Trastevere
Irriverente e a tratti goliardico,sottilmente anticlericale e a volte blasfemo,pieno di difetti che però alla lunga diventano pregi.
Trastevere,opera prima ed unica di Fausto Tozzi, comprimario di buona caratura,è il sogno di un attore che si realizza e diventa realtà,un film
in cui non mancano certo idee originali e una ridanciana visione del proletariato del più celebre dei quartieri romani,Trastevere.
L’attore romano,che negli anni 50 recitò in film di largo successo come Casta diva e Casa Ricordi o Beatrice Cenci per anni aveva coltivato il sogno di dirigere un film scopertamente popolare.
L’occasione arrivò finalmente nel 1971,quando riuscì a convincere il produttore Alberto Grimaldi ad affidargli la direzione di Trastevere,del quale scrisse anche la sceneggiatura.
Un film che ebbe una gestazione travagliata e che quando uscì nelle sale dovette subire tagli della censura (assolutamente immotivati)
oltre che un rimaneggiamento in alcune sequenze girate e che furono tagliate in fase di montaggio,principalmente per volontà del produttore.
Tagli e mutilazioni che però non compromettono l’equilibrio del film,che per sua natura e per sceneggiatura non contempla un andamento univoco,essendo principalmente una raccolta di storie legate ad un comune filo conduttore,quello delle vicissitudini della cagnetta Mao che,smarrita improvvidamente da un cantante lirico,finirà per passare di mano in mano attraverso un viaggio nel popolare quartiere romano,in cui vivono personaggi stravaganti ed eccessivi,eppure così vicini all’autentico spirito popolare romanesco.
Il viaggio di Mao è l’occasione per conoscere lo spirito autenticamente popolare di alcuni personaggi,chiaramente ispirati al vero;il contrabbandiere che per non finire in galera ci manda in sua vece una povera vecchia,l’usuraia che muore durante un pellegrinaggio,l’hippie suicida dopo una relazione omosessuale con un ricco e laido aristocratico,il vedovo che insegue implacabilmente l’uomo che gli aveva ucciso la moglie prostituta,
il vizioso che fa si che la moglie abbia una relazione sessuale con un macellaio ecc.
Una galleria di personaggi forse troppo caricaturati,grotteschi nella loro mancanza di morale e di pudore,ma che in qualche modo sono riconoscibili nei vizi e virtù di un proletariato che anni dopo un altro regista,Scola,avrebbe descritto spietatamente usando l’ambientazione delle baraccopoli romane in Brutti sporchi e cattivi.
Come dicevo,il film subì alcuni rimaneggiamenti;uno riguarda una sequenza che inquadra due pescatori,uno dei quali tira su un preservativo;la battuta “questa è tutta colpa del Papa,che se non si opponeva alla pillola stò schifo nun se vedeva”
venne giudicata irriguardosa e censurata,così come venne tagliata l’innocente sequenza girata a piazza Navona in cui la Schiaffino,vestita da hippy viene apostrofata da un gruppo di giovinastri,uno dei quali dice “ammazzala quant’è bona,c’ha un culo che parla“mentre un altro chiede “ma che è indiana?” e l’ultimo,con il solito sarcasmo romanesco di fronte alla noncuranza della donna,risponde “no,è stronza”
Come si può leggere,battute che in seguito sarebbero divenute la norma,ma che a inizi del 1971 facevano scandalizzare i moralisti benpensanti della commissione censura.
Fausto Tozzi morì nel 1978,quindi solo sette anni dopo aver realizzato questo film,senza più avere la possibilità di esprimere un talento registico che indubbiamente possedeva;
lo si può notare nella freschezza dei dialoghi,nella vena autenticamente popolana dei dialoghi,nell’irriverenza con cui tratta argomenti delicati e sopratutto nella genuina rappresentazione di un mondo,quello trasteverino,che oggi è indissolubilmente scomparso, avendo lasciato il posto ad un quartiere meno spontaneo e folkloristico,in cui tutto sembra ormai artefatto,ad uso e consumo degli immancabili turisti che popolano la capitale.
Un film oggi assolutamente non più proponibile come tematica;un certo tipo di cinema è scomparso quando il dio denaro ha definitivamente spento le velleità di tanti cineasti coraggiosi che sfidavano la morale,il costume e le stesse produzioni proponendo opere coraggiose,spesso non equilibrate,confuse,ma assolutamente spontanee.
Nel cast di Trastevere figurano numerosi grandi nomi,che vanno da quello di Nino Manfredi a quello di Vittorio De Sica,dalla splendida e indimenticabile Rosanna Schiaffino (qui nel suo unico nudo cinematografico) ad un elenco impressionante di bravi attori,che compaiono in parti molto piccole ma significative,come Vittorio Caprioli e Ottavia Piccolo,Leopoldo Trieste e Milena Vukotic,Gigi Ballista e Rossella Como fino a Enzo Cannavale,napoletano doc che interpreta un popolano trasteverino.
Tagliate invece in fase di distribuzione le parti di Martine Brochard , Riccardo Garrone e Umberto Orsini.
Trastevere è un film che va recuperato,perchè mostra con spirito autentico uno spaccato borgataro di Roma com’era ormai quasi mezzo secolo addietro;un viaggio non solo nello spirito della borgata,ma un percorso quasi archeologico,in una Roma assolata e autentica,
tra personaggi di ogni tipo.Un viaggio tra viuzze e osterie,condite da un linguaggio sicuramente colorito,ma specchio fedele dell’anima autenticamente popolare della borgata.
Venne accolto con diffidenza da molti critici,poco avvezzi alla spontaneità e molto più alle atmosfere costruite,false come un euro cinese.
Bello il tema iniziale,malinconico e cantato sull’onda del rimpianto,testimoniato dalla frase “se er monno va come va,che ce voi fa?“,opera dei fratelli Labionda (Oliver Onions)
Il film è disponibile in una versione discreta all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=JW7fHTso3Zk&t=25s.
Vi consiglio caldamente la sua visione.
Trastevere
Un film di Fausto Tozzi. Con Nino Manfredi, Leopoldo Trieste, Rosanna Schiaffino, Vittorio De Sica, Milena Vukotic, Umberto Orsini, Vittorio Caprioli, Ottavia Piccolo, Nino Musco, Enrico Formichi, Rossella Como, Gina Mascetti, Luciano Pigozzi,
Stefano Oppedisano, Marcella Valeri, Fiammetta Baralla, Enzo Cannavale, Carlo Gaddi, Nerina Montagnani,
Vittorio Fanfoni, Gigi Ballista, Don Powell, Giorgio Maulini, Lino Coletta Commedia, durata 104 min. – Italia 1971.
Scene censurate
Nino Manfredi: Carmelo Mazzullo
Rosanna Schiaffino: Caterina Peretti, detta Rama
Vittorio Caprioli: Don Ernesto
Ottavia Piccolo: Nanda
Vittorio De Sica: Enrico Formichi
Leopoldo Trieste: Il professore
Mickey Fox: Sora Regina
Milena Vukotic: Delia
Gigi Ballista: Il conte
Ronald K. Pennigton: Kerry
Luigi Uzzo: Cesare
Lino Coletta: Alvaro Diotallevi
Don Powell: John
Rossella Como: Teresa
Fiammetta Baralla: Gigliola
Enzo Cannavale: Straccaletto
Nino Musco: Il brigadiere
Luigi Valanzano: Sor Alfredo, il barista
Stefano Colazingari: Il figlio di Straccaletto
Marcella Valeri: Sora Nicolina
Lino Murolo: Il poliziotto
Goffredo Pistoni: Sor Toto
Luciano Pigozzi: Righetto
Vittoria Di Silverio: sora Amalia
Ada Passari: Sora Filomena
Olga De Marco: Sora Cesira[1]
Gérard Boucaron: Checco
Alberto Ciaffone: Settimio Rotoletti
Gina Mascetti: Sora Gertrude
Bruno Ciangola: Andrea
Franca Scagnetti: Sora Maria
Enrico Formichi: Il sagrestano
Carlo Gaddi: Parente di Righetto
Annarosa Garatti: Una donna alla finestra
Vittorio Fanfoni: Pierre
Stefano Oppedisano: Gaston
Leonardo Benvenuti: Il finanziere
Regia Fausto Tozzi
Sceneggiatura Fausto Tozzi
Produttore Alberto Grimaldi, Enzo Provenzale
Casa di produzione PEA
Fotografia Arturo Zavattini
Montaggio Nino Baragli, Carlo Reali
Musiche Oliver Onions
Scenografia Giantito Burchiellaro
“Quello che nun ho capito è se tu ar posto del cervello hai il peperone in umido o una manciata di segatura bagnata de piscio”
“Credete che dopo l’ultima enciclica der Papa se possa pija er cafè?”
“Come sei bello! Hai un viso da bambina su un corpo di gigante spirituale!”
“La guida tedesca: “Meno due,uno…fuoco…(il cannone del Giancolo tarda tre secondi)…Ecco,i soliti italiani…”
La famiglia
Subito dopo la prima metà degli anni ottanta il cinema italiano sembrava preda di una crisi irreversibile di identità.
Ormai solo i grandi registi del passato riuscivano ancora a proporre prodotti degni di menzione e sopratutto di una visione.
La concorrenza formidabile della tv domestica,dell’Home video (cassette ecc.) e la contemporanea crisi di disaffezione verso il cinema
di fatto svuotava le sale,che chiudevano ad un ritmo insostenibile.Eppure,in un quadro così desolante,il cinema di casa nostra riusciva a proporre
ogni tanto film di altissimo livello.
Nel 1987 Ettore Scola,uno dei registi più importanti del dopo guerra,presentò La famiglia,un film sceneggiato dallo stesso Scola con l’aiuto di esperti scrittori del grande schermo come Maccari,Scarpelli e Diana.
La pellicola,di ben 137 minuti di durata,racconta quella che a prima vista sembra una saga familiare,che abbraccia un arco temporale storico che va
dal primo decennio del novecento al 1986.
Una storia lunga ottant’anni quindi,vissuta dai numerosi protagonisti all’interno del luogo simbolo della società,quello dove si gioisce e si soffre,dove si ama e si costruisce,la base stessa della società civile,la famiglia.
Un grande appartamento,quasi sempre in penombra,vede sfilare genitori e figli,sorelle e nipoti,senza soluzione di continuità,mentre all’esterno la vita scorre con tutti i suoi accadimenti,che ovviamente hanno un riflesso sulla famiglia ma che in fondo restano marginali,funzionali solo alle storie personali di tutti i protagonisti,quasi che la famiglia stessa sia l’oasi in cui rifugiarsi e dimenticare tutte le pene gli affanni del quotidiano,un posto fuori dal tempo in cui tutti i protagonisti della storia recuperano in qualche modo la propria intimità,il proprio essere,prima come individuo che come essere meramente sociale.La famiglia si divide in nove sequenze temporali,grosso modo di un decennio circa.
Una delle invenzioni più importanti dell’ottocento,la fotografia,fa da muta testimone all’inizio della storia della famiglia in oggetto,della quale non conosciamo il cognome,così come non conosceremo il cognome di nessuno dei protagonisti.
E’ una foto ingiallita dal tempo,in cui le persone in posa guardano con occhio timido o sfrontato nell’obiettivo,con i loro vesti d’epoca ad esaltarne le figure ormai dimenticate quella che introduce le vicende della famiglia;raffigura il battesimo di Carlo,vero protagonista della storia,in braccio a suo nonno omonimo e accanto al padre Aristide,impiegato del ministero con qualche ambizione pittorica e sua madre Susanna,una tenera e scioccherella
cantante lirica.Ci sono le tre zitelle di casa,sorelle di Aristide; Luisa, Margherita e Millina pur essendo continuamente in competizione,sono legate da un affetto profondo che riverseranno sul resto della famiglia.
In ultimo,nella foto,c’è la domestica di casa con sua nipote Adelina.Altri personaggi meno importanti fanno parte della cerimonia del battesimo,ovvero il fratello di Aristide,il dottor Giordani,medico e amico di famiglia,il giovane fratello di Susanna e in ultimo la famiglia del fratello di Aristide.
Questa è la famiglia,nel 1907; dieci anni dopo ritroviamo Carlo ormai quasi adolescente con suo fratello Giulio,nato tre anni prima alle prese con un dilemma;sottrarre o no una banconota dal soprabito del dottor Giordani,accorso sul capezzale del nonno morente.
Con l’aiuto del cuginetto Enrico, i tre compiono il furtarello;che verrà scoperto casualmente dal padre,quando il dottor Giordani,privo di soldi,verrà fermato per non aver pagato il biglietto del tram.
Carlo,con dignità,si assumerà la responsabilità del suo gesto mentre Giulio confesserà solo involontariamente il furto;si capiscono quindi già le personalità future dei ragazzi,quella riflessiva e posata di Carlo,quella irrequieta di Giulio.
Mentre i famiglia ci sono questi screzi,piccole e grandi rivalità,amori mai nati come quello tra Millina e Giordani,il mondo affonda sempre più nella follia della guerra…
Terza parte,siamo nel 1926;Carlo, studente,da lezioni alla bella Beatrcie,che non gli nasconde le sue simpatie ,ma il giovane non ha occhi che per la seducente Adriana,sorella di Beatrice,ragazza spigliata ed indipendente.
Nel frattempo muore Aristide,Adriana comunica a Carlo di voler andar via dalla città destinazione Milano,per seguire un corso.Carlo cerca inutilmente di convincerla a restare, ma Adriana è gelosa della sua libertà e tra i due la relazione termina bruscamente.
Quarta parte,1938.Carlo si è sposato con la dolce Beatrice,insegna in un liceo e ha due figli,Paolino e Maddalena.
L’Italia è nel pieno della dittatura fascista;Giulio ha più di una simpatia per le idee del regime e intende partecipare alle guerre coloniali,nonostante la ferma e preoccupata reazione della giovane Adelina,che da tempo è la sua compagna.Carlo invece non condivide affatto
le idee del fratello,pur evitando di prendere pubblicamente posizione.Anche Adriana intanto ha avuto le sue affermazioni,è una stimata concertista,vive a Parigi .
Quinta parte,1947.La guerra è finita,Giulio torna a casa ma non è più lui;è un uomo depresso,stanco,distrutto nel fisico e nella mente.
Una sera capita a casa di Carlo Adriana con Jean Luc,il maturo fidanzato francese.In un impeto di gelosia,Carlo lo offende pesantemente,suscitando lo sdegno di Beatrice.Nel frattempo arriva a casa di Carlo la sempre fedele Adelina,che sopravvive facendo la borsa nera,per
incontrare l’amore della sua vita,Giulio.
Sesta parte,1956.Millina è morta,Giulio e Adelina si sono sposati e hanno adottato una bambina.Carlo è a casa,da solo;arriva Adriana in visita e Carlo scopre di desiderarla ancora.Ma Adriana rifiuta una relazione,per non ferire sua sorella.Luisa, Margherita e Susanna sono ormai
troppo anziane e affette da problemi di demenza senile.Non le vedremo più.
Settima parte,1966.Maddalena,figlia di Carlo e Beatrice ha deciso di lasciare suo marito perchè innamorata di un altro uomo.Anche Paolino ha una relazione con una donna separata e con due figli.
Ottava parte,1976.Carlo è rimasto solo,la fedele e dolce Beatrice è morta.Adriana gli rivela che sapeva tutto della loro relazione,ma che aveva sempre fatto finta di nulla,preoccupata per l’unità della famiglia.
Paolino ha sposato la donna separata,Marika, mentre Carlo ormai è quasi sempre solo,nella casa affollata da fantasmi.
Nona parte.Tempi attuali.E’ l’ottantesimo compleanno di Carlo e arrivano vecchie e nuove generazioni per festeggiare l’ottuagenario patriarca.
Una foto di gruppo chiude il film.
In ottanta anni di storia personaggi di tutti i tipi hanno frequentato la casa,legati o no da vincoli familiari;la casa è stata un porto di mare ma anche un rifugio,il mondo esterno,le due guerre,i dopoguerra,le ricostruzioni,il boom economico,il terrorismo hanno avuto un impatto sulle vite di tutti
ma non all’interno della famiglia.Così come nella casa sono man mano comparsi i simboli del progresso sociale,dalla radio fino alla tv,ma sono cose marginali.
Quello che conta è la famiglia,il suo ruolo fondamentale in una società che evolve ma che resta un’ancora di sicurezza,una barriera.
Scola ricostruisce tutto il percorso narrativo con momenti poetici e altri drammatici,con futilità e al tempo stesso con una profondità davvero impressionante.
Non era facile girare tre ore di pellicola in un interno,ma Scola utilizza tanti personaggi pieni di sfumature,di vitalità con pregi e difetti da far dimenticare l’ambientazione sicuramente claustrofobica.
Un linguaggio meta cinematografico fatto di sguardi,di piccole storie,di “fatterelli”,di piccole e grandi tragedie;un romanzo per immagini che scorre sublimando la scrittura in immagini di grande effetto.
Per girare una pellicola così complessa il regista si affida al meglio del cinema italiano,ad attori di consolidata bravura e espressività.
A partire da un intenso Vittorio Gassman passando per Stefania Sandrelli,i Dapporto padre e figlio (scelta felicissima);come non segnalare la bravissima Ottavia Piccolo,Joe Champa,Monica Scattini,Renzo Palmer,Fanny Ardant,il cameo di Philippe Noiret,e poi ancora Athina Cenci,Sergio Castellitto,Andrea Occhipinti…
Un cast memorabile per resa qualitativa,dove nessuno sbaglia un passaggio,un personaggio.
Accolto con gran favore dalla critica e dal pubblico,La famiglia ebbe anche la candidatura all’Oscar come miglior film straniero;ma era l’anno di L’ultimo imperatore,che aveva trionfato portando via 9 statuette su 9 nomination,sperare che un film italiano potesse portar via un altro premio importante era davvero cosa impossibile.
Peraltro a vincere l’Oscar fu un film bellissimo,Il pranzo di Babette di Gabriel Axel;si pensi che a concorrere quell’anno c’era in concorso Arrivederci ragazzi di Louis Malle…
6 David di Donatello,6 Nastri d’argento e 12 Ciak d’oro furono il giusto tributo ad un film bello ed intenso;va aggiunta anche la nomination alla Palma d’oro di Cannes e 2 Globi d’oro.
Il film è disponibile in una versione molto buona all’indirizzo http://www.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-5eb228ac-249c-4a2b-a62f-dc56bee330ba.html
Un film di Ettore Scola. Con Vittorio Gassman, Stefania Sandrelli, Fanny Ardant, Ottavia Piccolo, Cecilia Dazzi, Massimo Dapporto,
Athina Cenci, Carlo Dapporto, Philippe Noiret, Alessandra Panelli, Monica Scattini, Sergio Castellitto, Renzo Palmer,
Ricky Tognazzi, Barbara Scoppa, Andrea Occhipinti, Dagmar Lassander, Memè Perlini, Fabrizio Cerusico, Jo Champa,
Giuseppe Cederna, Massimo Venturiello, Paola Agosti, Toni De Leo, Alberto Gimignani, Silvana De Santis, Hania Kochansky,
Jacques Peyrac, Alessandra Zoppi, Francesca Balletta, Jo Campa, Andrea Livier Aronovich, Raffaela Davi Drammatico,
durata 127 min. -Italia 1987
Vittorio Gassman: Carlo uomo; nonno di Carlo
Andrea Occhipinti: Carlo ragazzo
Emanuele Lamaro: Carlo bambino
Cecilia Dazzi: Beatrice ragazza
Stefania Sandrelli: Beatrice
Jo Champa: Adriana ragazza
Fanny Ardant: Adriana adulta
Joska Versari: Giulio bambino
Alberto Gimignani: Giulio ragazzo
Massimo Dapporto: Giulio uomo
Carlo Dapporto: Giulio anziano
Ilaria Stuppia: Adelina ragazza
Ottavia Piccolo: Adelina adulta
Athina Cenci: Zia Margherita
Alessandra Panelli: Zia Luisa
Monica Scattini: Zia Ornella; Millina
Marco Vivio: Carletto bambino
Sergio Castellitto: Carletto uomo
Fabrizio Cerusico: Paolino ragazzo
Ricky Tognazzi: Paolino uomo
Philippe Noiret: Jean Luc
Renzo Palmer: Zio Nicola
Massimo Venturiello: Armando
Giuseppe Cederna: Enrico
Barbara Scoppa: Maddalena
Memè Perlini: Aristide
Dagmar Lassander: Marika
Andrea Livier Aronovich: Marina
Consuelo Pascali: Adelina bambina
Rafaela Davì: Portiera del palazzo
Regia Ettore Scola
Soggetto Ruggero Maccari, Furio Scarpelli, Ettore Scola
Sceneggiatura Ruggero Maccari, Furio Scarpelli, Ettore Scola, Graziano Diana
Produttore Franco Committeri per Mass Film – RAI – Les Film Ariane
Distribuzione (Italia) UIP
Fotografia Ricardo Aronovich
Montaggio Francesco Malvestito, Ettore Scola
Musiche Armando Trovajoli
Scenografia Cinzia Lo Fazio, Luciano Ricceri
L’amore è come la tosse, non si può nascondere
Ci sei poi andato a quella riunione con i compagni socialisti? Sì, ma ho litigato con tutti. Tu litighi sempre con quelli che la pensano come te.
Forse dovresti metterti con quelli che la pensano diversamente.
Il momento più bello delle feste è quando si resta soli a sparlare.
Ai figli che non danno pensieri, si dedicano pochi pensieri!
A cosa pensi?
E chi pensa? All’età mia non si pensa più: solo ricordi.
Che retorica, proprio da vecchietto… E come sarebbero questi ricordi? Belli?
No, quelli sono i peggiori: che ti fanno dire “era meglio prima”, una frase che non bisogna dire mai. No, tutto sommato i migliori sono i ricordi brutti.
E così ho compiuto ottant’anni. Sono molti? Sono pochi? Pare che sia l’età più bella…
Come stai, zietto?
Quando mi sento meglio, mi sento peggio.
L’evaso
Francia,anni 30
In un piccolo paese rurale della provincia francese arriva Jean Lavigne, un evaso dal carcere della Cayenna, dove è stato rinchiuso per aver assassinato due uomini politici.
L’uomo decide di stabilirsi in paese abitato da poche anime e trova lavoro presso la vedova Tati Couderc, una donna precocemente invecchiata dal duro lavoro, dalla vedovanza e sopratutto sfibrata dalla lotta con i parenti del defunto marito, decisi a sottrarle la proprietà ereditata.
Incurante dell’ostilità dei parenti e degli abitanti del paese, Tati Couderc assume Jean, dandogli un tetto e del vitto.
Dopo un periodo di diffidenza, Tati sembra legarsi a quell’uomo silenzioso e misterioso e Jean, forse per riconoscenza, forse per affetto sembra ricambiare il sentimento.
Alain Delon
Simone Signoret
Così tra i due nasce una relazione, ma Jean nel frattempo allaccia un’amicizia con coinvolgimento amoroso anche con Felicie, una giovane ragazza madre parente di Tati.
La vedova Couderc ben presto capisce che Jean nasconde qualcosa ma decide comunque di difenderlo dalla preoccupata e interessata attenzione dei parenti.
Jean commette l’errore di parlare troppo con Felicie che imprudentemente si sbottona con i genitori; è l’inizio della fine, perchè all’improvviso in paese arriva un esercito di gendarmi che circondano la fattoria di Tati.
Jean muore crivellato dai colpi dei gendarmi e ……
Ottavia Piccolo
Il regista francese Pierre Granier-Deferre dirige nel 1971 L’evaso, scrivendo la sceneggiatura con Pascal Jardin e adattando un romanzo di Simenon per il grande schermo. Non è un adattamento fedele alla lettera ma è una trasposizione in cui le atmosfere e una nostalgia palpabile pervadono un film che fa dell’ambientazione e della descrizione dei personaggi il suo punto di forza.
L’atmosfera gretta e meschina del piccolo borgo rurale nel quale si svolge la storia, le due vite lontanissime che finiscono per diventare complementari, quelle di Jean e Tati,la malinconica provincia francese fotografata come meglio non si potrebbe da Walter Wottitz contribuiscono a rendere L’evaso un film sicuramente da ricordare.
Se la storia in fondo è semplicissima, va apprezzato il tentativo di Granier-Deferre, autore di alcuni film di ottima fattura come Un battito d’ali dopo la strage, Le chat – l’implacabile uomo di Saint Germain e Il clan degli uomini violenti, di rendere il film visivamente potente, senza curarsi molto della velocità del film.
Che infatti scorre lentissimo, come il fiume del villaggio o come le vite dei suoi abitanti, meschinamente attaccati al possesso dei beni materiali proprio perchè isolati in una comunità assolutamente chiusa all’esterno, agli altri.
E’ un mondo piccolo e dalle vedute ristrette, quello in cui si trovano a vivere il loro personale dramma i due personaggi del film; il primo, Jean, è un evaso del quale praticamente non sappiamo nulla, se non che ha ucciso due politici e che vorrebbe tornare a casa sua, ma che vedrà il suo destino legarsi a quello di Tati Couderc.
Una donna sola, energica, invecchiata anzi tempo sia dalla solitudine che dal duro lavoro dei campi.
Ma anche dalla tensione, da quel doversi difendere quotidianamente dall’ostilità dei parenti del marito, che le contestano l’eredità ricevuta.
Tati è ancora una donna in grado di dare e ricevere amore; lo dimostrerà decidendo di non denunciare Jean, anzi, di stringerlo a se nonostante i pettegolezzi feroci dei paesani.
Il terzo personaggio del film è la giovane e selvaggia Felicie, una ragazza madre con un’indole libera ma anche con un cervello da uccellino: sarà proprio lei la causa del finale drammatico delle vite di Jean e Tati.
In tutto questo Deferre ci mette la mano con delicatezza, preferendo allungare smodatamente i tempi narrativi, lasciando quindi allo spettatore la libertà di gustarsi la placida indolenza di una parte di provincia francese assolata e sonnacchiosa in perfetta comunione con i suoi abitanti.
Che però hanno tutti i pregi e maggiormente tutti i difetti di coloro che vivono in una comunità chiusa ed ermeticamente riluttante a qualsiasi novità.
L’arrivo di Jean turberà quell’equilibrio stagnante fino al finale in cui l’arrivo di moltissimi gendarmi e il sibilo di centinaia di pallottole non squarcerà drammaticamente il silenzio di un piccolo microsmo in precario equilibrio, in nettissimo contrasto con la placida natura che circonda la scena del dramma.
Jean cade senza aver potuto nemmeno sparare un colpo, cade in un’aiuola brulla e desolantemente bruciata dal sole.
Un finale amaro ma se vogliamo ampiamente preventivabile; Jean paga il suo doppio omicidio, paga quel passato oscuro che si porta dietro, ma paga principalmente l’invidia e l’avidità di un pugno di paesani gretti e meschini, così come Tati paga la sua indipendenza, quell’essere ferocemente gelosa della sua indipendenza.
Il grande valore aggiunto del film è rappresentato dalla presenza di due tra i migliori attori francesi della seconda parte del novecento: Simone Signoret e Alain Delon, due volti perfetti per due personaggi dolenti e perdenti.
La Signoret è uno spettacolo da vedere, Delon è la classica canaglia dal volto umano, un ruolo che l’attore francese replicherà molte volte, sempre fedele al personaggio che si è costruito nel corso degli anni; a loro va aggiunta la bellissima e seducente Ottavia Piccolo che completa il cast di un film decisamente bello e affascinante.
Una nota finale; in Italia il film venne distribuito con il titolo L’evaso in luogo del titolo originale La veuve Couderc, spostando quindi l’attenzione dal personaggio principale di Tati Couderc a quello indubbiamente importante di Jean, un chiaro espediente per avvicinare alla visione del film i numerosi fan dell’attore francese.
L’evaso è un film di facile reperibilità, che nella versione originale ha un fascino ancora migliore, grazie alla musicalità del francese parlato in origine; trasmesso più volte dalle tv private, è disponibile anche in digitale.
L’evaso
Un film di Pierre Granier-Deferre. Con Alain Delon, Jean Tissier, Simone Signoret, Ottavia Piccolo Titolo originale La veuve Couderc. Drammatico, durata 88′ min. – Francia 1971.
Regia Pierre Granier-Deferre
Soggetto Georges Simenon – romanzo
Produttore Raymond Danon
Fotografia Walter Wottitz
Montaggio Jean Ravel
Musiche Philippe Sarde
Scenografia Jacques Saulnier
Costumi Jacques Cottin
Trucco Maud Begon
Simone Signoret: Tati Couderc
Alain Delon: Jean Lavigne
Ottavia Piccolo: Félicie
Jean Tissier: Henri Couderc
Pierre Collet: commissario Mallet
François Valorbe: colonnello Luc de Mortemont
Jean-Pierre Castaldi: ispettore
Bubù
La bella e giovane Berta lavora in una filanda, sognando come tutte le ragazze della sua età solamente un amore e una vita tranquilla.
Crede di realizzare i suoi sogni il giorno che incontra Bubù, un giovane che dice di lavorare come fornaio.
Ma Bubu non ha alcuna voglia di lavorare e dopo aver fatto facilmente breccia nel cuore della ingenua Berta, la convince a prostituirsi con la scusa che in questo modo avranno presto i soldi per sposarsi.
Berta, innamorata, accondiscende e da quel momento diventa una delle tante ragazze parigine costrette a vendere il proprio corpo per una manciata di denaro.
La vita avvilente che fa la convince sempre più a cercare di uscire dal tunnel nel quale si è infilata e la cosa sembra diventare possibile quando Bubù viene arrestato; Berta, che nel frattempo ha conosciuto tra i suoi clienti il timido Piero, sogna di potersi rifare una vita con lui. Per qualche tempo il sogno sembra potersi realizzare perchè la ragazza torna ad essere una ragazza qualsiasi, innamorata del suo uomo e che fa le cose più innocenti, come una passeggiata o mangiare in compagnia un gelato.
Ma Bubu esce dal carcere e…..
Tratto dal romanzo di Charles-Louis Philippe dal titolo Bubu di Montparnasse e ridotto per lo schermo da Mauro Bolognini nel 1971, Bubu è un film che ricalca quasi fedelmente il romanzo originale dal quale si distingue solamente in qualche cosa che non aggiunge o toglie nulla all’originale scritto da Philippe nel 1901
Un film raffinato, come del resto nella tradizione del regista toscano, che nei due anni precedenti alla realizzazione di questo film aveva diretto il protagonista principale, l’attore Massimo Ranieri, in due film di buon successo, ovvero Metello e Imputazione di omicidio per uno studente.
Bolognini ricostituisce quindi la coppia Massimo Ranieri-Ottavia Piccolo, che così buona prova di se aveva dato in Metello, uno dei grandi successi della stagione 1970 e affida loro i due personaggi chiave della storia, ovvero il timido e impacciato Piero e la ingenua e sprovveduta Berta.
Ottavia Piccolo
Massimo Ranieri e Gigi Proietti
Attorno alle vicende dei due impossibili amanti, Bolognini ricrea l’atmosfera di una Parigi degli inizi 900 vista nei suoi angoli più autenticamente popolari; la tintoria, i boulevard secondari, la squallidissima stanza o le stanze sempre disadorne nelle quali la sventurata Berta riceve i suoi amanti di un’ora si aggiungono ad una visione di una Parigi non di certo da cartolina, come del resto appariva nel romanzo di Phlippe.
E’ questa una delle caratteristiche principali del film di Bolognini, del resto sempre attento nel corso della sua carriera nell’offrire allo spettatore una visione del contesto storico e sociale quanto più aderente possibile all’evento narrato.
Come in Metello o in L’eredità Ferramonti o in Per le antiche scale, l’ambiente finisce per avere una predominanza fortissima;
ma ovviamente il tutto si amalgama nella storia raccontata che ha, al centro dell’attenzione, la vita dei personaggi che animano il film.
In questo caso i personaggi focalizzati e raccontati sono tre; il primo è il classico ragazzo da mauveais rue, il fornaio Bubu, lo squallido corruttore della giovane Berta.
Un uomo privo di ogni regola morale, poco o per nulla attratto dal lavoro che scopre come svangare la giornata nel momento in cui conosce la timida Berta.
La quale è la classica ragazza del proletariato che altro non sogna che l’amore e la famiglia.
Una ragazza già consapevole che nel suo strato sociale altre scelte di vita non sono possibili e che quindi accetta con fatalità la sorte che le viene dalla sua estrazione popolare.
Per amore Berta sceglierà di assecondare lo scaltro Bubu, che le promette il matrimonio ma che la convince anche ad abbreviare i tempi per raggiungerlo nel modo più veloce possibile, ovvero inducendo la disgraziata ragazza alla prosituzione.
Così Berta finisce per diventare una donna perduta, una prostituta che passa da cliente a cliente per racimolare i soldi che il furbo Bubu comunque le estorce e che ben presto si mostrerà per quello che è nella realtà, un pappone che ha scoperto come vivere comodamente senza lavorare.
Il sogno di Berta quindi si dissolve ma riacquista forza il giorno che il suo sfruttatore finisce in prigione; l’affetto sincero di Piero, che la ama e vorrebbe trascinarla fuori dal fango nel quale è caduta sembra davvero essere in grado di compiere il miracolo.
Ma il destino di Berta è segnato e il finale, amarissimo, mostrerà come il sogno della ragazza e di tante altre sue coetanee sia destinato a restare tale.
Accanto alle squallide vicende di Bubu e Berta, appena nobilitate dall’amore disinteressato di Piero, si muove un mondo sordido e corrotto, una Parigi letteralmente divisa in due: da un lato gli eleganti lungo Senna e i giardini curatissimi, la borghesia che sfoggia vestiti eleganti e cappellini, ombrelli finemente ricamati e carrozze, dall’altro le condizioni di vita miserabili del proletariato, lo squallore che diventa emblema assoluto di una classe sociale.
Accanto alla descrizione accurata di Bolognini, vero punto di forza del film che si muove su una sceneggiatura lineare e semplice vincolata com’è dal romanzo breve di Philippe va segnalata la prova maiuscola dei due attori principali.
Ottavia Piccolo, bellissima e intensa, è una Berta credibilissima, quasi francese nel suo essere così naturalmente inserita nella struttura portante del film, quel mondo proletario che ne esalta la virginea bellezza che verrà deturpata proprio dal mondo nel quale vive e dal quale non c’è via d’uscita.
Molto bravo anche Massimo Ranieri, attore credibilissimo capace di dare un’aria di pulizia ad un personaggio che in fondo richiedeva solo questo, ovvero essere in contrasto palese con il mondo sordido nel quale vive Berta.
L’attore napoletano conferma quindi la sua abilità istrionica, così come molto convincenti sono le altre interpretazioni degli altri personaggi del film, a partire da quella dello squallido Bubu interpretato da Antonio Falsi e quella di Gigi Proietti, questa volta sacrificato in un ruolo secondario.
Splendida la fotografia di Guarnieri, adeguate le musiche di Rustichelli.
A margine mi preme sottolineare una cosa, ovvero l’accoglienza fredda, quasi snob riservata al film alla sua uscita.
Il che evidenzia un aspetto paradossale della cinematografia dell’epoca; se si snobba un film di ottima fattura come questo, vuol dire che la critica cinematografica dell’epoca era davvero abituata troppo bene, forse complice la grande statura del cinema italiano dell’epoca, che sfornava capolavori e ottimi prodotti a getto continuo.
Gli ipercritici di allora potessero fare un raffronto con la qualità del cinema degli ultimi vent’anni rivaluterebbe il 50% di ciò che venne all’epoca ingiustamente denigrato.
Bubù
Un film di Mauro Bolognini. Con Ottavia Piccolo, Gianna Serra, Luigi Proietti, Massimo Ranieri, Jole Silvani, Marcella Valeri, Brizio Montinaro, Antonio Falsi, Nike Arrighi Titolo originale Bubu. Drammatico- durata 99′ min. – Italia 1971.
Massimo Ranieri… Piero
Ottavia Piccolo … Berta
Antonio Falsi … Bubu
Gigi Proietti … Giulio
Regia: Mauro Bolognini
Sceneggiatura: Mauro Bolognini, Mario di Nardo,Giovanni Testori
Romanzo: Charles-Louis Philippe
Produzione: Manolo Bolognini .
Musiche: Carlo Rustichelli
Montaggio: Nino Baragli
Fotografia: Nino Baragli
Costumi: Piero Tosi
La cosa buffa
Storia di un amore contrastato tra un maestro elementare (Antonio) e Maria Borghetto, figlia di un ricchissimo uomo d’affari veneziano.
Un amore impossibile, alla luce delle differenti provenienze sociali dei due; Antonio è figlio di gente comune, studia all’università ma senza nessuno stimolo mentre Maria vive la sua realtà fatta di un presente senza problemi particolari, nè economici nè d’altro tipo.
La ragazza ricambia subito l’affetto del ragazzo, ma incontra anche l’assoluta intransigenza dei genitori, nettamente contrari ad un’unione che loro mal vedono.
Per la figlia infatti hanno in serbo ben altri progetti.
Una deliziosa Ottavia Piccolo è Maria
Antonio sembra anche affetto da problemi con l’altro sesso: infatti dopo un incontro con una strana ragazza ungherese che ha a sua volta un problematico rapporto saffico con una sua cugina, esce frustrato dall’esperienza perchè non ottiene un orgasmo.
Non gli va meglio con Maria; la ragazza, nonostante sua madre vegli continuamente, va a trovare il giovane per concedersi anima e corpo.
Infatti proprio sul più bello arriva la terribile madre della giovane a interrempere l’idilio, con conseguenze prevedibili.
Antonio così riprova con la ragazza ungherese, nuovamente interrotto sul più bello questa volta proprio dall’amante della ragazza.
Rosita Torosh e Veronique Darel, le cuginette
Sembra una nemesi, quella del giovane; nessuna donna sembra abbordabile, perchè c’è sempre un intoppo a rendere le cose impossibili.
Nel frattempo il padre di Maria decide di corrompere Antonio, arrivando ad offrirgli molti soldi pur di liberarsi dello stesso.
Con un sussulto di dignità, Antonio rifiuta il denaro e deluso ritorna alla sua vita piatta di provinciale.
Tratto dal romanzo di Berto (omonimo) La cosa buffa è realizzato da Aldo Lado nel 1972; lo score precedente a questo film del regista fiumano parla di opere altalenanti.
Passato dall’incerto La corta notte delle bambole di vetro del 1971, opera d’esordio come regista a Chi l’ha vista morire? ottimo thriller dell’anno successivo, Lado si cimenta con una riduzione cinematografica di un romanzo graffiante di Berto.
Che non fosse aria lo si capisce immediatamente dalla sceneggiatura; laddove il romanzo di Berto punta l’indice sulle difficoltà di relazione tra giovani, divisi anche da cultura e ceto sociale, uniti solo dalle tempeste ormonali e dalla difficile ricerca di un equilibrio personale, Lado non si capisce bene dove vada a parare.
Il film infatti a tratti diventa irritante, come il protagonista assoluto della storia, quell’Antonio che sembra il prototipo del vitellone di provincia che arriva in città convinto di fare strage e che finirà amaramente per tornarsene con le pive nel sacco.
Diventa irritante perchè Lado caratterizza in negativo il personaggio, ben più di quanto faccia Berto nel romanzo e in più affida il ruolo di interprete del maestro/studente a Gianni Morandi, passato dalle canzonette e dai musicarelli a ruoli cinematografici che mostra con chiarezza di non saper o poter padroneggiare.
Così il film si immalinconisce e ben presto perde efficacia e sopratutto smarrisce la rotta.
La forte criticità e l’ironia di Berto vengono stravolte dal regista e trasformate in qualcosa di indistinto: la bravissima Ottavia Piccolo si trova a gestire un ruolo la cui sceneggiatura sembra tagliata più che con l’accetta con un Black and Decker.
Un film scollato, in pratica.
Perchè l’atmosfera creata da Berto, la cosa buffa che poi buffa non è e che ha tutto il sapore della tragicità si trasforma sotto la regia di Lado in una cosa quasi comica, o sarebbe meglio dire tragicomica.
Si, d’accordo che un film non può mai rendere l’atmosfera di un romanzo per i motivi mille volte citati, ma stravolgerne completamente il significato limitandosi a riprendere solo i personaggi per renderli involontariamente (quanto involontariamente?) ridicoli è operazione poco lusinghiera.
Dal naufragio in cui ben presto viene a trovarsi il film si salva solo la brava e bellissima Ottavia Piccolo; il suo candore ben si mescola (parlo del film) ai primi pruriti sessuali , che sono quasi assenti nel romanzo.
La Piccolo si adegua e tira fuori un personaggio ben caratterizzato e credibile, pur nel quadro poco credibile del film.
Naufragio ben più pesante per Morandi, impacciato e poco espressivo, alle prese con un personaggio non nelle sue corde (ma in realtà qual’era il personaggio adatto a lui, cinematograficamente?)
Bene Giusy Raspani Dandolo, bella e sexy Rosita Torosh ovvero la cugina lesbica di Marika, la ragazza ungherese.
In ultimo, citazione per la solita affascinante Venezia, una delle location più usate durante gli anni settanta (ripescata da Lado dopo il successo di Chi l’ha vista morire?), musiche non proprio memorabili del grande maestro Morricone.
La cosa buffa, un film di Aldo Lado. Con Angela Goodwin, Gianni Morandi, Ottavia Piccolo, Dominique Darel, Giusi Raspani Dandolo, Fabio Garriba, Riccardo Billi, Luigi Casellato, Claudia Giannotti, Rosita Torosh
Commedia, durata 108 min. – Italia, Francia 1972.
Gianni Morandi … Antonio
Ottavia Piccolo … Maria Borghetto
Angela Goodwin … La padrona della pensione
Fabio Garriba … Benito
Claudia Giannotti … La sorella di Antonio
Nino Formicola … Il padre di Antonio
Rosita Torosh … Vera , la cugina di Marika
Luigi Casellato … Amedeo il barbiere
Riccardo Billi … Il papa di Maria
Ilario Borghetto – La sorella di Maria
Dominique Darel … Marika
Giusi Raspani Dandolo … La madre di Maria
Regia di Aldo Lado
Dal romanzo omonimo di Giuseppe Berto
Sceneggiatura di Alessandro Parenzo e Aldo Lado
Prodotto da Giovanni Bertolucci
Musiche di Ennio Morricone
Il regista del film, Aldo Lado