Il coltello di ghiaccio
Jenny Ascott è una cantante molto famosa, che è in viaggio per recarsi a casa di sua cugina Martha Caldwell.
Costei è muta, dopo lo choc provato nel corso di un incidente ferroviario che ha visto tra le vittime entrambi i genitori.
Le due donne sono felici di incontrarsi e salgono in auto per recarsi nella villa dove abita Martha, ma durante il viaggio sono costrette a fermarsi;complice la nebbia che copre la zona,le due donne sembrano essere seguite da uno sguardo interessato, che si materializza nello specchio retrovisore dell’auto.
Entrambe scosse, le due donne arrivano finalmente a casa Caldwell.

Nella notte una scossa Jenny sente un rumore provenire dal garage della villa; scende e viene uccisa da una mano misteriosa.
Partono le indagini della polizia, che prediligono da subito la traccia del maniaco; l’indiziato è quindi l’uomo misterioso i cui occhi sono apparsi a Jenny e Martha durante il viaggio dalla stazione alla villa.
Ma la mano misteriosa nel frattempo colpisce ancora; a cadere questa volta è la signora Pretòn, governante di casa Caldwell.
Le indagini della polizia proseguono ed ecco che a cadere nelle mani della stessa è un giovane sospettato di omicidio.
La sua fidanzata infatti era stata rinvenuta morta lungo il fiume e così il giovane viene tratto in arresto: sembra la fine di un incubo ma le cose sono destinate ad andare diversamente, in quanto pochi giorni dopo ecco un altro cadavere.
Questa volta a morire è la piccola Christine, una bambina che frequentava la casa di Martha Caldwell e così la polizia è costretta a riaprire le indagini.

L’autopsia fatta sul corpo della ragazza rinvenuta lungo il fiume rivela che la donna non è morta per un atto violento, bensì per un’overdose di eroina:ma allora chi ha ucciso Jenny, la signora Preton e la piccola Christine e sopratutto, perchè?
Il coltello di ghiaccio è un thriller canonico diretto da Umberto Lenzi nel 1972, che segna il ritorno del regista di Massa Marittima al genere thriller classico, dopo la parentesi poco fortunata di un posto ideale per uccidere.
Abbastanza lontano dalla trilogia “thriller dei quartieri alti“, composta da Orgasmo (1969),Così dolce… così perversa (1969) e Paranoia (1970), Il coltello di ghiaccio presenta comunque qualche analogia con il famoso trittico, non fosse altro per la presenza dell’attrice preferita dal regista, la bionda americana Carrol Baker, che in questo film lavora con Lenzi per l’ultima volta.
In realtà, a parte l’ambientazione da giallo e la presenza della Baker potremmo dire che le analogie finiscono qui, in quanto questo film si distanzia dai precedenti per l’assoluta mancanza della componente sensuale e quindi a sfondo erotico a tutto vantaggio della scelta di operare nel campo dell’atmosfera pura, portando lo spettatore attraverso una serie di indizi a cercare di individuare il misterioso assassino che sembra perseguitare la povera Martha Caldwell, già di per se provata dalla tragica morte dei genitori.

Il percorso è abbastanza lineare e con la scomparsa del principale indiziato, il giovane fidanzato della ragazza morta lungo il fiume, lo spettatore più smaliziato capisce che l’assassino è meno imprevedibile di quanto si possa pensare.
Il finale infatti ,se presenta sorprese per le motivazioni che hanno spinto l’assassino a compiere i misfatti di cui si è reso protagonista, non ne presenta per l’identità dello stesso.
Prodotto dignitoso, privo dell’atmosfera morbosa della trilogia dei quartieri alti, Il coltello di ghiaccio ebbe un’accoglienza controversa da parte dei fan del regista, oltre che dalla critica specializzata.
Alcuni considerarono questo film il miglior thriller lenziano prodotto fino ad allora, la maggior parte ne restò deluso, non trovando al suo interno le caratteristiche peculiari che avevano fatto la fortuna dei fil fino ad allora diretti dal regista toscano.
Il coltello di ghiaccio è sostanzialmente un thriller abbastanza classico, con tutti gli stereotipi del genere; l’assassino misterioso dall’altrettanto movente misterioso, l’ambientazione quasi padana o gotica della storia, con la nebbia, la villa misteriosa e la polizia che brancola nel buio.
Il tutto risolto alla fine, con il tradizionale colpo di scena.
Prodotto abbastanza elegante, recitato con discreta professionalità, Il coltello di ghiaccio vale una visione.
Nel cast figura come già detto Carroll Baker, qui costretta a recitare solo con la mimica facciale in quanto il suo personaggio è muto; l’attrice americana sopperisce con le sue doti espressive, spesso sottovalutate così come altrettanto degna di menzione è la presenza di Evelyn Stewart, algida ed elegante nel ruolo della sfortunata Jenny, (da segnalare che il duo Baker-Stewart si ricostituisce quattro anni dopo Il tuo dolce corpo da uccidere, film diretto da Romolo Guerrieri, un giallo di discreta fattura targato 1968)

Segnalazione anche per Silvia Monelli,che l’anno precedente aveva interpretato la signora Giannelli nel leggendario sceneggiato tv Il segno del comando.
Discrete le musiche di Marcello Giombini.
Purtroppo questo film è di difficile reperibilità in rete anche se è passato, con una certa frequenza, sulle reti commerciali televisive.
Il coltello di ghiaccio
Un film di Umberto Lenzi. Con Silvia Monelli, Evelyn Stewart, Carroll Baker, Alan Scott, Franco Fantasia, Dada Gallotti, Georges Rigaud, Eduardo Fajardo, Luca Sportelli, Carla Mancini, Consalvo Dell’arti Giallo, durata 92′ min. – Italia 1972.
Carroll Baker: Martha Caldwell
Alan Scott: Dr. Laurent
Ida Galli: Jenny Ascot (come Evelyn Stewart)
Eduardo Fajardo: Marcos
Franco Fantasia: ispettore Duran
Georges Rigaud: zio Ralph
Silvia Monelli: signora Pretòn
Rosa Marìa Rodriguez: Christine
Regia Umberto Lenzi
Soggetto Umberto Lenzi
Sceneggiatura Umberto Lenzi, Antonio Troisio
Casa di produzione Tritone Film Industria (Roma); Mundial Film (Madrid)
Fotografia José F. Aguayo
Montaggio Enzo Alabiso
Musiche Marcello Giombini
Scenografia Piero Filippone
Costumi Silvio Laurenzi
L’opinione di Nicola81 dal sito http://www.filmtv.it
Ennesima coproduzione italo – spagnola per un giallo non eccelso, ma sicuramente migliore della fama che lo accompagna. Rinunciando, coraggiosamente, ai tradizionali stereotipi del genere (sesso e violenza), Lenzi riesce comunque a creare un’atmosfera interessante e un intreccio dignitoso. Purtroppo il ritmo è davvero molto blando, e allora bisogna accontentarsi dell’inevitabile colpo di scena conclusivo, sorprendente ma un po’ truffaldino. Abbandonati i panni dell’icona – sexy, Carroll Baker fornisce un’ottima prova in un ruolo decisamente ostico. Accanto a lei alcuni discreti caratteristi quali George Rigaud (lo zio), Franco Fantasia (l’ispettore) e Silvia Monelli (la governante).
L’opinione del sito http://www.bmoviezone.wordpress.com
(…) Nonostante il ritmo sia lento e gli omicidi non particolarmente spettacolari (spesso non vengono mostrati allo spettatore al quale si fa vedere solo il cadavere al momento del ritrovamento) Il coltello di ghiaccio regge piuttosto bene la canonica ora e mezza di durata, seppur mostrando qua e là momenti un po’ di secca e mancanze; lo stesso movente che spinge l’assassino ad uccidere è tanto improbabile quanto esile. Interessante l’idea della filastrocca – tratta da Alice nel paese delle meraviglie di Carroll – recitata da Martha da bambina durante una recita scolastica e regalata alla stessa, ormai diventata adulta, dalla sorella Jenny (curiosamente la filastrocca tratta di un topo che viene processato da un gatto); in molte scene il mangianastri viene azionato e questa filastrocca riecheggia come un mantra, così pure viene usata anche nell’ultima riuscitissima scena. Originale anche l’intuizione con la quale il vero assassino viene incastrato. Fotografia forse un po’ troppo scura, ma funzionale agli scopi del regista. Colonna sonora di Marcello Giombini senza né infamia né lode.(…)
L’opinione di Joker1926 dal sito http://www.filmscoop.it
Dopo un anno dalla realizzazione dell’ottimo thriller “Sette orchidee macchiate di rosso” l’esperto e convincente Lenzi alla regia di un altro compatto e gradevole film di genere, anno di produzione 1972, ecco “Il coltello di ghiaccio”.
“Il coltello di ghiaccio” prevede una soddisfacente trama, forse in alcuni passaggi troppo statica e semplice, ma nonostante questa premessa il tutto gira a dovere, il ritmo è alto.
I personaggi sono ben scanditi, c’è anche un filo di tensione, da parte dello spettatore l’interesse e la curiosità saranno vive dal primo momento fino allo splendido ed inatteso finale.
Infatti a render grande questo film è proprio il finale altamente non pronosticabile; risulta dunque improbabile, da parte dello spettatore, captare l’identità del killer durante la proiezione, nel determinato frangente applausi alla regia.
“Il coltello di ghiaccio” vede inoltre delle buonissime interpretazioni dei vari attori, la fotografia è di buona qualità, insomma anche sul lato tecnico davvero poco da rimproverare.
L’opinione di Undying dal sito http://www.davinotti.com
Un Lenzi suggestivo, che invece di ricorrere alle (spesso facili) sequenze d’effetto, imposta la vicenda sul piano psicologico (come poi farà con Spasmo) utilizzando l’ottima performance di Carroll Baker, attrice feticcio del regista sin dalla fase dei sexy-thriller (Orgasmo, Paranoia, Così dolce… così perversa). Buona la sceneggiatura, avvalorata da raffinati dialoghi. Il giallo è un meccanismo contorto, come suggerisce un finale davvero inatteso e che sembra collegare questo film alla Lucertola con la pelle di donna. Intrigante.
L’opinione di Ciavazzaro dal sito http://www.davinotti.com
Simpatico. Non è certamente il miglior Lenzi, ma è sicuramente un buon giallo. La Baker icona lenziana è splendida e bravissima come al solito in un ruolo non proprio facile (una ragazza muta in seguito a un trauma). Cast di caratteristi, da Fajardo autista sospetto alla Galli radiosa più che mai e Riguad zio della Baker. Fantasia come al solito è ispettore. Omicidi non mostrati ma d’atmosfera (quello della Galli nel garage), discreto colpo di scena, buone musiche. I fan apprezzeranno senza dubbio.
L’opinione di Herrkinskj dal sito http://www.davinotti.com
Giallo lenziano di livello più che discreto, che pur non raggiungendo gli apici di altri suoi lavori (né come qualità, né come tasso di splatter e cattiveria) si lascia guardare abbastanza piacevolmente. Certo, la trama non è originalissima e la risoluzione del giallo è piuttosto prevedibile; ma la Baker è molto brava, il resto del cast fa il suo mestiere, la regia di Lenzi è corretta, le atmosfere sono abbastanza suggestive.. In definitiva, non imprescindibile, ma resta comunque un lavoro dignitoso che potrebbe piacere agli appassionati.
Un detective
Il commissario di polizia incaricato del controllo degli stranieri Stefano Belli viene contattato per conto del noto e ricco Fontana per un incarico non ufficiale;in cambio di un notevole numero di milioni Belli dovrà indagare su Sandy Bronson, una modella britannica che ha un legame con Mino, il figlio dell’avvocato e se possibile farla rimpatriare.
Contemporaneamente dovrà verificare la solidità dell’azienda di Romani, un produttore discografico nelle cui aziende Vera Fontana, moglie dell’avvocato, intende investire somme importanti.
Se l’approccio con la modella Sandy si rivela tutto sommato abbastanza semplice nonostante la stessa usi tutti i mezzi per evitare il rimpatrio, quello con Romani si rivela immediatamente un grosso problema.
Belli infatti rinviene il corpo esanime dell’uomo nel suo appartamento, chiaramente oggetto di un omicidio.
belli così deve anche difendersi dai sospetti del collega Baldo, che non riesce a spiegarsi la presenza di Belli sul luogo del delitto.
Franco Neri e Adolfo Celi

Inizia per Belli un’indagine complessa,che partendo dalla foto di una donna nuda e senza volto porterà lo stesso a cercare l’autore dell’omicidio Romani tra persone che in qualche modo ha avuto modo di conoscere; la prima sospettata,Sandy e in seguito la cantante ripresa nuda nella foto e la stessa moglie del suo committente,Vera Fontana.
La ricerca di Belli si trasformerà in una corsa ad ostacoli, perchè moriranno delle persone e alla fine Belli, ormai chiaramente sospettato dai suoi stessi colpevoli, riuscirà a smascherare l’assassino assolutamente insospettabile e ad assicurarlo alla giustizia, rinunciando alla ricompensa che aveva originato il suo coinvolgimento nei fatti.
Un detective è un thriller abbastanza anomalo in relazione all’anno della sua uscita;nel 1969 i canoni del thriller all’italiana, che tanta fortuna avrà negli anni successivi non erano ancora stati fissati con chiarezza.
Diretto da Romolo Guerrieri subito dopo l’ottimo successo riscontrato dal più che discreto Il dolce corpo di Deborah dell’anno precedente, che in qualche modo era stato un precursore del genere thriller all’italiana,Un detective si differenzia da altri lavori precedenti e successivi perchè adotta degli stilemi appartenenti a più generi cinematografici.
All’impianto classico del thriller, con l’indagine che parte su un morto ammazzato per continuare tra altri delitti commessi da una mano ignota e insospettabile, il film unisce l’atmosfera tipicamente noir al personaggio che sembra preso di petto da un poliziottesco all’italiana, quello del commissario Belli.
Delia Boccardo
L’uomo infatti è rude,manesco e incline non poco alla violenza;è un personaggio un po rozzo, sensibile al denaro ma in fondo con un personalissimo codice d’onore, che all’inizio sembra essere piegato dall’avidità.
L’aver accettato una notevole somma di denaro per un compito in apparenza semplice come quello di allontanare la fotomodella Sandy dal suo amante Mino, con l’accusa di essere interessata non all’uomo ma al suo ruolo sociale e sopratutto al suo denaro, non depone certo a favore del personaggio Belli.
Che però vedrà delinearsi con altro spessore il personaggio rappresentato;in realtà Belli non tenterà solo di pararsi la schiena dopo essere diventato a sua volta un sospettato nella catena di omicidi, ma mosso da un desiderio di verità arriverà fino in fondo alla storia, scoprendo l’autore dei delitti e rinunciando alla fine al premio in denaro concordato agli inizi.
Il film ha fascino, ma è anche caratterizzato da diverse pecche; spesso verboso, infarcito di dialoghi, lascia poco spazio all’azione, fatte salve le sequenze dell’inseguimento in città che rappresentano comunque uno dei primi paletti fissi del futuro genere del poliziesco all’italiana.
Susanna Martinkova
La sceneggiatura è solida e il finale abbastanza sorprendente, il che depone a favore di un’opera in cui il colpevole non è noto dopo poche sequenze, ma viene scoperto solo nella parte finale e ad esso ci si arriva quasi per esclusione.
Il film sfiora solo marginalmente la Roma bene di fine anni sessanta, quel mondo dipinto in seguito ( e sopratutto mostrato dalla stampa) come una succursale di Sodoma e Gomorra;il sesso, la droga, i vizi della borghesia romana sono lasciati sullo sfondo a fare da cornice ideale ad un film che gioca tutte le sue carte sull’intrigo della morte del produttore discografico e la vicenda della modella Sandy e del suo amante, che come si scoprirà sono intimamente legate fra loro.
Ad interpretare il commissario Belli c’è Franco Nero, attivissimo dalla metà degli anni sessanta e protagonista, negli anni successivi, di film thriller o poliziotteschi, fra i quali vanno segnalati gli ottimi Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica,Giornata nera per l’ariete e L’istruttoria è chiusa: dimentichi.
Il rozzo e manesco commissario è interpretato dall’attore emiliano in maniera dinamica; privo del tradizionale baffo, che sembrava dare al suo volto un’immagine più cupa e inquietante, Nero disegna un personaggio all’inizio del film abbastanza antipatico.Lo spettatore non parteggia certo per lui, poliziotto corrotto e brutale.Il modificarsi della psicologia dello stesso e le vicissitudini della sua storia porteranno tutto nei canoni tradizionali, con il finale politicamente corretto in cui scopre l’assassino e rinuncia a quel denaro fonte di tutti i suoi guai.
A corredo, uno stuolo di bellissime attrici:Delia Boccardo, che interpreta co grazia il personaggio della modella Sandy,Florinda Bolkan, ambigua moglie di Fontana che tanta parte avrà nel film, la bellissima e biondo platinata Susanna Martinkova che interpreta la cantante Emmanuelle, futura moglie dell’attore Gianni Garko oltre ad una defilatissima ma affascinante Laura Antonelli e alla presenza (non accreditata) di Silvia Dionisio.
Florinda Bolkan
Laura Antonelli
Completano il quadro due grandi attori del cinema italiano:Adolfo celi nei panni dell’ambiguo Avvocato Fontana e Renzo Palmer, che interpreta da par suo il Commissario Baldo, collega di Belli che per primo sospetterà un coinvolgimento diretto del suo collega nella catena di omicidi che insanguinerà la città.
Conosciuto anche come Macchie di belletto, Un detective si avvale di una gradevole colonna sonora composta da Fred Bongusto.
Passato raramente in tv, Un detective è purtroppo un film di difficilissima reperibilità in rete
Un detective
Un film di Romolo Guerrieri. Con Florinda Bolkan, Adolfo Celi, Renzo Palmer, Franco Nero, Delia Boccardo, Roberto Bisacco, Maurizio Bonuglia, Susanna Martinkova, Marino Masé, Laura Antonelli Drammatico, durata 104′ min. – Italia 1969.
Renzo Palmer
Franco Nero: commissario Belli
Florinda Bolkan: Vera Fontana
Adolfo Celi: avv. Fontana
Delia Boccardo: Sandy Bronson
Susanna Martinková: Emmanuelle
Renzo Palmer: commissario Baldo
Roberto Bisacco: Claudio
Maurizio Bonuglia: Mino
Laura Antonelli: Franca
Silvia Dionisio: Gabriella
Marino Masé: Romanis
John Stacy: Porter
Vittorio Ripamonti: un poliziotto
Regia Romolo Guerrieri
Soggetto Ludovico Dentice
Sceneggiatura Massimo D’Avak, Alberto Silvestri, Franco Verucci
Produttore Mario Cecchi Gori
Casa di produzione Fair Film
Fotografia Roberto Gerardi
Montaggio Marcello Malvestito
Musiche Fred Bongusto
Scenografia Giantito Burchiellaro
Costumi Luca Sabatelli
Recensioni tratta dal sito http://www.pollanetsquad.it
“[…] La narrazione è a volte attardata da un’eccessiva verbosità, da velleità d’indagine psicologica non sempre condotte a fondo, o dal troppo labirintico congegno della sceneggiatura, pure la regìa sa far scattare le molle opportune nei momenti opportuni, ricavando con abilità un clima di mistero da una serie di ben scelti interni ed sterni romani e giungendo a comporre uno spettacolo che non ha poi molto da invidiare a certi thrillers americani di successo. Assai giusto nella sua parte, Franco Nero ha intorno a sé una Florinda Bolkan tutta ghiaccio rovente, una sensibile Delia Boccardo, una spavalda Susanna Martinkova, un incisivo Adolfo Celi, nonché Renzo Palmer e Roberto Bisacco.”
“[…] Nel mettere in immagini una sceneggiatura anche troppo affastellata di false piste e di cadaveri, Romolo Guerrieri non riesce a superare i limiti del mestiere. La Bolkan fa la tenebrosa con la stessa efficienza levigata con cui Nero fa il duro.”
L’opinione del Morandini
Dal romanzo Macchie di belletto di Ludovico Dentice. Commissario indaga su casa discografica e incappa in cadaveri. Il suo comportamento apparentemente ambiguo insospettisce la polizia. Macchinoso poliziesco con noiose, inutili e pesanti divagazioni e verbosità. Il personaggio del protagonista non è approfondito.
Recensione tratta dal sito http://www.cinefatti.it
Una volta l’Italia aveva i migliori cervelli del mondo che davano vita, con zero budget, a gialli pieni di idee, tensione, pathos e, soprattutto, dubbi fino alla fine del film e (a volte) anche oltre sui vari colpevoli e sospettati. Dal romanzo Macchie di belletto di Ludovico Dentice, lo sceneggiatore Massimo D’Avak e il regista Romolo Guerrieri diedero vita, nel 1969, al giallo Un detective, film che ha l’unico difetto di essere eccessivamente dialogico, ma ha tutto il necessario per appassionare gli amanti del genere, a partire da attori fantastici per finire all’intricata trama che terrà sulla corda lo spettatore fino alla fine perché, vi assicuro, il colpevole non si scoprirà dopo cinque minuti come, purtroppo, spesso accade oggi.(…)Questa è l’Italia cinematografica di genere che ci manca, l’Italia cinematografica che merita di essere visionata e anche ascoltata, la magnificenza delle musiche di Fred Bongusto e di altre colonne sonore relative a quell’epoca, firmate (parlando sempre di film di genere) da illustrissimi compositori come Fabio Frizzi (L’aldilà di Lucio Fulci) e tantissimi altri che credevano a tal punto nelle loro composizioni da renderle, a volte, addirittura migliori dei film ad esse associati.
Perfetta anche la fotografia di Roberto Gerardi che propone interni ed esterni di una nitidezza spiazzante – visto l’anno di lavorazione. E ripeto, zero budget. Che nostalgia! Amici CineFattiani, fateci un pensierino su questo gioiellino made in Italy. E’ un po’ lento ma merita, fidatevi di me!
Recensione di Homesick dal sito http://www.davinotti.com
Il poliziesco italiano sfuma nei toni crepuscolari del noir internazionale che calano sul detective corrotto e manesco di Nero, suggerendo un’ipotetica “terza via” tra il giallo-thriller (pre)argentiano e gli inflazionati commissari di ferro degli anni a venire. Sebbene l’intreccio arranchi spesso nella macchinosità, la regia elegante e matura di Guerrieri è percepibile nelle atmosfere notturne (ben sottolineate dalle musiche di Bongusto), nell’aura pop-glamour che circonda la Martinkova e nella solida direzione del buon cast. Dal romanzo “Macchie di belletto” di Ludovico Dentice.
Recensione di Cotola dal sito http://www.davinotti.com
Bel giallo all’italiana, a tratti quasi noir, firmato dal bravo Guerrieri che conferma ancora una volta di non essere un regista dozzinale come tanti altri e di non essere stato valorizzato come merita. La storia non è il massimo, mentre molto interessante e riuscito è il personaggio dell’ispettore (per nulla simpatico e con cui è difficile identificarsi), così come lo sono le atmosfere torbide e sordide. Ottimo il finale. Insomma, per gli amanti del genere un film da non perdere.

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Il dolce corpo di Deborah
Progenitore dei thriller che avrebbero invaso le sale cinematografiche nel decennio successivo,Il dolce corpo di Deborah (The sweet body of Deborah) esce nelle sale nel 1968 e codifica in un certo modo i lavori che verranno; Romolo Guerrieri,regista del film, costruisce lo stesso su un impianto robusto che vede una giovane sposa attirata in una trappola mortale dal marito, in combutta con l’ex fidanzata e un amico.
Una spruzzatina di velato erotismo, un’atmosfera sensuale, qualche colpo di scena e un intreccio più psicologico che d’azione caratterizzano la pellicola di Guerrieri che prima di questo film aveva diretto una commedia balneare e tre western,genere in auge sul finire degli anni sessanta.

Il regista romano, autore negli anni successivi di altre due pellicole del genere thriller come La controfigura e Un detective costruisce una storia forse ai limiti del credibile ma scorrevole e che si lascia seguire con interesse.
Tutto ruota attorno al matrimonio tra lo svizzero Marcel e la bella e biondissima ereditiera americana Deborah, coppia che durante il viaggio di nozze si imbatte in un vecchio amico di Marcel,Philipp, fratello di una ex dello svizzero.
L’uomo accusa di aver spinto al suicidio Susan,spinta al gesto estremo dall’abbandono di Marcel;quest’ultimo, turbato dalla notizia decide di vederci chiaro e si reca a casa dei genitori di Susan, che trova vuota e abbandonata.
Proprio nella casa della ex Deborah, rispondendo al telefono, riceve un ammonimento e una minaccia di morte.
E’ l’inizio di un lungo incubo per la bella americana, che per sfuggire alla tensione nervosa che si viene a creare in seguito a questo e altri episodi inizia ad abusare di farmaci.
Casualmente ad una festa Deborah incontra il pittore Robert, che da quel momento inizierà a vegliare su di lei in maniera discreta; l’amicizia tra i due irrita Marcel,alle prese con l’intrigo della morte di Susan, che inizia a credere provocata dall’amico Phlipp

Nel frattempo le minacce e le persecuzioni messe in atto da Philipp raggiungono il culmine;Deborah che si sente perseguitata dall’uomo, dalle telefonate minatorie e dall’atmosfera angosciante in cui è costretta a vivere crolla psicologicamente e una sera per dormire inghiotte una forte dose di barbiturici.
Philipp entra nella villa e tenta di uccidere la donna, ma il provvidenziale intervento di Marcel salva Deborah dalla morte.
Marcel infatti uccide Philipp e subito dopo, caricatosi addosso il corpo esanime dell’uomo va a sappellirlo in giardino.
Ma il giorno dopo Deborah crede di impazzire quando vede Philipp vivo in compagnia della rediviva Susan;in realtà la donna non è mai morta ma la scoperta per Deborah è davvero troppo grossa.La donna sviene e, caricata da Philipp e Marcel, viene collocata nella vasca da bagno dove i due iniziano a tagliarle le vene, volendo così simulare un suicidio.
Ma il diavolo ci mette lo zampino…
Il finale è lineare e riporta il film ad una conclusione politicamente corretta, con la vittima designata che sfugge alla morte grazie al cavaliere errante e senza paura.

Guerrieri costruisce quindi un film godibile, in linea con quelli che saranno poi gli stilemi di questo genere;l’anno dopo Umberto Lenzi riprenderà sia l’attrice protagonista Carroll Baker, sia il bravo Jean Sorel per costruire il suo personale trittico dei “thriller dei quartieri alti”, come il regista stesso definirà il genere di nicchia che contribui in maniera determinante a rendere famoso, composto dai film Orgasmo (1969), uno dei film più venduti negli Stati Uniti in quel periodo, da Così dolce… così perversa (1969) e da Paranoia (1970).
Guerrieri è quindi un precursore del genere e il film incontrò un buon successo di pubblico.
Meno di critica, va detto.
I perchè sono legati a quella particolare forma di snobismo misto a miopia culturale di parte della critica, che guardava di malocchio tutti i generi che stavano fiorendo nel nostro paese, dallo spaghetti western alla commedia sexy, dal thriller citato al poliziesco all’italiana.
Un errore imperdonabile,alla luce del grande successo che ebbe in Italia e all’estero il cinema italiano di quegli anni, amatissimo anche da platee che fino ad allora avevano apprezzato solo i prodotti dei grandi del nostro cinema.
A contribuire al successo del film contribui sicuramente l’ottima prova del cast, nei quali vanno segnalati la bellissima Carroll baker, vera star del genere negli anni successivi, il citato Jean Sorel, la bella e affascinante Evelyn Stewart (qui protagonista con il suo vero nome, Ida Galli),Luigi Pistilli e Robert Hilton.
Il film ha anche una colonna sonora adeguata composta da Nora Orlandi e si avvale di una fotografia tenebrosa e impeccabile opera di Marcello Masciocchi.
Un film in definitiva di indubbia qualità, pur tra qualche pecca e qualche sbavatura di troppo, che resta un esempio di come si riuscisse ad assemblare in maniera esemplare le varie componenti di un film per creare un prodotto di fascino.
La pellicola è disponibile in una buona riduzione divx su You tube all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=lL5tJI0Uj-M e merita sicuramente una visione.
Il dolce corpo di Deborah
Un film di Romolo Guerrieri. Con Luigi Pistilli, Evelyn Stewart, Carroll Baker, Jean Sorel, Valentino Macchi, George Hilton, Michel Bardinet, Renato Montalbano Drammatico, durata 90 min. – Italia 1968.
Carroll Baker: Deborah
Jean Sorel: Marcel
Ida Galli: Suzanne Boileau (con il nome Evelyn Stewart)
Luigi Pistilli: Philip
Michel Bardinet: commissario di polizia
Valentino Macchi: Garagista
Mirella Pamphili: Centralinista
Domenico Ravenna: Dottore
Giuseppe Ravenna: Maitre d’Hotel
Renato Montalbano: Telefonista
George Hilton: Robert
Sisto Brunetti: Agente
Regia Romolo Guerrieri
Soggetto Ernesto Gastaldi, Luciano Martino
Sceneggiatura Ernesto Gastaldi
Produttore Tony Garnett, Mino Loy, Luciano Martino
Casa di produzione Compagnie Cinématographique de France, Flora Film, Zenith Cinematografica
Fotografia Marcello Masciocchi
Montaggio Eugenio Alabiso
Musiche Nora Orlandi
Scenografia Amedeo Fago
Costumi Gaia Romanini
Trucco Mario Van Riel
L’opinione del sito http://www.exxagon.it
(…)Gli affezionati del genere sapranno ritrovare diversi elementi ricorrenti nel thriller anni ’60, come le motivazioni che muovono i protagonisti a delinquere in maniera complessissima, sempre finalizzate all’appropriazione di un’ingente quantità di soldi, un motivo musicale che porta un protagonista all’esaurimento nervoso o, ancora, una scena in cui viene mostrata la danza sensuale di una donna di colore in qualche club di elegantoni (vedi Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer?, 1972) cosa che evidentemente riecheggiava il cinema mondo.(…)
(…)un cast che sa come muoversi all’interno di una storia giallo-thriller. Guerrieri risce a reggere il gioco tecnico anche se il thriller non sia esattamente il suo genere d’elezione, la fotografia di Marcello Masciocchi gioca con le luci e le ombre. Nora Orlandi cura le musiche e non fa un cattivo lavoro. Il top de Il dolce corpo di Deborah, comunque rimane la scena nella quale la Baker in tutina glamour gioca a Twister con Sorel (…)
L’opinione del sito http://www.horrormovie.it
C’era una volta il giallo all’italiana, affascinante e piacevolmente complesso, a volte improbabile nelle risoluzioni e spesso risultato da rielaborazioni di successi internazionali. Se possiamo attribuire a Damiano Damiani e Mario Bava l’inizio del filone, rispettivamente con “Il rossetto” (1960) e “La ragazza che sapeva troppo” (1964), è a Romolo Guerrieri che va il merito di aver lanciato il sottofilone dei gialli dalle venature erotiche e dai risvolti familiari che poi faranno la fortuna del genere tra la fine degli anni ’60 e i primissimi ’70. Il dolce corpo di Deborah
Infatti i vari “Paranoia”, “Orgasmo”, “Così dolce…così perversa” di Lenzi o i successivi e già in parte differenti “Lo strano vizio della signora Wardh” e “La coda dello scorpione” di Martino derivano proprio da “Il dolce corpo di Deborah” e dalle atmosfere un pò lascive che il film di Guerrieri tenta di costruire attorno al desiderabile corpo del titolo, che poi sarebbe quello della sempre bellissima Caroll Baker.
Su un soggetto scritto insieme al produttore Luciano Martino, Ernesto Gastaldi – che poi si specializzerà proprio in gialli – costruisce una sceneggiatura che ha chiari rimandi a “I Diabolici” di Clouzot. Infatti il punto di partenza per questo filone del giallo all’italiana è proprio il cinema francese “nero”, le atmosfere torbide che ammantavano quei film e gli intricati moventi che muovevano le storie, che spesso e volentieri avevano come scopo l’impossessarsi di ingenti somme di denaro. Dal momento che con “Il dolce corpo di Deborah” siamo alla soglia degli anni ’70, anzi, nel fatidico ’68, gli elementi scabrosi solo Il dolce corpo di Deborahsuggeriti altrove trovano qui un ben preciso esplicitamento.
L’opinione di B.Legnani dal sito http://www.davinotti.com
Vederlo conoscendo l’opera lenziana rovina completamente ogni colpo di scena. Restano sia l’importanza (la tematica è nuova) sia una certa lentezza per tutta la prima parte, quella che precede l’arrivo alla villa della Costa Azzurra (che è, in realtà, vicina al Golf dell’Olgiata). Il cast funziona più che accettabilmente, con la Baker bellissima (ma con Lenzi sarà ancora più smagliante), Sorel efficace, Pistilli e la Stewart in ruolo. Per esigenze criptopubblicitarie la Baker qui deve fastidiosamente (per noi) fumare il doppio a confronto di quanto fa in tutti i Lenzi messi insieme…
L’opinione del sito http://www.bmoviezone.wordpress.com
Il dolce corpo di Deborah merita una valutazione discreta nonostante non sia da giudicare, con il senno di poi, come uno dei film più riusciti del genere. Sicuramente interessante più per l’atmosfera (la fotografia piena di ombre e luci e la bella colonna sonora di Nora Orlandi fanno la loro parte) che per la sostanza, il film è comunque da vedere per gli amanti del genere, dato che senza questa produzione il corso che il giallo ha preso in Italia avrebbe potuto essere molto differente.
La volpe dalla coda di velluto
Ruth è una bella e ricchissima ereditiera sposata con Michael; la donna non è felice e per questo ha allacciato una relazione con il bel tenebroso Paul.
Decisa a divorziare dal marito, Ruth lo affronta e ottiene il suo si.
Così Ruth è finalmente libera di vivere la sua nuova storia d’amore con Paul e per rinsaldare l’unione lo invita nella sua splendida villa che possiede in Costa Azzurra;ma all’iniziale idilliaca atmosfera in Ruth subentra la paura, quando le capitano due strani e inspiegabili incidenti.
Una sera nella villa arriva l’ormai ex marito Michael e Ruth scopre con sgomento che lui e Paul in realtà si conoscono ma non solo:i due sono in combutta con una donna,Danielle, per ucciderla e dividersi le sue ricchezze.
A ferire maggiormente Ruth è anche la scoperta che Paul non la ama e che è l’amante della bella Danielle;la prima reazione della donna è di sconforto, tanto che sembra accarezzare l’idea di lasciar portare a termine il complotto tra i due.

Poi decide di reagire e sabota l’auto di Michael, che muore in un incidente stradale.
Da questo momento per Ruth inizia un incubo senza fine, con Paul che si installa con Danielle in casa di quella che è ormai la sua ex amante.
Danielle, con il tacito assenso di Paul, tenta anche un’improbabile opera di seduzione nei confronti di Ruth, che però medita un piano diabolico per liberarsi dei due scomodi ospiti…
Titolo argentiano, due attrici protagoniste di origini argentine (la Yanni figlia di due italiani emigrati),l’attore protagonista di origine francese, un regista spagnolo:questo il cast cosmopolita di La volpe dalla coda di velluto, bizzarro titolo che strizza l’occhio al fenomeno thriller dell’anno precedente L’uccello dalle piume di cristallo.
In origine il film, di produzione spagnola, si intitolava El ojo del huracan, ovvero l’occhio dell’uragano, ma i distributori italiani, memori del buon successo di pellicole thriller riecheggianti l’ormai celebre film di Argento decisero di proporlo con il titolo che abbiamo imparato a conoscere.

Così assieme a L’iguana dalla lingua di fuoco, Il sorriso della iena, La farfalla dalle ali insanguinate,Il gatto a nove code e altri eccoci di fronte a un thriller abbastanza canonico, senza grossi elementi di novità eppure di buon livello e gradevole.
Grazie ad una sceneggiatura robusta e senza sbavature, José María Forqué crea un film d’atmosfera in cui non c’è sangue ma una tensione latente che si mescola ottimamente con una trama che riserverà nel finale il più classico dei colpi di scena.

Retto da una bellissima colonna sonora di Piero Piccioni, che pervade delicatamente il film senza essere ossessiva, La volpe dalla coda di velluto pur con la presenza di pochissimi attori riesce nell’impresa di non annoiare, grazie anche a due elementi fondamentali, ovvero la buona mano del regista e un tocco leggerissimo di innocuo erotismo che esalta una trama morbosa ma mai esplicita, con scene di sesso ridotte al minimo sindacale e nudi molto sotto la norma per questo genere di prodotti.
Davvero bravi gli attori, ovvero l’onnipresente Jean Sorel, vero protagonista di tanti gialli e thriller degli anni sessanta e settanta, di Analia Gadè, affascinante e dall’aria ingenua sufficientemente riportata nel non facile personaggio di Ruth e infine la statuaria e leggermente androgina Rosanna Yanni, la diabolica amante del bel Paul.

I tre attori reggono molto bene la scena, integrati dalla presenza di Tony Kendall che interpreta l’ormai ex marito di Ruth, vera mente del piano che fallirà miseramente quando la stessa Ruth deciderà di riprendere in pugno le redini della sua vita.
Un film senza grosse pecche, lento senza essere noioso e molto descrittivo ma mai oltre il necessario.
Un’autentica sorpresa, che fa di La volpe dalla coda di velluto uno dei prodotti migliori nel genere giallo/thriller.
Purtroppo la pellicola di José María Forqué non è certo di facile reperibilità e risulta in rete praticamente introvabile almeno in una versione che non sia quella classica, rovinatissima ricavata da una VHS che circola su Internet.

La volpe dalla coda di velluto
Un film di José María Forqué. Con Amalia Gadé, Tony Kendall, Jean Sorel, Maurizio Bonuglia, Rosanna Yanni, Luis Peña,Rossana Yanni Giallo, durata 90 min. – Italia 1971.
Tony Kendall: Michael Dustin
Analia Gadè: Ruth Dustin
Rossana Yanni: Danielle
Jean Sorel: Paul
Maurizio Bonuglia: Roland
Luis Peña: ispettore
Regia Josè Maria Forquè
Soggetto Rafael Azcona, Francesco Capitelli, Mario Di Nardo, Josè Maria Forquè
Sceneggiatura Rafael Azcona, Francesco Capitelli, Mario Di Nardo, Josè Maria Forquè
Casa di produzione Orfeo Producciones
Distribuzione (Italia) Arvo film (Roma)
Fotografia Giovanni Bergamini
Montaggio Antonio Ramirez
Musiche Piero Piccioni
Tema musicale Once and again performed by Shawn Robinson
Scenografia Giorgio Marzelli
Costumi Anna Maria Albertelli
Trucco Manuel Martin
Recensione dal sito http://www.exxagon.it
Trillerone di modello lenziano che gioca con un titolo che farebbe pensare ad un post-argentiano, scritto a otto mani da un team italo spagnolo nel quale si nasconde Mario di Nardo che dalla sua scrittura di 5 bambole per la luna d’agosto (1970) ha appreso qualcosa delle dinamiche del genere. Però qui non c’è Bava ma Forqué, e per quanto il regista spagnolo sappia maneggiare la materia, lo stile non è il medesimo. Gli ingredienti della storia sono quelli noti: gente ricca ed annoiata la cui vita si divide fra gite in barca, cocktails e sesso da una parte e soldi, tanti soldi in ballo dall’altra; il tutto nella cornice di un’affascinante località di mare. La beffata di turno è la bella, benché un po’ sfiorita, Analia Gadé che si gode il ganzo Jean Sorel, attore che pare essere nato proprio per interpretare questo genere di film. Dopo gli affascinantissimi titoli di testa che incarnano alla perfezione lo stile anni ’70, il film progredisce in maniera terribilmente noiosa per la prima mezz’oretta per poi iniziare ad immettersi nei binari del thriller con una macchina ai quali sono stati manomessi i freni; la protagonista inizia a sospettare che l’amato sia in verità uno spietato balordo e le dinamiche si fanno più tese. Il culmine, verso la fine, vedrà Sorel, la Gadé e la Yanni, perfida rossa, a letto insieme a tentare un triangolo sessuale che la Gadé non gradisce affatto; la Yanni che lecca il piede della Gadé è un tocco fetish-lesbo che non capita di vedere spesso anche nel thriller di genere che di combinazioni sessuali ne ha tentate tante. Il finale a sorpresa non è così sorprendente, soprattutto per quelli che conoscono la materia, ma il procedimento per cui il film approda a tale soluzione è ben spiegato e chiaro, né troppo inverosimile. Canonico nel suo divenire, La Volpe dalla Coda di Velluto è né più né meno il solito eros-thriller anni ’60-’70, realizzato senza particolare originalità ma comunque con discreta cura; piacerà solo agli appassionati del genere.
L’opinione di Eleonora 15 dal sito http://www.filmtv.it
Veramente bello e ben fatto, originalissimo, di estrema atmosfera! belle ambientazioni; ambienti di classe e ottima fotografia. Vorrei solo sapere perchè film del genere li fanno solo sulle reti private a tarda notte, e soprattutto perchè sono introvabili in DVD!
L’opinione de Ilgobbo, dal sito http://www.davinotti.com
Elegante, un po’ troppo felpato (vellutato?) cimento del vecchio Forque sul collaudatissimo schema dei gialli lenziani. L’averne visti diversi nuoce al godimento perchè Sorel al mero apparire sullo schermo evoca nequizie, per cui si passa il tempo a pensare a quale delle combinazioni possibili sia stata scelta dagli sceneggiatori (fra i quali Azcona!). Però guardabilissimo.
L’opinione di Lucius dal sito http://www.davinotti.com
Altro tentativo di bissare il successo e la formula della trilogia di Argento; questa volta il risultato è una pellicola avvincente con poche carenze di sceneggiatura. Un film elegantemente dignitoso che può contare su un ottimo cast su cui primeggia la splendida e brava protagonista e un Jean Sorel ispirato. Location e interni da sogno ed una colonna sonora particolarmente bella.
L’opinione di Saitgifts dal sito http://www.davinotti.com
All’inizio non sembra promettere molto, le smancerie tra Paul e Ruth sono piuttosto noiose e nemmeno ravvivate da scene di sesso troppo castigate, forse anche per l’epoca. Poi la trama prende consistenza e ci sono momenti intriganti, anche ben girati e soluzioni non troppo scontate. I personaggi si distinguono per la loro ambiguità e tutto il succo del film sta proprio qui. Ci si barcamena tra complotti e abbozzi di sesso anche “avanzato”. Quello che non si capisce è il titolo, forse per quella volpe… era più adatta la coda di uno scorpione.
Gli occhi di Laura Mars
Una brillante fotografa, Laura Mars, ha da poco stampato un libro intitolato “Occhi di Laura Mars”, una raccolta fotografica che racchiude alcuni suoi lavori;sono foto che suscitano al tempo stesso commenti fortemente critici e altri imbarazzati, in quanto tutte le opere di Laura sono intrise di violenza e ammiccano palesemente a situazioni erotiche.
La sera della presentazione del libro, un brutale omicidio sconvolge la premiere: la bella Doris viene brutalmente assassinata ed è in questa occasione che Laura scopre di possedere una dote assolutamente straordinaria.
E’ in grado di visualizzare, attraverso gli occhi dell’assassino, la crime scene, la scena del delitto.
Inizia così un incubo per la giovane fotografa, perchè poco dopo assiste, testimone muta e impotente, all’omicidio della sua editor, Elaine.
Sconvolta dalle visioni Laura decide di rivolgersi alla polizia e trova nel tenente John Neville uno scettico ascoltatore.
Tuttavia il poliziotto inizia ad indagare, puntando i suoi sospetti sull’ex marito dell’editrice e della stessa Laura.
Ma il colpevole è un altro e ha motivazioni ben precise.
Thriller a sfondo parapsicologico, Occhi di Laura Mars o anche Gli occhi di Laura Mars esce nelle sale cinematografiche nel 1978, per la regia di Irvin Kershner, un onesto manovale del cinema che in passato aveva diretto tra gli altri il sequel di L’uomo chiamato cavallo, intitolato la Vendetta dell’uomo chiamato cavallo.
Poichè Irvin Kershner è un artigiano, il risultato finale del film con protagonista Faye Dunaway nella parte della fotografa Laura Mars non è certamente esaltante, pur mantenendo un certo decoro di fondo.
Quello che manca al film è un ritmo serrato o una tensione maggiore, mentre invece la pellicola sembra a tratti allentare entrambi a favore di dialoghi didascalici che sembrano più stereotipati che persuasivi.
Nonostante la presenza della citata Faye Dunaway, oscar l’anno precedente per il bellissimo Quinto potere di Sidney Lumet e interprete prima ancora dell’ottimo I tre giorni del Condor, il film stenta a prendere una sua impronta personale, finendo per diventare un prodotto con troppi altri emuli e confuso nella massa di produzioni di quegli anni.

Tuttavia la sceneggiatura ha una sua ragion d’essere e si snoda con una certa tensione, prima dell’inevitabile finale a sorpresa, quando viene smascherato l’assassino e le sue motivazioni.
Nel cast, nel ruolo di John Neville, il dubbioso interlocutore di Laura Mars, troviamo Tommy Lee Jones:l’attore di San Saba è in uno dei primi lavori impegnativi e svolge con profitto il suo compito.
Il film è sceneggiato da John Carpenter, che non è certo abituato a cimentarsi con il genere thriller e che scrive con evidente malavoglia il soggetto di un film che ha del buono nella prima parte, quando si mantiene in precario equilibrio tra thriller e parapsicologia e che scivola nella seconda parte quando inizia la tradizionale love story che sembra messa li per dare un senso compiuto al film e che invece finisce per alterare il già precario equilibrio del film.
Purtroppo gli stereotipi abusati della donna in carriera che deve difendersi dai serpenti che strisciano nel dorato mondo della moda e la classica situazione d’amore tra la bella e il giustiziere in uniforme di turno finisce per mortificare il tutto rendendo il film stesso un prodotto quasi indistinguibile dagli altri dello stesso genere.
Poca roba, quindi.
Poichè il film non è nemmeno facilmente reperibile in rete consiglio agli spettatori di aspettare un suo passaggio tv, avvisandoli nel contempo che potrebbe non valere la pena assistere alle due ore di proiezione di un film a corrente alternata e abbastanza deludente praticamente sotto tutti i punti di vista.
Occhi di Laura Mars (Gli occhi di Laura Mars)
Un film di Irvin Kershner. Con Faye Dunaway, Brad Dourif, Tommy Lee Jones, René Auberjonois Titolo originale Eyes of Laura Mars. Drammatico, durata 103′ min. – USA 1978.
Faye Dunaway: Laura Mars
Tommy Lee Jones: John Neville
Brad Dourif: Tommy Ludlow
Rene Auberjonois: Donald Phelps
Raul Julia: Michael Reisler
Frank Adonis: Sal Volpe
Lisa Taylor: Michele
Darlanne Fluegel: Lulu
Rose Gregorio: Elaine Cassel
Bill Boggs: sé stesso
Steve Marachuk: Robert
Meg Mundy: Doris Spenser
Marilyn Meyers: Sheila Weissman
Gary Bayer: primo reporter
Mitchell Edmonds: secondo reporter
Regia Irvin Kershner
Soggetto John Carpenter
Sceneggiatura John Carpenter, David Zelag Goodman
Produttore Jon Peters, Jack H. Harris
Fotografia Victor J. Kemper
Montaggio Michael Kahn
Effetti speciali Edward Drohan
Musiche Artie Kane
Scenografia Gene Callahan
Costumi Theoni V. Aldredge
Trucco Lee Harman
Edizione originale
Ada Maria Serra Zanetti: Laura Mars
Wanda Tettoni: zia Caroline
Ridoppiaggio
Maria Pia Di Meo: Laura Mars
Dario Penne: John Neville
Simone Mori: Tommy Ludlow
Francesco Pannofino: Michael Reisler
L’opinione di emmepi8 tratta dal sito http://www.filmtv.it
Un film ideato da Carpenter ed anche co-sceneggiato, era un po’ un debutto per il regista e autore, ma cui non fu data la regia, ripiegando il soggetto ad una prova deboluccia dove il persoanggio maschile, se non fosse interpretato da Lee Jones, sarebbe dimenticabile, mentre è il fulcro vero del racconto. Il film era un veicolo del dopo Oscar della grande Duneway, che però, vedendo il film cene rendiamo conto, non fu molto a suo agio nei panni abbastanza scontati e non bene assottigliati della fotografa dai poterei paranormali. Un’occasione di cinema a cui è stato tolto il respiro stesso del contrasto e quindi è rimasto solo un filmetto, che all’epoca ebbe anche successo, ma che oggi presenta le magagne più evidenti di un precoce invecchiamento. Bellissima la colonna musicale, che poi ha la voce della grande Streisand, le foto del film sono di Helmut Newton e Rebecca Blake
L’opinione del Morandini tratta dal sito http://www.mymovie.it
Laura Mars, fotografa che mette la violenza al servizio della moda, ha qualità extrasensoriali. “Vede” i delitti di cui rimangono vittime certi suoi collaboratori, senza scorgere mai il volto dell’assassino. Diventa una testimone scomoda. Da un copione schizoide di John Carpenter un film senza suspense, un whodunit privo di vera emozione. Per tenere desta la curiosità dello spettatore si indica un sospetto. È quello giusto? Sagacia d’effetti, film decorativo.
L’opinione del sito http://www.mediacritica.it
…Non è che sia proprio un gran film, questo Occhi di Laura Mars. Un thriller paranormale che si basa su un’unica, grande idea, sviluppandola nella maniera più banale possibile. Perché ne parliamo allora? Fondamentalmente, perché il film doveva girarlo John Carpenter, e perché quell’unica, grande idea è frutto della sua fantasia…(segue sul sito)
A doppia faccia
In un incidente d’auto, evidentemente doloso,muore la ricca Helen.
La polizia indaga e punta il dito sul marito della defunta,John Alexander, che in qualità di unico erede è chiaramente il maggior sospettato.
Mentre qualcuno costruisce prove false, John crede di riconoscere la defunta moglie in un’attrice che ha girato un film pornografico…
Plot scarno ed essenziale questo, per non rivelare in anticipo la trama di un film, A doppia faccia, che richiede una visione attenta per essere gustato appieno; un film però, lo dico subito, pieno di difetti e di pause, tributario in maniera fin troppo evidente del celebre La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock.
Diretto da Riccardo Freda, che nell’occasione utilizza il suo abituale pseudonimo di Robert Hampton, A doppia faccia è tratto dal romanzo The face in the night di Edgar Wallace, uno degli scrittori di gialli più saccheggiati della storia del cinema.

In questa occasione Freda fa scrivere il soggetto a Lucio Fulci, che nello stesso anno presenterà la sua variazione sul tema della moglie morta-forse viva, quel Una sull’altra che alla resa dei conti si rivelerà essere ben al di sopra dell’opera di Freda.
Il film non è da gettare, in quanto la mano del regista di Alessandria d’Egitto c’è e si vede, ma è anche inficiato dal basso budget utilizzato per girare la pellicola, cosa che si traduce in un paio di sequenze davvero dilettantesche, come la ricostruzione dell’attentato nel quale muore Helen (con modellini di auto utilizzati in modo da gridar vendetta) e nella scena dell’incidente ferroviario nella quale è evidentissimo l’uso di trenini di una nota e rinomata marca.

Reduce dallo spaghetti western La morte non conta i dollari del 1967, Freda si cimenta con il giallo per il suo ultimo film del decennio sessanta.
Su un plot non particolarmente indovinato, a tratti farraginoso e comunque già visto altre volte, Freda costruisce un film a corrente alternata, in cui eccellenti sequenze come quella in cui John Alexander vaga per i bar di una Londra fumosa e compassata cercando di recuperare la sua mente sconvolta dalla visione del film in cui ha creduto di aver rivisto la moglie, si susseguono sequenze davvero improponibili come quelle citate in cui la mancanza di mezzi non è accompagnata da una mano felice.
Forse la cosa migliore del film è davvero il cast, nel quale figurano l’onnipresente Klaus Kinskj, presenza abituale del nostri cinema, Margaret Lee, la bella Christiane Kruger e Annabella Incontrera; Kinskj è John Alexander, il personaggio principale del film, l’uomo sospettato di aver ucciso la moglie per biechi motivi economici e che alla fine si scoprirà essere vittima di una congiura ben architettata, è attore di razza, a dispetto della sua cattiva fama sui set.
Kinskj era uno degli attori che i registi meno amavano, perchè aveva un carattere ombroso e bizzoso e contemporaneamente era uno dei partner più detestato dai rimanenti attori delle varie produzioni.

L’attore di origine polacca in soli 5 anni, nel periodo tra il 1965 e il 1969 girò 30 film, diventando quindi una star dei b movie, prima di passare a opere di ben altro livello negli anni successivi; sui vari set si comportava da prima donna, creando spesso problemi nelle lavorazioni delle pellicole.
L’impianto generale del film è abbastanza debole, per cui Freda, già alle prese con un budget risicatissimo è costretto a barcamenarsi alla men peggio, inserendo nel film elementi pruriginosi che costeranno al regista stesso qualche problema con la censura.
Tuttavia la grande esperienza del regista riesce in qualche modo a tenere a galla un film che girato da altri si sarebbe risolto in un fallimento senza appelli; grazie alla professionalità del cast, alla buona fotografia, alla celebre canzone di Nora Orlandi che è il tema conduttore del film (non dirmi una bugia, non voglio creder più, il gioco è ormai finito, lo vedi hai vinto tu/esco dalla tua vita, così come vuoi tu, finita è la partita, non giocherò mai più/dimmi la veritàà, ormai non m’ami più, lo dicon gli occhi tuoi, lo devi dire tu…) la pellicola, pur tra intoppi di vario genere riesce a mantenere un livello decoroso.

A meritare la piena sufficienza è l’ambientazione londinese, sicuramente elegante nella sua psichedelia raccolta con intelligenza da Freda in una serie di sequenze che restano la cosa migliore del film.
A doppia faccia è un film che in tv è apparso molto di rado mentre è facilmente reperibile in rete in un’ottima qualità digitale; è presente anche su You tube in versione digitale con sottotitoli in francese.

A doppia faccia
Un film di Riccardo Freda (Robert Hampton). Con Klaus Kinski, Annabella Incontrera, Franz Kruger,Margaret Lee, Gastone Pescucci, Barbara Nelli, Ignazio Dolce,Sidney Chaplin, Giallo, durata 84 min. – Italia 1969.
Klaus Kinski: John Alexander
Christiane Krüger: Christine
Margaret Lee: Helen Alexander
Sydney Chaplin: Mr. Brown
Annabella Incontrera: Liz
Günther Stoll: Ispettore Steevens
Luciano Spadoni: Ispettore Gordon
Barbara Nelli: Alice
Regia Riccardo Freda
Soggetto Lucio Fulci, Romano Migliorini, Gianbattista Mussetto (dal romanzo The Face in the Night di Edgar Wallace)
Sceneggiatura Riccardo Freda, Paul Hengge
Fotografia Gábor Pogány
Montaggio Anna Amedei, Jutta Hering
Musiche Nora Orlandi
4 mosche di velluto grigio
Quattro mosche di velluto grigio esce nel 1971 ad un anno di distanza dal travolgente successo di L’uccello dalle piume di cristallo e poco dopo l’uscita di Il gatto a nove code; Dario Argento chiude così la cosi detta trilogia “animalesca” con un film che se non ha lo stesso impatto dei primi due mostra tuttavia alcuni segnali che indicano come il regista romano stia evolvendo verso una fase nuova della carriera, che culminerà nel suo capolavoro, Profondo rosso.
Quattro mosche di velluto grigio è un film con tanti pregi ma anche con difetti rilevanti; per la prima volta Argento usa l’elemento comico nel film, usa sapientemente il flash back e sopratutto usa un finale davvero indimenticabile ma utilizza una sceneggiatura con più di una lacuna e sbaglia la scelta dell’interprete principale, quel Michael Brandon che si rivelerà l’anello più debole della pellicola.

Come location del film Argento sceglie Roma e Tivoli e Milano con Torino; a Roma c’è la baracca del simpaticissimo Diomede (Dio), che vive come un barbone in riva al Tevere in compagnia del suo linguacciuto pappagallo, mentre a Tivoli, nei giardini di Villa D’Este è realizzata la splendida sequenza dell’omicidio della colf di Roberto, Amelia. A Milano viene girata la sequenza della morte di Arrosio mentre lo studio dell’investigatore privato è a Torino nella Galleria Subalpina.
In questo film l’elemento predominante è la follia, così come per la prima volta Argento introduce la componente parapsicologica legata ai sogni premonitori di Roberto mentre come dicevo prima compare l’elemento umoristico, legato al personaggio di Diomede e sopratutto a quello dell’investigatore privato Gianni Arrosio, ingaggiato da Roberto (il protagonista), un investigatore che nel corso della sua carriera ha collezionato 84 casi falliti, come racconterà nel colloquio con il suo nuovo cliente.

La trama:
-Roberto Tobias, che fa il batterista in un gruppo rock, si accorge che è seguito da un misterioso individuo. La cosa va avanti per alcuni giorni,fino a quando Roberto non segue il suo misterioso pedinatore in un teatro, dove in maniera banale finisce per ucciderlo con il pugnale che l’uomo ha con se.
All’incidente ha assistito qualcuno, che fotografa la scena del crimine e subito dopo invia copia di una foto a casa di Roberto, il quale si accorge anche che il misterioso individuo si è introdotto in casa sua.
Dopo essere stato aggredito, Roberto decide di raccontare a sua moglie Nina degli avvenimenti a cui è andato incontro; il passo successivo è incontrare l’amico Diomede, che vice in una baracca lungo il fiume.

L’uomo gli consiglia di rivolgersi ad un investigatore privato, Arrosio ma nel frattempo accadono due fatti di sangue; la domestica di Roberto, che ha capito chi è il misterioso ricattatore, tenta a sua volta di usare l’arma del ricatto, ma viene assassinata in un parco pubblico.
Lo stesso accade a Carlo Marosi, l’uomo che in origine aveva pedinato Roberto;Marosi non era morto nel teatro,perchè aveva attirato in una trappola Roberto, usando per simulare il proprio omicidio un pugnale da spettacolo.
L’uomo tenta anche lui un ricatto, ma il misterioso persecutore di Roberto lo uccide.
Roberto rifiuta di allontanarsi dalla città con Nina e resta a casa sua con Dalia, sua cugina; tra i due nasce improvvisa la passione.

Arrosio, l’investigatore, riesce dopo alcune indagini a capire l’identità del misterioso assassino, ma anche per lui la cosa sarà fatale; da quel momento gli eventi precipitano, con la prematura morta anche di Dalia.
Chi è il misterioso assassino, allora?
Quattro mosche di velluto grigio ha quindi una trama elaborata con un finale a sorpresa, in cui forse l’elemento destabilizzante non è tanto l’identità del misterioso assassino (si va per esclusione, ad un certo punto) quanto piuttosto l’espediente utilizzato che ne svelerà l’identità, un medaglione con incisa una mosca, l’ultima immagine che è rimasta impressa nella retina dell’occhio di Dalia, una mosca che muovendosi fa vedere l’immagine in movimento, quella di quattro mosche.

Naturalmente ometto l’identità del misterioso omicida, per evitare il fastidio dello spoiler che toglie suspense ad un finale di pellicola che è forse la parte più interessante del film.
Un film largamente disomogeneo, che però ha tuttavia il pregio di essere affascinante, a dispetto di alcune illogicità del film e dei tentativi di inserire sketch comici poco efficaci al film stesso;bene il cast ad eccezione dello spento e insignificante Michael Brandon, che interpreta il personaggio principale, quello di Roberto Tobias mentre assolutamente strepitosa è Mimsy Farmer nel ruolo di Nina.Nel cast c’è spazio per un inedito Bud Spencer, nel ruolo del filosofo Dio, irresistibile Jean-Pierre Marielle nel ruolo dell’investigatore Arrosio.

Detto della bella fotografia e delle discrete musiche di Morricone, va ricordato che solo da poco più di un anno è disponibile la versione digitale del film, rimasta per motivi assurdi priva di diffusione.
Oggi le copie che trovate in rete sono ridotte proprio da supporti digitali; il film è stato anche trasmesso dalle tv private.
Quattro mosche di velluto grigio
Un film di Dario Argento. Con Mimsy Farmer, Michael Brandon, Aldo Bufi Landi, Jean-Pierre Marielle, Oreste Lionello,Renzo Marignano, Stefano Oppedisano, Calisto Calisti, Corrado Olmi, Sandro Dori, Marisa Fabbri, Fabrizio Moroni, Jacques Stany, Fulvio Mingozzi, Francine Racette, Guerrino Crivello Giallo, durata 105′ min. – Italia 1971.
Michael Brandon: Roberto Tobias
Mimsy Farmer: Nina Tobias
Jean-Pierre Marielle: Gianni Arrosio
Bud Spencer: Diomede
Stefano Satta Flores: Andrea
Marisa Fabbri: Amelia, la domestica
Francine Racette: Dalia
Laura Troschel: Maria Pia (col nome di Costanza Spada)
Calisto Calisti: Carlo Marosi
Oreste Lionello: Il Professore
Fabrizio Moroni: Mirko
Aldo Bufi Landi: Medico
Tom Felleghy: Poliziotto
Guerrino Crivello: Rampanti, il vicino di casa zoppo
Corrado Olmi: Portinaio
Gildo Di Marco: Postino
Leopoldo Migliori: Musicista
Fulvio Mingozzi: Manager studio musicale
Dante Cleri: Commesso della bara
Pino Patti: Inserviente alla mostra funeraria
Ada Pometti: Donna sulla strada
Jacques Stany: Psichiatra
Stefano Oppedisano:
Renzo Marignano (non accreditato): addetto alle pompe funebri
Regia Dario Argento
Soggetto Dario Argento, Luigi Cozzi, Mario Foglietti
Sceneggiatura Dario Argento
Produttore Salvatore Argento
Casa di produzione Seda Spettacoli, Universal Productions France
Distribuzione (Italia) 01 Distribution
Fotografia Franco Di Giacomo
Montaggio Françoise Bonnot
Effetti speciali Cataldo Galliano
Musiche Ennio Morricone
Scenografia Enrico Sabbatini
Trucco Paolo Borselli, Giuliano Laurenti
Massimo Turci: Roberto Tobias
Melina Martello: Nina Tobias
Pino Locchi: Gianni Arrosio
Sergio Graziani: Diomede
Vittoria Febbi: Dalia
Serena Verdirosi: Maria Pia
Luciano De Ambrosis: Carlo Marosi
Roberto Chevalier: Mirko
Pino Colizzi: Psichiatra
Giorgio Piazza: poliziotto
Gianfranco Bellini: postino
Mario Mastria: manager musicale
Arturo Dominici: inserviente
Cesare Barbetti: becchino
La morte non ha sesso
Una serie di delitti sconvolge il mondo della malavita di Amburgo; sono tutti delitti riconducibili ad un losco personaggio,Shurmann, un trafficante di droga.
A indagare sulla catena di omicidi è l’ispettore Franz Bulov, che è assolutamente certo che dietro tutto ci sia proprio Shurmann.
Ma non ha prove o quantomeno gli manca la prova decisiva.
Gli informatori che potrebbero far luce sulla storia finiscono in qualche modo ammazzati e l’ispettore ha anche problemi personali.

La sua giovane e affascinante moglie, Lisa,ha probabilmente una relazione extraconiugale e Bulov, anche se non ha certezze, è convinto dell’infedeltà della moglie.
Improvvisamente però le cose sembrano andare per il verso giusto: un killer pagato da Shurmann subito dopo un omicidio perde un portafortuna, cosa che permette a Bulov di identificarlo.
L’ispettore corre ad arrestarlo ma durante il tragitto vede sua moglie alla guida di una fuoriserie.
Fuori di se dalla gelosia, Bulov chiede al killer di uccidere la moglie in cambio dell’impunità.

Ma Max (il killer) non rispetta i patti; stringe una relazione carnale con Lisa, cosa che Bulov scopre casualmente.
Da quel momento l’ispettore decide di dare una sterzata alle indagini, inserendosi direttamente nell’organizzazione…
La morte non ha sesso è un thriller/noir diretto da Massimo Dallamano nel 1968, con protagonista la splendida Luciana Paluzzi,reduce dal grande successo personale riscosso con il film Agente 007 Thunderball (Operazione tuono) girato accanto a Sean Connery.
Un film, diciamolo subito, dall’andamento molto lento, sicuramente più descrittivo che d’azione.
Molti dialoghi e tanta descrizione d’ambienti e di situazioni, quindi, che però alla lunga influiscono sul film che già di per se non ha una sceneggiatura di livello accettabile.

Un vero peccato, perchè Massimo Dallamano era un regista di ottime qualità, come del resto dimostrato da film come Il dio chiamato Dorian, La polizia chiede aiuto e Cosa avete fatto a Solange?
Va anche detto che il film non è certo brutto, perchè la mano del regista milanese si sente e si vede.
Il cast si muove discretamente, attorno alla figura centrale di Bulov, ispettore tormentato dalla dicotomia dedizione al lavoro-gelosia.

John Mills era un attore di razza, così come molto bravo è nel film Robert Hoffman; nel cast figura anche Jimmy il fenomeno, nel ruolo dell’informatore di polizia.
Un discorso a parte merita la bellissima e sensuale Luciana Paluzzi, all’epoca trentunenne, nel pieno della maturità artistica e fisica,l’attrice romana rende conturbante il personaggio di Lisa, una donna volubile e dal passato reso volutamente oscuro dalla sceneggiatura.
Un film comunque vedibile, che precorre le strade delle future fortune dei thriller all’italiana.
Il film è disponibile in un qualità eccellente su You tube ed è comunque facilmente reperibile in rete.

La morte non ha sesso
Un film di Massimo Dallamano. Con Luciana Paluzzi, John Mills, Carlo Hintermann, Renate Kasch, Enzo Fiermonte, Loris Bazzocchi, Tullio Altamura Giallo, durata 91 min. – Italia 1968
John Mills: Ispettore Franz Bulon
Luciana Paluzzi: Lisa
Robert Hoffmann: Max Lindt
Renate Kasché: Marianne
Tullio Altamura: Ostermeyer
Carlo Hinterman: Mansfeld (con il nome Carlo Hintermann)
Enzo Fiermonte: Siegert
Loris Bazzocchi: Kruger
Jimmy il Fenomeno:
Paola Natale:
Mirella Pamphili:
Vanna Polverosi: Ursula
Rodolfo Licari: Olaf
Bernardino Solitari: Muller
Carlo Spadoni: Eric
Giuseppe Terranova: Rabbit
Robert Van Daalen: Dr. Gross
Regia Massimo Dallamano
Soggetto Giuseppe Belli
Sceneggiatura Giuseppe Belli, Massimo Dallamano, Vittoriano Petrilli
Produttore Giancarlo Marchetti
Casa di produzione Filmes Cinematografica, PAN Film, Top-Film
Fotografia Angelo Lotti
Montaggio Daniele Alabiso
Effetti speciali Enrico Catalucci
Musiche Giovanni Fusco, Gianfranco Reverberi
Scenografia Giorgio Aragno
Costumi Bonizza Aragno
Trucco Raul Ranieri
Morte sul Tamigi
Danny Fergusson, una bella ragazza australiana, decide di andare a Londra per trovare sua sorella Mirna che da tempo vive nella capitale londinese. Una terribile notizia la attende: sua sorella è stata assassinata.
Ma Danny ben presto si rende conto che sua sorella non è morta ma è scomparsa per qualche oscuro motivo.
Decide quindi di ritrovare sua sorella e si stabilisce nella capitale inglese, in un albergo gestito da Gordon Stont.
La scelta non è delle migliori, perchè l’uomo è in combutta con Tony Whyman ( un antiquario) e con William Baxer (un industriale) nella gestione di un traffico internazionale di droga.

I tre conoscevano Mirna, che aveva lavorato con loro prima di tradirli, così si mettono alle calcagna di Danny sperando che in qualche modo la scomparsa si faccia viva con sua sorella.
Intanto però un misterioso killer elimina uno dopo l’altro sia Stont che Whyman, oltre che un tipo che era implicato nel finto assassinio di Mirna.
Danny riesce a trovare appoggio nell’ispettore di Scotland Yard Craig, che riuscirà a liberarla quando la ragazza viene rapita da Baxter, sempre più convinto che la scomparsa Mirna sia responsabile oltre che del tradimento anche della morte dei suoi complici.

Dopo la liberazione, Danny riceve la tanto sospirata telefonata da sua sorella, mentre nel frattempo anche Baxter finisce assassinato.
Chi è il misterioso assassino che ha eliminato tutte le persone implicate nel traffico di droga? perchè Mirna è scomparsa e ora riappare repentinamente?
Morte sul Tamigi è un modesto thriller di produzione tedesca tratto dal romanzo The Angel of Terror del fertilissimo Edgar Wallace, autore di gialli saccheggiato sopratutto tra gli anni 40 e gli inizi degli anni 70.
Il romanziere inglese, morto agli inizi degli anni 30, era famoso per la sua capacità di imbastire trame gialle abbastanza intricate e questo film, basato proprio su una delle sue tantissime opere mostra una trama intricata con il classico colpo di scena finale.

Purtroppo questa riduzione cinematografica, operata da Harald Philipp, risulta piatta e con poco mordente.
Il regista inglese, poco conosciuto da noi, dirige il film con quel poco che la produzione gli mette tra le mani, discorso che riguarda non solo le location e tutto l’armamentario classico dei film ma anche e sopratutto il cast.
Nel quale figurano attori e attrici con passati da comprimari, fatta eccezione per Uschi Glas (che interpreta Danny) e una giovane Ingrid Steeger oltre a Brigitte Skay.
Pressochè scomparso da anni da tutti i passaggi televisivi, è uno dei film più difficili da recuperare in visione domestica.

Morte sul Tamigi
Un film di Harald Philipp. Con Brigitte Skay,Günther Stoll, Uschi Glas, Werner Peters Titolo originale Die Tote aus der Themse. Poliziesco durata 91 min. – Germania 1971.

Uschi Glas … Danny Fergusson
Hansjörg Felmy … Ispettore Craig
Werner Peters … William Baxter
Harry Riebauer … Milton S. Farnborough
Vadim Glowna … David Armstrong
Siegfried Schürenberg … Sir John
Günther Stoll … Dottor Ellis
Petra Schürmann … Susan
Friedrich Schoenfelder … Anthony Wyman
Lyvia Bauer … Myrna Fergusson
Peter Neusser … Sergente Simpson
Ingrid Steeger … Kitty
Brigitte Skay … Maggy McConnor
Regia di Harald Philipp
Scritto da Horst Wendlandt & Harald Philipp
Dal romanzo The Angel of Terror di E.Wallace
Prodotto da Preben Philipsen e Horst Wendlandt
Musiche originali di Peter Thomas
Fotografia di Karl Löb
Montaggio di Alfred Srp
Scenografie di Johannes Ott



















































































































































































































































































































































