Trastevere
Irriverente e a tratti goliardico,sottilmente anticlericale e a volte blasfemo,pieno di difetti che però alla lunga diventano pregi.
Trastevere,opera prima ed unica di Fausto Tozzi, comprimario di buona caratura,è il sogno di un attore che si realizza e diventa realtà,un film
in cui non mancano certo idee originali e una ridanciana visione del proletariato del più celebre dei quartieri romani,Trastevere.
L’attore romano,che negli anni 50 recitò in film di largo successo come Casta diva e Casa Ricordi o Beatrice Cenci per anni aveva coltivato il sogno di dirigere un film scopertamente popolare.
L’occasione arrivò finalmente nel 1971,quando riuscì a convincere il produttore Alberto Grimaldi ad affidargli la direzione di Trastevere,del quale scrisse anche la sceneggiatura.
Un film che ebbe una gestazione travagliata e che quando uscì nelle sale dovette subire tagli della censura (assolutamente immotivati)
oltre che un rimaneggiamento in alcune sequenze girate e che furono tagliate in fase di montaggio,principalmente per volontà del produttore.
Tagli e mutilazioni che però non compromettono l’equilibrio del film,che per sua natura e per sceneggiatura non contempla un andamento univoco,essendo principalmente una raccolta di storie legate ad un comune filo conduttore,quello delle vicissitudini della cagnetta Mao che,smarrita improvvidamente da un cantante lirico,finirà per passare di mano in mano attraverso un viaggio nel popolare quartiere romano,in cui vivono personaggi stravaganti ed eccessivi,eppure così vicini all’autentico spirito popolare romanesco.
Il viaggio di Mao è l’occasione per conoscere lo spirito autenticamente popolare di alcuni personaggi,chiaramente ispirati al vero;il contrabbandiere che per non finire in galera ci manda in sua vece una povera vecchia,l’usuraia che muore durante un pellegrinaggio,l’hippie suicida dopo una relazione omosessuale con un ricco e laido aristocratico,il vedovo che insegue implacabilmente l’uomo che gli aveva ucciso la moglie prostituta,
il vizioso che fa si che la moglie abbia una relazione sessuale con un macellaio ecc.
Una galleria di personaggi forse troppo caricaturati,grotteschi nella loro mancanza di morale e di pudore,ma che in qualche modo sono riconoscibili nei vizi e virtù di un proletariato che anni dopo un altro regista,Scola,avrebbe descritto spietatamente usando l’ambientazione delle baraccopoli romane in Brutti sporchi e cattivi.
Come dicevo,il film subì alcuni rimaneggiamenti;uno riguarda una sequenza che inquadra due pescatori,uno dei quali tira su un preservativo;la battuta “questa è tutta colpa del Papa,che se non si opponeva alla pillola stò schifo nun se vedeva”
venne giudicata irriguardosa e censurata,così come venne tagliata l’innocente sequenza girata a piazza Navona in cui la Schiaffino,vestita da hippy viene apostrofata da un gruppo di giovinastri,uno dei quali dice “ammazzala quant’è bona,c’ha un culo che parla“mentre un altro chiede “ma che è indiana?” e l’ultimo,con il solito sarcasmo romanesco di fronte alla noncuranza della donna,risponde “no,è stronza”
Come si può leggere,battute che in seguito sarebbero divenute la norma,ma che a inizi del 1971 facevano scandalizzare i moralisti benpensanti della commissione censura.
Fausto Tozzi morì nel 1978,quindi solo sette anni dopo aver realizzato questo film,senza più avere la possibilità di esprimere un talento registico che indubbiamente possedeva;
lo si può notare nella freschezza dei dialoghi,nella vena autenticamente popolana dei dialoghi,nell’irriverenza con cui tratta argomenti delicati e sopratutto nella genuina rappresentazione di un mondo,quello trasteverino,che oggi è indissolubilmente scomparso, avendo lasciato il posto ad un quartiere meno spontaneo e folkloristico,in cui tutto sembra ormai artefatto,ad uso e consumo degli immancabili turisti che popolano la capitale.
Un film oggi assolutamente non più proponibile come tematica;un certo tipo di cinema è scomparso quando il dio denaro ha definitivamente spento le velleità di tanti cineasti coraggiosi che sfidavano la morale,il costume e le stesse produzioni proponendo opere coraggiose,spesso non equilibrate,confuse,ma assolutamente spontanee.
Nel cast di Trastevere figurano numerosi grandi nomi,che vanno da quello di Nino Manfredi a quello di Vittorio De Sica,dalla splendida e indimenticabile Rosanna Schiaffino (qui nel suo unico nudo cinematografico) ad un elenco impressionante di bravi attori,che compaiono in parti molto piccole ma significative,come Vittorio Caprioli e Ottavia Piccolo,Leopoldo Trieste e Milena Vukotic,Gigi Ballista e Rossella Como fino a Enzo Cannavale,napoletano doc che interpreta un popolano trasteverino.
Tagliate invece in fase di distribuzione le parti di Martine Brochard , Riccardo Garrone e Umberto Orsini.
Trastevere è un film che va recuperato,perchè mostra con spirito autentico uno spaccato borgataro di Roma com’era ormai quasi mezzo secolo addietro;un viaggio non solo nello spirito della borgata,ma un percorso quasi archeologico,in una Roma assolata e autentica,
tra personaggi di ogni tipo.Un viaggio tra viuzze e osterie,condite da un linguaggio sicuramente colorito,ma specchio fedele dell’anima autenticamente popolare della borgata.
Venne accolto con diffidenza da molti critici,poco avvezzi alla spontaneità e molto più alle atmosfere costruite,false come un euro cinese.
Bello il tema iniziale,malinconico e cantato sull’onda del rimpianto,testimoniato dalla frase “se er monno va come va,che ce voi fa?“,opera dei fratelli Labionda (Oliver Onions)
Il film è disponibile in una versione discreta all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=JW7fHTso3Zk&t=25s.
Vi consiglio caldamente la sua visione.
Trastevere
Un film di Fausto Tozzi. Con Nino Manfredi, Leopoldo Trieste, Rosanna Schiaffino, Vittorio De Sica, Milena Vukotic, Umberto Orsini, Vittorio Caprioli, Ottavia Piccolo, Nino Musco, Enrico Formichi, Rossella Como, Gina Mascetti, Luciano Pigozzi,
Stefano Oppedisano, Marcella Valeri, Fiammetta Baralla, Enzo Cannavale, Carlo Gaddi, Nerina Montagnani,
Vittorio Fanfoni, Gigi Ballista, Don Powell, Giorgio Maulini, Lino Coletta Commedia, durata 104 min. – Italia 1971.
Scene censurate
Nino Manfredi: Carmelo Mazzullo
Rosanna Schiaffino: Caterina Peretti, detta Rama
Vittorio Caprioli: Don Ernesto
Ottavia Piccolo: Nanda
Vittorio De Sica: Enrico Formichi
Leopoldo Trieste: Il professore
Mickey Fox: Sora Regina
Milena Vukotic: Delia
Gigi Ballista: Il conte
Ronald K. Pennigton: Kerry
Luigi Uzzo: Cesare
Lino Coletta: Alvaro Diotallevi
Don Powell: John
Rossella Como: Teresa
Fiammetta Baralla: Gigliola
Enzo Cannavale: Straccaletto
Nino Musco: Il brigadiere
Luigi Valanzano: Sor Alfredo, il barista
Stefano Colazingari: Il figlio di Straccaletto
Marcella Valeri: Sora Nicolina
Lino Murolo: Il poliziotto
Goffredo Pistoni: Sor Toto
Luciano Pigozzi: Righetto
Vittoria Di Silverio: sora Amalia
Ada Passari: Sora Filomena
Olga De Marco: Sora Cesira[1]
Gérard Boucaron: Checco
Alberto Ciaffone: Settimio Rotoletti
Gina Mascetti: Sora Gertrude
Bruno Ciangola: Andrea
Franca Scagnetti: Sora Maria
Enrico Formichi: Il sagrestano
Carlo Gaddi: Parente di Righetto
Annarosa Garatti: Una donna alla finestra
Vittorio Fanfoni: Pierre
Stefano Oppedisano: Gaston
Leonardo Benvenuti: Il finanziere
Regia Fausto Tozzi
Sceneggiatura Fausto Tozzi
Produttore Alberto Grimaldi, Enzo Provenzale
Casa di produzione PEA
Fotografia Arturo Zavattini
Montaggio Nino Baragli, Carlo Reali
Musiche Oliver Onions
Scenografia Giantito Burchiellaro
“Quello che nun ho capito è se tu ar posto del cervello hai il peperone in umido o una manciata di segatura bagnata de piscio”
“Credete che dopo l’ultima enciclica der Papa se possa pija er cafè?”
“Come sei bello! Hai un viso da bambina su un corpo di gigante spirituale!”
“La guida tedesca: “Meno due,uno…fuoco…(il cannone del Giancolo tarda tre secondi)…Ecco,i soliti italiani…”
L’erotomane
Una carriera in crescita come manager senza scrupoli di un’azienda petrolifera,una splendida moglie e un’altrettanto splendida
amante.
Ma il cavalier Persichetti,a questi successi deve sommare un grosso problema personale.
Negli ultimi mesi,quasi come paradossale nemesi personale,più ha avuto successo negli affari più ha avvertito problemi di impotenza che sfociano in frustrazione nel non poter più consumare rapporti con le donne della sua vita.
Così decide di affidarsi alle cure di uno stravagante psicologo/sessuologo che tenta di analizzare il problema e rimuoverlo,
convinto che si tratti di un trauma infantile.
Ma nonostante lo psicologo le provi tutte,Persichetti resta refrattario ad ogni cura e alla fine dovrà arrendersi…
Succinta descrizione della trama di L’erotomane,film di Marco Vicario del 1974 che segue la più che buona prova fornita
con la sua direzione precedente,quel Paolo il caldo ricavato da un romanzo di Brancati che aveva rinsaldato la buona fama
del regista,autore tra l’altro del più grande successo al botteghino del 1971,Homo eroticus.
Gastone Moschin e Milena Vukotic
Questa volta però Vicario sbraca abbastanza visibilmente,con una commedia erotica ricca di seni e glutei e priva di ogni divertimento,
a meno che non si consideri tale l’assistere a scenette ripetute all’infinito,battute stanche e sogni onirici del protagonista,
un cavalier Persichetti affarista e speculatore,che paga il successo nel lavoro con la perdita della virilità.
A parte la trama inconsistente e pecoreccia,Vicario sbaglia quasi tutto quello che può sbagliare.
A partire dalla scelta del protagonista,affidata ad un Gastone Moschin semplicemente imbarazzante;la logica avrebbe voluto che si ricomponesse
la coppia tra Vicario e Buzzanca,vero stereotipo del maschio all’italiana,che aveva portato al successo quell’Homo eroticus
di ben altro livello rispetto ai modestissimi risultati raggiunti con questa pellicola.
Moschin,grande interprete leggero,appare spaesato in un ruolo principale che non sente e che evidentemente non ama.
A nulla vale il cast affiancatogli,che presenta nomi di un certo spessore del cinema settantiano italiano.
Nei due fotogrammi:Janet Agren
Mi riferisco alle bellissime Janet Agren,Silvia Dionisio e Paola Senatore,Isabella Biagini e Nada Arneric; non meno valido dal punto di vista rappresentativo il cast maschile,con la presenza dell’onnipresente Caprioli (viscido e corrotto politico) e di Jacques Dufilho,lo strambo e stravagante psicanalista,reduce dai successi del suo personaggio più famoso,il colonnello Buttiglione.
Nel 1974 la commedia sexy o erotica mostrava la corda,anche se era comunque molto seguita.
Ma l’uscita di tanti prodotti praticamente fatti in copia carbone spesso allontanava il grande pubblico e a quanto pare anche i critici,
che spesso recensivano questi prodotti senza nemmeno vederli.
Come acutamente fa notare Gordiano Lupi,basta leggere cosa scrive ad esempio il Mereghetti sbagliando completamente il sunto della trama:
“Un cinico avvocato sfoga la sua impotenza sessuale diventando uno spregiudicato affarista, mentre tutte le cure per recuperare la virilità sono vane.
Solo lo shock di sapersi cornuto lo sblocca e lo trasforma in un forzato del sesso a tutti i costi. Classica commediola, neanche troppo originale,
che scivola verso il genere pecoreccio”
Silvia Dionisio
O anche Farinotti,generalmente abbastanza affidabile,che fa lo stesso errore:“In seguito ad uno choc infantile, il cavalier Persichetti è diventato impotente. Per guarire le tenta tutte, ma soltanto nel vedere la moglie a letto con un altro riesce a “sbloccare” il vecchio trauma.
Da quel momento in poi diventerà un maniaco sessuale”
A parte le generose forme delle protagoniste,c’è ben poco da guardare nel film;particolarmente noiose sono le sequenze in cui
Moschin racconta come intende approfittare della crisi petrolifera per speculare,o i vari siparietti immaginari in cui fantastica sulla segretaria dello psicanalista (ovviamente sognata completamente nuda)
Non manca il solito,pecoreccio amplesso tentato sul terrazzo con le immancabili studentesse ( e monache) che osservano
un po vogliose un po imbarazzate i goffi tentativi di Moschin/Persichetti di sedurre la bella cameriera.
Brutto film,decisamente.
Rimasto per quasi 40 anni in un cassetto e magicamente riapparso poco tempo fa e oggi disponibile in una versione mediocre su
you tube all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=98-Q52fcBHo
Da segnalare soltanto dal punto di vista visivo il bel campionario vintage che riguarda oggetti,vestiario e auto.
Maria Antonietta Beluzzi
L’erotomane
Un film di Marco Vicario. Con Janet Agren, Milena Vukotic, Vittorio Caprioli, Gastone Moschin, Isabella Biagini, Silvia Dionisio, Mario Colli, Andrea Scotti, Ugo Fangareggi, Jacques Herlin, Eugene Walter, Gaetano Scala, Neda Arneric, Jacques Dufilho, Paola Senatore, Livio Galassi, Carla Brait, Mauro Vestri, Giacomo Rizzo, Loredana Martinez, Rosita Torosh, Paolo Paoloni Commedia, durata 100 min. – Italia 1974
Gastone Moschin: Rodolfo Persichetti
Isabella Biagini: Dott.sa Bonetti
Janet Agren: Ciccia, la moglie
Neda Arneric: Marietta
Jacques Herlin: Chirurgo
Vittorio Caprioli: Il ministro
Jacques Dufilho: Prof. Pazzoni
Maria Antonietta Belluzzi: Gertrude
Silvia Dionisio: Claretta
Regia Marco Vicario
Soggetto Marco Vicario
Sceneggiatura Marco Vicario
Produttore Alfredo Melidoni
Casa di produzione Atlantica Produzioni Cinematografiche
Distribuzione (Italia) Medusa
Fotografia Giuseppe Rotunno
Montaggio Nino Baragli
Musiche Riz Ortolani
Marco Vicario,il regista
Flano del film
Janet Agren
Venga a prendere il caffè da noi
La spartizione è il secondo romanzo scritto da Piero Chiara dopo Il piatto piange; nel 1970 Alberto Lattuada riduce per lo schermo il romanzo dello scrittore di Luino mutando il titolo in Venga a prendere il caffè da noi e mantenendo praticamente intatta l’atmosfera ridanciana e grottesca del romanzo, che è una delle cose migliori di Chiara, autore saccheggiato a buon motivo dai registi cinematografici.
Aiutato dallo stesso Chiara e con l’aiuto importante del critico Tullio Kezich,Lattuada dirige un film amaro e al tempo stesso di stile quasi boccaccesco,ricreando l’ambiente piccolo borghese in cui si muovono i personaggi del film, ambientato nella bella Luino,piccola perla del varesotto che sorge sul lago Maggiore,che fa da cornice alle storie parallele e al tempo stesso incrociate del protagonista maschile,Emerenziano Paronzini e delle tre sorelle Tettamanzi,Camilla Fortunata e Tarsilia.
Lattuada trasla il film dall’epoca fascista ai primi anni sessanta,modificando il finale; non sono scelte da poco che però alla fine non mutano l’economia del film.
Il gusto per il grottesco,per il surreale e al tempo stesso ironico sguardo sulla piccola provincia italiana di Chiara è ripreso in maniera praticamente perfetta da Lattuada, che ha anche l’intuito e la fortuna di scegliere come protagonista nelle vesti di Emerenziano, funzionario integerrimo del Ministero delle Finanze,il grande Ugo Tognazzi, sornione come un gatto che ha avvistato un topo ed aspetta il momento giusto per papparselo.
L’attore cremonese è nel pieno della sua maturità artistica e lo dimostra appieno in questo film godibile, allegro e ironico,nel quale interpreta il ruolo di un allupato dipendente pubblico che stanco della vita da single e sopratutto affetto da un’incontrollabile frenesia sessuale,decide di mettere assieme l’utile e il dilettevole, puntando gli occhi su tre sorelle anche loro single ma con alle spalle un ricco patrimonio lasciato loro dal padre.
Il che a ben vedere è la ciliegina sulla torta,la molla che spingerà l’uomo a corteggiare le tre sorelle.
Lattuada punta molto sull’atmosfera ironica del romanzo e nel film si lascia trasportare sia dalla stessa atmosfera sia dal fascino che emana dalla ridanciana cittadina lombarda;il lago, le belle e linde case di Luino, la simpatia della popolazione locale,istrionica e a tratti furba costituiscono l’ossatura del film, che veleggia dall’inizio alla fine su una leggerezza di fondo che non scade mai nel banale,anzi.
Assistiamo alle imprese di Emerenziano carpendo i suoi pensieri,il suo modus vivendi e il suo modus operandi;sappiamo in anticipo le sue mosse e se non parteggiamo per lui è solo perchè romanticamente ci aspetteremmo motivazioni più profonde alla base dell’operato dell’uomo.
Che invece sceglie coscientemente di sedurre dapprima una delle sorelle e poi infine le altre due,in una atmosfera di quadrilatero di amorosi sensi mai scadente nel volgare o nell’erotico.
A ben guardare è proprio questa una delle peculiarità del film,ovvero lo scansare come la peste le scene di nudità facili e cattura pubblico optando invece per una sana e ironica comicità che non è di grana grossa, tutt’altro.
In una recensione si legge testualmente “Una commedia di gusto grossolano, diretta con mestiere e sorretta da una riuscita caratterizzazione dei personaggi, ma fastidiosa e disgustosa per la volgarità di cui è impregnata” (Segnalazioni Cinematografiche)
Nulla di più lontano dal vero.Non c’è nulla di volgare a livello visivo,nulla nei dialoghi se non l’arguzia tipica della gente di provincia, sempre pronta a trovare un motto o una battuta sagace su quello che accade,sulla vita stessa.
Veniamo alla trama:
Emerenziano Paronzini è quindi alla ricerca di una donna con cui accasarsi.E’ stanco della sua solitaria vita da single,inoltre essendo un reduce di guerra tornato a casa con una fastidiosa menomazione.
Individua tre sorelle , Camilla,Fortunata e Tarsilia Tettamanzi come sue prede e decide di prenderne una in moglie, in modo da assicurarsi non solo una donna che lo serva e lo riverisca, ma un comodo approdo per i suoi pruriti sessuali.
Fantastica la descrizione che da Piero Chiara delle tre sorelle:
“Brutte ciascuna a suo modo di una bruttezza singolare, e consapevoli della ripugnanza che ispiravano agli uomini, avevano tacitamente soppresso l’amore, come se l’avessero seppellito in giardino per nascondere una vergogna. In verità, neppure quando andavano a scuola, e Camilla addirittura all’Università, nessun uomo aveva pensato di farle accorte del loro sesso; né poteva essere diversamente, per quei tre frutti malformati di un matrimonio che era stato di puro interesse, tra il loro padre – una specie di pappagallo con le gambe storte – e la loro madre, mal sortito avanzo di una vecchia famiglia”
Nella realtà del film, le tre sorelle sono interpretate magistralmente da tre attrici non certo brutte,anzi a loro modo con un certo fascino.
Tornando alla pellicola,Emerenziano riesce ad entrare in casa Tettamanzi e dopo un breve corteggiamento seduce Fortunata,individuata dallo scaltro uomo come la preda più facile e abbordabile.
Il matrimonio va in porto e al ritorno dal viaggio di nozze, che è stato un vero e proprio tour de force sessuale per Fortunata (il dottore che la visita la troverà “vaginalmente infiammata“) Emerenziano si stabilisce nella casa delle donne.
Riverito come un sibarita, l’uomo inizia a guardare con un certo appetito sessuale le altre due sorelle e alla fine le seduce entrambe.
Inizia così un rapporto a quattro, con il sultano che a turno giace con una delle concubine.
In seguito il vorace e instancabile appetito dell’uomo si rivolge anche alla domestica Caterina;ma una sera,mentre è intento nella sua opera di seduzione,Emerenziano che ha ecceduto nelle libagioni finisce per avere un colpo apoplettico; da quel momento dovrà vivere su una sedia a rotelle, accudito comunque amorevolmente dalle tre sorelle,che lo portano a spasso come un trofeo di caccia.
Venga a prendere il caffè da noi è uno dei più grandi successi della straordinaria stagione cinematografica del 1970; solo film straordinari come Lo chiamavano Trinità di E.B. Clucher,Per grazia ricevuta di Manfredi (vera star office della stagione),Anonimo veneziano di Enrico Maria Salerno,Il piccolo grande uomo di Arthur Penn,Borsalino di Jacques Deray,Il gatto a 9 code di Dario Argento faranno meglio della pellicola di Lattuada.
Guardando la presenza di questi film non si può non provare nostalgia per quella straordinaria e feconda stagione cinematografica che fu il 1970…
Il film come già detto si avvale della location bellissima e fiabesca di Luino,della presenza di un grande Tognazzi, di dialoghi divertenti e di una sceneggiatura di prim’ordine.
Non dimentichiamo anche le tre bravissime protagoniste femminili, Francesca Romana Coluzzi(Tarsilla Tettamanzi) alla quale perfidamente Lattuada applica una antiestetica peluria sulle labbra,Milena Vukotic (Camilla Tettamanzi) e infine Angela Goodwin (Fortunata Tettamanzi); tre attrici dalla futura lunga e longeva carriera cinematografica,lusinghiera e meritata.
Nel film compare anche lo stesso Piero Chiara nel ruolo di Pozzi.
Un film ancora oggi fresco e divertente,irriverente.
Che potrete vedere in una buona qualità su You tube all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=k8VBzpmPr_o
Buona visione con un grande film targato anni settanta…
Venga a prendere il caffè da noi
Un film di Alberto Lattuada. Con Ugo Tognazzi, Angela Goodwin, Milena Vukotic, Francesca Romana Coluzzi, Checco Rissone,Piero Chiara, Alberto Lattuada, Antonio Piovanelli, Carla Mancini Commedia, Ratings: Kids+16, durata 113 min. – Italia 1970.
Francesca Romana Coluzzi: Tarsilla Tettamanzi
Ugo Tognazzi: Emerenziano Paronzini
Milena Vukotic: Camilla Tettamanzi
Angela Goodwin: Fortunata Tettamanzi
Jean Jacques Fourgeaud: Paolino
Valentine: Caterina, la cameriera
Checco Rissone: Mansueto Tettamanzi, il padre delle sorelle
Piero Chiara: Pozzi
Natale Nazzareno: garzone
Carla Mancini: studentessa
Alberto Lattuada: Raggi, il dottore
Antonio Piovanelli: Don Casimiro
Regia Alberto Lattuada
Soggetto Piero Chiara (romanzo)
Sceneggiatura Alberto Lattuada
Adriano Baracco
Tullio Kezich
Piero Chiara
Produttore Maurizio Lodi Fé
Casa di produzione Mars Film Produzione
Distribuzione (Italia) Paramount
Fotografia Lamberto Caimi
Montaggio Sergio Montanari
Musiche Fred Bongusto
Tema musicale Vivienne eseguita da Fred Bongusto
Scenografia Vincenzo Del Prato
Costumi Dario Cecchi
Trucco Eligio Trani
“Come dice il Mantegazza, alla mia età ho bisogno delle tre c: caldo, coccole e cibo!”
“Dovevamo rompere le reni alla Grecia, Hanno rotto il culo a me!”
“”Però anche voi, che cambiamento: sembrate tre puttane!”
Da dove era venuto con quella faccia severa, con quell’aspetto composto e a prima vista distinto? Da qualche importante città, da una famiglia di rango, da una lunga abitudine alla riservatezza?
Solo dopo qualche mese si seppe che veniva, in seguito a trasferimento d’ufficio, dal capoluogo della provincia; ma. che era di Cantévria, un paesucolo della Valcuvia, a pochi chilometri da Luino.
“Da Cantévria con quel nome?” si domandava la gente. E nessuno credeva possibile che da quel luogo di campagna, abitato da contadini e da famiglie d’emigranti, potesse uscire un funzionario, anche d’infimo grado, dell’Ufficio Bollo e Demanio; e con quel nome, Emerenziano Paronzini, che sembrava il nome di un generale, benché fosse senza mistero per la Valcuvia dove esistevano molti Emerenziani ed Emerenziane e dove il cognome Paronzini si ripete in più posti.
L’opinione di Will Kane dal sito http://www.filmtv.it
Dal romanzo di Piero Chiara(che appare nel piccolo ruolo del commercialista del bottegaio in crisi Jean-Jacques Forgeraud,amante clandestino della sorella Tettamanzi più vistosa,Francesca Romana Coluzzi) intitolato “La spartizione”, l’occasione per un numero dei suoi per Ugo Tognazzi, tra i mostri sacri del pantheon attoriale italico, probabilmente il più duttile:ometto di impostazione rigida, programmatore freddo e calcolatore del proprio futuro, da sistemarsi con un buon partito, individuato in una a scelta di tre sorelle ereditiere di un solido patrimonio, avvicinate con il pretesto di un aiuto a proposito di un nodo gabellare,visto che Eremenziano Paronzini(nome veramente indovinato per un personaggio del genere) è un funzionario dell’ufficio imposte, azzecca quasi ogni mossa,salvo farsi prendere dall’ingordigia degli appetiti sessuali. Lattuada(anche lui presente,nel cameo del dottore di famiglia Tettamanzi) dipinge con sapiente malignità il quadro grigiastro della vita di provincia in riva al lago, la repressione sessuale di una tipica mentalità borghesotta, la vocazione ad un dissolutismo grottesco repressa ivi compresa. Benchè felicemente ambientato,”Venga a prendere il caffè da noi” ha un buon corpo attoriale,ma sembra che Tognazzi presti al personaggio un buon mestiere, e non l’estro di sempre, o comunque non è al massimo delle sue potenzialità d’attore, benchè si tratti di un carattere rigido che rivela tutto insieme le sue aspirazioni da satiro attempato, e il monologo a tavola(“Dovevamo spezzare le reni alla Grecia, e invece hanno rotto il culo a me!” esclama a un certo punto) è un bel crescendo d’interprete, ma sono altri i personaggi, vedi “Amici miei”,”Romanzo popolare”,per citarne due soli, che sono veramente memorabili tra quelli interpretati dal grande attore cremonese. Bravissime anche le tre interpreti, soprattutto la “tanta” Francesca Romana Coluzzi,purtroppo deceduta in questi giorni.
Opinioni tratte dal sito http://www.davinotti.com
B.Legnani
Tutto molto corretto e composto, in linea con la sana (almeno in apparenza) provincia lombarda. Tognazzi disegna bene il protagonista e talora lo fa quasi sotto-recitando. Le tre donne sono molto brave. Fourgeaud è doppiato da Nino Castelnuovo. Ruolo della vita per la Coluzzi.
Galbo
Nella cornice perbenista ed ipocrita della meravigliosamente rappresentata provincia italiana, si muove un poersonaggio che non potrebbe essere più italico di così, il seduttore ragionere benissimo interpretato da Tognazzi in uno dei migliori ruoli della carriera. Buon film di Lattuada che sfrutta la massimo le corde satiriche della sceneggiatura.
Pigro
Il placido lago prealpino nasconde i bollenti spiriti di tre sorelle zitelle, presto appagati dal “gallo” che ha capito come dare una svolta alla propria vita. E così questa piacevole commedia ci diverte non solo con le pennellate satiriche sulla sessuofobia ipocrita, ma anche con deliziose annotazioni psicologiche al limite del caricaturale che Lattuada destina a tutti i protagonisti di questo girotondo erotico-grottesco. Magistrale Tognazzi nella sua maschera da macho calcolatore, impagabili le tre grazie, pudiche e assatanate.
Homesick
L’Italia non è più fascista e l’epilogo meno drastico, ma l’adattamento di Lattuada rispetta la garbata licenziosità del romanzo di Chiara e la sua rappresentazione di una provincia immobile e perbenista. Nel superlativo Tognazzi si ritrovano – ora accennati, ora enfatizzati – gesti, sguardi e manie del trigamo e taciturno Paronzini, così come il terzetto “gambe” Coluzzi-“capelli” Goodwin-“mani” Vukotic è l’ideale ritratto cinematografico delle represse sorelle Tettamanzi. L’ottimo risultato è altresì favorito dalle musiche di Bongusto, che catturano al volo lo spirito della commedia.
Daniela
Emerenziano Paronzini, metodico ragioniere di mezz’età, si sistema sposando una delle tre ricche sorelle Tettamanzi, ma non disdegna il talamo delle altre due… Ritratto satirico della vita di provincia, piatta come le acque del lago su cui si affaccia la cittadina in cui è ambientata la vicenda ma anche altrettanto torbida, dato che le apparenze bigotte nascondono voglie proibite e vizietti inconfessabili. Memorabile la caratterizzazione di Tognazzi, ma non vanno dimenticate Goodwin e Vukotic con la loro vibrante “bruttezza”. Meno credibile nel ruolo la stangona Coluzzi.
Markus
Trasposizione cinematografica del romanzo di Piero Chiara “La spartizione”. L’interprete principale è un istrionico e superbo Ugo Tognazzi, nei panni d’un uomo che, malgrado la bruttezza d’una donna, la sposa perché ricca. Una volta piazzato in casa, coglie l’occasione per deflorare anche le due cognatine fino ad un imprevisto finale. Girato a Luino, il film gode di grande ritmica degli eventi e di una sano cinismo. Lattuada ci mostra per l’ennesima volta una certa tendenza per il feticismo (gambe e piedi femminili). Rallegramenti.
Cangaceiro
Il merito di Lattuada è parlare per quasi 2 ore di pruriti sessuali e istinti carnali (mostrandoci anche qualcosina) senza mai risultare volgare. Il filoconduttore è tutto qui: la ricerca dello “star bene” in tutti i sensi, senza farsi troppi scrupoli morali, il tutto calato nella sana provincia italiana di allora, qui ben fotografata, una sorta di “do ut des” che soddisfa tutti. Domina Tognazzi, bravissimo nell’interpretare con raffinatezza un uomo piccolo ed egoista. Tra le sorelle spicca una Coluzzi quasi irriconoscibile. Tante le scelte registiche azzeccate.
Amore e rabbia
Agli inizi degli anni cinquanta si diffuse l’idea di creare dei film collettivi, ovvero dei prodotti cinematografici fatti a più mani; due o più registi creavano dei “corti d’autore” di lunghezza variabile in funzione dei cineasti che partecipavano alla costruzione del film stesso,che aveva generalmente una tematica di fondo a cui il regista prescelto partecipava con un suo spezzone.
Nacquero così produzioni più o meno famose e ovviamente più o meno valide dal punto di vista stilistico e narrativo; basti citare Boccaccio ’70 (1962) con 4 registi di casa nostra come Federico Fellini, Mario Monicelli, Vittorio De Sica e Luchino Visconti,Ro.Go.Pa.G. (1963) ancora con 4 registi,Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini e Ugo Gregoretti,Oggi, domani e dopodomani (1965) con 3 registi, Luciano Salce, Marco Ferreri e Eduardo De Filippo oppure Capriccio all’italiana (1968) con ben 6 registi,Mauro Bolognini, Mario Monicelli, Pier Paolo Pasolini, Steno, Pino Zac e Franco Rossi.
Amore e rabbia nasce nel 1969, è strutturato in cinque episodi diretti da grandi maestri del cinema, come Carlo Lizzani,Bernardo Bertolucci,Pier Paolo Pasolini,Jean-Luc Godard e Marco Bellocchio.
La tematica di base è rappresentata da storie tratte dal Vangelo, tant’è vero che il film venne presentato al festival di Berlino con il titolo di Vangelo 70, che includeva la partecipazione di Lizzani, Bertolucci e Pasolini con in più un episodio diretto da Valerio Zurlini, Seduto alla sua destra, che il regista bolognese aveva dedicato alla vita del leader congolese Lumumba.L’episodio era troppo lungo e difatti in seguito diventò un film a se stante e all’opera collettiva Amore e rabbia vennero aggiunti gli episodi diretti da Godard e da Bellocchio.
Gli episodi diventano così 5 che formano la stesura definitiva dell’opera e sono :
–L’indifferenza diretto da Carlo Lizzani
–Agonia, diretto da Bernardo Bertolucci
–La sequenza del fiore di carta diretto da Pier Paolo Pasolini
–L’amore, diretto da Jean-Luc Godard
–Discutiamo, discutiamo, diretto da Marco Bellocchio
Il primo episodio, L’indifferenza diretto da Carlo Lizzani, ci mostra la vita alienante delle metropoli, con un inizio ripreso dall’alto di un probabile tentativo di stupro.
Mentre barboni e senza tetto dormono in pieno giorno sui marciapiede delle città,la gente corre, indifferente a quanto ha sotto gli occhi.C’è un incidente e un uomo chiede aiuto perchè ha una donna ferita in auto ma sarà solo un criminale a dargli una mano e non certo per pietà…
Il secondo episodio, Agonia diretto da Bernardo Bertolucci mostra un gruppo di giovani impegnato in una pratica pseudo religiosa,nella quale ognuno di loro dopo essersi levato in piedi muore senza nemmeno toccarsi, sotto gli occhi di un anziano che osserva trasognato la scena,che si trasforma in una specie di sogno onirico che lo riporta a vedere la scena come parabola di un’esistenza passata passivamente,senza interessi verso gli altri…
Il terzo episodio, La sequenza del fiore di carta diretto da Pier Paolo Pasolini mostra un giovane che gira quasi spaesato per una Roma caotica,mentre sullo schermo immagini in bianco e nero si sovrappongono a quelle del giovane. Riccetto, questo il suo nome, sorride a tutto,con un papavero fra le mani, quasi indifferente all’umanità che vive e pulsa attorno a lui.Quando le immagini della seconda guerra mondiale diverranno più cariche dei tristi simboli della morte, Riccetto sentirà la voce di Dio che gli dirà “morire” e così accadrà, con il giovane steso sull’asfalto con quel suo patetico papavero gigante in mano, colpevole agli occhi di Dio di essere troppo innocente per non aver visto il male attorno a se…
Il quarto episodio, L’amore diretto da Jean-Luc Godard fra scene che riprendono la natura e altre che riprendono mani,braccia e volti parla dell’impossibilità di coniugare rivoluzione e democrazia, la loro impossibile coesistenza con la democrazia nella società moderna,tant’ è vero che persino in amore le differenze tra i due sessi rendono impossibile l’integrazione, cosa simboleggiata dalla separazione dei due protagonisti della storia…
Il quinto episodio, Discutiamo, discutiamo, diretto da Marco Bellocchio riprende alcuni universitari alle prese con i loro programmi politici e con le loro idee.
Il tutto si chiude con una carica della polizia mentre lo schermo diventa gradualmente rosso…
Cinque episodi legati quindi da un filo sottile, molto sottile, completamente diseguali come nella natura della tecnica registica dei cinque cineasti e che risultano, ad una visione odierna pesantemente datati oltre che poco affascinanti dal punto di vista meramente estetico.
L’impossibilità di condensare in pochi minuti qualcosa che richiederebbe molto più spazio e tempo è evidente da subito, anche se il primo episodio, quello diretto da Lizzani in qualche modo coglie nel segno, pur risultando alla fine quasi un mini documentario sull’indifferenza della società moderna verso l’individuo, completamente alienato e perso nel suo personale a tutto scapito del collettivo.
Difficile giudicare invece l’episodio diretto da Bertolucci, criptico e francamente noioso in modo patologico mentre l’episodio migliore, a mio avviso resta quello diretto da Pasolini, con il suo solito stile e con un chiaro messaggio sull’innocenza che nel mondo moderno non può trovare spazio,un peccato originale al quale nulla e nessuno può porre rimedio.Infatti Dio decide di eliminare fisicamente l’anomalia rappresentata da Riccetto, candido simbolo di un’umanità persa nell’alienazione che rifiuta di vedere il mondo attorno a se,un giglio, o meglio un papavero-origami condannato dall’alto a dover aprire obbligatoriamente gli occhi sul quotidiano.
L’episodio diretto da Godard è più irritante che altro;il regista della nouvelle vague si auto compiace della sua direzione senza concedere nulla allo spettacolo visivo, cercando di esprimere solo tecnicamente le sue indubbie qualità di regista ma lasciando viceversa lo spettatore orfano di una benchè minima emozione.Un episodio in cui l’estetica prevale su tutto,quasi un atto auto erotico da parte di un regista che pure la critica ha sempre amato alla follia.
Infine l’episodio di Bellocchio, sperimentale e ironico, girato con illustri sconosciuti e quindi molto simile ad un moderno reality,poco più che un esercizio di stile oggi assolutamente inguardabile.
Amore e rabbia è quindi un opera in cui la disomogeinità rappresenta il filo conduttore ben aldilà di quelle che erano le premesse iniziali.
Per quanto riguarda il cast segnalo la presenza di Milena Vukotic nel ruolo dell’ infermiera nell’episodio Agonia, quello di Nino Castelnuovo (irritante) in Amore, quello di Ninetto Davoli, a mio giudizio il più ispirato in quello dell’episodio La sequenza del fiore di carta
Il film è abbastanza raro in rete; c’è una sua versione con i 5 episodi tutti separati l’uno dall’altro su You tube, purtroppo in inglese.
Amore e rabbia
Un film di Carlo Lizzani, Jean-Luc Godard, Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini. Con Tom Baker, Julian Beck, Jim Anderson, Judith Malina, Giulio Cesare Castello, Adriano Aprà, Fernaldo Di Giammatteo, Petra Vogt, Ninetto Davoli, Rochelle Barbini, Aldo Puglisi, Christine Guého, Nino Castelnuovo, Marco Bellocchio, Romano Costa Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 100′ min. – Italia 1969.
L’indifferenza:
Tom Baker: l’uomo
Agonia:
Julian Beck: moribondo
Giulio Cesare Castello: prete
Adriano Aprà: chierico
Romano Costa: chierico
Milena Vukotic: infermiera
La sequenza del fiore di carta:
Ninetto Davoli: Riccetto
Rochelle Barbini: piccola bambina
Aldo Puglisi: Dio
L’amore:
Christine Guého: l’attrice
Nino Castelnuovo: il direttore
Catherine Jourdan: spettatrice
Paolo Pozzesi: spettatore
Discutiamo, discutiamo:
Marco Bellocchio: lettore
Regia Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Jean-Luc Godard, Carlo Lizzani
Soggetto Piero Badalassi, Marco Bellocchio, Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, Jean-Luc Godard, Carlo Lizzani, Puccio Pucci
Sceneggiatura Marco Bellocchio, Pier Paolo Pasolini, Jean-Luc Godard, Bernardo Bertolucci, Carlo Lizzani
Fotografia Alain Levent, Sandro Marcori, Giuseppe Ruzzolini, Ugo Piccone
Montaggio Nino Baragli, Franco Fraticelli, Agnès Guillemot, Roberto Perpignani
Musiche Giovanni Fusco
Scenografia Mimmo Scavia
L’opinione di Terry Malloy dal sito http://www.filmscoop.it
Il film si apre con l’episodio di Lizzani…Il buon samaritano. Tutto senza implicazioni intellettualoidi che francamente fanno svolazzare le palle altamente.
poi in sequenza Bertolucci con un episodio noioso fino all’inverosimile e incomprensibile, Pasolini che riprende in parte il precedente con l’aggravante di essere ancora più astruso e complicato e Godard che si lancia in una metacinematografica operetta sul figliuol prodigo senza cavarci fuori nulla di interessante.
ma poi arriva la svolta…
Bellocchio salva tutto con uno degli episodi più belli che abbia mai visto. “Discutiamo discutiamo” mischia sapientemente ironia, passione politica, analisi accurata e sfondo sociale con un tocco frizzante e divertente che salva in extremis le deludenti prove precedenti.
L’opinione di Darjus dal sito http://www.filmtv.it
Interessante operazione in cui l’intellettualismo di alcuni registi prende il sopravvento sul resto…L’episodio di Lizzani, sebbene piuttosto prevedibile, risulta ben girato (con un montaggio sincopato avanti sui tempi); Bertolucci usa il teatro e il simbolismo estremo, ma il risultato è stucchevole; bello l’episodio di Pasolini, poetico, ma non criptico, sperimentale, ma non assurdo; Godard tenta un audace parallelismo tra la politica e l’amore popolo/borghesia – uomo/donna: splendida la fotografia, noioso il resto; infine Bellocchio non va oltre un semplice documentario sui tipici temi di cui discutono/evano gli studenti universitari. Più utile, al giorno d’oggi come esperimento sociologico su come è cambiata la nostra società e su come certi ideali ora visti come stupidi sogni.
L’opinione di B.Legnani dal sito http://www.davinotti.com
Film sperimentale a episodi, spesso di noia micidiale. Quello di Lizzani non pare granché, ma cresce con… la visione di quello (a me incomprensibile) di Bertolucci e di quello – terribile – di Godard (Castelnuovo che, brandendo un sigaro imperioso, esalta la rivoluzione yemenita fa, non per colpa sua, solo ridere). Il migliore è quello di Pasolini, en plein air, con un “candido” Ninetto Davoli (il titolo “La sequenza del fiore di carta” è un decasillabo perfetto). Quello finale, con Bellocchio e studenti, è un sincero divertissement degli intervenuti, non certo un qualcosa di cinematografico. Fu clamoroso insuccesso di pubblico: non si fatica a crederlo.
L’opinione di Pigro dal sito http://www.davinotti.com
Reintepretazioni evangeliche per un film sperimentale e coraggioso. Poetico e intenso Pasolini sulla responsabilità individuale (bello!). Non male Lizzani sull’indifferenza verso i bisognosi in una frenetica New York. Accettabile la provocazione di Bertolucci con il Living Theatre. Insopportabili Godard e Bellocchio: il primo mortalmente noioso nella metafora politica in forma di rapporto amoroso con pedissequa spiegazione; il secondo presuntuoso e ridicolmente raffazzonato nella rappresentazione filodrammatica della contestazione studentesca.
Cornetti alla crema
Domenico Petruzzelli è un sarto particolare; crea infatti abiti talari e la sua clientela è fatta ovviamente da prelati anche di alta gerarchia.
La vita familiare del sarto è però piatta in maniera desolante; l’uomo infatti ha una moglie pedante e fanatica di telenovelas e un figlio ingordo e tonto.
Ma anche a Domenico capita quello che a prima vista sembra un colpo di fortuna.
Conosce infatti una splendida donna, Marianna, che ha ambizioni liriche e che da subito mostra molta simpatia per lui.
Quello che Domenico non sa è che la donna ha un fidanzato robusto e manesco, così quando invita la ragazza a casa sua, cerca di sfruttare l’amicizia che ha con Gabriele che è l’inquilino del piano di sopra.
Gabriele è un vero e proprio playboy e dopo diversi dinieghi, accetta di cedere il proprio appartamento a Domenico, che ha raccontato diverse frottole a Marianna.
Il sarto infatti si è presentato come uno scapolo e ha dato le generalità dell’amico.
Per una serie di sfortunate combinazioni, al povero Domenico il tentativo di “consumare” una notte d’amore con Marianna andrà in fumo, mentre invece il vulcanico Gabriele provvederà a consolare l’apatica moglie del sarto.
Accade infatti che un pezzo grosso del Vaticano arrivi nel posto sbagliato nel momento sbagliato, sorprendendo Domenico con Marianna, che a sua volta scopre così che il sarto gli ha mentito sulla sua identità. E per finire, il povero Domenico sarà malmenato di brutto dall’irascibile Ulrico fidanzato di Marianna,scoprirà di esser stato fatto becco da Gabriele e così nelle ultime scene lo troveremo malinconicamente seduto su una sedia a rotelle, spinto dalla moglie traditrice, dall’ex amico e da suo figlio….
Cornetti alla crema è un film dell’ultima fase della commedia sexy, ma sorprendentemente è una delle meglio riuscite e in qualche modo divertente.
Merito di Sergio Martino, che evita la palude delle gag scollacciate puntando più che altro sulle disavventure del povero Domenico, interpretato as usual da Lino Banfi, autentico protagonista della stagione delle commedie sexy. Accanto a Banfi, Martino mette una splendida e solare Edwige Fenech ormai presenza storica della commedia sexy.
Il duo, perfettamente affiatato, si muove con disinvoltura attraverso una serie di gag che possiamo definire divertenti, anche perchè per una volta manca la consueta e triste presenza di funzioni corporali rumorose o di oscenità di ogni genere pronunciate a sproposito.
Martino utilizza quindi la sua musa, la Fenech, conoscendola perfettamente e sapendo cosa chiederle e come farla muovere.
Non a caso il regista romano aveva diretto l’attrice di Bona in diversi film come i thriller Lo strano vizio della signora Wardh (1971),Tutti i colori del buio (1972),Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave (1972) e le commedie Giovannona Coscialunga disonorata con onore (1973),40 gradi all’ombra del lenzuolo (1976),Sabato, domenica e venerdì, episodio “Sabato” (1979),Zucchero, miele e peperoncino (1980) e infine in quel gioiellino che è Spaghetti a mezzanotte (1981)
Grazie anche alla presenza di due ottimi attori come Milena Vukotic che interpreta la stravagante moglie di Domenico, Elena e a quella di Gianni Cavina che riveste i panni di Gabriele ovvero l’amico infido di Domenico, Martino riesce a non deludere lo spettatore e a regalare qualche sorriso, cosa che negli anni 80 (almeno a livello cinematografico) rimarrà una pia illusione, un autentico paradosso alla luce di quelli che saranno almeno economicamente gli anni delle cicale e dell’edonismo reganiano,gli anni della grande illusione della ricchezza a portata di tutti.
Un film che vive di situazioni viste molte volte, eppure interpretate con garbo e ironia; le varie scene in cui il manesco Ulrico malmena Domenico sono davvero esilaranti così come lo sketch migliore resta quello in cui avviene l’incontro tra l’Eminenza accompagnato da un pretino e lo sventurato Domenico che nasconde in casa di Gabriele l’avvenente Marianna.
Da segnalare nel film il cameo della bravissima Marisa Merlini, l’odiosa suocera di Domenico e quello della bella Michela Miti nel ruolo di una squillo rimorchiata da Gabriele.
Gianni Cavina e Milena Vukotic
Un film che si può vedere nell’ottica di passare un’ora e mezza spensierata e perchè no, lasciandosi andare a qualche risata di gusto.
Cornetti alla crema,un film di Sergio Martino. Con Gianni Cavina, Lino Banfi, Edwige Fenech, Marisa Merlini,Milena Vukotic, Armando Brancia, Mariangela D’Abbraccio, Michela Miti, Luigi Leoni
Commedia, durata 109 min. – Italia 1981.
Lino Banfi: Domenico Petruzzelli
Edwige Fenech: Marianna
Gianni Cavina: Gabriele Arcangeli
Marisa Merlini: madre di Marianna
Milena Vukotic: Elena
Armando Brancia: Eminenza
Maurizio Tocchi: Ulrico
Filippo Evangelisti: Aristide
Luigi Leoni: Don Giacinto
Salvatore Jacono: Il portiere del palazzo
Michela Miti: Una squillo
Regia Sergio Martino
Soggetto Romolo Guerrieri, Franco Verucci
Sceneggiatura Romolo Guerrieri, Sergio Martino,Franco Verucci
Fotografia Giancarlo Ferrando
Montaggio Eugenio Alabiso
Musiche Mariano Detto
Le recensioni qui sotto appartengono al sito http://www.davinotti.com
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Per gli amanti della comicità divertente anche se talora sgangherata di Lino Banfi un vero e proprio cult. Diretta da Sergio Martino, Cornetti alla crema è una pellicola decisamente imperfetta (soffre ad esempio di un eccesso di volgarità) ma altrettanto indubbiamente spassosa. Le situazini comiche sono ben congegnate e non manca qualche sapido riferimento ad una morale bigotta di certi ambienti. Molto bravo Gianni Cavina.
Domenico Petruzzelli (Banfi) è titolare della ditta che compone abiti “talari”; in quanto tale la sua immagine è consacrata (anche se, scopriremo, con atteggiamenti bigotti) alle “nobili” personalità che ne frequentano la casa. Martino gira un film decisamente spassoso, che affonda spesso lo sguardo (oltreché sulle morbidi forme della compiaciuta Edwige Fenech) su alcuni atteggiamenti sociali, spesso ipocriti e dissimulatori. Grande l’apporto di Gianni Cavina, qui interprete di indole (quasi) spontanea. Il titolo allusivo è più che pertinente.
Il carosello di adulteri, scambio di appartamenti e relativi qui pro quo potrebbe essere ormai arrugginito e cigolante, ma la presenza di uno scatenatissimo Banfi la fa girare a gran velocità – salvo qualche rallentamento nella parte centrale – su una sceneggiatura che trasforma le possibili volgarità in gag originali e spesso esilaranti. Il comico pugliese forma qui un inedito e vincente trio con una Fenech svampita e autoironica (doppiata in veneto) e un Cavina versione tombeur de femmes.
Vetta banfiana assoluta. Uno dei suoi migliori film, dove tutto funziona alla perfezione… dallo “scambio” con un ottimo Cavina alla Fenech (che è anche molto divertente, ma solo grazie al doppiaggio). Bisogna rendere merito a Sergio Martino per questo film, davvero riuscito grazie ad una regìa di livello. Impossibile negare che il sarto di abiti talari Domenico Petruzzelli sia diventato col passare degli anni una specie di icona per moltissimi ammiratori del comico pugliese, ed io non faccio eccezione.
Una delle migliori commedie con Banfi, poco erotica ma decisamente divertente. La trama è semplice ma scorre bene, il cast è ottimo (e funziona anche Cavina come spalla) e le gag funzionano quasi tutte. Notevole anche la colonna sonora di Detto Mariano. Nel suo genere uno dei film migliori.
Pochade banfiana di gran livello. L’insolita accoppiata Banfi-Cavina funziona meravigliosamente, tanto da chiedersi come mai non si sia più ripetuta, ma tant’è. La Fenech è sempre una gioia per gli occhi e qua si mostra nella sua semi nudità di tanto in tanto. Ruoli minori (ma fondamentali) per la brava Vukotich (nella parte della moglie di Banfi) e il figlio “bamba” di Banfi (qui interpretato da uno sconosciuto Filippo Evangelisti) che ormai è storia del cinema. Ottima la OST a cura di Detto Mariano.
Non ai livelli del grandioso Spaghetti A Mezzanotte (sempre diretto dal bravo Martino), ma comunque notevole. Banfi in palla completa fa sempre ridere, spalleggiato dal bravo Cavina in un ruolo tutto sommato insolito, che ricorda vagamente l’umorismo “alla bolognese” del collega Andrea Roncato. C’è pure la Vukotic, in una parte non dissimile dalla signora Pina di fantozziana memoria; indimenticabile anche il figlio scemo Aristide. Le gag vanno a segno quasi sempre, in una girandola di equivoci esilarante. E la Fenech doppiata in veneto è cult!
L’affiatata coppia Edwige Fenech/Lino Banfi, nel 1981, interpretò questa simpatica commedia. Divertente, “banfiano vecchia maniera” e molto anni ’80, il film, incentrato su di un sarto di abiti clericali sposato con Milena Vukotic (la seconda signora Pina dei Fantozzi) ma infatuato della bella cantante lirica Edwige Fenech, è, negli anni, diventata cult. Personalmente la trovo una commedia deliziosa, anche se Gianni Cavina, usato spesso da Pupi Avati, in commedie così risulta un po’ sprecato.
Discreta commediola dal ritmo leggermente ondivago ma impreziosita da un buon cast. Banfi è sempre in palla, la Fenech bellissima come sempre e Cavina è un’ottima spalla. Da non trascurare poi l’apporto dato dalla brava Vukotic e dalla veterana Merlini. Bel ritmo.
Poca originalità. Come tanti altri film del filone affronta le solite corna e le solite amanti. A Domenico gliene capitano di tutti i colori, proprio come a Savino in Spaghetti a mezzanotte (stessa regia). Banfi è mostruosamente comico, fa strage di umorismo grottesco. Nonostante tutto il film ha le sue particolarità (come il tema del bigottismo, anche se resta molto sullo sfondo) e ha una vivace struttura di gag e situazioni non stop. In più oltre a varie trovate veramente comiche, ci sono molte cose divertenti: Aristide il figlio scemo, Ulderico (Mazinga)
Un altro dei must della commedia rètro, qui con Banfi mattatore e Cavina “castigatore”. Le grazie della natìa di Bona (nomen omen) vengono offerte poco e ci si accontenta delle sue lunghe gambe e dei suoi piedi, che il povero pugliese anela senza mai carpire. Il plot è un classico con marito fedifrago in fieri e amico disponibile a “dare una mano”. Si ridacchia, ci si diverte e la prossima volta che verrà trasmesso si sa già che lo si rivedrà…
Commedia degli equivoci, “albergo del libero scambio” trasferito in contesto condominiale. In spazi e tempi ristretti, Lino Banfi, improbabile e perciò irresistibile Casanova, deve destreggiarsi tra moglie, amante, amico compiacente, figlio scemo, portinaio impiccione e in più con l’urgente consegna di un abito talare ad un importante ecclesiastico. Si ride, di fronte a questi “numeri” da giocoliere e non ci sono tempi morti. Che si vuole di più da una commedia anni ’80 di Sergio Martino?
Un Banfi scatenato, al culmine della sua bravura da avanspettacolo e delle sue divertenti gag corporali e linguistico-pugliesi. Da solo regge il film e strappa un discreto numero di risate, di grana molto grossa ma ruspanti e spontanee. Il resto, dalla regia alla confezione generale, ai caratteristi di contorno (comunque valenti), lascia a desiderare. Stupenda la Fenech all’epoca.
One man show del Banfi dell’epoca d’oro, sulle cui spalle poggiano tutte le situazioni comiche. La spalla Cavina fa quel che può, ma con evidenti limiti (comici), la Fenech fa la Fenech e la Vukotic mette in mostra il tuo talento (e qualcosa d’altro). Ma il canovaccio è poca cosa e purtroppo si fa sentire, lasciando addosso una sensazione di mancato appagamento sotto tutti i punti di vista (risate ma anche il versante erotico soft).
Film del periodo d’oro della comicità di Banfi con il Lino Nazionale sarto ecclesiastico per ciò divertentissimo. La Fenech doppiata con simpatica parlata veneta molto provocante anche lei più o meno all’apice. Divertentissima la scena di lui che finisce sotto al letto. Nel cast la fantozziana moglie Milena Vukotic.
Dracula cerca sangue di vergine…e morì di sete
Il conte Dracula ha un problema molto grosso; nel suo paese le vergini sono ormai qualcosa di introvabile, per cui è ormai allo stremo delle forze, necessitando, per vivere, di doversi alimentare proprio di sangue di fanciulle illibate. Su consiglio del suo domestico, Dracula si mette in viaggio per l’Italia, dove pensano di trovare quello che cercano; nel bel paese, infatti, c’è la chiesa cattolica, con la sua influenza moralizzatrice sui costumi delle giovin donzelle.I due, dopo un lunghissimo viaggio, in cui il conte mostra ormai i segni del decadimento fisico, arrivano in un paese, e alloggiano in una locanda.
Silvia Dionisio interpreta Rubinia
Il maggiordomo, con discrezione, si informa sulla presenza di famiglie nobili con figlie da accasare, arrivando cosi a conoscere il Marchese De Fiore, un nobile ormai decaduto, che vive in una villa che conserva ancora qualche traccia dell’antico splendore.
Della famiglia fanno parte, oltre al Marchese che si illude ancora di essere un nobile potente e che vive perso nei suoi sogni, la moglie e le quattro figlie dello stesso, ovvero Perla, Saphiria, Rubinia e Esmeralda.
Le quattro ragazze sono molto diverse tra loro: Perla e Saphiria, per esempio, lungi dall’essere un modello di castità, hanno rapporti entrambe con il factotum della villa, il giovane e aitante Mario.
Esmeralda, la più grande, è una zitella ormai appassita mentre Rubinia, la più giovane, è l’unica ad essere davvero illibata.
Dracula, con le lusinghe, riesce ad entrare nelle grazie del Marchese, proponendo il matrimonio con una delle figlie; ma ben presto il conte, che tenta le armi della seduzione verso Perla e Saphiria, si rende conto che le ragazze non sono quello che sembrano.
Così, dopo aver tentato inutilmente di vampirizzare le due sorelle, rivolge i suoi sguardi su Rubinia; ma Mario, che ha capito che il conte è un vampiro, priva la ragazza della verginità e dopo una breve lotta riesce ad uccidere definitivamente il conte Dracula, che morirà assieme a Esmeralda, la quale era l’unica ad essersi veramente innamorata del conte.
Dracula cerca sangue di vergine…e morì di sete, diretto nel 1974 da Paul Morrissey, in collaborazione con Antonio Margheriti è una curiosa contaminazione di generi, visto che spazia dall’ horror al noir con una componente erotica lussuosa e raffinata. Predomina l’aspetto humor ammantato di macabro, con qualche scena splatter davvero ben girata, legata sopratutto alla verve di Udo Klier, così improbabile e stralunato nei panni del re dei vampiri da riuscire credibile.
Morissey mette in mostra la sua sapiente regia, fatta di tocco noir e umorismo americano, che però risulta gradevole sopratutto nelle caratterizzazioni dei personaggi, aiutato in questo dall’ottimo cast utilizzato.
Vittorio De Sica, alla sua ultima apparizione da attore, da un tocco di spessore al personaggio del Marchese spiantato rivestendolo di una dignità che nella realtà il personaggio non ha, visto che accetta di “vendere”
una delle sue figlie ad un illustre sconosciuto.
Brava anche Maxime McKendry, la Marchesa, che si renderà conto della situazione reale troppo tardi, ovvero solo quando Mario, un altrettanto bravissimo Joe D’Alessandro la metterà di fronte all’evidenza; le quattro sorelle sono tutte molto attente alle loro parti e le colorano e arricchiscono grazie alla loro bravura e bellezza.
Così troviamo una convincente Silvia Dionisio, nel ruolo della virginale Rubinia, che accetterà di perdere la sua purezza pur di non farsi vampirizzare dal conte, una brava Stefania Casini, forse la meno irreprensibile delle sorelle,Saphiria, una splendida Dominique darel nel ruolo di Perla e infine Milena Vukotic, sobria ed elegante nel ruolo della sorella che si innamorerà del conte, Esmeralda.
Il film scivola senza grossi problemi verso un finale macabro, ma assolutamente in linea con la trama, con momenti gustosi di humor macabro e qualche nudo molto apprezzato ma in linea con il film, quindi nè morboso nè sguaiato.
Un film divertente al punto giusto, che ebbe un buon riscontro di pubblico; in ultimo segnalo una breve apparizione nel film di Roman Polanski, nei panni di un contadino avventore della taverna dove si ferma il Conte Dracula.
Vittorio De Sica è Il Marchese De Fiore
Dracula cerca sangue di vergine…e morì di sete, un film di Antonio Margheriti, Paul Morrissey. Con Vittorio De Sica, Joe Dallessandro, Udo Kier, Arno Jverging, Milena Vukotic,Silvia Dionisio, Roman Polanski, Stefania Casini, Dominique Darel
Commedia, durata 100 min. – Italia 1974.
Joe Dallesandro … Mario Balato
Udo Kier … Conte Dracula
Vittorio De Sica … Il Marchese Di Fiore
Maxime McKendry … La Marchesa Di Fiore
Arno Juerging … Anton,il maggiordomo del conte
Milena Vukotic … Esmeralda
Dominique Darel … Saphiria
Stefania Casini … Perla
Silvia Dionisio … Rubinia
Regia Paul Morrissey, in collaborazione con Antonio Margheriti
Soggetto Bram Stoker (romanzo Dracula)
Sceneggiatura Paul Morrissey, Pat Hackett (non accreditato)
Produttore Andy Warhol, Andrew Braunsberg, Jean Yanne
Fotografia Luigi Kuveiller
Montaggio Jed Johnson, Franca Silvi
Effetti speciali Carlo Rambaldi
Musiche Claudio Gizzi
Scenografia Enrico Job
Trucco Mario Di Salvio, Paolo Franceschi
“Dracula, in crisi di astinenza per carenza di sangue in corpi di fanciulle vergini, decide di abbandonare la Transilvania per recarsi in Italia, convinto di trovare (ahilui!) la sostanza necessaria alla sopravvivenza. Ospite del Marchese Di Fiore (Vittorio De Sica) approccia così le sue quattro figlie con la scusa del matrimonio. Molto migliore dell’altro tassello (Il mostro è in tavola…), questo film può contare su un raffinato cast e su una storia ironica (mai comica) diretta con malinconico taglio (grazie al grande Udo Kier). Significativo pure il comunista Dallesandro.”
“Simpatica parodia dell’horror, a cura di uno dei registi di punta della “Wharol’s factory”. Nonostante il ritmo sia piuttosto lento, a tratti il film è quasi irresistibile: non mancano alcune belle trovate che risultano davvero divertenti. Gustose e ben fatte le scene grandguignolesche. Coloratissime le scenografie e la discreta fotografia. Musiche azzeccatissime. Bravo Kier. Un po’ esornativa la presenza, breve, di Vittorio De Sica, qui alle prese con la sua ultima interpretazione.”
“Dracula in Italia a cercar sangue di vergini: seconda incursione camp di Morrissey nell’horror, migliore della prima. La storia più compatta e la miglior padronanza narrativa e tecnica del film sono determinanti (così come il bravo Kier), ma funziona bene anche la complessità di senso del racconto: fa ironicamente capolino infatti un discorso sulla lotta di classe, curiosamente congegnato. E, anche grazie alla struggente musica di Claudio Gizzi, si insinua un sapore romantico e malinconico sulla crescente debilitazione del potente vampiro.”
“Ironico e con un finale inaspettatamente tragico. Un cast da urlo: il bravissimo Udo Kier doppiato da Massimo Turci e un cast femminile impressionante: Casini, Dionisio, Vukotic e la Darel. Divertente il cameo di De Sica (ma ascoltate De Sica doppiarsi nell’edizione americana, c’è da morire dal ridere!!!). Malinconiche e affascinanti le musiche, eccessivi e gustosi gli effettacci nel finale, decadenti le scenografie. Superiore a Frankenstein, a mio avviso.”
“Bizzarro horror Anni Settanta, strettamente legato al precedente (e migliore) Il mostro è in tavola barone Frankenstein (è girato quasi dalla stessa troupe). Rispetto all’altro film c’è meno sangue (qui è concentrato quasi tutto nel finale) e un po’ più di sesso (anche se qui le scene sono un po’ meno spinte). Come nel Mostro è in tavola c’è una buona atmosfera, ma il ritmo è piuttosto lento. Ottimo invece il cast, con uno strordinario Udo Kier e un ottimo Vittorio de Sica alla sua ultima apparizione. Niente male anche le musiche.”
“Divertente parodia dei bisogni fisici del conte Dracula che, oltre ad un cast interessante con le comparsate di Polanski (gustosa) e De Sica (abbastanza inutile), può vantare una regia capace, dialoghi e musiche appropriate. Tra gli attori spicca Udo Kier ottimamente truccato e abile nel rendere i tormenti del protagonista fino alle estreme scene di rigetto: un’interpretazione, non esagero, da premio Oscar. La qualità del film è testimoniata anche dal fatto che sono proprio le scene di sesso le più noiose.”
Amici miei Atto II
Abbiamo lasciato il gruppo scanzonato e dissacrante di amici alle prese con il funerale del Perozzi e con l’ultima atroce beffa perpetrata ai danni del pensionato. Monicelli,per riprendere il discorso,affida le vicende all’uso sapiente del flashback,e ci mostra i 5 alle prese con le loro vicende famigliari e con nuove,crudeli ma esilaranti beffe.
C’è il Necchi (questa volta impersonato da Renzo Montagnani) alle prese con la sua perenne gelosia;il Perozzi afflitto come al solito dai suoi problemi,tra i quali un figlio serioso e agli antipodi rispetto al padre; il conte Mascetti,nobile decaduto,che cerca di mantenere la sua dignità,e il Sassaroli,il primario annoiato, alla ricerca della botta di vita,oltre al solito Melandri.
Le beffe sono di quelle che fanno epoca,come quando il gruppo fa sgomberare la torre di Pisa con la scusa che è pericolante,mentre loro con dei cavi invitano la gente a tirare per evitare che la stessa cada;c’è l’espediente del conte Mascetti,che abbaglia giovani attricette con fiori e inviti a cena,che dopo la rituale notte di sesso,si trasformano in una fuga ignominiosa dello stesso,senza pagare i conti. C’è la distruzione del paesino,con i nostri che vanno in piccoli paesini della Toscana,vestiti di tutto punto come ingegneri o tecnici e comunicano alla gente che proprio sul paese dovrà passare l’autostrada,con conseguente abbattimento di case,chiese ed edifici.
E c’è anche spazio per lo humour nero e per la commozione,come nel momento in cui il conte Mascetti,adirato con gli amici,viene colpito da un ictus che lo riduce sulla sedia a rotelle; parteciperà ad una gara per paraplegici,dove arriverà ultimo sotto la bandiera pisana,per fare un dispetto ai cittadini di quella città.
Monicelli nel primo film si era divertito con un humour duro e graffiante; nel secondo film affiora invece un pessimismo quasi leopardiano,tutte le zingarate del gruppo di amici diventano più crudeli,una metafora del cupo pessimismo che sembra voler trasmettere il regista attraverso immagini forti,come la già citata corsa di portatori di handicap.
Amici miei II segna la fine della grande stagione della commedia all’italiana,che da quel momento non avrà quasi più spazio al cinema;l’amarezza e la drammatica corrosività di Monicelli,sembrano essere un epitaffio sulla commedia all’italiana,in piena crisi di idee ma sopratutto di interpreti. Il cupo pessimismo del film sembra avvolgere la storia,rendendola sicuramente meno brillante del primo atto,Amici miei,ma sicuramente più tesa ad un’analisi spietata di un periodo,di una generazione in crisi con il rapporto verso l’età e le nuove generazioni.
Amici miei atto secondo,
un film di Mario Monicelli. Con Ugo Tognazzi, Adolfo Celi, Gastone Moschin, Renzo Montagnani, Paolo Stoppa, Franca Tamantini,
Milena Vukotic, Alessandro Haber, Philippe Noiret, Angela Goodwin, Tommaso Bianco, Domiziana Giordano.
Genere Commedia, colore 117 minuti. – Produzione Italia 1982.
* Ugo Tognazzi: Il Conte Mascetti – Raffaello “Lello” Mascetti
* Gastone Moschin: Il Melandri – Architetto Rambaldo Melandri
* Adolfo Celi: Il Sassaroli – Professor Alfeo Sassaroli
* Renzo Montagnani: Il Necchi – Guido Necchi
* Milena Vukotic: Alice Mascetti
* Franca Tamantini: Carmen Necchi
* Marisa Traversi: Anita Esposito, l’amante del Perozzi
* Angela Goodwin: Laura Perozzi
* Alessandro Haber: Paolo, il vedovo
* Domiziana Giordano: Noemi
* Tommaso Bianco: Fornaio
* Paolo Stoppa: Sabino Capogreco, lo strozzino
* Philippe Noiret: Il Perozzi – Giorgio Perozzi
* Fiorentina Bussi: Twister
* Enio Drovandi: Poliziotto
* Maurizio Scattorin: il figlio del Perozzi
Regia Mario Monicelli
Soggetto Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Tullio Pinelli, Mario Monicelli
Sceneggiatura Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Tullio Pinelli, Mario Monicelli
Produttore Luigi De Laurentiis, Aurelio De Laurentiis
Distribuzione (Italia) Filmauro
Fotografia Sergio D’Offizzi
Montaggio Ruggiero Mastroianni
Musiche Carlo Rustichelli
Scenografia Lorenzo Baraldi
Costumi Gianna Gissi
Fare un bel sequel non è da tutti. Il seguito di Amici Miei ci riesce benissimo, inserendo uno splendido Montagnani al posto di Del Prete e trovando un asso di briscola nello strozzino, non disegnato, ma addirittura scolpito, da Paolo Stoppa. Tante scene di culto. Io ne preferisco una solitamente poco citata, benché presa di peso da Causa di divorzio di Fondato: il vigile (Enio Drovandi) che ferma gli amabili Amici e guarda la patente del Necchi. Ovviamente non mancano coloro che, ultra-esagerando, vanno oltre la lettura anti-femminile e parlano di velata omosessualità. Insopportabili.
Il primo Amici miei (una delle ultime grandi commedie italiane) rimane insuperabile; il sequel (pur essendo confezionato con classe, non per niente alla regia rimane il grande Monicelli) non è all’altezza; si tratta di un film spiritoso con trovate talvolta originali, ma lo spirito del primo film si è perduto per sempre. Manca sopratutto il sentimento nostalgico-malinconico che pervadeva il primo film (specie nel finale) anche se gli attori fanno ancora bene la loro parte.
Caposaldo, a tratti persino meglio del primo (Montagnani è un bel valore aggiunto). L’intera sequenza del cimitero, dal fulminante “sbiriguda” con cui Tognazzi inizia la sua tiritera all’efferato duetto Celi-Haber sulla tomba di Agata, “amica e amante impareggiabile”, vale da sola tutta la cinematografia di sedicente comicità toscana dgli ultimi 15 anni.
Ritornano i compagnoni scherzosi di Amici miei, dopo la morte di uno di loro, ma sempre in vena di zingarate (magari in flashback), tra cataclismi (l’alluvione di Firenze) e piccole burlette, in mezzo a drammi familiari o avventure passeggere. Tutto tra spensierata comicità e sottile malinconia. Un buon film, che tiene alto il livello della confezione già acquisito nel precedente lavoro, senza però la sorpresa dell’originalità.
Sono ancora tutti in grande forma i compagnoni, armati di supercazzole e vogliosi di zingarate; e dico proprio tutti, visto che, grazie a voli nel passato, viene anche riesumato (e menomale) il Perozzi. Le gag riuscite si sprecano, passando dalle peggio vigliaccate, ai colpi bassi (come sempre, anche tra loro). Non mancano, comunque, i momenti piuttosto amari (la situazione del conte Mascetti e famiglia). Regge bene fino alla fine, a parte qualche colpo non proprio a segno (l’inesistente spasimante), restando notevole e da vedere.
Seguito che nulla aggiunge né toglie al primo capitolo, ma che può vantare sempre le superlative interpretazioni dei protagonisti e alcune gag ben riuscite (su tutte, quella del cimitero con Haber e quella della torre di Pisa). Ottimo Stoppa nella parte dell’usuraio gabbato. Tra una zingarata e l’altra, torna ad aleggiare l’ombra della morte, che questa volta minaccia Tognazzi.
Di assoluto livello questo secondo capitolo, con la solita amarezza di fondo ad ancora molte scene strepitose. Il film a mio avviso guadagna anche dalla sostituzione del mediocre Duilio Del Prete con l’ottimo Renzo Montagnani, ed anche l’usuraio intepretato da Paolo Stoppa è protagonista di alcuni momenti grandiosi. Forse alcuni passaggi tra il “presente” ed i flashback non sono perfetti, ma che importa. Da vedere anche solo per gli ultimi 5′, che mostrano un Tognazzi da applausi a scena aperta.
Secondo capitolo che presenta tante affinità col primo, al quale in definitiva non aggiunge nulla di nuovo: zingarate di varia natura, una “tonificante” vena di cattiveria e la morte che aleggia in maniera prepotente. Anche il cast (quasi immutato) fa la sua parte. Il divertimento non manca anche se il risultato finale è un passo indietro rispetto al capostipite. Tuttavia il livello è ancora buono.
Secondo atto per i goliardi fuori tempo. Entra Montagnani per Del Prete: ovvio miglioramento, che aumenta il rimpianto per il talento sprecato dall’attore nella sua carriera. La struttura è sostanzialmente la stessa. La morte del Perozzi dà lo spunto, poi si torna alle zingarate, alcune memorabili come la crocefissione e il “rigatino”. Non tutto è di gran gusto (la contorsionista messa in valigia e buttata su un autobus è una trovata esagerata e stupida) e si perde un po’ il senso vero del primo film. Comunque si ride tantissimo.
Mentre il primo capitolo rientra a pieno merito tra i capolavori della “commedia all’italiana”, questo secondo atto risulta un film divertente e nulla più. Rispetto all’originale forse manca la novità delle “zingarate” dei cinque amici ma ancor più manca l’approfondimento psicologico dei protagonisti. Comunque Monicelli è regista intelligente e sa come far funzionare lo spettacolo ed inoltre la sostituzione di Del Prete con Montagnani è sicuramente positiva, così la pellicola risulta molto godibile. Ottimo anche Paolo Stoppa nel ruolo dello strozzino.
Al netto degli anacronismi imposti dalla necessità di ripescare il Perozzi e inserirlo in un flashback della Firenze alluvionata, oltre che di un tono meno introspettivo e più leggero che calza a pennello alla new entry Montagnani, la struttura base del primo film è salva, comprese la burla prolungata (qui al bravo Stoppa, nel primo a Blier) e la morte che aleggia sul finale. Non c’è l’atmosfera del capostipite, si compensa con maggiore cattiveria: gli “zingari” assecondano alla perfezione una sceneggiatura ben congegnata.
Non male. Vi sono numerosi “episodi” divertenti, come per esempio quello dell’alluvione con Moschin che esclama “ma guarda se Dio per salvare la tua verginità doveva inondare Firenze!”, l’usuraio, le foto oscene. Monicelli firma una buona regia. Ottimo il cast d’attori, non solo quelli principali. Godibile.
Decisamente inferiore al primo atto. La comicità diventa più crudele e surreale, e se molte scene sono memorabili altre non riescono a colpire nel segno. Inoltre la storia dopotutto non è che una serie di episodi, e rispetto al numero 1 mancano sia l’approfondimento dei personaggi che la malinconia di fondo. Comunque il cast è sempre straordinario (Montagnani al posto di Del Prete funziona benissimo) e la regia di Monicelli, cinica e sarcastica, funziona ancora alla grande.
Se l’entrata in scena di Montagnani pare funzionare bene e la verve dissacrante del primo episodio non si è smarrita, tuttavia il filo narrativo è meno lineare, sembra adesso di procedere per gag successive. Tra queste mi piace ricordare il figlio del Perozzi a pigione dal Mascetti, l’operazione ai reni dello strozzino, l’alluvione. Più grossolani invece altri passaggi, come quello alla torre di Pisa e la corsa delle carrozzine. I temi di fondo del primo film vengono confermati, ma l’effetto non è più lo stesso.
Secondo atto che si mantiene agli alti livelli del primo per quel che riguarda la comicità delle situazioni, la vincente struttura a flashback, qui utile per ripescare il prezioso Noiret e la prova attoriale dei 5 amici, anche qui spumeggianti, geniali e impagabili (Moschin forse fa sbellicare più di tutti). Ottimo anche il contributo degli sventurati che capitano loro a tiro come Stoppa e uno strepitoso Haber. Monicelli dirige il tutto col piglio giusto. Tanti gli episodi memorabili: al cimitero, l’alluvione, la gravida, il servizio torri…
Sequel delle avventure degli zingari. Si ride parecchio, ma là con una nota malinconica evidente, qui c’è la voglia di costruire scene efficaci tralasciando quasi del tutto (occhio al finale) lo spirito del primo film. Ecco dunque pezzi divenuti celeberrimi: Adelina, Stoppa, la beghina e l’alluvione, la Via Crucis, ecc. ecc. Grandissimo Celi nella parte del cinico (quasi più che nel primo).
Quando il sequel non delude lo spettatore! Qui siamo di fronte ad un capolavoro di cinema comico, o commedia se si preferisce. Qui abbiamo situazioni boccaccesche, scherzi più o meno volgari, e abbiamo anche il cattivo cinismo. Alcune scene sono assolutamente memorabili e non v’è possibilità alcuna di trovar qui un solo punto debole. Attori al top, regia al top, sceneggiatura al top. Insomma un capolavoro. Peccato per l’immensa boiata del terzo capitolo, che quasi danneggia i Monicelliani!
Mentre il primo era un divertente e riuscito misto tra dramma e commedia, in questa seconda puntata è netta la dimensione comica della vicenda. I quattro protagonisti ricordano episodi del passato (che vengono mostrati in flashback e in cui riappare il Sor Perozzi/Noiret) e vivono divertenti avventure nel presente. Il tutto sotto la calibrata regia del maestro Monicelli. Grandissimi una volta di più i protagonisti, con la new entry Montagnani al posto di Del Prete. Raffica di scene memorabili.
Nient’altro che un buon film. La sensazione di già visto è sin troppo pesante, tanto che a tratti sembra di assistere ad un remake più che ad un sequel. Manca completamente l’atmosfera del capostipite e la sostituzione di Del Prete con Montagnani è quasi emblematica delle intenzioni che animano quaesto secondo capitolo: fare ridere, punto. Invece paradossalmente l’effetto comico risulta inferiore al primo capitolo, a causa di situazione esagerate ed una certa grossolanità di fondo.
Bello quanto il primo, in certi momenti anche di più. Montagnani rimpiazza degnamente Del Prete, conferendo alla sua figura da “bottegaio” un’aria più leggera. Questa volta il riso, più che amaro, è nero: nemmeno la morte riesce a dividere i cinque bischeri (vedi la bella idea dei flashback sul Perozzi) e si scherza amabilmente sui cimiteri, sui tradimenti e persino sulle malattie. Il ritmo malin-comico si mantiene sempre su alti livelli.
Per certi versi l’ho trovato addirittura superiore al primo: più ritmo, scherzi più accattivanti e divertenti, Montagnani più in parte di Del Prete, ma la storia è un po’ affaticata con i continui flashback tra passato e presente (che servono a riportare in scena Noiret). Comunque un cult del cinema italiano, pieno di grandi dialoghi e con un cast eccezionale che, oltre ai cinque protagonisti, conta comprimari del calibro di Haber e Stoppa. Imperdibile.
Se nel geniale capostipite veniva voglia di invecchiare, qui si sente forse il peso dell’età. Gli attori non sono più freschi 50enni e la stessa sceneggiatura pare richiamarsi troppo all’originale, quasi per dovere di sequel. Da verificare l’eventuale presenza di errori figli dell’esigenza di spettacolo (il grandioso Sassaroli era già un “amico” con il figlio del Perozzi fanciullo?). Cionondimeno e nonostante la debolezza nell’approfondimento psicologico dei 5, ne risulta una buonissima commedia, arricchita da qualche perla indimenticabile.
Amici miei
Nel 1975 il cinema erotico,sviluppatosi attorno al precursore involontario del genere,il Decameron di Pasolini, mostrava la corda,dopo aver inondato gli schermi con novelle licenziose, monache vogliose e conventi gaudenti, Monicelli proponeva al pubblico quello che diverrà uno dei film più importanti della cinematografia italiana, Amici miei.
Fenomeno di costume, ma non solo; esempio rarissimo di un cinema che sposa alla perfezione il divertimento, anche se in questo caso molto amaro e vestito di malinconia, l’impegno, sottolineato dalla storia di un gruppo di amici che rifiutano il conformismo e che non vogliono invecchiare,e una serie di sentimenti che si avvertono palpabili,fin dalle prime scene.Malinconia, rimpianto,voglia di non cedere alla vecchiaia,ma anche tristezza appaiono elementi di un film che non è e non sarà una sfilata di gag,ma il ritratto,a volte impietoso,a volte sardonico,di personaggi che in fondo ci appaiono patetici,con la loro necessità di esorcizzare il fantasma della vecchiaia.
Il film,che si snoda attraverso le vicende del gruppo di goliardici amici,contrariamente a quanto stabilito dalla legge della commedia all’italiana,non ha l’happy end,anzi,ha un finale assolutamente amaro;e la grandezza di Monicelli,di questo impietoso ritratto di quelli che sono,in fondo,dei naufraghi,acquista ancora più valore,slegato com’è dalla logica del botteghino e dell’incasso.
Quattro amici cinquantenni,goliardici,ironici e dissacratori si muovono in un arco temporale definito tra il decennio 60 e e il 70;c’ è il Perozzi,io narrante del film,che è un giornalista con poca voglia di lavorare,combattuto tra il desiderio di mandare a quel paese la sua famiglia,composta da una moglie e da un figlio di un conformismo addirittura patetico.
C’è il Melandri, architetto, che insegue un sogno femminile irrealizzato,e che per una donna riuscirebbe anche ad abbandonare gli amici; c’è il Necchi,un barista,che appare come l’unico ad avere un centro di gravità,visto che è felicemente sposato,e che gestisce la sala bar con annesso biliardo dove gli amici si riuniscono per sperimentare beffe e burle,o solo per svagarsi dalle loro giornate tristemente uguali;c’è il conte Mascetti,uno strano tipo di nobile che ha gettato al vento la sua eredità e quella della moglie,che vive di prestiti e che comunque mantiene un’aura di nobiltà decaduta,con la sua relazione adulterina con una giovane,
mentre la sua famiglia vive alle soglie del decoro;e infine il professor Sassaroli,che non fa parte del gruppo originario,ma che incuriosito dalla vitalità dei quattro amici ed annoiato dal suo lavoro,ben presto si trasformerà nell’anima del gruppo.I cinque si spingono oltre i limiti della stessa burla,arrivando,nel finale,quando ci sarò la morte del Perozzi,a sbeffeggiare la stessa fine della vita dell’amico,in un impeto che dissacra i fondamenti stessi della vita;inutile ricordare le burle terribili che il gruppo di amici assesta ad una società tetra,buia.
Basti ricordare la scena della stazione,un classico del cinema,in cui il gruppo prende a ceffoni i passeggeri di un treno in partenza,o ancora quella terribile fatta ad un avventore opportunista del bar,a cui vien fatto credere che il gruppo altro non è che una banda di trafficanti,con conseguenze esilaranti nello svolgimento del film.
Monicelli gira un film tecnicamente perfetto,che mescola ironia,tristezza,amarezza,malinconia e la profonde a piene mani in ogni singola inquadratura,con un finale grottesco che esorcizza anche la vecchia con la falce. Amici miei è probabilmente uno dei film più belli della storia del cinema proprio per la mescolanza di tutte queste caratteristiche,ma non solo.Anche per la straordinaria prova del cast,con Philippe Noiret che interpreta splendidamente il Perozzi,con un grandissimo Ugo Tognazzi nel ruolo del conte Mascetti,nobile decaduto ma orgoglioso;con Gastone Moschin,forse il personaggio meno riuscito,più anonimo del gruppo,leggermente infido,quello che in un gruppo non manca mai,nel ruolo del Melandri;un incredibile Adolfo celi,quasi satanico nel ruolo del professor Sassaroli,che ritrova una nuova giovinezza al fianco di quel gruppo di pazzi,ed infine il Necchi,forse un grillo parlante,forse no,l’unico che abbia una parvenza di vita normale,e che difatti rimane ai margini del gruppo.
Un film memorabile,che diventerà la pietra miliare del cinema anni 70,e che rinvigorirà con nuova linfa la stanca commedia all’italiana.
Amici miei
Un film di Mario Monicelli. Con Ugo Tognazzi, Duilio Del Prete, Adolfo Celi, Olga Karlatos, Bernard Blier, Philippe Noiret, Gastone Moschin, Milena Vukotic, Franca Tamantini, Marisa Traversi, Silvia Dionisio, Angela Goodwin, Mauro Vestri, Mario Scarpetta. Genere Commedia, colore 109 minuti. – Produzione Italia 1975.
Ugo Tognazzi: Raffaello “Lello” Mascetti
Gastone Moschin: Rambaldo Melandri
Philippe Noiret: Giorgio Perozzi
Duilio Del Prete: Guido Necchi
Adolfo Celi: professor Alfeo Sassaroli
Bernard Blier: Nicolò Righi
Marisa Traversi: l’amante di Perozzi
Milena Vukotic: Alice Mascetti
Franca Tamantini: Carmen Necchi
Olga Karlatos: Donatella Sassaroli
Silvia Dionisio: Titti
Angela Goodwin: Laura Perozzi
Maurizio Scattorin: il figlio di Perozzi
Mauro Vestri: neurologo
Regia Mario Monicelli
Soggetto Pietro Germi, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Tullio Pinelli
Sceneggiatura Pietro Germi, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Tullio Pinelli
Produttore Carlo Nebiolo
Fotografia Luigi Kuveiller
Montaggio Ruggero Mastroianni
Musiche Carlo Rustichelli
Scenografia Lorenzo Baraldi
Costumi Giuditta Mafai
Trucco Franco Di Girolamo
– Anch’io ho sofferto. Ho sofferto come un cane per quasi tre quarti d’ora…
– Cos’è il Genio? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione.
– Sii astuto come un cervo. “Che bischerate tu dici? Il cervo non è astuto. Semmai, astuto come una volpe.”Sì, ma la volpe ‘un c’ha mica le corna.
– Ho incontrato un angelo..”Un angelo maschio o femmina?” Gli angeli non hanno sesso!! “Insomma c’ha le poppe o non c’ha le poppe!??!”
– Quando penso alla carne della mia carne, chissà perché, divento subito vegetariano
– Io restai a chiedermi se l’imbecille ero io, che la vita la pigliavo tutta come un gioco, o se invece era lui che la pigliava come una condanna ai lavori forzati; o se lo eravamo tutti e due.
– Ragazzi, come si sta bene tra noi, tra uomini! Ma perché non siamo nati tutti finocchi?
L’opinione di Simone tratta dal sito http://www.mymovies.com
Signori che dire… Di capolavori nella storia del cinema ce ne sono stati tanti in passato e più che andiamo avanti con le generazioni se ne vedono sempre meno non occorre essere dei geni per capirlo.. Quello che il Maestro Monicelli ci ha regalato è una cultura cinematografica e un insieme di emozioni difficili da dimenticare. Film che richiama una comicità/tragica per il susseguirsi degli eventi, come la morte del Perozzi o il malore del Mascetti e la vita che va avanti come è sempre andata con allegria senza mai prendere tutto sul serio tra risate scherzi battute prese in giro, il tutto legato da una profonda amicizia che ci fa capire quanto è bella la vita. Per finire ringrazio antani come se fosse fochi fatui con saluti bitumati alla redazione.
L’opinione del sito http://www.filmscoop.it
(…) Una nobile macchietta, un perdente dal grande cuore (“Un eroe dei nostri tempi”, “Il Marchese del Grillo”). Questi sono i tratti che caratterizzano la commedia di Monicelli: un’ironia mai fine a sé stessa, che non scade mai nel demenziale, ma che è sempre percorsa da una leggera venatura drammatica. O forse al contrario: una drammaticità che non scade mai nel patetico, ma che viene sempre stemperata nelle tragicomiche vicende dei piccoli grandi eroi nostrani. Personaggi che diventano icone del cinema, resi indimenticabili dalle interpretazioni dei più grandi attori del “gotha” cinematografico italiano: tra gli altri, Totò, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi e Alberto Sordi.
Monicelli è da annoverare tra i padri della migliore commedia italiana, un genere a cui il Maestro ha saputo dare un rinnovato lustro, tanto da rendere le commedie italiane note in tutto il mondo. Il suo indiscusso talento e la sua creativa genialità, premiati con numerosi riconoscimenti a livello internazionale, hanno fruttato al regista ben sei nomination agli Oscar. Un livello impensabile per le commedie nostrane d’oggigiorno.
Se il lascito artistico di Monicelli consiste in un’enorme produzione cinematografica (regista di oltre sessanta film, sceneggiatore di un centinaio), il suo lascito morale risiede nello spirito sagace, intelligente ed ottimista con cui abilmente sdrammatizzava ogni situazione. Sul suo sito ufficiale campeggia tutt’oggi una significativa citazione di Sant’Agostino: “Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra”.(…)
L’opinione di Fabio1971 dal sito http://www.filmtv.it
Antani come se fosse Mario Monicelli ma anche un po’ Pietro Germi, visto che, se la cirrosi epatica non l’avesse stroncato prima, l’avrebbe girato lui. E allora il primo amico, altro che zingaro, è proprio Monicelli, che non può che ringraziare Germi e gli dedica il film, un Monicelli sul livello della sua grande guerra prematurata e dei soliti tarapii tapiochi anche un po’ ignoti e pure compagni al grido di “Branca, Branca, Branca, leon, leon, leon”. Non mancano un Totò, o un Gassman, o un Sordi, perchè posterdati per due, anzi per cinque, c’è pur sempre un Tognazzi che è molto di più di una supercazzola, anche prematurata, ma sempre come fosse baciato da una grazia nelle sfumature che non è tanto un clacsonare, perchè allora potremmo dire, per il rispetto per l’autorità, che anche soltanto le due cose come vicesindaco, oltre che i supercazzolanti Moschin, Noiret, Del Prete, Celi e lo sventurato Blier, che non hanno di certo perso i contatti col tarapia tapioco. E no, perchè antani come trazione per due anche con cofandina, il disincanto e i toni crepuscolari di un film che insieme a tutti quelli che si erano tanto amati dell’anno precedente sta (e continua a stare) alla commedia italiana degli anni Settanta come i mostri sorpassanti di Risi scappellavano quella dei Sessanta fifty fifty come fosse mea culpa. La cifra stilistica supercazzolata, infatti, sia in Scola che in Monicelli, è la memoria, lo sguardo tarapiocante al passato, l’inadeguatezza al presente, in definitiva la presa di coscienza di una generazione schiava dello sbiriguda veniale, cinico, amaro, soprattutto con ribaltone ma sempre col sorriso sulle labbra, di certo non riconducibile esclusivamente alla goliardia o ad una beffarda trivialità da osteria. Manca ancora la scoliana giornata particolare e poi sulle glorie della commedia nostrana potrà calare finalmente il sipario con la barella anche per due. Aspetti, mi porga l’indice: ecco, lo alzi così, guardi, guardi, guardi, lo vede il dito? Lo vede che stuzzica?
L’opinione di Homesick dal sito http://www.davinotti.com
Commedia divertentissima ma anche amara e spietata, dove è evidente la mano del Germi più graffiante. Cinque vitelloni che ricorrono a frizzi e lazzi per alleviare incertezze, sofferenze ed insoddisfazioni. Eccellenti tutti gli attori. Ad un certo punto Celi cita il suo Emilio Largo di Thunderball mettendosi una benda sull’occhio. Capolavoro della commedia italiana.