Perchè i gatti ? Because of the cats
Un gruppo di sei giovani entra furtivamente in un appartamento di Amsterdam; il loro scopo è quello di rubare dalla casa quanto più possibile e poi scomparire con il bottino.
Ma le cose sono destinate ad andare diversamente perchè i coniugi Jansen e Fedora rientrano casualmente prima in casa.
I giovani teppisti così approfittano della situazione per commettere ogni sorta di violenza sulla donna, costringendo anche il malcapitato marito a guardare le fasi dello stupro della donna.
Ad indagare sul caso viene chiamato l’ispettore Van der Valk che capisce immediatamente di trovarsi per le mani una brutta gatta da pelare.
Infatti il sagace ispettore, interrogando pazientemente la donna ancora scossa dalla violenza e suo marito, capisce che ad agire non è stata una banda di teppisti qualsiasi ma gente con elevato grado di istruzione e probabilmente di pari grado sociale.
La conferma la ha quando interroga il bigliettaio del treno che porta da Amsterdam alla località marina di Blumendal, posto esclusivo frequentato solo da vip.
Continuando le sue indagini, Van der Valk scopre l’esistenza di una banda di teppisti denominata I corvi che capisce essere i responsabili della brutale violenza aì danni di Fedora e Jansen. Ma le indagini arrivano ad un punto morto, perchè l’ispettore manca di prove certe e sopratutto perchè le autorità locali non mostrano alcuna voglia di collaborare, nel timore di scomodare i genitori dei ragazzi che ovviamente sono l’elite della società.
Ad aiutare l’ispettore e a dare una svolta alle indagini è la morte del giovane Keis, l’ultimo ammesso alla banda dei teppisti bene grazie alla quale riesce anche a scoprire che esiste una banda al femminile, chiamata Le gatte che in pratica segue quello che fanno I corvi nella speranza di compiacerli.
A capo della banda dei Corvi c’è un individuo più anziano, che ha tentato di creare un clone della Manson family (il gruppo che uccise selvaggiamente Sharon Tate sotto l’influsso malefico di Charles Manson) e che ha plagiato il gruppetto con teorie strampalate in cui si mescolano nazismo e teorie anarcoidi…
Thriller ben congegnato, che si ispira ad Arancia meccanica in tutta la sequenza della brutale violenza iniziale, Perchè i gatti? titolo originale Because of the cats diretto nel 1973 dal regista olnadese Fons Rademakers assolutamente sconosciuto almeno come regista in Italia, è un film di livello accettabile sia come sceneggiatura (ben congegnata) sia come ambizioni.
La meno nascosta delle quali è quella di offrire una visione sul dorato mondo alto borghese della capitale olandese, i cui figli, assaliti dalla noia e privi di valori morali di riferimento, sfogano il loro malessere e la loro totale mancanza di scrupoli in gesta crudeli come quelle della sequenza iniziale.
Che resta impressa nello spettatore per il rituale brutale e violento che la distingue, come del resto era accaduto nel film di Kubrick.
Ovviamente Rademakers non è Kubrick e la raffinatezza del maestro inglese è qui un pallido riflesso di quella cieca e ferocissima di Arancia meccanica; i meccanismi sono più rozzi e più espliciti, tuttavia non mancano di un loro sinistro fascino.
Altro punto di forza del film è rappresentato dall’ostinazione di Van der Valk nel cercare ad ogni costo la verità, anche a rischio della carriera e quello ben più concreto di inimicarsi le alte sfere; ma l’ostinazione del poliziotto in qualche modo darà i frutti sperati.
Per quanto riguarda il discorso sociale di denuncia, tutto rimane ad un livello embrionale, ma francamente nelle intenzioni del regista molto difficilmente poteva esserci un discorso così impegnativo legato ad una pellicola di ben più modeste ambizioni.
Il cast è di medio livello, con Alexandra Stewart su tutti e con Bryan Marshall dignitoso nel ruolo dell’ispettore Van der Valk; l’attore inglese, lasciate momentaneamente le serie tv da corpo ad un personaggio con qualche spessore cavandosela con abilità consumata, confermata del resto dal proseguimento della sua carriera che conta partecipazioni ad almeno un centinaio di serie tv.
Piccola parte per una giovane Sylvia Kristel, poco più che esordiente e non ancora diventata una star visto che il film che la lanciò a livello internazionale, Emmanuelle, lo girò nel 1974.
In definitiva una pellicola dignitosa che merita una visione
Perché i gatti?
Un film di Fons Rademakers. Con Sylvia Kristel, Alexandra Stewart, Bryan Marshall Titolo originale Because of the Cats.
Bryan Marshall … Ispettore Van der Valk
Alexandra Stewart … Feodora
Sebastian Graham Jones … Jansen
Anthony Allen … Erik Mierle
Ida Goemans … Carmen
Nicholas Hoye … Kees van Sonneveld
Sylvia Kristel … Hannie Troost
Delia Lindsay … La signora Maris
Edward Judd … Mierle
Roger Hammond …Signor Maris
Derek Hart … Kieft
Guido de Moor … Marcousis
Lous Hensen . Van Sonneveld
George Baker … Boersma
Liliane Vincent … Mevrouw Kieft
Regia: Fons Rademakers
Sceneggiatura: Hugo Claus, Nicolas Freeling
Produzione: Paul Collet,Fons Rademakers
Musiche : Ruud Bos
Editing: Ton Aarden
Basic instinct
Un misterioso omicidio con un’arma inconsueta e avvenuto durante un momento particolare, un intenso rapporto sessuale.
La vittima è Johnny Boz, un musicista rock che la sera della morte era in compagnia di una donna, Catherine Tramell psicologa e scrittrice; il detective “Shooter” Nick Curran è incaricato delle indagini e ovviamente ha dei sospetti proprio sulla donna.
Con il collega Gus Moran si reca ad interrogare Catherine nella sua villa sul mare ed entrambi vengono accolti da Roxy che è amante di Catherine; Roxy tiene subito a precisare che la sua amante è innocente, ma i due ovviamente sono là per sentire la versione di Catherine.

Michael Douglas e Sharon Stone
Indagando sulla donna, Nick scopre che in un suo romanzo una vittima viene uccisa con le stesse modalità con cui è stato ucciso Johnny, così decide di sottoporre la donna ad un interrogatorio in centrale.
Catherine si mostra molto sicura di se, nonostante la pressione degli inquirenti e durante l’interrogatorio apre provocatoriamente le gambe mostrando di non usare nessun tipo di intimo e lasciando gli agenti stupefatti e sudati.
Quella sera a Nick capitano due “incidenti” destinati a creargli nell’immediato futuro grossi problemi; dapprima litiga violentemente con l’agente incaricato degli affari interni e poi chiude la serata con un appuntamento con la sua ex, Beth Gardner con la quale ha un rapporto sessuale molto “agitato”.
Nick è sempre più attratto dalla personalità sfuggente di Catherine, che dal canto suo gioca con lui come il gatto con il topo; la donna principalmente cerca di sedurre il detective per ottenere informazioni sul caso in questione mentre accade un fatto gravissimo.
Nielsen, l’agente con cui Nick aveva litigato viene rinvenuto morto e questa volta i sospetti si accentrano su di lui.
Nick continua comunque le sue indagini e punta i suoi sospetti su Hazel Dobkins, una ex pluriomicida che aveva sterminato la sua famiglia il giorno di Natale di molti anni addietro.
Ma la principale indagata diventa Beth Gardner, mentre scompare di scena un’altra protagonista della storia, Roxy ovvero l’amante di Catherine che perisce in un incidente d’auto…
Tutta la parte finale della storia mantiene la suspence, fino alla apparente soluzione dell’enigma, riaperto però clamorosamente in una delle ultimissime battute del film.

Un fotogramma celebre: l’interrogatorio di Sharon Stone che mostra di non usare l’intimo
Campione d’incassi degli anni 90, Basic instinct è opera dell’ottimo Paul Verhoeven che si avvale di una sceneggiatura intrigante di Joe Eszterhas, autore tra l’altro dei soggetti di Flashdance, Betrayed e in futuro di quelle di Sliver e Jade di Friedkin.
Clamorosamente premiato dal pubblico che ne apprezzò la forte carica trasgressiva ed erotica, esaltata dal potente sex appeal della principale protagonista l’attrice Sharon Stone, Basic instinct non ha però mai goduto di eccessive simpatie da parte di buona parte della critica e anche di molti degli spettatori che hanno visto in passato la pellicola.
Colpa di una sceneggiatura considerata (con qualche ragione) ruffiana e ammiccante, tutta incentrata più sull’aspetto morboso della vicenda, a partire dall’arma e dalla situazione in cui muore la prima vittima per finire con le numerose scene di sesso che il film stesso contiene.
Che è poi una delle caratteristiche specifiche del regista olandese sin dai tempi di Turks fruit-Fiore di carne, che però risale ad inizi anni settanta ed è inquadrabile in un cinema post sessantottino con ben altre motivazioni e risultati.
Basic instinct è invece un prodotto furbo, da box office, anche se va detto che le critiche al film in fondo sono abbastanza ingenerose; la professionalità di Verhoeven è ben presente in tutta la pellicola che ha il giusto ritmo e che si segue con passione e pathos fino all’inquadratura finale che mette in discussione tutto quanto visto fino ad allora.
Il film ha tutto quello che serve per diventare un blockbuster; ha una trama se non originale almeno credibile, un ritmo serrato, atmosfere morbose e sopratutto ha un cast di attori di ottimo livello.
C’è un Michael Douglas praticamente perfetto nel ruolo del detective Nick, personaggio non particolarmente simpatico e per cui il pubblico non parteggia, c’è la citata Sharon Stone che dopo questo film diverrà un’autentica diva, sex symbol della nuova Hollywood anni 90, c’è la bella e affascinante Jeanne Tripplehorn che interpreta la Dottoressa Beth Garner protagonista di una scena torrida di sesso violento con Douglas, Leilani Sarelle che interpreta Roxy.
Basic instinct è un prodotto hollywoodiano, patinato e raffinato, a cui si aggiunge la puntuale regia di Verhoeven e sopratutto una trama spiazzante; il detective Nick che indaga sullo strano omicidio di Johnny Boz ha a che fare con un assassino (o assassina?) astuto/a, che costringe lo stesso detective a rivedere di volta in volta il quadro dei sospetti, lasciando fino all’ultimo il dubbio nello spettatore sulla reale identità dello stesso.
Un espediente che generalmente funziona sempre, sopratutto quando è accompagnato dal buon e vecchio sesso profuso con intelligenza e sopratutto ammantato di una morbosità che ad Hollywood non era certo frequentissima nelle pellicole destinate al grande pubblico.
Certo che rivisto a distanza di 20 anni dalla sua uscita il film mostra diverse crepe; ma questo sembra essere inevitabile sopratutto nel caso di film che sono si dei buoni prodotti, ma non trascendentali.
L’enorme battage pubblicitario che precedette il film e il successivo scandalo (peraltro molto mitigato in seguito dal cambiamento del costume), se funzionarono da cassa di risonanza per il film stesso ebbero anche l’effetto di condizionare quella parte di pubblico più scafato e più esigente.
Questi ultimi hanno saputo cogliere la “diabolica” abilità di Verhoeven nel confezionare un prodotto da largo mercato, con più di un occhio ai biglietti staccati che al valor intrinseco del film.
Ma, al solito, la storia dice che ha avuto ragione, visto che Basic instinct è uno dei primi 150 film più visti di tutti i tempi in Usa.

Basic Instinct
Un film di Paul Verhoeven . Con Michael Douglas, Sharon Stone, George Dzundza, Jeanne Tripplehorn, Dorothy Malone,Stephen Tobolowsky, Wayne Knight, Benjamin Mouton, Chelcie Ross, Bruce A. Young, Denis Arndt, Daniel Von Bargen, Leilani Sarelle, Bill Cable, Jack McGee, James Rebhorn
Thriller, durata 127 min. – USA 1992.
Michael Douglas: Detective Nick Curran
Sharon Stone: Catherine Tramell
George Dzundza: Gus Moran
Jeanne Tripplehorn: Dottoressa Beth Garner
Leilani Sarelle: Roxy
Daniel von Bargen: Marty Nielsen
Denis Arndt: Tenenete Philip Walker
Stephen Tobolowsky: Dottor Lamott
Dorothy Malone: Hazel Dubkins
James Rebhorn: Dottor McElweine
Wayne Knight: John Corelli
Chelcie Ross: Capitano Talcott
Bruce A. Young: Andrews
Regia Paul Verhoeven
Soggetto Joe Eszterhas
Sceneggiatura Joe Eszterhas
Produttore Alan Marshall
Produttore esecutivo Mario Kassar
Casa di produzione Carolco Pictures, Canal+
Distribuzione (Italia) Penta Film
Fotografia Jan de Bont
Montaggio Frank J. Urioste
Effetti speciali Rob Bottin, John Frazier, Bruce Y. Kuroyama, Steve Riley, James D. Schwalm, Rusell Shinkle, Roland Blancaflor, Becky Ochoa
Musiche Jerry Goldsmith
Scenografia Anne Kuljian
Oreste Rizzini: Detective Nick Curran
Cristiana Lionello: Catherine Tramell
Marcello Tusco: Gus Moran
Laura Boccanera: Dottoressa Beth Garner
Mavi Felli: Roxy
Giancarlo Maestri: Marty Nielsen
Gianni Bonagura: Tenenete Philip Walker
Roberto Pedicini: Dottor Lamott
Angiolina Quinterno: Hazel Dubkins
Sergio Di Giulio: Dottor McElweine
Oreste Lionello: John Corelli



Jade
Un appartamento elegantissimo in un quartiere bene di San Francisco; sale imponenti colme di oggetti d’antiquariato e d’opere d’arte d’ogni tipo con molti oggetti etnici sono il regno di un importante mercante d’arte di nome Kyle Medford.
Mentre la MDP indugia sui tutti i particolari dell’affascinante casa, dall’interno di una delle stanze si ode una serie di grida terribili e subito dopo apprendiamo che Kyle Medford è morto.
Barbaramente trucidato con un’ascia orientale.
Sul luogo del delitto arriva la scientifica e subito dopo il Procuratore distrettuale della città, David Corelli, strappato ad un concerto con annesso ballo al quale partecipava con i vecchi amici Trina Gavin ( sua ex fiamma) e Matt Gavin che è suo marito nonchè vecchio amico di David oltre che essere titolare di uno degli studi legali più importanti della città.
Nell’interno della camera da letto ove è avvenuto l’omicidio, David trova una serie di scatole d’argento contenenti peli pubici delle numerose amanti di Medford e per terra vicino al comodino del defunto un gemello da polsino sfuggito alla polizia scientifica.
Ma le sorprese non sono finite: David apprende, appena ritornato in centrale che nella cassaforte dell’assassinato sono state rinvenute delle foto erotiche con protagonista il governatore dello stato.
Inizia così un’indagine estremamente delicata, anche perchè il diretto superiore di David vorrebbe sottrargli le indagini mentre il Governatore lo minaccia apertamente qualora lo scandalo divenisse pubblico; David, aiutato dalla sua squadra riesce ad identificare la ragazza che era con Medford ma sopratutto con l’aiuto di un gioielliere cinese a scoprire che la misteriosa donna in compagnia del Governatore è Jade, una squillo di gran lusso richiestissima tra gli alti papaveri.
Nel frattempo arrivano le conclusioni della scientifica sulle impronte rilevate sull’ascia che ha ucciso Medford; appartengono alla sua amica Trina che, interrogata, non nasconde di essere stata a trovare Medford ma solo per ammirare la sua collezione di oggetti preziosi. Nel corso della visita Medford ha fatto toccare proprio l’ascia “assassina” alla bella Trina.

David Caruso interpreta David Corelli
Per quanto poco convinto della spiegazione David continua le sue indagini, sfuggendo a ben due agguati durante i quali corre pericolo di vita. Nel primo attentato finisce con la sua auto (a cui hanno sabotato i freni) fuori strada mentre nel corso del secondo attentato finisce in acqua speronato da una Thunderbird nera che per pura combinazione è anche un auto nelle disponibilità della famiglia Gavin.
Identificata in Patrice Jacinto la donna che era con Medford pochi momenti prima della morte, David riesce a risalire ad una villa sul mare dove avvenivano incontri erotici tra facoltosi uomini (fra cui il Governatore).
Grazie all’aiuto di un anziano signore che abita vicino alla villa e che guardava con un telescopio gli ospiti della casa e sopratutto grazie al rinvenimento di una cassetta semi bruciata rinvenuta nella casa, David identifica la misteriosa Jade.
E’ la moglie del suo amico Matt, la bella Trina.
Le prove però non sono ancora sufficienti per arrestare la donna, anche perchè è la moglie di uno degli alti papaveri della città.
Sarà la morte in rapida successione dapprima di Patrice, travolta da un auto Thunderbird poi dell’anziano guardone a portare le indagini al punto di svolta.
Per David arriva il momento delle sorprese, ma la scoperta del misterioso assassino di Medford lo è poi, una sorpresa?
Jade è un thriller del 1995 diretto da William Friedkin e sceneggiato da Joe Eszterhas che nel recente passato aveva sceneggiato Basic Instinct, Sliver e Showgirl; la cosa la si afferra immediatamente fin dalle prime battute del film quando lo spettatore che non avesse letto i credit riconoscerebbe immediatamente la furba mano dello sceneggiatore di Basic Instinct.
L’atomsfera è infatti malsana, ossessivamente erotica anche se non sbandierata in ogni istante ma è la motivazione fortissima che muove i personaggi del film e che funge da cassa armonica per tutti i loro movimenti, inclusi gli omicidi e le perversioni varie che sono alla base dei comportamenti dei personaggi.
Una pellicola raffinata ed elegante almeno formalmente in cui la mano esperta di Friedkin (Il braccio violento della legge e L’esorcista su tutti) conduce lo spettatore attraverso un thriller in cui il colpevole è praticamente sussurrato fin dall’inizio.
Il motivo è apparentemente semplice; non importa chi abbia ucciso il mercante d’arte pornografo quanto piuttosto il perchè e l’ambiente in cui tutto ciò è avvenuto.
Friedkin non analizza a fondo, anzi; si limita ad un prodotto ben confezionato e ben presentato senza cercare spiegazioni ai comportamenti dei protagonisti ma limitandosi a presentare i fatti senza accelerare sul discorso di denuncia di un mondo marcio fino alle fondamenta.
Da Medford, pornografo e feticista oltre che ricattatore, che conserva i peli pubici delle sue amanti e che spia i facoltosi clienti e li immortala in filmati e foto per poi ricattarli fino a Matt Gavin che tradisce sua moglie ma appare comunque morbosamente attaccato ad essa tanto da chiedergli, alla fine, di comportarsi come la Jade che la donna usa come epressione della sua doppia personalità, tutti i protagonisti del dramma appaiono morbosamente attaccati al sesso e alle sue deviazioni, quasi impossibilitati ad una vita fatta di valori importanti come la fedeltà o il rispetto della partner.
A questa logica non sfugge nemmeno l’affascinante Trina/Jade, che vive il sesso come una liberazione personale dai propri fantasmi, un pò per noia, un pò per trasgressione.
E che non è un personaggio da prendere a modello.
Come del resto non è da prendere a modello nessuno dei personaggi del film, incluso il procuratore David, carrierista che non esita ad andare a letto con la sua antica fiamma Trina quando scopre la realtà della sua doppia vita, non preoccupandosi minimamente dell’amicizia che lo lega a Matt.
Non ci sono personaggi positivi, nel film; tutti appaiono schiavi del sesso e di motivazioni meschine.
Ma tutto questo nel film, anche se espresso in maniera lampante, è un limite del film stesso che appare come un prodotto molto ben confezionato ma privo d’anima.

Angie Everhart (Patrice) sul tavolo dell’obitorio
Così deve averla pensata anche buona parte della critica oltre che del pubblico che hanno rispettivamente bocciato e disertato il film.
Nonostante Friedkin abbia più volte detto che Jade è il film che più gli piace della sua carriera che conta 35 pellicole da regista, fra i quali oltre ai due citati capolavori ci sono opere come Festa per il compleanno del caro amico Harold ,Vivere o morire a Los Angeles,The hunted – La preda e l’ottima serie tv CSI: Scena del crimine, il film ha avuto generalmente recensioni negative, forse troppo maligne.
Nella realtà Jade è un thriller di buon livello caratterizzato da una buona tensione e da una eleganza formale di tutto rispetto.
Ma è anche freddo e scontato in diverse parti.
Alcune scene però sono davvero di alto livello; la sequenza dell’insegumento della Thunderbird da parte di David è emozionante anche se troppo lunga così come torride sono le scene di sesso anche se non hanno nulla di proibito o che sconfini con l’hard.

Chazz Palmintieri interpreta Matt
Discreti i protagonisti, con in primo piano l’ambigua Jade/Trina interpretata da una bella e affascinante Linda Fiorentino, così come sufficienti sono sia Chazz Palminteri che interpreta Matt Gavin sia David Caruso che interpreta il procuratore David Corelli; bene la splendida Angie Everhart che interpreta Patrice legata all’immaginario collettivo sopratutto per la sequenza che la vede nuda sul tavolo dell’obitorio.
Caruso ha pagato a caro prezzo l’interpretazione dell’ambiguo Corelli; il suo pubblico era legato al serial NYPD Blue e non perdonò il brusco cambiamento di personaggio fatto dall’attore.
Un film che è stato un clamoroso flop ai botteghini e che si è aggiudicato anche due poco ambiti Golden Raspberry Award, il premio per i film più brutti dell’anno riservati alla sceneggiatura di Joe Eszterhas (che la critica detesta cordialmente) e per l’interpetazione di David Caruso; costato 50.000.000 di dollari il film ha incassato poco più di 9.000.000 di dollari al botteghino.
Personalmente non posso dire di essermi entusiasmato, ma nemmeno annoiato; Jade è un prodotto discreto che si può guardare.
Jade
Un film di William Friedkin. Con Richard Crenna, David Caruso, Chazz Palminteri, Linda Fiorentino, Michael Biehn,Kevin Tighe
Thriller, durata 96 min. – USA 1995
David Caruso … David Corelli
Linda Fiorentino … Trina Gavin
Chazz Palminteri … Matt Gavin
Richard Crenna … Gov. Lew Edwards
Michael Biehn … Bob Hargrove
Donna Murphy … Karen Heller
Ken King … Petey Vesko
Holt McCallany … Bill Barrett
David Hunt … Pat Callendar
Angie Everhart … Patrice Jacinto
Kevin Tighe … Procuratore Dist. Arnold Clifford
Robin Thomas … Green
Jay Jacobus … Justin Henderson
Victoria Smith … Sandy
Regia: William Friedkin
Produzione: Gary Adelson,Craig Baumgarten,Robert Evans
Regia: Joe Eszterhas
Musiche: James Horner
Cinematografia: Andrzej Bartkowiak
Editing : Angie Hess
Distribuzione: Paramount Pictures
Uscita: October 13, 1995
Durata: 95 minutes
Versione non censurata:107 minutes
Passi di danza su una lama di rasoio
Una donna è in attesa del suo boy friend sul Pincio; per ingannare l’attesa inserisce una monetina in un cannocchiale ad uso e consumo dei turisti e lo punta sul panorama attorno.
Lo strumento d’osservazione si ferma casualmente su una casa e su una finestra dove si svolge un fatto di sangue: un uomo uccide una donna.
La persona in attesa sul Pincio è Kytty, una splendida svedese che aspetta Alberto Morosini suo attuale compagno con il quale convive in un appartamento di Roma.
La donna informa le autorità e il commissario Meruggi, che raccoglie la denuncia, scopre che la donna uccisa è la ballerina Martinez.
L’uomo collega anche la morte della ballerina ad un altro fatto di sangue avvenuto tempo prima, la morte di una donna che anch’essa lavorava come ballerina.
Sommando gli indizi Meruggi inizia a sospettare del compagno di Kitty, ovvero Alberto; ma la morte in rapida successione di tre persone (una donna anziana, un’altra ballerina e una prostituta) costringono il commissario a rivedere la sua teoria visto che Alberto ha un alibi a prova di bomba.
Meruggi convince Alberto a fare da esca, ma l’espediente fallisce miseramente così come fallisce il tentativo di usare la bella Kitty come adescatrice.La donna, vestita come una prostituta, cerca inutilmente di identificare il misterioso killer.Sarà una pura casualità a mettere la polizia sulle tracce dell’assassino.
Una giornalista, Lidia che ha una sorella ballerina e un marito musicista, indagando sul caso non solo salverà Alberto e Kitty, ma farà una scoperta tremenda…
Passi di danza su una lama di rasoio è un thriller diretto da Maurizio Pradeaux nel 1972, su sceneggiatura dello stesso regista che si avvale dell’aiuto di Alfonso Balcazar e George Martin; un film che rinchiude in se praticamente tutti i canoni del genere thriller che vanno dall’assassinio misterioso di persone apparentemente slegate l’una dall’altra al trappolone ordito da un ingenuo commissario che utilizza due possibili vittime come esca (un’espediente al limite dell’incredibile) passando per le solite immagini sexy affidate ai corpi della splendida Nieves Navarro/Susan Scott e della bella ma inespressiva Anuska Borova.
Un film che mostra qualche buona idea ma che si perde clamorosamente nel finale, quando i nodi vengono al pettine e si scopre la vera identità del fantomatico assassino, che agisce per motivi francamente assurdi e cervellotici.
Maurizio Pradeaux, conosciuto anche come sceneggiatore, dirige uno dei suoi sette film complessivamente girati in carriera con mano da artigiano, alternando cose interessanti a cose banalissime, ammiccando tramite le scene sexy (anche se non erotiche) ai bassi istinti dello spettatore, noncurante delle evidenti falle della sceneggiatura.
Scene di assassini con la giusta tensione e subito dopo clamorose ingenuità caratterizzano l’andamento della pellicola, che mostra più di un debito ai classici del cinema, prima di tutto il celebre La finestra sul cortile di Alfred Hithcock al quale Pradeaux si ispira per la parte iniziale.
Letteralmente copiata infatti è l’idea del cannocchiale che casualmente si ferma su una casa dove sta per avvenire un fatto di sangue, come ricorderà chi ha visto il binocolo di Jeff del film di Hitchcock indugiare sulla finestra dell’appartamento di fronte.
Altro tributo Pradeaux lo riserva ai gialli di Argento, ai quali si ispira sia per le atmosfere sia per la scelta dei primi piani e delle inquadrature.
Insomma, un vero e proprio minestrone di idee mal amalgamate, che dimostra come il regista romano avesse le idee confuse sul cinema, come del resto dimostrerà con l’inguardabile Passi di morte perduti nel buio e con il suo ultimo film diretto nel 1989, Thrilling Love.
Per quanto riguarda il cast, menzione per la bellissima e sexy Navarro/Scott, arrivata tardi al giallo e sopratutto poco sfruttata in film di livello superiore, mentre Anuska Borova che interpreta la giornalista Lidia ha dalla sua un bel volto, un corpo praticamente perfetto e una mobilità facciale molto vicina allo zero il che fornisce una spiegazione sul perchè l’attrice dopo questo film sia letteralmente scomparsa dal mondo del cinema.
Il cast maschile è al minimo sindacale, anzi sarei tentato di dire sotto: Robert Hoffmann, con i suoi insopportabili baffetti ha un’aria da merluzzo appena scongelato mentre Simón Andreu mostra un cipiglio da bel tenebroso perennemente arrabbiato degno di un film drammatico.
George Martin, l’ispettore Meruggi fa il minimo indispensabile mentre nel cast ci sono due piccole parti affidate alla bella Rosita Torosh e a Nerina Montagnani, che questa volta finisce assassinata.
Commento musicale da spettacolino del sabato sera affidato a Roberto Pregadio, autore di oltre 50 soundtrack, molte delle quali utilizzate in film sexy.
Film a corrente alternata, quindi, che può valere una visione a patto di accontentarsi delle pretestuose motivazioni finali accampate per giustificare gli atti dell’assassino; forse con un finale più logico e aderente allo svolgimento del film si sarebbe potuto assegnare una sufficienza al film stesso, che invece resta abbastanza al di sotto della media.
Passi di danza su una lama di rasoio
Un film di Maurizio Pradeaux. Con Robert Hoffman, Susan Scott, Serafino Profumo, Anna Liberati,Sal Borgese, Nerina Montagnani, George Martin, Rosita Torosh
Thriller, durata 90 min. – Italia, Spagna 1973.
Robert Hoffmann … Alberto Morosini
Nieves Navarro … Kitty (come Susan Scott)
George Martin … Commissario Meruggi
Anuska Borova … Doppio ruolo di Lidia e Silvia Arrighi
Simón Andreu … Marco, marito di Lidia
Anna Liberati … Segretaria della scuola di danza
Rosita Torosh … Nina Ferretti
Cristina Tamborra … Magda Hopkins
Nerina Montagnani … Marta
Orlando Baralla … Generale
Gianni Pulone … Pompiere
Salvatore Borghese … Asdrubale Magno
Rodolfo Lolli … Assistente del commissario
Regia: Maurizio Pradeaux
Sceneggiatura: Maurizio Pradeaux,Alfonso Balcazar e George Martin
Musiche: Roberto Pregadio
Editing: Eugenio Alabiso
Art direction: Juan Alberto Soler
Enigma rosso
Il commissario Gianni Di Salvo è convocato dal suo superiore Luigi Roccaglio presso il bacino antistante una diga; li è stato rinvenuto il corpo di una ragazza orrendamente uccisa con un oggetto che le ha violato le parti intime e che si scoprirà essere un grosso fallo di gomma dura.
Il cadavere viene identificato : è Angela Russo, una ragazza che frequentava l’esclusivo collegio femminile Santa Teresa D’Avila.
Recatosi nell’istituto, Di Salvo apprende che la ragazza formava un gruppo chiuso con altre tre sue amiche, Virginia,Franca, Paola.
Il legame tra le ragazze era così forte che il gruppetto era stato soprannominato “le inseparabili”.
Al fiuto del commissario non sfugge la strana atmosfera che si respira all’interno del Collegio, che appare esternamente come un luogo morigerato ma che in realtà sembra nascondere qualche oscuro segreto.
I sospetti di Di Salvo dapprima si rivolgono sul giovane olandese Max, che però viene ucciso.
A dare una svolta alle indagini arriva un colpo di fortuna: la sorellina minore di Angela, Emilia, una ragazzina intelligente e sospettosa, fornisce al commissario l’agenda personale della ragazza, nella quale si nomina ripetutamente l’atelier diretto da Michele Parravicini.
Nel frattempo però il misterioso assassino di Angela uccide ancora, eliminando Paola una del terzetto rimanente che costituiva il gruppo delle inseparabili.
Le cose sembrano però non tornare, al commissario Di Salvo; l’assassino è sempre un passo avanti a lui e nel frattempo anche le due ragazze restanti subiscono strani attentati.
A Franca qualcuno spara un dardo mentre sta cavalcando, con il risultato di far imbizzarrire il cavallo che la scaraventa per terra mentre Virginia, che ha appena avuto un aborto in una insospettabile clinica rischia di morire precipitando da una scala del collegio sulla quale una mano misteriosa ha messo delle biglie di vetro.
Di Salvo risale al vero movente delle morti, grazie anche alla drammatica confessione di Parravicini, estorta dal solerte commissario durante una incredibile “passeggiata” sulle montagne russe:
le ragazze erano coinvolte in uno sporco giro di prostituzione. Così, collegando gli elementi in suo possesso, Di Salvo arriva alla soluzione dell’enigma, che lo porta a scoprire la mano insospettabile e la regia occulta sia delle morti che del losco giro di prostituzione.
Ma chi ha attentato alla vita delle ragazze rimanenti?
Enigma rosso nasce nel 1976 dalla sceneggiatura di Massimo Dallamano, che avrebbe dovuto curarne la regia e concludere così la trilogia “studentesco/liceale” iniziata con Cosa avete fatto a Solange? (1972) e proseguita poi con La polizia chiede aiuto (1974).
Ma il fatale incidente automobilistico di cui fu vittima il regista, avvenuto a Roma il 14 novembre 1976 pose fine al progetto che venne riesumato due anni più tardi, nel 1978 e affidato al regista Alberto Negrin, specializzato in serial tv e che non aveva mai diretto una pellicola destinata al cinema.
Il regista nato a Casablanca infatti anche dopo l’esperienza di questo film continuerà a lavorare solo per la tv; sue sono infatti le fiction Il segreto del Sahara,Viaggio nel terrore: l’ Achille Lauro, Perlasca: Un eroe italiano, L’ultimo dei Corleonesi solo per citare alcune tra le sue opere più conosciute.

Helga Linè, la piccola Fausta Avelli e Fabio Testi
Negrin non ha il ritmo, il senso del racconto stringato di Dallamano e difatti l’opera appare piuttosto incerta, pur riuscendo alla fine a centrare la sufficienza.
Se la sceneggiatura ha un suo fascino, va anche detto che mostra diverse incongruenze e lacune; quanto ciò sia imputabile a errori di regia di Negrin non è dato sapere, così come manca la riprova che il film, affidato a Dallamano, avrebbe avuto un risultato finale migliore.
Tuttavia un minimo di tensione c’è, anche se è quasi totalmente assente lo splatter, sostituito da scene di nudo diffuse almeno in alcune parti del film, come la doccia del gruppo delle collegiali mentre non mancano momenti felici.
Basti pensare alla bella sequenza in cui Di Salvo estorce le notizie di cui ha bisogno e relativa confessione all’ambiguo Parravicini durante un giro mozzafiato sulle montagne russe oppure a quella dell’attentato a Virginia che precipita giù dalle scale del college tirandosi dietro una statua della Vergine per colpa di una serie di biglie.
Quindi un film onesto, in cui la recitazione si adegua ai ritmi impressi da Negrin; Fabio Testi che interpreta il solerte commissario Di Salvo è però stranamente appannato, quasi a disagio mentre ben più interessante era stata la prova fornita nel citato Cosa avete fatto a Solange?
Brava la giovanissima Fausta Avelli, che avevamo già notato in Cassandra Crossing e che delinea benissimo il ruolo della piccola Emilia.
In quello della madre della sfortunata Angela c’è Helga Linè, che alla fine non comparirà nemmeno tra i crediti, mentre il superiore di Di Salvo, ovvero Roccaglio è interpretato da Ivan Desny.
Fotografia in linea, discrete le musiche di Riz Ortolani.

Cosa nasconde la piccola Emilia?
Enigma rosso
Un film di Alberto Negrin. Con Fabio Testi, Ivan Desny, Jack Taylor, Christine Kaufmann,Bruno Alessandro, Fausta Avelli Poliziesco, durata 92 min. – Italia, Spagna, Germania 1978.
Fabio Testi … Commissario Gianni Di Salvo
Christine Kaufmann … Christina
Ivan Desny … Commissario capo Luigi Roccaglio
Jack Taylor … Michele Parravicini
Fausta Avelli … Emilia Russo
Bruno Alessandro …Collaboratore di Di Salvo
Carolin Ohrner … Paola
Silvia Aguilar … Virginia Nardini
Taida Urruzola … Franca
María Asquerino … Miss Graham
Tony Isbert … Max van der Weyden
Helga Liné … La signora Russo
Brigitte Wagner … Virginia
Regia: Alberto Negrin
Sceneggiatura: Peter Berling,Marcello Coscia,Massimo Dallamano,Franco Ferrini,Alberto Negrin,Stefano Ubezio
Produzione: Artur Brauner,Leo Pescarolo, Antonio Tagliaferri
Musiche: Riz Ortolani
Editing: Paolo Boccio
Unfacebook
Unfacebook è il nuovo lavoro di Stefano Simone, giovanissimo regista di Manfredonia classe 1986 tratto da un romanzo breve di Gordiano Lupi; si ricostituisce quindi la coppia che aveva dato origine al lavoro precedente di Simone, il lungometraggio Cappuccetto rosso che ho recensito sul mio blog l’anno scorso.
Va detto subito che Unfacebook segna un salto di qualità importante per il giovane regista.
Non tanto per l’eccellente livello tecnico raggiunto, quanto piuttosto per la maturità mostrata grazie anche alla maggiore disponibilità di mezzi di cui ha goduto il regista, che gli ha permesso di utilizzare per esempio attori sicuramente più credibili e sopratutto maggiori mezzi tecnici a disposizione.
Guardare Unfacebook significa immergersi in un lavoro per molti versi affascinante, per altri coinvolgente.
il plot della storia è solido, e questa non è certo una novità.
Lupi, autore del romanzo breve, da profondo conoscitore di cinema sa come creare racconti semplici ed essenziali, sui quali poi è facile strutturare delle sceneggiature cinematografiche.
Lo scrittore di Piombino non usa una prosa piena di fronzoli e non allunga mai il brodo oltre il necessario; Stefano Simone ha semplicemente rispettato la regola basilare di una sceneggiatura rispettabile, ovvero non stravolgere il racconto cercando di essere fedele ad esso.
Ma, al tempo stesso, il regista lavora in maniera autonoma, utilizzando il suo estro per trasportare in imagini quello che è un racconto moderno a tutti gli effetti, che prende spunto dal fenomeno in vertiginosa crescita dei social network, nello specifico quel Facebook che oggi è in grado di coinvolgere centinaia di milioni di persone, che funziona da cassa di risonanza di avvenimenti locali e che li amplifica in modo esponenziale, come dimostrano le recenti rivoluzioni in Egitto e Tunisia, nate quasi casualmente proprio sul social network più diffuso.
Stefano Simone quindi trasporta nel modo più fedele possibile l’atmosfera ombrosa e da autentico mistery del romanzo breve Il prete in un linguaggio visivo privo di fronzoli e orpelli, badando decisamente al sodo e costruendo un’atmosfera particolarmente claustrofobica nonostante il film sia girato essenzialmente all’aperto.
I punti di forza di Unfacebook sono diversi e mostrano l’evidente tributo del regista ai maestri del thriller made in Italy (ma non solo) dei quali si è nutrito per la sua formazione artistica; Fulci, D’Amato e Bava per esempio, così come le atmosfere da primo Argento.
Simone si stacca però dai canoni tradizionali scegliendo di colorare il film con i simboli del social network facebook, il bianco e l’azzurro, che uniti alla solarità della location, abbacinante e tersa come solo i paesaggi pugliesi sanno esserlo, donano al film quell’aria vagamente country che trasportano la fantasia verso i piccoli centri di una nazione che potrebbe benissimo non essere più l’Italia, ma un qualsiasi paese africano per esempio.
Il film è strutturato con una logica impeccabile: personaggio principale, secondario, storia sobria e accennata, soluzione dell’enigma, finale aperto.
In mezzo, un paesaggio quasi lunare, perchè animato solo dai personaggi principali della storia, alcuni dei quali si muovono quasi come automi, dei fantasmi che si muovono in un paese/città dai quartieri periferici assolati e deserti, simbolo di un’alienazione che non è solo paesaggistica ma anche umana.
Lo spettatore prova un senso di disagio nel muoversi attraverso la MDP del regista che indugia su cumuli di detriti o su edifici in rovina o costruiti e abbandonati, tra vie deserte che testimoniano l’esistenza di vita solo attraverso i feticci della civiltà, le automobili e le case, le antenne satellitari e i negozi.
Questa l’atmosfera, quindi.
Nella quale si muovono come ombre i due protagonisti principali della storia, il sacerdote Don Carlo che Lupi descrive nelle parti iniziali del suo romanzo mentre legge attonito il quotidiano Il Tirreno che racconta la scarcerazione di un pluriomicida e il commissario Mario Saltutti, impenetrabile ed enigmatico come le vittime degli omicidi che costellano il romanzo stesso.
Simone sceglie invece un inizio diverso, mostrandoci la feroce esecuzione di una probabile vittima della camorra (lo intuiamo dai gesti e dalle modalità dell’esecuzione stessa) alla quale assite, non visto, un ragazzino.
Il terribile rumore dello sparo squarcia e buca la pellicola, come il sangue che schizza sul muro.
Ecco, ancora quel senso di estraneazione che coglie lo spettatore, quel senso di gelo davanti ad una scena che viene descritta con quotidiana frequenza dai telegiornali e che ci vede ormai testimoni assuefatti proprio dalla ripetitività delle azioni stesse.
Da quel momento seguiamo le vicende parallele di Don Carlo, nauseato da quei peccatori che è costretto ad assolvere nel confessionale e quelle dell’impenetrabile e impassibile commissario, che si troverà immerso in un’atmosfera degna dei quartieri ghetto di una città come New York, disumani e freddi, nei quali la vita umana e il suo rispetto sono ormai un semplice e trascurabile dettaglio.
Il giovane prete utilizza le sue conoscenze informatiche e i moderni sistemi tecnologici per iniziare una sua personale guerra al male, combattendo la violenza e il male stesso con la violenza e il crimine.
Che differenza c’è tra lui e le sue vittime, qual’è il confine tra la richiesta di giustizia e l’utilizzo di un sistema violento che porta all’eliminazione fisica del male attraverso la violenza stessa?
Non lo sappiamo, perchè la MDp di Simone si limita giustamente a mostrare i fatti nella loro crudezza, senza tentare improbabili se non impossibili disquisizioni socio/culturali.
Così i morti ammazzati passano sullo schermo senza soluzione di continuità; vediamo morire per suicidio un pedofilo che si evira, un’adultera che si squarcia la gola e poi uno dietro l’altro un altro suicida e i morti ammazzati per ordine di Don Carlo.
Che, utilizzando un libro sull’ipnosi e la chat Unfacebook si crea un piccolo esercito di giustizieri fedelissimi e ciechi ad ogni remora morale.
Sarà il commissario a dipanare il mistero prima del finale che spiazza.
Unfacebook è un film con tante luci e poche ombre, ombre che paradossalmente appartengono più al romanzo che al film stesso.
Opinabile è quanto scrive il buon Gordiano Lupi a proposito dei Cavalieri Templari visti come zombie obbedienti e privi di volontà autonoma, ma qui entriamo in un campo dove rischiano di predominare i sofismi.
Simone si allontana in modo autonomo dal racconto descrivendo in maniera differente i suicidi, sostituendo la location originale, la toscana Piombino, con quella più degradata, per certi versi di Manfredonia; la conoscenza del territorio e la scelta della periferia della cittadina sono alla fine un’arma vincente per il film.
Così come ben riuscita è la scelta di inserire brevi sequenze in bianco e nero in perfetto stile fumetto che interagiscono con la pellicola, accompagnata dalla angosciante musica di Luca Auriemma, che contribuisce a rendere ancora più claustrofobica ed estraneante la pellicola.
Un film da vedere che coinvolgerà lo spettatore, attraverso il percorso di vita di Don Carlo e quello del Commissario Saltutti, assolutamente antitetici; il primo si arroga il diritto di decidere in nome di Dio, ergendosi a suo braccio armato e decidendo di interpretare la sua volontà in un supremo atto di folle egoismo.
Il secondo muovendosi come un’ombra senza un sorriso, un segno di vitalità che non siano le scarne parole che rivolge al suo superiore o all’agente che collabora con lui.
In mezzo, i moderni giustizieri di Don Carlo, loro si veri zombie creati elettronicamente e tecnologicamente attraverso quello che sembra essere il futuro sociale di buona parte dell’umanità, il mondo tenebroso e affascinante di Internet.
Ecco, Simone ha il merito di aver mostrato questo in un film thriller, ovvero i rischi della tecnologia come supporto ad una storia di morti ammazzati.
Che spirano in modo orribile, sia che muoiano con la gola squarciata con il rumore netto del coltello che taglia e accappona la pelle, sia che muoiano colpiti da pallottole o piuttosto da coltellacci da cucina.
Unfacebook è quindi un film da assaporare, che non lascerà assolutamente indifferenti.
Così come possiamo già immaginare il 25 enne regista dauno alle prese con il suo prossimo film, che speriamo trovi finalmente un produttore davvero all’altezza, in modo da permettere al regista l’utilizzo di attori professionisti e location più articolate.
Perchè a Simone il talento non manca davvero, perchè per certi versi appare come crudele e insensata la decisione di finanziare vanzinate e non film affascinanti e controversi come questo Unfacebook.
Unfacebook, un film di Stefano Simone, con Paolo Carati, Giuseppe La Torre, Tonino pesante, Fabio Valente, Tonino Potito,Filippo Totaro, Sabrina Caterino, Pia Conoscitore, Mimmo Nenna, Ivano Latronica Thriller, Italia 2011
Regia: Stefano Simone
Sceneggiatura: Pia Conoscitore, Dargys Ciberio, Antonio Universi
Dal racconto Il prete di Gordiano Lupi
Fotografia e montaggio: Stefano Simone
Musiche: Luca Auriemma
Effetti speciali: Lorenzo Giovenga, Giuliano Giacomelli
Operatore: Marco La Torre
Produzione: Jaws entertainment
Il regista di Unfacebook, Stefano Simone

Lo scrittore Gordiano Lupi, autore del romanzo breve Il prete dal quale è tratto il film
L’arma,l’ora,il movente
Il piccolo Ferruccio, orfano di genitori e “adottato” da un convento femminile, assiste non visto all’omicidio di un prete, Don Giorgio.
Il prelato, un insegnante di musica presso il convento, aveva una vita privata assolutamente non consona ai voti presi: era stato infatti l’amante di Orchidea (protettrice del piccolo Ferruccio) e in seguito di Giulia, subito dopo aver troncato la sua relazione con Orchidea.
Le indagini vengono affidate al commissario Boito, che indagando, scopre i legami proibiti tra il parroco e le due donne ma sospetta del sagrestano di don Giorgio, che aveva avuto dei trascorsi in galera.
Caduta la pista, il commissario indirizza i suoi sospetti sul marito di Orchidea, ma nel frattempo a morire sotto le mani del misterioso assassino è Giulia, uccisa in pieno giorno nel parco del convento.
Il marito di Orchidea muore apparentemente suicida, il che per Boito equivale ad una sorta di confessione; così il commissario decide di chiudere il caso.
Avendo intrecciato una relazione sentimentale proprio con Orchidea, si appresta a sposarla, ma durante la cerimonia religiosa accade che….
L’arma, l’ora, il movente è un thriller convenzionale girato da Francesco Mazzei nel 1972, su sceneggiatura dello stesso regista e di Mario Bianchi e Vinicio Marinucci: uno dei tantissimi thriller della produzione iniziale dei primi anni settanta, i più fortunati per questo genere, lanciato da registi come Fulci e Bava ma sopratutto nati sull’onda dello straordinario successo di L’uccello dalle piume di cristallo, primo thriller di Dario Argento.
Un film demolito dalla critica e da buona parte degli spettatori, che pure così malvagio non è.
Se la trama non è certamente nuova e il finale non riserva particolari sorprese perchè lo spettatore più attento ha già identificato il colpevole, L’arma,l’ora il movente si guarda comunque con interesse, perchè il film ha un minimo di suspence e sopratutto perchè Mazzei fa onestamente il suo mestiere.
Il cast recita decentemente e sorprende trovare Renzo Montagnani in una parte “seria”, così lontana da quelle che saranno il suo trademark, ovvero il comico sornione protagonista di tante commedie sexy o del filone della commedia all’italiana.
La simpatia naturale che il compianto Renzo ispira fa dimenticare alcune lacune dell’attore, che anche quando recita seriamente non rinuncia mai veramente a gigioneggiare e a mettere la sua caratteristica ironia nel personaggio interpretato.
Nel cast figura anche Bedy Moratti (figlia del petroliere e sorella dell’attuale presidente dell’Inter Angelo), al suo primo vero film da protagonista, così come presente è anche un’altra compianta attrice specializzata in ruoli secondari, Eva Czemerys. Bravo il piccolo Arturo Trina, che interpreta il personaggio chiave della storia ovvero il piccolo Ferruccio.
Il prete “playboy”, Don Giorgio, è interpretato con moderazione da Maurizio Bonuglia.
Tutto sommato, con scarso materiale tecnico e con un budget stringatissimo, Mazzei tira fuori un’opera che non delude totalmente.
Certo, il plot inizale è quello che è e il regista maschera qualche incertezza della sceneggiatura ricorrendo ad un espediente che sarà il più utilizzato negli anni a venire, ovvero inserire quà e là qualche nudo anche abbastanza osè delle due protagoniste.
Un film diventato, con il passare degli anni, un autentico mistero: chi è riuscito a vederlo lo ha fatto o al cinema o in qualche edizione riversata su vecchie VHS, in quanto non è stato praticamente mai riproposto dalle tv private ne risulta a tutt’oggi editato in Dvd.
Come noterete dai fotogrammi che ho scelto per illustrare il film, essi risultano quasi gialli e sbiaditi, per colpa della bassa risoluzione usata per il riversaggio in VHS.
Se riuscite a trovarlo in qualche modo, guardatelo: non è certo un film rappresentativo di un’epoca ma ha qualche freccia al suo arco.
Aggiornamento
Il film è disponibile su You tube, in versione completa all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=ftlbXZs_3-o
L’arma, l’ora, il movente ,un film di Francesco Mazzei. Con Renzo Montagnani, Bedy Moratti, Eva Czemerys, Arnaldo Bellofiore,Adolfo Belletti, Salvatore Puntillo
Giallo, durata 105 min. – Italia 1972.
Renzo Montagnani … Commissario Franco Boito
Bedy Moratti … Orchidea Durantini
Eva Czemerys … Giulia Pisani
Salvatore Puntillo … Moriconi
Claudia Gravy … Suor Tarquinia
Arturo Trina … Ferruccio
Anselmo Barsetti … Il sacrestano
Maurizio Bonuglia … Don Giorgio
Gina Mascetti … La madre superiora
Regia: Francesco Mazzei
Sceneggiatura: Francesco Mazzei, Bruno Di Geronimo, Vinicio Marinucci, Mario Bianchi
Fotografia: Giovanni Ciarlo
Montaggio: Alberto Gallitti
Musiche: Francesco De Masi
Produzione: Julia Roma
Distribuzione: Panta
Un bianco vestito per Marialè
Una giovane donna è appartata ,con il suo amante completamente nudo, in un prato; un uomo che imbraccia un fucile (presumibilmente suo marito) spara ai due sotto gli occhi terrorizzati di una bambina.
Evelyn Stewart è Marialè
Diversi anni più tardi Massimo arriva ad una villa, convocato da una sua vecchia amica, Marialè, che vive praticamente segregata dal mondo con suo marito e con un maggiordomo.
Proprio quest’ultimo comunica a Massimo che nella villa non c’è nessuno, ma è falso; infatti poco dopo arriva un gruppo di persone, tutte convocate da Marialè.La donna, che ha delle turbe psichiche originate dalla visione della scena raccontata all’inizio, è in pratica prigioniera nella villa sotto custodia di suo marito che le somministra sedativi e narcotici. La donna, per poter chiamare il gruppo di amici, è riuscita ad eludere la stretta sorveglianza del marito e del maggiordomo, a rompere il lucchetto e a telefonare a diversi amici del suo passato.
L’arrivo della variegata comitiva sembra scuotere la donna, ma ben presto si inizia a capire che qualcosa non funziona; tra i vari componenti del gruppo ci sono gelosie, risentimenti e ben presto accade qualcosa di grave.
Ci scappa il primo morto, poi il secondo e in un crescendo di morte ben presto si arriva alla soluzione finale con la scoperta dell’assassino e delle sue motivazioni.
Thriller con evidenti colorazioni di gotico, Un bianco vestito per Marialè è un film del 1972 diretto da Romano Scavolini; un prodotto non privo di un certo fascino, anche se abbastanza confuso e penalizzato da un finale telefonato.
Elegante la confezione, con una fotografia vivace e ben curata, abbastanza claustrofobica la location, bene le prestazioni di Evelyn Stewart (Ida Galli), Luigi Pistilli e Ivan Rassimov.
Quà si fermano le buone notizie.
Il plot del film è molto prevedibile, anche se il primo quarto d’ora, quello introduttivo che ci mostra le cause scatenanti del trauma subito da Marialè sembrerebbe orientare il film verso un’atmosfera tipicamente “gialla”.
Lo svolgimento del film invece mostra la corda, perchè Scavolini resta abbastanza indeciso su quale genere di film proporre; il giallo lascia il posto al gotico classico, con atmosfera tipica dei Dieci piccoli indiani della Christie, per poi fare un’escursione nella denuncia sociale.
Infatti è il momento (abbastanza lungo, per la verità), dei tempestosi rapporti che si scoprono esserci tra i vari ospiti della villa, con inclusa cena delle beffe finale e colpi di sciabola del regista alle convenzioni sociali e alla morale borghese.
Dopo queste tre fasi, che occupano tre quarti del film, si arriva al momento topico, con la strage di tutti i presenti peraltro mostrata senza grossi elementi slasher o gore.
Il percorso del film quindi non è lineare, anzi; ma tutto sommato si riesce ad appassionarsi alla storia raccontata; Scavolini getta la con nonchalance anche una scena saffica e permette un paio di sbirciatine ai seni della splendida Pilar Velasquez.
Tutto sommato un film senza grossi picchi ma anche senza evidenti pecche, che però in rete gode di una fama abbastanza negativa per una serie di motivi legati alla sceneggiatura, da molti considerata farraginosa.
La cosa è in parte vera, però va ascritto a indubbio merito del regista l’aver evitato la trappola mortale dell’uso abnorme del sangue o il facile richiamo dell’erotismo tout court.
In ultimo la mia solita, devota ammirazione per Evelyn Stewart, che ricopre il doppio ruolo di Marialè e di sua mamma, con la solita grazia ed eleganza.
Il film è disponibile su You tube, in un’ottima versione all’indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=BLKQ4y9l5ro
Un bianco vestito per Marialé,un film di Romano Scavolini. Con Luigi Pistilli, Evelyn Stewart, Edilio Kim, Ivan Rassimov,Pilar Velasquez, Gianni Dei, Bruno Boschetti, Ezio Marano, Carla Mancini, Gengher Gatti
Horror, durata 89 min. – Italia 1972


Evelyn Stewart ( Ida Galli): Marialè
Ivan Rassimov: Massimo
Luigi Pistilli: Paolo
Pilar Velázquez: Mercedes
Ezio Marano: Sebastiano
Giancarlo Bonuglia: Jo
Gianni Dei: amante della madre di Marialè
Franco Calogero: padre di Marialè
Gengher Gatti: Osvaldo,il maggiordomo
Edilio Kim: Gustavo
Carla Mancini: donna che legge il libro
Shawn Robinson: Semy
Regia Romano Scavolini
Sceneggiatura Remigio Del Grosso, Giuseppe Mangione
Casa di produzione KMG Cinema
Fotografia Romano Scavolini
Montaggio Francesco Bertuccioli
Musiche Fiorenzo Carpi, Bruno Nicolai
Costumi Herta Swartz Scavolini
Trucco Carlo Sindici
Gatti rossi in un labirinto di vetro
Barcellona, Spagna.
Tra un gruppo di turisti in viaggio verso la città della Catalogna agisce un misterioso killer che non si accontenta di uccidere le malcapitate vittime, ma enuclea dall’orbita anche un occhio.
Le indagini della polizia brancolano nel buio e di volta in volta il sospettato cambia, ma l’assassino verrà smascherato nel convulso finale.
Per forza di cose ho dovuto riassumere la trama in maniera sintetica, ma in questo caso specifico onde evitare a chi non abbia visto Gatti rossi in un labirinto di vetro occorre evitare l’esposizione dei fatti che accadono durante il film.
Ci sono infatti citazioni e immagini che se colte dall’inizio indicano abbastanza chiaramente chi è il colpevole e il gioco di Lenzi è proprio quello di coinvolgere lo spettatore omaggiando qua e là alcuni registi (come Argento) a cui il regista toscano si è evidentemente ispirato.
Dopo Così dolce… così perversa , Orgasmo e Paranoia (1969), il discontinuo Il coltello di ghiaccio (1972) e dopo il buon Sette orchidee macchiate di rosso (dello stesso anno) Umberto Lenzi torna a dirigere un thriller, avendo a disposizione però un budget modesto.
E sopratutto sfruttando una sceneggiatura con alcuni buchi e poco credibile.
La mano del grande regista c’è tutta e il mestiere maschera incongruenze e recitazione a tratti approssimativa di alcuni partecipanti al cast; manca la profondità lenziana tipica dei primi prodotti, quella capacità psicologica mista alla trattazione dell’etica degli stessi che avevano caratterizzato i thriller del maestro.
Del resto Lenzi non ha più a disposizione Trintignant e la Baker, Castel , Jean Sorel o Erika Blanc ; Martine Brochard fa del suo meglio, ma non ha la personalità ne è sua la capacità drammatica, da attrice di thriller della Baker o della Blanc.
Il film tuttavia raggiunge la sufficienza perchè Lenzi non è un artigiano qualsiasi ma un professionista capace di mascherare le pecche con la sua indubbia, indiscutibile capacità di creare atmosfera anche con poco come in questo caso.
Nella pellicola, qualche momento gore, come le varie mutilazioni oculari dei vari assassinati oppure la scena della ragazza data in pasto ai maiali; qua e là qualche momento saffico e qualche casto nudo affidato alle grazie della Brochard e di Ines Pellegrini, l’attrice italo africana protagonista dei due pasoliniani Il fiore delle mille e una notte e del Salò.
Poco altro da dire, se non una citazione per il resto del cast che include il monocorde e inespressivo John Richardson e la solita sicurezza rappresentata da Daniele Vargas; colonna sonora autenticamente anni 70 di Bruno Nicolai però molto più adatta ad un poliziottesco invece che ad un giallo/thriller.
Un film che temo deluderà i fans del thriller all’italiana, sopratutto i fans del maestro se avranno avuto la ventura di imbattersi prima in questo film che nel resto della sua produzione antecedente.
Gatti rossi in un labirinto di vetro, un film di Umberto Lenzi. Con Martine Brochard, Ines Pellegrini, Joan Richardson, Daniele Vargas,Raf Baldassarre, Georges Rigaud, Silvia Solar, John Richardson
Thriller, durata 90 min. – Italia 1975.
Martine Brochard: Paulette Stone
John Richardson: Mark Burton
Ines Pellegrini: Naiba Levin
Andrés Mejuto: Commissario Tudela
Mirta Miller: Lisa Sanders
Daniele Vargas: Robby Alvarado
George Rigaud: reverendo Bronson
Silvia Solar: Gail Alvarado
Raf Baldassarre: Martinez
José María Blanco: Ispettore Lara
Marta May: Alma Burton
John Bartha: sig. Hamilton
Olga Pehar: sig.ra Randall
Veronica Miriel: Jenny Hamilton
Olga Montes
Richard Kolin: sig. Randall
Rina Mascetti: infermiera dell’ospedale
Fulvio Mingozzi:poliziotto
Francesco Narducci: receptionist all’hotel Presidente
Tom Felleghy: medico legale
Regia Umberto Lenzi
Soggetto Félix Tusell
Sceneggiatura Félix Tusell
Fotografia Antonio Millán
Musiche Bruno Nicolai





























































































































































































































































