio, appartenente alla nobile casata dei Del Grillo, divide il suo tempo fra burle feroci e un dolce far niente.
Vittima dei suoi scherzi sono un pò tutti quelli che lo circondano, ma il suo bersaglio principale è Papa Pio VII, che ha per lui un evidente debole.
Così Onofrio si diverte a burlare, anche in maniera feroce coloro che in qualche modo frequenta, come il povero Aronne Piperno, che realizza per Onofrio dei mobili e al momento di essere pagato si vede denunciato alle autorità.
Per colmo di sventura, lo sfortunato ebreo viene anche condannato dalla corte alla quale si rivolge: Onofrio, come confesserà al Papa, ha corrotto un pò tutti solo per dimostrare che in realtà la giustizia non esiste.
I due volti del grande Alberto: Gennarino il carbonaro ….
… e il Marchese Onofrio del Grillo
I suoi scherzi sono leggendari: si va da quello cattivissimo di lanciare monete roventi alla plebaglia che si raduna nel cortile del suo palazzo alla beffa che gli costa quasi il carcere, far suonare le campane a morto in città, quasi fosse scomparso il Papa, all’allontanamento della sorella che aveva chiesto un posto più consono per suo marito.
Arriverà anche per Onofrio il momento in cui gli scherzi lasceranno il posto al rischio della decapitazione; il Papa restituirà con gli interessi tutti gli scherzi fin là ricevuti mandando sul patibolo quello che crede sia il marchese Del Grillo.
Ma anche questa volta il nobile riuscirà a beffare il Papa mandando sul patibolo un disgraziato carbonaro che gli assomiglia come una goccia d’acqua.
Ovviamente il carbonaro non verrà giustiziato perchè il Papa sospenderà l’esecuzione, avendo nelle intenzioni solo la voglia di spaventare Onofrio Del Grillo.
Monicelli dirige un Alberto Sordi in stato di grazia nel 1981 in questa opera dal titolo eloquente, Il Marchese Del Grillo, quasi a indicare l’assoluto protagonista del film, che è l’attore romano che da vita ad una delle sue caratteristiche maschere.
Un film che da subito ottiene incassi eccezionali, piazzandosi a fine anno dietro soltanto al solito Celentano protagonista di Innamorato pazzo, venne accolto in maniera difforme dalla critica.
E va detto subito che molte perplessità dei critici stessi avevano ragione d’essere: aldilà della goliardia che contraddistingue il personaggio di Onofrio del Grillo, la sua affascinante carognaggine, la sua maschera romana a metà strada tra il popolare e il nobile sprezzante, quello che non convince è in primis l’eccessiva lunghezza del film dilatata oltre il consentito e il sopportabile usando come riferimento una trama che in pratica non esiste.
Perchè il vero, assoluto protagonista resta Onofrio/Sordi, che caratterizza all’estremo l’ignavia, la supponenza, la maleducazione e l’arroganza del nobile senza però supportarla con una fustigazione della classe nobiliare, o anche con una condanna dei modi oltraggiosi con cui il Marchese tratta gli altri.
La cantante e attrice francese Olimpia, amante di Onofrio (l’attrice Caroline Berg)
Anzi.
Monicelli sembra strizzare l’occhio alla commedia umoristica più disimpegnata, estranenandosi completamente da qualsiasi condanna degli eccessi di Onofrio, che in fondo è figlio di quella classe nobiliare che tante responsabilità ebbe nel triste periodo della Roma papalina, quella del Papa re, del potere temporale nettamente predominante su quello spirituale.
Alla fine infatti il film sembra più un red carpet per l’attore romano, che grazie alla sua verve, alla sua capacità d padroneggiare il dialetto in maniera impareggiabile, rende il prodotto finale più simile ad una galleria comica che ad un’opera organica.
Faustina, l’attrice Angela Campanella (“ma che dormi tutta ignuda?”)
Sordi oscura tutti, perchè è addosso a lui che è cucito il personaggio del marchese ignavo e fancazzista, che si fa beffe di tutto, dall’autorità costituita alla famiglia, dal potere religioso agli amici.
Un personaggio, quello di Onofrio, che si fa perdonare proprio per la straordinaria caratterizzazione di Sordi: i suoi scherzi di pessimo gusto, le sue battute discutibili come la celebre “Ah… Mi dispiace, ma io so’ io, e voi nun siete un cazzo!” sarebbero diventate imperdonabili in bocca a chiunque se non fosse stato per il Sordi quasi mefistofelico che si cala nei panni di Onofrio in maniera simbiotica.
Poichè all’Albertone si perdona tutto, si arriva a godere degli scherzacci che Onofrio fà, compreso quello crudele fatto ad Aronne Piperno.
Tutto ciò però alla fine probabilmente non basta.
L’Onofrio di Monicelli sembra da un lato voler ridicolizzare il potere, dall’altro usarlo solo per il suo divertimento.
La sua condanna del potere è essenzialmente goliardica, perchè in fondo quello è il suo mondo; lo prende in burla ma ci vive dentro, e ci vive comodamente.
Non va dimenticato però che nelle intenzioni di Monicelli probabilmente non c’era la denuncia di un sistema, quanto una sua raffigurazione ironica e goliardica.
Con questa chiave di lettura il film funziona nei limiti sopra descritti; la comicità, a tratti, è irresistibile, grazie anche al bel cast allestito dal maestro Monicelli.
Spicca su tutti Paolo Stoppa il pontefice Pio VII.
La celebre sequenza dello strip di Olimpia
Storicamente però Monicelli prende un abbaglio, usando il dialetto romano in bocca ad un pontefice che era di nascita cesenate.
Altri interpreti sono uno straordinario Flavio Bucci, che veste i panni di Don Bastiano uno spretato diventato un brigante e dal quale ascoltiamo probabilmente le uniche veementi accuse all’apparato ecclesiastico; poi citerei ancora Marc Porel nei panni del capitano francese Blanchard, Marina Confalone, ovvero la sorella Camilla afflitta da una pesante alitosi, Giorgio Gobbi ovvero Ricciardo domestico tuttofare e compagno di avventure di Onofrio.
Ancora, in ruoli minori citerei Elena Fiore, Sal Borgese, Leopoldo Trieste.
Ben curata la fotografia, così come i costumi, del resto uno dei marchi di fabbrica di Monicelli, mentre per le location il regista utilizza alcuni espedienti per raffigurare per esempio la dimora romana di Onofrio del Grillo, che in realtà è Palazzo Pfanner situato in Lucca e per l’occasione mascherato per nascondere il magnifico panorama della città toscana;le scene ambientate nel teatro, nel quale assistiamo alla perormance dei “castrati”, come li chiama Onofrio in realtà non è a Roma ma è il bellissimo teatro di Amelia, in Umbria.
Onofrio del Grillo con il fido servitore Ricciotto
In ultimo vorrei fare un paragone ( quasi improponibile) tra questo film e un’altra opera diretta nel 1977 da Luigi Magni, In nome del papa re, anch’essa ambientata nella Roma papalina anche se temporalmente distante circa sessantanni, visto che la storia di Magni si volge verso la fine del potere temporale e racconta delle ultime esecuzioni avvenute proprio nella Roma del papa re.
Se i due film hanno la stessa ambientazione, quasi lo stesso uso ossessivo del dialetto, descrivono una corte papale poco spirituale e troppo terrestre, differiscono enormemente proprio per la carica di denuncia che contengono.
Appena abbozzata nel film di Comencini, vibrante e durissima nel film di Magni.
Che da questo punto di vista risulta di gran lunga più interessante del film di Monicelli.
Ma probabilmente è voler cercare un termine di raffronto assolutamente improponibile.
Monicelli girà un film comico con venature sulfuree, e in fondo centra l’obiettivo.
L’esecuzione di fra Bastiano, uno straordinario Flavio Bucci
Il marchese del Grillo, un film di Mario Monicelli. Con Alberto Sordi, Caroline Berg, Andrea Bevilacqua, Flavio Bucci, Giorgio Gobbi,Cochi Ponzoni, Marc Porel, Paolo Stoppa, Marina Confalone, Isabel Linnartz, Elena Daskowa Valenzano, Pietro Tordi, Angela Campanella, Isabella De Bernardi, Gianni di Pinto, Salvatore Jacono, Ivan de Paolo, Camillo Milli, Elisa Mainardi, Jacques Herlin, Elena Fiore, Riccardo Billi, Leopoldo Trieste, Renzo Rinaldi, Tommaso Bianco
Commedia, durata 133 min. – Italia, Francia 1981.
Alberto Sordi: Onofrio del Grillo/Gasperino il carbonaio
Caroline Berg: Olimpia
Andrea Bevilacqua: Pompeo
Riccardo Billi: Aronne Piperno
Isabella De Bernardi: figlia di Gasperino il carbonaio
Elisa Mainardi: Moglie di Gasperino il carbonaio
Flavio Bucci: Don Bastiano
Giorgio Gobbi: Ricciotto
Cochi Ponzoni: conte Rambaldo
Marc Porel: capitano Blanchard
Paolo Stoppa: papa Pio VII
Camillo Milli: il cardinale Segretario di Stato
Leopoldo Trieste: don Sabino
Marina Confalone: Camilla del Grillo
Isabelle Linnartz: Genuflessa del Grillo
Elena Daskowa Valenzano: la Marchesa del Grillo
Pietro Tordi: Mons. Terenzio del Grillo
Angela Campanella: Faustina
Elena Fiore: madre di Faustina
Tommaso Bianco: l’amministratore dei del Grillo
Gianni Di Pinto: Marcuccio
Jacques Herlin:Rabet
Salvatore Jacono: Bargello
Renzo Rinaldi: il commissario pontificio
Sal Borgese: il giocatore d’azzardo
Regia Mario Monicelli
Soggetto Bernardino Zapponi, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Mario Monicelli, Tullio Pinelli
Sceneggiatura Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Mario Monicelli, Tullio Pinelli, Alberto Sordi
Produttore Luciano De Feo
Casa di produzione Opera Film Produzione
Fotografia Sergio D’Offizi
Montaggio Ruggiero Mastroianni
Musiche Nicola Piovani
Scenografia Lorenzo Baraldi
Costumi Gianna Gissi
Trucco Giancarlo De Leonardis
Sfondi Canale Monterano, Roma
Le recensioni appartengono al sito http://www.davinotti.com
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Lentissima pellicola, che si riscatta qua e là con alcune trovate e, specialmente, con la maestrìa che Sordi sa mettere in ogni parola(ccia), in ogni cenno, in ogni movimento. Ma, tolto il suo genio, resta poco sugo, perché le cose buone ci sono, ma sono diluitissime. Alla fin dei conti si apprezzano di più le apparizioni di Paolo Stoppa, papa tanto indimenticabile quanto poco prolisso. Solo sufficiente.
Il film funziona come ritratto della nobiltà romana in un’epoca particolare e corrotta, come quella dello stato pontificio. Da questo punto di vista è esemplare la figura del protagonista, interpretato da un Alberto Sordi in forma, che ne fa un ritratto che è nello stesso tempo cinico e bonario, recitando anche il ruolo del popolano sosia del marchese. Buone la ricostruzione scenografica e la regia di Monicelli (è uno dei suoi ultimi grandi film), così come la caratterizzazione dei personaggi “minori” (specie il papa Stoppa e il bandito Bucci).
Aristocratico imbelle e beffardo impegnato in stupide burle nella Roma papalina dell’800. Commedia scanzonata, costruita su misura per Sordi, che si diverte in un personaggio della mitologia romanesca. Ma non sono esenti dal divertimento (loro e nostro) il sornione Stoppa e lo stralunato Bucci. Carino, simpatico, a tratti arguto nella critica (anche esplicita) a tutte le nobiltà conquistate per nascita anziché sul campo, il film è godibile e ben fatto, anche se non si può certo annoverare tra quelli memorabili.
Sordi è perfettamente a suo agio con un simile personaggio e, indubbiamente, si vede. Ed è soprattutto grazie a lui e a Stoppa (il papa, che però non si vede molto), che la pellicola merita di essere vista, nonostante il ritmo altalenante e i momenti non sempre felici (a volte arranca e c’è una certa pesantezza, che però viene attenuata dalla freschezza della recitazione dei protagonisti). Sforbiciandolo qua e là sarebbe stato sicuramente un buon film, mentre così, pur non essendo male, finisce per stancare un po’.
Onofrio del Grillo è un vitellone ante litteram, nobilastro papalino sfaccendato, che passa il suo tempo a organizzare scherzi, persino alle spalle del Papa. Sordi lo incarna perfettamente, concedendosi anche una divagazione nella parte del povero carbonaio. Il film è divertente e alcuni momenti sono molto azzeccati, ma nel complesso si sente aria di smobilitazione, la fine di un attore che da lì in poi farà poco. La morale di fondo, se di morale si può parlare, è comunque discutibile.
Davvero non male. Sordi è l’ottimo marchese del Grillo, nobile che passa sopra ai sottoposti con una facilità sconcertante. Monicelli ci offre una notevole commedia con alcuni momenti davvero divertenti. Ottimi Stoppa papa e Bucci criminale; c’è pure il povero Marc Porel nel ruolo di un francese. Buono il tema musicale.
Romanità becera, forse eccessivamente istrionica e volta al divertimento più che ad una ricostruzione storica della Roma che fu; tuttavia Sordi, con il suo cinico sarcasmo e la rappresentazione del pressapochismo, ha saputo conquistare. Merito di una vicenda divertente e ben costruita, dove l’Albertone nazionale sfoggia le sue battute (tra cui spicca l’eterna “perché io so io e voi nun siete un cazzo…”). Fu un successo al cinema, riconfermato poi dai sempre ottimi ascolti nelle innumerevoli messe in onda televisive.
Il Marchese del grillo è un nobile decaduto, ma piuttosto avido e opportunista, che gioca brutti scherzi alle persone. Un ruolo su misura per Alberto Sordi che, nonostante alcuni buchi di sceneggiatura, ci sguazza dentro con bravura. Commedia che varia dal grottesco al melodrammatico e si lascia guardare.
Uno dei film che Monicelli ricorda meno volentieri e ci credo! Il grande regista, di solito attento a coniugare il tenore di commedia ad un’idea di coscienza civile o di analisi di caratteri e che ci aveva presentato grandi affreschi corali (unico tra i nostri a fare film con “multiprotagonisti”), racconta la storia sgradevole di un opportunista antipatico, infingardo, i cui difetti, italianissimi, vengono quasi definiti eroici o perlomeno sdoganati dalle non sempre felici battute di un Sordi odioso.
Ultimo exploit attoriale e di incassi di Sordi prima del malinconico declino. La trama combina la quintessenza del personaggio con elementi da teatro antico (lo scambio con il sosia). Qualche volgarità e al solito un po’ di misoginia non scalfiscono il divertimento che la pellicola vuole trasmettere. Rimaste nell’immaginario alcune celeberrime scene e alcune battute.
Certo non il miglior Monicelli, ma con un Sordi (sdoppiato) strepitoso. La trama è curata (per quanto giochi sull’equivoco del doppio già caro ai greci) e i dialoghi sono a tratti decisamente piacevoli. Affresco del tempo non poi così falsato, anzi. La pellicola è venata da cinismo e un’amara ironia di fondo. Potrebbe esser un’efficace allegoria dei tempi moderni. Attori comprimari assolutamente all’altezza.
Divertente pellicola che vede protagonista uno scatenato Sordi. Monicelli dirige con scioltezza e lascia che a giostrarsela sia un Sordi davvero perfetto per il ruolo. È lui che con le sue battute e i suoi lazzi a rendere la pellicola memorabile. Da ricordare sopratutto i suoi duetti con l’altrettanto memorabile Paolo Stoppa e la ormai mitica battuta “Io so’ io e voi non siete un…”.
Il marchese del Grillo, burlone e irriverente nei confronti di tutto e tutti (Papa compreso), è il personaggio/caricatura della nobiltà italiana del periodo Napoleonico. Gli piace farsi scherno della legge e delle regole: una volta dimostrato il suo assioma, è disposto a tornare sui suoi passi e risarcire i malcapitati e involontari attori dei suoi “giochi”. Metafora dell’uomo alla ricerca della propria identità. Monicelli mette in mostra un mondo malato.
Forse l’ultima grande interpretazione del grande Alberto. Monicelli costruisce un film sulle capacità recitative dell’attore romano con trovate e gag memorabili. Gli scherzi del Marchese e l’ubiquità con il carbonaro Gasperino fanno ridere con gusto. Sordi non si risparmia e costruisce un personaggio guascone ed irriverente che si diverte a cozzare contro i pregiudizi del tempo. Da vedere più volte per carpire quell’indolenza romana sempre pronta alla battuta.
Splendido collage di gag e goliardate varie con un Sordi ultra-mattatore nel ruolo del nobile dedito agli scherzi ed ogni sorta di divertimento; ma si apprezzano anche i momenti più seri, come l’impiccagione del bandito-cangaceiro o la lunga gag sulla morte della giustizia. Non un capolavoro assoluto, ma un ottimo esempio di commedia all’italiana.
Personaggio perfetto per un Sordi che esprime al meglio la sua bravura e il suo essere romano. Il nobile nella Roma papalina all’inizio del 1800 e al servizio di Papa Pio VII (l’ottimo Paolo Stoppa) passa il tempo tra divertimenti e scherzi ai danni di personaggi del popolino, costretti a subire il nobile intoccabile, che si fa beffe anche della giustizia. A non rendere del tutto negativa la figura del marchese sono le sue intelligenza e coscienza delle azioni che commette, a dimostrazione che nella società vince sempre il più forte. Buona la regia.
Splendida interpretazione di Sordi per un Marchese che veramente non si dimentica. Gag strepitose, battute azzeccate. Assolutamente divertente. A fare da cornice c’è una Roma dei primi dell’Ottocento. Da ricordare le scene con Don Bastiano e quelle con la strega.
Ultima grande (a mio avviso) interpretazione di un Sordi in formissima e gigioneggiante sorretto dalla regia del maestro Monicelli, alterna trovate divertentissime a momenti un po’ più spenti ma mai noiosi. Ottimo il cast di supporto in cui figura anche un Marc Porel che purtroppo morirà di lì ad un paio di anni. Citazione per un Paolo Stoppa perfetto con la sua “maschera” nei panni del Papa Pio VIII.
Il teatro di Amelia, nel quale recita e canta Olimpia
La Galleria Pannini di Villa Grazioli a Grottaferrata, luogo nel quale Onofrio incontra i mendicanti
Palazzo Pfanner a Lucca, la dimora di Onofrio
La loggia dei Cavalieri di Rodi a Roma
Il Casale di via delle Pietrische a Manziana, nel quale si ferma Onofrio
Le rovine di Monterano, rifugio del frate/brigante Bastiano
Guarda a quei castrati, come je girano le palle
Quanno se scherza bisogna esse seri
Se tu parli male del papa, io rido..se io parlo male de Napoleone tu ti incazzi..et voilà la diffèrence!!!
Che ci volete fare: io so io, e voi non siete un cazzo!
Cia l’alito che ammazza le mosche al volo…MACERATA sarebbe la distanza giusta pe non sentilla piu’….
Il marchese del grillo non chiede mai sconti paga o non paga e io nun te pago!…ma tutto Aronne mio tanto comincio a dì che nell’armadio che tu hai costruito io c’ho sbattuto un ginocchio che me sò fatto pure male non è una buona ragione questa?
Ecchime ma’, ammazza come sei rinseccolita sembri un tizzo de carbone nera nera…
“Ma cosa sono queste confidenze?”
A ma’ te stavo a saluta’ mica te stavo a da un calcio n’culo
Tu sei giudeo, l’antenati tua hanno messo in croce nostro Signore…. posso esse ancora un pò incazzato pe sto fatto!?
Mia cara Olimpia, mettete ‘n pompa, che quel grillaccio del Marchese sempre zompa! Chi zompa allegramente bene campa.
Rimane sempre er mistero però che te te spogli in camera da figlia e poi vieni a scopaà in camera da madre….dimme te….
Ter fortunato che t’ho trovato in compagnia del marchese; perché sennò a te, se ti pigliavo da solo ti sisitemavo: ti schiaffavo quattro chiodi e ti mettevo in croce qua sopra. Così t’imparavi a rispettare Dio, la Madonna e i santi. E fatevi il nome del Padre, porca puttana.
Adesso, pure io posso perdonare che mi ha fatto male: in primis, al Papa, che si crede il padrone del cielo, in secundis, a Napulioune, che si crede il padrone della Terra, e per ultimo al boia, qua, che si crede il padrone della morte, ma soprattutto, posso perdonare a voi, figli miei, che non siete padroni di un cazzo!
Il comune senso del pudore
Il comune senso del pudore è un film del 1975, diretto da Alberto Sordi, strutturato in 4 episodi.
Nel 1° episodio, protagonista lo stesso Sordi, Giacinto, un operaio, decide di andare a cinema con sua moglie; attirato da un titolo ambiguo, finisce per capitare su una pellicola a luci rosse, con grosso imbarazzo della moglie. Nonostante vaghi con la stessa alla ricerca di un film decente, si imbatterà solo in pellicole sexy se non hard; tuttavia, in qualche modo, la moglie di Giacinto ne subirà il perverso fascino.
Philippe Noiret
Il 2° episodio un giovane intellettuale idealista viene assunto in qualità di direttore di una rivista pornografica; la cosa gli porterà indubbi vantaggi, ma anche un mandato di cattura per una serie di reati contro la morale. Tutto sommato la cosa non gli dispiacerà, essendo fortemente convinto di svolgere un ruolo di paladino della libertà di costume.
La sequenza divertente della fuga dal set di Dagmar Lassander
Nel 3° episodio la moglie di un feroce nemico della stampa porno, un pretore tutto d’un pezzo, ma fondamentalmente ipocrita, scoprirà proprio nelle letture porno qualcosa che le servirà per riattivare il rapporto con il marito.
Il 4° episodio vede protagonista un’attrice, pluri premiata, che sul set di un film rifiuta categoricamente una scena ardita, mettendo in crisi sia la produzione, sia il produttore stesso, che nel film ha puntato anche soldi che non aveva. L’intervento di una serie di persone, un sacerdote, uno psicologo e altri, riporterà il tutto a posto.
Alberto Sordi e Rossana Di Lorenzo
Florinda Bolkan e Cochi Ponzoni
I quattro episodi, tutti legati al tema sesso, al comune senso del pudore, come cita il titolo, vorrebbero essere nelle intenzioni dell’attore romano una messa alla berlina di situazioni e morale predominanti nella società; il tutto commentato e illustrato con ironia e a volte con sarcasmo. In realtà alla fine vien fuori un prodotto molto modesto, illuminato solo a tratti dalla presenza dei volenterosi attori presenti, Philippe Noiret, Claudia Cardinale, Silvia Dionisio, Dagmar Lassander. Troppo fragili gli episodi, troppo poco approfondita la parte di denuncia, a tutto scapito della profondità del film, che appare più un assieme di macchiette e di gag che una fustigazione del costume.
Gli episodi non sono nemmeno male; gradevole per esempio quello con protagonista Sordi e l’inseparabile moglie cinematografica, Rossana Di Lorenzo, alle prese con una serie di pellicole dal chiaro sapore osceno. Divertente, per esempio, la parte ambientata in un cinema durante la visione di una pellicola in cui la protagonista sta per esibirsi in uno spettacolo osceno con un cavallo. Gradevole anche l’episodio con protagonista la Lassander e Noiret, mentre gli altri due soffrono delle incertezze della sceneggiatura. Sordi è sicuramente stato un grandissimo attore, spesso a disagio però nelle vesti di regista, per una certa tendenza alla superficialità, per l’innato senso del satirico veloce, poco approfondito.
Claudia Cardinale
Il comune senso del pudore, un film di Alberto Sordi. Con Claudia Cardinale, Alberto Sordi, Florinda Bolkan, Philippe Noiret, Cochi Ponzoni,Michele Malaspina, Giacomo Furia, Renzo Marignano, Gisela Hahn, Ugo Gregoretti, Dagmar Lassander, Silvia Dionisio, David Warbeck
durata 130 (123) min. – Italia 1976.
Alberto Sordi: Giacinto Colonna
Cochi Ponzoni: Ottavio Caramessa
Florinda Bolkan: Loredana Davoli
Claudia Cardinale: Armida Ballarin
Philippe Noiret: Giuseppe Costanzo
Rossana Di Lorenzo: Erminia Colonna
Silvia Dionisio: Orchidea
Giò Stajano: fotografo di moda
Renzo Marignano: regista del film Lady Chatterley
Giacomo Furia: direttore di produzione del film Lady Chatterley
Dagmar Lassander: Ingrid Streissberg
Pino Colizzi: Tiziano Ballarin
Ugo Gregoretti: primo critico
Giulio Cesare Castello: secondo critico
Marina Cicogna: una consulente
Gisela Hahn: Ursula Kerr
Horst Weinert: direttore dell’hotel
Manfred Freyberger: marito di Ingrid
David Warbeck: Mellors (nel film Lady Chatterley)
Franca Scagnetti: cameriera trattoria
Jimmy il Fenomeno: sé stesso
Enrico Marciani: direttore cinema Jolly
Macha Magall: la contessa
Regia Alberto Sordi
Soggetto Rodolfo Sonego, Alberto Sordi
Sceneggiatura Rodolfo Sonego, Alberto Sordi
Produttore Fausto Saraceni
Fotografia Luigi Kuveiller, Giuseppe Ruzzolini
Montaggio Tatiana Casini Morigi
Musiche Piero Piccioni
Scenografia Francesco Bronzi, Piero Poletto, Luciano Puccini
Costumi Bruna Parmesan
L’opinione di B.Legnani dal sito http://www.davinotti.com
Filmetto senza picchi, un po’ tirato via, qua e là prolisso. La cosa più sorprendente sono le scene piuttosto spinte che Sordi e la moglie vedono nei vari cinema. La ragazza che (qualcosa si vede, qualcosa si intuisce) è protagonista dell’ippofilo film “La cavalcata” (che non esiste) è Macha Magall, che ha fatto il vero La Bestia in calore, con Salvatore Bàccaro. Resta il dubbio se lo stesso Sordi abbia diretto questa scena (e pure quella dell’altro ipotetico film, “Il romanzo di una novizia”).
L’opinione di Ryo dal sito http://www.filmtv.it
Purtroppo in questo film, come in molti altri di Sordi regista, c’è tutta la mediocrità di un attore che è stato un importante strumento d’indagine della società dei suoi tempi in mano a registi di grande calibro e che ha avuto la presunzione di proseguire questa grandiosa opera di satira e di analisi da solo. Ma quale abisso tra il prima e il dopo. L’ampiezza di respiro di certi suoi film come “Il Medico della Mutua”, dove attraverso Sordi venivano analizzate le viscere della società post-industriale e come i cambiamenti politici, economici e tecnologici interagissero con le pulsioni profonde del popolo italiano, è soppiantata da una banalizzazione di fenomeni che avevano una ragione d’essere (in questo caso, la liberazione sessuale, i mutamenti post ’68, etc) e che li rende grotteschi. In questo modo, come con Sordi regista accadrà in seguito, Il film, specie il primo episodio, è peggiore degli aspetti peggiori della società che critica, perchè non riesce a trovare una ragione d’essere, perchè tutto sembra avvolto in una nube di irrazionalità e inspiegabilità, perchè critica svolte ragionevoli e sembra accettare (forse nel tentativo di bilanciare) autentici errori epocali, perchè l’analisi si ferma talmente in superficie che i grandi quadri d’insieme, le visioni macroscopiche dei suoi film da attore, appaiono nostalgicamente lontani. Peccato.
L’opinione Il Dandy dal sito http://www.davinotti.com
Forse è l’ultimo film in cui il Sordi regista ha ancora veramente qualcosa da dire e il suo “qualunquismo” (deboluccio l’episodio del Cochi Ponzoni scrittore) non è ancora squalificato dallo scarto generazionale che lo relegherà nella nostalgia: qui è contemporaneo e ancora graffiante (spassosissimo l’episodio con Philippe Noiret produttore, mentre quello con la Cardinale moglie di un giudice censore vale soprattutto come documento d’epoca). Il meglio è ovviamente l’episodio con Sordi attore: “Allora noi ve salutamo, annamo ar cinema”…
Dove vai in vacanza?
Tre ottimi registi,Mauro Bolognini, Luciano Salce e Alberto Sordi per un film di discreta fattura, con un cast di ottimo livello e imbastito attorno a tre storie, intitolate Sarò tutta per te, Si buana e Le vacanze intelligenti.
Nel primo episodio, Sarò tutta per te, un maturo professionista, Enrico, decide di passare alcuni giorni di vacanza in compagnia della ex moglie, della quale è ancora innamorato.
Ugo Tognazzi
Ma nella villa di un altro ex della donna, Giuliana, arrivano un mucchio di amici imprevisti, fra i quali anche l’ex fidanzato, con siti quasi boccacceschi e rocamboleschi.
Il secondo episodio,Si buana,vede protagonista uno sfigatissimo organizzatore di safari improvvisato, che viene coinvolto suo malgrado in un omicidio da parte della moglie di un ricco industriale.Mentre afflitto racconta le sue disavventure ad un occasionale cliente di un bar, scopre che costui è un agente delle assicurazioni, mandato ad investigare proprio sulla morte dell’industriale, che è stata organizzata dalla moglie Margherita.
Annamaria Rizzoli nell’episodio Si buana
Il terzo episodio, Le vacanze intelligenti, vede protagonisti due coniugi, lui fruttivendolo e lei casalinga, i cui figli, tutti prossimi al termine degli studi, organizzano una vacanza culturale per i due genitori, con esiti assolutamente imprevisti.
Tre storie ben organizzate a livello di sceneggiatura, con un cast assolutamente di rispetto; nel rpimo episodio troviamo Ugo Tognazzi nel ruolo di Enrico e una superba Stefania Sandrelli in quello della ex moglie di Enrico, Margherita. L’episodio, diretto da Bolognini, è dei tre quello più sottilmente intriso di ironia, ed è anche il meno spassoso, anche se ruota attorno ad uno degli elementi caratteristici della commedia all’italiana, l’adulterio che questa volta è consumato, o almeno nelle intenzioni dovrebbe essere consumato tra ex coniugi.
Il secondo episodio è sicuramente il più divertente e meglio costruito; irresistibile Paolo Villaggio nel suo ruolo più congeniale, quello della vittima delle circostanze. Questa volta ad affiancarlo c’è la bellona Anna Maria Rizzoli, bella e seducente, mentre come attori di contorno ci sono due grandi caratteristi, Gigi Reder e il olito inossidabile Daniele Vargas, l’industriale fissato con il safari, a caccia di un leone che il povero Arturo dovrà recuperare facendo ricorso, sciaguratamente, alla fantasia.
L’ultimo episodio, quello diretto e interpretato da Alberto Sordi vede l’attore in compagnia della tradizionale moglie cinematografica,la bravissima Anna Longhi. Qui il tema commedia si amplia a dismisura, mostrando le disavventure della coppia di coniugi romani alle prese con opere d’arte, con una vacanza alternativa che per loro si trasforma in un incubo, prima della soluzione finale, un gigantesco piatto di spaghetti che rimette tutti d’accordo.
Episodio spassoso, ma visto solo in un’ottica meramente comica, perchè tutto sembra reggersi solo sulle figure di Romeo e Augusta, i due coniugi un pò borgatari.Il cast, come già detto, è di sicuro rispetto e comprende oltre ai citati protagonisti bellezze come Brigitte Petronio, Lorraine De Selle, Marilda Donà, Clarita Gatto. Tra gli attori un giovane Ricky Tognazzi. Film da vedere come sano divertimento, nell’ottica più pura dell’evasione.
Dove vai in vacanza?
Un film di Mauro Bolognini, Luciano Salce, Alberto Sordi. Con Paolo Villaggio, Alberto Sordi, Stefania Sandrelli, Anna Maria Rizzoli, Gigi Reder, Ugo Tognazzi, Daniele Vargas, Clara Colosimo, Ricky Tognazzi, Paolo Paoloni, Pietro Brambilla, Brigitte Petronio, Rodolfo Bigotti, Elisabetta Pozzi, Rita Silva, Clarita Gatto, Anna Longhi Commedia, durata 160′ min. – Italia 1978.
Episodio uno: Sarò tutta per te, diretto da Mauro Bolognini
Ugo Tognazzi
Stefania Sandrelli
Pietro Brambilla
Clara Colosimo
Emilio Locurcio
Adriano Amidei Migliano
Lorraine De Selle
Paola Orefice
Rosanna Ruffini
Ricky Tognazzi
Rodolfo Bigotti
Elisabetta Pozzi
Brigitte Petronio
Marilda Donà
Roberto Spagnoli
Episodio due, Si buana, diretto da Luciano Salce
Paolo Villaggio
Gigi Reder
Daniele Vargas
Anna Maria Rizzoli
Paolo Paoloni
Peter Adabire
Rita Silva
Clarita Gatto
Paola Arduini
Episodio tre, Le vacanze intelligenti, diretto da Alberto Sordi
Alberto Sordi
Anna Longhi
Evelina Nazzari
Stefania Spugnini
Alfredo Quadrelli
Filippo Ciro
Alessandro Partexano
Giovannella Grifeo
Shereen Sabet
Regia Mauro Bolognini, Luciano Salce, Alberto Sordi
Soggetto Roberto Gianviti, Furio Scarpelli, Rodolfo Sonego, Alberto Sordi
Sceneggiatura Ruggero Maccari, Iaia Fiastri, Furio Scarpelli, Sandro Continenza, Rodolfo Sonego, Alberto Sordi
Produttore Gianni Hecht Lucari
Casa di produzione Rizzoli Film – Cineriz
Fotografia Sergio D’Offizi, Danilo Desideri, Luciano Tovoli
Montaggio Antonio Siciliano, Nino Baragli, Tatiana Casini Morigi
Musiche Ennio Morricone, Piero Piccioni