La dottoressa sotto il lenzuolo
Nel 1976 siamo nel pieno del boom della commedia sexy all’italiana; grazie al film La dottoressa del distretto militare di Nando Cicero, interpretato dalla maggior interprete del genere (quantitativamente e se vogliamo, qualitativamente) ovvero la Edwige nazionale, la stessa commedia sexy si sposta dalla scuola (La liceale) negli ospedali, che siano militari, di casa di cura o semplicemente ancora legate all’università.
E’ proprio l’università il teatro delle avventure di tre giovinastri propensi più alla goliardia e alle avventure sessuali che allo studio;Benito, Alvaro e Sandro passano il tempo in tutti i modi tranne che applicandosi agli studi.
Benito, studente fuoricorso,vive alle spalle di sua zia in una pensione nella quale è costretto a subire le avance della proprietaria,mentre Alvaro, figlio di una famiglia di noti baristi perde il suo tempo cercando in tutti i modi di portarsi a letto la fidanzata Leila.
Alvaro Vitali
L’ultimo dei tre, Sandro, sembra invece molto più interessato alle grazie della cameriera di sua madre che dagli studi.
Benito, Alvaro e Sandro si divertono alle spalle del dottor Paolo Cicchirini,assistente del professor Ciotti, fino al giorno in cui arriva nell’università la splendida fidanzata di Cicchirini,la dottoressa Laura Bonetti della quale si innamora sciaguratamente Sandro.
Non va meglio ad Alvaro, che scopre che la sua puritana fidanzata Leila altro non è che una escort che si è messa con lui mirando ai soldi dei suoi genitori;di qua inizierà una serie di equivoci e avventure che porteranno Benito fin sulla soglia dell’altare mentre Sandro riuscirà a conquistare la bella Laura…
Uno dei più brutti film del florido filone della commedia sexy, questo La dottoressa sotto il lenzuolo,diretto da Gianni Martucci sul finire del 1976; brutto e pochissimo divertente, fra l’altro, con gag sgangherate e poco incisive.
Il film si salva dal naufragio grazie alla simpatia degli attori protagonisti,
Orchidea De Santis
Karin Schubert
Elizabeth Turner
fra i quali l’abitueè Alvaro Vitali,Gigi Ballista ed Enzo Andronico mentre la parte più interessante è sicuramente rappresentata dal gineceo femminile, vero e proprio volano di traino di questi film.
Karin Schubert,Orchidea De Santis,Ely Galleani,Rita Forzano,Gabriella Lepori e Elizabeth Turner si mostrano in desabillee con buona lena e frequenza, il che rappresenta l’unica nota di qualche interesse del film.
Perchè,diciamolo chiaramente, a parte qualche titolo particolarmente riuscito se non altro dal punto di vista comico, molti di questi prodotti si giravano solo per raccattare qualche soldo mostrando più seni e natiche che recitazione e sceneggiatura.
Film povero di idee, di comicità, di tutto, se vogliamo.
Per averne un’idea, basta guardarselo su You tube, dove è presente in una buona versione all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=wG5Moo9_GZg
Ely Galleani
La dottoressa sotto il lenzuolo
Un film di Gianni Martucci. Con Orchidea De Santis, Gigi Ballista, Karin Schubert, Fiorella Masselli, Gastone Pescucci, Enzo Andronico, Rita Forzano, Gabriella Lepori, Alvaro Vitali, Ely Galleani, Angelo Pellegrino, Eligio Zamara Commedia, durata 92 min. – Italia 1976.
Karin Schubert: Dott.ssa Laura Bonetti
Alvaro Vitali: Alvaro
Gastone Pescucci: Prof. Paolo Cicchirini
Angelo Pellegrino: Benito Moroni
Eligio Zamara: Sandro Santarelli
Orchidea De Santis: Infermiera Italia
Gigi Ballista: Prof. Ciotti
Ely Galleani: Lella
Regia Gianni Martucci
Soggetto Marino Onorati
Sceneggiatura Giorgio Mariuzzo
Casa di produzione Flora Film – National Cinematografica
Distribuzione (Italia) Regionale – General Video
Fotografia Romano Scavolini
Montaggio Alberto Moriani
Musiche Alessandro Alessandroni
Scenografia Gianfrancesco Fantacci
Costumi Adriana Spadaro
L’opinione di B.Legnani dal sito http://www.davinotti.com
Non c’è storia (solo storielle che NON fanno ridere), non c’è protagonista, non c’è regìa. Unica risata: la Galleani, fidanzata di Alvaro, non gliela dà, ma si prostituisce in appartamento con una socia. Lui, ignaro, va lì per fare pace, scopre l’arcano e se ne va. Dopo un minuto suona il campanello, chiede la tariffa e si porta a letto lei e socia. Da sopportare perché ci sono la Schubert, Gastone Pescucci e (specialmente) perché vale sempre la pena di guardare il grande Gigi Ballista, che appare ogni tanto nei panni del primario-dittatore.
L’opinione di Ilgobbo dal sito http://www.davinotti.com
Ignobillima farsaccia, d’interesse solo per l’ambientazione pisana, e per la presenza sempre piacevole del grande Gigi Ballista (fantastico mentre si appresta a operare di cistifellea un vecchino con problemi di emorroidi). Per il resto idee sottozero, comicità idem, donne belle ma con scarso carisma. A proposito di Ballista (e della De Santis e Pescucci), il film che Vitali va a “vedere” al cinema con la Galleani è Il vizio di famiglia: altro livello…
L’opinione di Deepred89 dal sito http://www.davinotti.com
Fiacchissima commedia sexy, resa particolarmente pesante dall’assenza di un protagonista vero e proprio (la macchietta di Alvaro Vitali non basta) e (ma questo già si sapeva) di una trama che non si riduca a qualche barzelletta di infimo livello. Divertenti le scene con Gigi Ballista, ma il resto si segue controvoglia e la piattissima regia non aiuta. Un paio di nudi integrali (Galleani e Schubert) fecero guadagnare al film un divieto ai 18, ma l’erotismo nel complesso scarseggia. Piacevoli le musichette di Alessandroni.
L’opinione di Stefania dal sito http://www.davinotti.com
Più sghembo della Torre di Pisa, città ove è ambientato, il film casca giù a pochi minuti dall’inizio, quando capiamo che, anche a volerlo giudicare solo con gli indulgenti parametri della commedia sexy più casareccia (“si ride?”, “c’è pelo?”), è fallimentare comunque. Perché l’umorismo è proprio squallido, puerile, senza un briciolo di fantasia o di vera malizia, e il “pelo” è quello una Schubert già inspessita e una Galleani il cui unico sex appeal è l’essere… graziosa. Vitali frenatissimo, Ballista fa la voce grossa ma soccombe nello strame. Meglio cambiare corsia e reparto!
Sedicianni
Francesca è una sedicenne che, come le ragazze della sua età, smania dalla voglia di diventare grande.
E’ figlia di Giorgio, uno scrittore di una certa fama e di Mara; ma i due ormai sono profondamente distanti l’uno dall’altra e Mara si è rifatta una vita sentimentale accanto a Sergio.
Quando la donna va a vivere a casa di quest’ultimo, Francesca accoglie la novità malvolentieri.
Inoltre la ragazza si rivela gelosa delle attenzioni che Sergio rivolge alla madre e si mostra sempre più incline a bruciare le tappe, spinta sopratutto dall’esempio delle amiche che alla sua età hanno già un ragazzo e dei rapporti sessuali.
Inevitabilmente la ragazza sceglie, come prima esperienza, quella proibita con Sergio; con malizia e con lentezza stende la sua tela attorno all’uomo, che alla fine cede.
Per Mara sarà una scoperta dolorosissima…
Modestissima commedia a sfondo sexy travestita da dramma medio borghese e adolescenziale questo Sedicianni, film diretto da Tiziano Longo nel 1973.
Su un plot estremamente semplice che avrebbe permesse un’indagine ben più approfondita sulle tematiche adolescenziali, sui turbamenti dell’età e sulle problematiche relative alle prime esperienze di vita di un sedicenne, Longo costruisce una pellicola che sceglie la via più facile, ma anche meno approfondita per illustrare i pruriti di una ragazzina che soffia l’amante alla mamma un po per gelosia e un po per affermare la sua sessualità finalmente espressa.
Tutto il film è costruito attorno al personaggio di Francesca, che sembra essere rappresentato con il triste clichè, tante volte ripetuto, della ragazza senza scrupoli che afferma in ogni modo la sua sessualità, questa volta a scapito della madre, che a sua volta resta un personaggio inespresso così come inespressi restano i personaggi di contorno della pellicola.
Ad essere rappresentata è sopratutto la voglia, quasi animalesca della ragazza che, irretita dai discorsi di un’amica, ormai non sogna altro che di diventare adulta anzi tempo.
Ma lo fa non emancipandosi dal punto di vista intellettuale, bensi meramente fisico:è la sessualità il mezzo con cui Francesca cerca un inserimento nel mondo dei grandi, mostrando però un chiaro e forte contrasto con i mezzucci ai quali ricorre per sedurre l’amante di sua madre, meschino obiettivo di una lotta tutta in famiglia per accalappiarsi le grazie del maschio dominane.
La pellicola scorre quindi fra le pieghe più epidermiche della storia, mostrando appena possibile sia la relazione sessuale tra Mara e Sergio sia quella successiva fra Francesca e Sergio stesso, con buona pace sia della profondità della storia e a tutto scapito di un’indagine sul mondo in cui vivono i personaggi.
Appare chiaro così da subito che a Longo interessa l’aspetto morboso della storia e lo si capisce benissimo quando francesca mette in mostra tutte le armi di seduzione di cui dispone per raggiungere il suo scopo, ovvero sottrarre alla madre le grazie dell’amante.
Per buona parte della pellicola così assistiamo ai tentativi della ragazza di coinvolgere Sergio nei suoi piani, con tanto di esposizione di mutandine e coscette, seni adolescenziali e allusioni sia a parole che puramente fisiche.
Alla fine, quando il micro dramma familiare è consumato, si assiste alla scena madre, quella in cui Mara becca la figlia a letto con l’amante.
In alcune pellicole scoppia la tragedia, con tanto di vendetta ma in questo Sedicianni si va verso lo scioglimento del dramma in maniera canonica, ovvero con Mara che piange nello scoprire di avere una rivale sotto lo stesso tetto, una rivale con la quale non può competere.
Il dramma è compiuto, il film finisce e allo spettatore resta solo un pugno di mosche, ovvero l’aver visto una pellicola insulsa e anche poco soddisfacente dal punto di vista erotico. L’unica fortuna di Longo è l’aver utilizzato per il film due ottime protagoniste femminili, ovvero Ely Galleani (che interpreta Francesca) e Eva Czemerys (che interpreta Mara), che in qualche modo sopperiscono alla banalità del soggetto grazie alla credibilità delle loro interpretazioni.
La Galleani ha evidentemente il phisique du role, visto il suo corpo efebico, il suo sguardo e il suo volto da adolescente mentre la Czemerys è una sicurezza, capace com’è l’attrice di dare dignità a qualsiasi ruolo venga chiamata.Poco più che decente la prestazione di Giorgio Ardisson che interpreta il papa di Francesca mentre in grosso, grossissimo imbarazzo è Anthony Steffen, sopratutto nelle scene d’amore con Eva Czemerys.
Tiziano Longo è al suo primo, vero lungometraggio e mostra evidenti limiti che saranno parzialmente corretti con i sei film che dirigerà successivamente, tra i quali i perlomeno discreti Lo stallone e La profanazione e il buon risultato ottenuto con Mala amore e morte.
Il resto del film mostra evidenti limiti di budget, che costringono il regista a sacrificare location e tutto il resto, con dilungamenti inopportuni dei dialoghi e eccessivo protrarsi di alcune scene.
Film senza grosse ambizioni e quindi film dal risultato povero e decisamente sciatto.
Il film è praticamente scomparso dalla circolazione e non è editato in digitale.
Ne esiste tuttavia una copia di pessima qualità, ricavata da una VHS polverosa e piena di graffi a questo indirizzo: http://wipfiles.net/saiae0375c1i.html
Sedicianni
Un film di Tiziano Longo. Con Anthony Steffen, Eva Czemerys, Ely Galleani, Giorgio Ardisson, Carla Mancini Drammatico, durata 93 min. – Italia 1974.
George Ardisson … Giorgio
Eva Czemerys … Mara
Anthony Steffen … Sergio
Ely Galleani … Francesca
Danika La Loggia … Sandra
Carla Giarè … Patrizia
Regia:Tiziano Longo
Sceneggiatura:Piero Amati,Tiziano Longo,Bruno Torregiani
Produzione:Lucio Giuliani
Musiche:Stefano Liberati ,Elio Maestosi
Fotografia:Roberto Girometti
Montaggio:Mario Gargiulo
Allestimento set:L. Galli
Costumi:Gisella Longo
L’opinione del sito http://www.filmtv.it
Francesca, sedici anni, ha preso male il divorzio dei genitori e soprattutto il nuovo compagno della madre, Sergio. Nella nuova situazione poi Francesca ha una gran voglia di fare la sua prima esperienza sessuale. Il partner più disponibile per l’operazione sarà proprio Sergio. Pessimo. Solita commedia sexy travestita da dramma psicologico. Gli attori sono inetti.
L’opinione di B.Legnani dal sito http://www.davinotti. com
Mediocre polpettina erotico-sentimentale, con una quasi diciassettenne tutto pepe, gelosa del nuovo compagno della madre. Finirà come ovvio. Filmetto senza pretese, con dialoghi mediocri, con pochi mezzi, con location raccogliticce e con tante soluzioni di comodo. Recitazioni così così. Il migliore è Steffen. Non male la Czemerys, impegnata in un ruolo prevalentemente drammatico.
L’opinione di Undying dal sito http://www.davinotti. com
Francesca (una incantevole Ely Galleani) è un’adolescente maliziosa e perversa, che non esita a fare torto alla piacente madre (Eva Czemerys), seducendo nientemeno che il suo amante (Anthony Steffen). Riuscirà nel suo intento, ma a caro prezzo. La famiglia (poco) cristiana dell’epoca è qua rappresentata anticipando noti cliché, purtroppo mal orchestrati da una regia distratta, una sceneggiatura poco curata (soprattutto nei dialoghi) e scenografie molto modeste. Certo: il cast fa il suo effetto, ben reso dall’avere piazzato accanto l’allora ventenne Galleani alla più matura Czemerys…
L’opinione di Homesick dal sito http://www.davinotti. com
Nel mare magnum del lolitismo italiano si perde questo dozzinale e sbrigativo prodotto, povero nei mezzi e incapace di slanci drammatici. L’obiettivo ronza attorno alla Galleani, sbirciandola sotto la gonna e inquadrandone i pallidi seni o le terga velate da mutandine sempre sul punto di scivolare giù e la Czemerys viene definita ad un certo punto una “gatta in calore”, alludendo ad un suo film di due anni prima. Steffen non si stacca dall’espressione rigida e intontita dei suoi western; in sordina Ardisson.
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In nome del popolo italiano
Un film autenticamente profetico, amarissimo e spietato, un ritratto di un paese, l’Italia, che in oltre 40 anni (il film è del 1971) non ha praticamente mai mutato pelle, trasmettendo come un gene malato i difetti che Dino Risi analizza e descrive con grande maestria.
Un ritratto a tinte fosche, buie, di due personaggi in antitesi per ruoli occupati, per personalità, per modo di vivere, per status quo; un magistrato e un bieco affarista, un palazzinaro arrogante e corruttore, puttaniere e vanaglorioso.
Due mondi che ci riconducono ai giorni odierni, con l’irrisolto problema del conflitto fra la magistratura e il potere economico, che è anche potere politico.
Lui, Mariano Bonifazi, giudice istruttore, è un uomo grigio ma incorruttibile, fortemente politicizzato e sopratutto nauseato da quello che vede intorno a se, ovvero la disonestà nella vita pubblica e nella politica, il malaffare nei rami più importanti del lavoro come l’edilizia, che vedono il massimo epigone in Renzo Santenocito, espressione compiuta di un sottobosco di imprenditori capaci di mettere le mani su tutto, creando disastri a livello ambientale, corrompendo funzionari della pubblica amministrazione e politici, uno che con la sua attività di palazzinaro deturpa in maniera orribile il paesaggio, creando ecomostri costruiti peraltro con materiali scadenti.
Risi racconta le due storie contrapposte di Bonifazi e Santenocito non parteggiando per nessuno dei due: i due personaggi infatti risultano da subito antipatici e supponenti.
Se il magistrato gira in bici e con l’Unità nella tasca della giacca, mangia in trattoria e vive modestamente a lui viene contrapposta la figura meschina e ipocrita dell’imprenditore che gira in Maserati, partecipa a feste in costume ed ha tutta l’arroganza e la supponenza della classe sociale di appartenenza; ma entrambi non ispirano simpatia, estremi come sono di una società che da troppo potere ad entrambi.
Una situazione che, come sappiamo, è ancora oggi drammaticamente presente nella nostra società.
Il film inizia con il confronto a distanza tra i due; Bonifazi è impegnato a indagare sul perchè Silvana Lazzorini, una ragazza squillo d’alto bordo sia morta in modo sospetto; il magistrato scopre da subito che Santenocito potrebbe essere implicato nella morte della ragazza e decide di convocarlo in questura.
Ely Galleani
Simonetta Stefanelli
L’imprenditore viene così portato di peso, reduce da una festa e con addosso ancora il costume da legionario romano davanti al magistrato, al quale fornisce un alibi all’apparenza inattaccabile.
La sera della morte della ragazza era impegnato in una partita a carte con l’anziano padre.
Non è vero, ma Santenocito dà per scontato che suo padre avallerà l’alibi.
Da questo momento le indagini di Bonifazi subiscono una brusca accelerazione.
Scopre infatti che la ragazza presenta delle ecchimosi sul corpo, che ha nel sangue tracce di Ruhenol,un farmaco ipnotico e che quindi potrebbe essere stata uccisa.
Una serie di coincidenze porterà quindi Santenocito in galera; nonostante l’uomo protesti la sua innocenza, Bonifazi, convinto al contrario della sua colpevolezza scoprirà grazie ad un diario appartenuto a Silvana che la ragazza è morta suicida per amore.
Vittorio Gassman
Nella parte finale del film troviamo il magistrato impegnato a leggere il diario mentre per le strade impazza la folla in festa per la vittoria della nazionale italiana su quella inglese; una vittoria festeggiata con atti di puro vandalismo, da una folla che appare, agli occhi del magistrato, non meno spregevole dell’imprenditore.
In un finale cinico, vediamo Bonifazi, che ha le prove dell’innocenza di Santenocito, bruciare il diario di Silvana su un auto preda delle fiamme, un auto davanti alla quale c’è ancora la proprietaria del veicolo, intenta a inveire contro i teppisti autori dell’atto.
Il magistrato decide di fare giustizia da se, assumendosi arbitrariamente il ruolo di carnefice;così Santenocito paga per l’unica colpa non commessa, paga le sue malefatte nel campo dell’imprenditoria, paga il suo essere un corruttore, un uomo senza morale e un fascista.
Quella del fascista è l’immagine più forte costruita da Risi nel finale; Bonifazi attribuisce a lui il corpo e il viso di un paracadutista che con i suoi commilitoni sfila cantando un inno fascista, così come raffigura Santenocito in altre maschere tragiche che popolano le strade della città con la gente in festa per la vittoria della nazionale.
Così Bonifazi è costretto a guardare il peggio dei vizi italici, di quella gente pronta a sfilare per una partita di calcio ma non per cose ben più importanti; e la raffigurazione visiva di Santenocito, caricaturale e oscena, finisce per essere l’emblema di un popolo in cui le virtù sono oscurate dalle troppe debolezze.
In nome del popolo italiano è un film politico e sociale, un film in cui la denuncia dello strapotere della magistratura si mescola alla denuncia dell’affarismo senza scrupoli.
Ma tutti escono con le ossa rotte dal film e non sembra esserci nemmeno un barlume di speranza per il futuro dello sciagurato popolo che abita lo stivale; il futuro dimostrerà che purtroppo Risi ci aveva visto giusto.
Ugo Tognazzi
Grazie alla presenza di due grandissimi attori come Ugo Tognazzi (Bonifazi) e Vittorio Gassman (Santenocito), Dino Risi costruisce un film di grandissimo livello, degno prosecutore della tradizione della commedia all’italiana, quella però vestita di impegno sociale e politico, quella per intenderci creata da grandissimi registi come Petri, Rosi, Damiani ecc..
I due grandi protagonisti si esibiscono in una gara di bravura senza vincitori, perchè tale è il livello della loro recitazione da rendere persino ingiusto un tentativo di attribuire la palma del migliore a due attori che hann fatto la storia del cinema italiano.
Il resto del cast non sfigura di certo, grazie alle presenze professionali di Ely Galleani, che sta in scena per poco ma con grande bravura, di Yvonne Furneaux (la moglie di Santenocito), di Simonetta Stefanelli (la figlia), di Enrico Ragusa, grande nel ruolo del padre dell’imprenditore.
In nome del popolo italiano è un film che passa regolarmente in tv per cui è di facilissima reperibilità sia in riduzioni tv rip che in vari formati digitali.
Un film da non perdere, uno dei capolavori del cinema italiano del passato.
In nome del popolo italiano
Un film di Dino Risi. Con Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Yvonne Furneaux, Renato Baldini, Ely Galleani,Michele Cimarosa, Checco Durante, Pietro Tordi, Pietro Ceccarelli, Franco Angrisano, Simonetta Stefanelli, Paolo Paoloni, Mario Maranzana Commedia, durata 103′ min. – Italia 1971.
Ugo Tognazzi: Giudice Mariano Bonifazi
Vittorio Gassman: Lorenzo Santenocito
Ely Galleani: Silvana Lazzorini
Yvonne Furneaux: Lavinia Santenocito
Pietro Tordi: Prof. Rivaroli
Simonetta Stefanelli: Giugi Santenocito
Franco Angrisano: Colombo
Renato Baldini: Ragioniere Cerioni
Pietro Nuti: Avvocato di Santenocito
Checco Durante: Pironti, l’archivista
Maria Teresa Albani: Signora Lazzorini
Gianfilippo Carcano: Signor Lazzorini
Edda Ferronao: Cameriera di Santenocito
Franca Scagnetti: La portinaia
Michele Cimarosa: Maresciallo Casciatelli
Enrico Ragusa: Riziero Santenocito, il padre
Pietro Ceccarelli: Inserviente al Palazzo di Giustizia
Franco Magno: Industriale
Marcello Di Falco: Segretario di Santenocito
Paolo Paoloni: Primario della clinica psichiatrica
Giò Stajano: Floriano Roncherini
Franca Ridolfi: Doris, l’attrice
Francesco D’Adda: Lipparini, cancelliere
Vanni Castellani: Sirio
Claudio Trionfi: Giornalista TV
Regia Dino Risi
Soggetto Age & Scarpelli
Sceneggiatura Age & Scarpelli
Produttore Edmondo Amati
Casa di produzione International Apollo Films
Distribuzione (Italia) Fida Cinematografica
Fotografia Sandro D’Eva
Montaggio Alberto Gallitti
Musiche Carlo Rustichelli, eseguite da Il Punto
Scenografia Luigi Scaccianoce
Costumi Enrico Sabbatini
Corrado Gaipa: Enrico Ragusa
Donatella Gambini: Simonetta Stefanelli
Ludovica Modugno: Ely Galleani
Stefano Satta Flores: Pietro Nuti
Mario Frera: Michele Cimarosa
L’opinione dell’utente zombi tratta da http://www.filmtv.it
Ebbene si un gran bel film. e una gran bella conferma a distanza di tanto tempo dall’ultima volta che lo vidi. tutto ciò che si possa desiderare da un film e pure troppo. risi con la complicità degli sceneggiatori e dei suoi attori(dai protagonisti ai caratteristi)dipinge finemente un racconto morale su un paese che di morale non ne ha mai avuta. il magistrato tognazzi integerrimo, si rende colpevole di distruzioni di prove che scagionano l’industriale e intrallazzatore polivalente gassman solo per poterlo sbattere in galera. con la falsa illusione naturalmente di distruggerlo pubblicamente. vana perchè la storia ci insegna che in italia coloro che si macchiano di colpe ai danni dello stato italiano, spesso siedono su un bel seggiolone in parlamento a legiferare in nome di un popolo che non si merita un cazzo, a detto del costruttore cementificatore e inquinatore gassman. ed è forse anche alla luce di ciò che tognazzi compie quel passo di illegalità. nessuno si salva in quel paese dove la gente è unita solo ed in occasione di una partita di calcio. il calcio il cuore puro del tipico italico abitatore dello stivale… con una naturalezza e semplicità che è dei grandi (risi, age e scarpelli, tognazzi e gassman mica tizio caio e sempronio tanto per dire)ci introducono in una rappresentazione grottesca dell’italia di quegli anni(?!)in cui grande industria, politica e malaffare andavano a braccetto in un balletto mostruoso dove gli affari si gestivano meglio intorno ad un tavolo e possibilmente con il corredo di fantomatiche attrici, modelle e pourquoi pas!!, di giovani figlie di… che accondiscendevano per un dopo cena in camera da letto. un giro di giovani che si “esplicavano” per mantenere un madre pensionata e un padre poeta senza lavoro e poca arte, da far impallidire anche il più scafato dei magistrati. i mostri di risi, age e scarpelli sarebbe bello facessero parte della galleria dei nostri capolavori cinematografici e sembra strano che nessuno all’epoca gridasse indignato che “i panni sporchi non si lavano in pubblica piazza”, anche se forse era meglio divertire gli italiani con puttane per politici e prelati, per distoglierli da ben altre gattacce da pelare. immenso lavoro di squadra dei due “mostri” tognazzi-gassman, tanto in sottrazione il primo quanto istrionesco il secondo. i dubbi finali di tognazzi erano anche i miei ma è valso la pena buttare al vento la propria rettitudine per una sacrosanta merda che dopo qualche anno finiva magari al parlamento?… onore e merito naturalmente all’arte dei caratteristi e quindi renato baldini compagno dell’ex moglie del magistrato in cerca di soldi, il maresciallo di michele cimarosa, pietro tordi professore che fa le autopsie e pietro ceccarelli inserviente di palazzo di giustizia dispensatore di aforismi.
L’opinione dell’utente Legnani tratta dal sito http://www.davinotti.com
Enormi Gassman (indimenticabile quand’appare in costume: ostenta potere e sicurezza come solo lui, al tempo, riusciva a fare) e Tognazzi, così mostruosamente bravi che alla prima vista non fanno vedere le altre facce. Rivedere il film, invece, permette di notare che il contorno è degnissimo. Al tempo il finale mi lasciò perplesso, invece si ricollega perfettamente alle frasi iniziali di Tordi, ha un piacevole sapore felliniano ed è perfetta conclusione in pieno stile cinico-risiano. Attuale, ahimè. Lo stabilimento marino “Rustichelli” è strizzata d’occhio all’autore della colonna sonora.
L’opinione del sito http://www.ilfuturodellamemoria.it
L’integerrimo magistrato Bonifazi (Ugo Tognazzi) sospetta lo speculatore edilizio Santenocito (Vittorio Gassman) di essere colpevole della morte di una studentessa. Fra i due si scatena un duello serrato, e quando Bonifazi avrà la prova dell’innocenza del suo “nemico”, la distruggerà: Santenocito, che l’aveva sempre fatta franca per le sue malefatte, per una volta pagherà con gli interessi. Sceneggiato con acre moralismo da Age & Scarpelli e diretto da Risi con graffiante immediatezza, In nome del popolo italiano è una delle più pungenti commedie italiane degli anni ’70, un film sanamente “cattivo”, con divagazioni nel grottesco e un notevole coraggio politico. Formidabile il duetto dei due mattatori Tognazzi e Gassman.
L’opinione del Morandini
Giudice integerrimo e moralista sospetta industriale fascistoide brillante e senza scrupoli della morte di una tossicomane. Un diario gli rivela l’innocenza dell’incriminato. Distrugge la prova. Sceneggiato con acre moralismo da Age & Scarpelli e diretto da Risi con graffiante immediatezza, è una delle più pungenti commedie italiane dei ’70. Formidabile duetto di due mattatori: Tognazzi in sordina, Gassman grottesco.
E la notte si tinse di sangue
Belfast, metà degli anni settanta. Nel porto cittadino attracca una nave dalla quale sbarca un cittadino americano. E’ Cain Adamson, un reduce dalla guerra del Vietnam, senza soldi e alla ricerca di un rifugio sicuro. Cain è un uomo ferito nel fisico ma sopratutto con grossi problemi di equilibrio mentale; le esperienze passate nell’inferno di Hanoi hanno lasciato evidenti strascichi di natura psicologica e tare ormai irrecuperabili.
Che sia ormai fuori di testa lo si intuisce subito; abbordata una prostituta di mezz’età, si fa da questa accompagnare nel suo appartamento e la costringe sotto la minaccia di un lungo coltello a ballare nuda mentre lui suona l’armonica.
La prostituta che verrà picchiata
Del resto l’accoglienza di Belfast non è stata delle migliori, è in corso la lunga guerra fratricida tra cattolici e protestanti e lui ne fa le spese quando si reca in una chiesa e si ritrova nel bel mezzo di un attentato esplosivo dal quale esce indenne.
Per qualche giorno Cain sopravvive tra dormitori e stazioni, ma ben presto i pochi soldi che possiede finiscono. A quel punto per il reduce la strada sembra segnata; quello che per lui sembra un colpo di fortuna è rappresentato da un convitto di infermiere che l’uomo segue nella speranza di riuscire a rimediare con una rapina un pò di soldi. Così una notte si introduce nella pensione in cui le otto infermiere alloggiano; le ragazze sono là per concludere i loro studi e nel momento in cui Cain si introduce nella pensione sono intente a discorrere fra loro e a prepararsi per le feste.
Esplode la follia sadica di Cain
Con il suo inseparabile coltello, Cain sottopone le impaurite donne ad una serie di efferate violenze; dallo stupro alle sevizie vere e proprie, dai rapporti saffici a cui costringe due giovani infermiere fino al suicidio di una di esse che si ammazza con un coltello da cucina passando per una serie atroce di violenze, Cain semina la morte nel pensionato. Ma Cain non ha previsto una cosa……
E la notte si tinse di sangue (Born to hell o anche Naked massacre) diretto nel 1976 da Denis Héroux è un film nettamente spaccato in due; nella prima parte, che dura per almeno un’ora di film in cui assistiamo ad un timido tentativo da parte del regista di mostrarci l’inferno della guerra civile irlandese parallelamente alla vita miserabile di Cain, reduce dal Vietnam dal quale è tornato con la mente in pappa e carico di una violenza latente in attesa di esplodere.
L’irruzione nella pensione
Le due amiche si confidano
Cain all’inizio non sembra voler far del male a nessuno; ma le difficoltà di ambientamento, la mancanza di soldi, la violenza che si respira palpabile in città culminata con l’attentato alla chiesa nella quale si è momentaneamente rifugiato finiscono per far esplodere i suoi problemi psicologici.
Così, quando vediamo Cain penetrare di notte nella pensione immaginiamo già il passo successivo che introduce alla parte successiva del film, quella caratterizzata da un’assoluta mancanza di profondità della storia pareggiata da un’inaudita carica di violenza. Per le otto pensionanti, le giovani infermiere che fino a poco prima discorrevano di cose futili o di programmi sulle feste inizia un incubo senza fine; Heroux introduce l’elemento slasher e l’elemento erotico, bilanciando quindi la prima parte più attendista e descrittiva.
Essenzialmente questo è un film horror/slasher, quindi se vogliamo in perfetta linea con le intenzioni del regista e da questo punto di vista il film può dirsi riuscito pur con qualche riserva; quello che manca è l’amalgama, ovvero un bilanciamento migliore in cui l’odissea personale di Cain che finisce per diventare fonte di tragedia per le otto infermiere, prima della sorpresa finale che in qualche modo tiene a galla il film e fa propendere per un giudizio di sufficienza.
La prima vittima della follia di Cain
La bravissima Leonora Fani
Le perplessità riguardano principalmente la scelta di Mathieu Carrière come protagonista; se da un lato l’attore tedesco ha dalla sua una buona mimica che gli permette di interpretare il lato sociopatico di Cain al meglio, dall’altra è assolutamente poco credibile come reduce dal Vietnam.
Carriere, una lunga e prestigiosa carriera di comprimario in almeno un centinaio di produzioni cinematografiche e una ottantina televisive è incisivo come killer, molto meno come ex militare americano. Il problema è essenzialmente psicologico, per lo spettatore; il volto di Carriere mal si presta allo stereotipo del reduce. Per fare un esempio lato, Stallone (attore davvero da minimi sindacali) è molto più incisivo nel suo Rambo perchè è americano.
E’ tutto muscoli e ha il fisico del ruolo, l’espressione priva di intelligenza di colui che è passato nell’inferno e ne è uscito ed è sopratutto uno yankee a tutti gli effetti. Carriere no. Discorso diverso per il nutrito cast femminile, che vede la partecipazione delle nostrane Ely Galleani e Leonora Fani con in aggiunta le belle e brave Carole Laure e Christine Boisson; tra tutte la più convincente è la Fani, ancora una volta.
La minaccia a Jenny e Christine
Christine Boisson
L’attrice veneta sembra sperduta, un volto ingenuo e senza malizia in un fisico esile, sottile; il ruolo dell’infermiera Jenny le appartiene naturalmente e lei lo disegna splendidamente. Assolutamente memorabile la scena in cui Cain costringe lei e la sua amica/collega Christine (la Boisson) ad un rapporto saffico sotto la minaccia dell’immancabile coltello. Le due ragazze sorprese mentre colloquiano da un Cain che stringe tra le mani un carillon è una delle sequenze meglio riuscite del film, carica di tensione e di morbosità com’è.
Un’altra infermiera vittima del folle Cain
Ely Galleani
Mentre seguiamo queste scene, assistiamo anche alla perversione aggiuntiva di Cain che frusta con la cinghia la sventurata Jenny; subito dopo il folle Cain mostra alle due ragazze il corpo senza vita di una loro collega nascosto sotto il letto. Se vogliamo è la parte migliore del film, quella più autenticamente thriller e quella meglio riuscita dal punto di vista della tensione.
Cain costringe Jenny e Christine ad un rapporto saffico
Il corpo senza vita di Christine
Questo film ha avuto qualche problema sia con la censura che con la distribuzione; ancora oggi non esiste una sua versione digitale per il mercato italiano e quindi l’unica fonte visiva resta la VHS che la casa cinematografica Vidcrest diffuse nelle videoteche negli anni 80. Non mi risulta nessun passaggio televisivo del film stesso, e i motivi potrebbero essere da ricercare proprio nella difficoltà di reperimento del master originale.
Per questo motivo i fotogrammi che vedete inseriti nell’articolo appaiono di bassa qualità; per quanto riguarda la ricerca del film in altri formati appare difficilissima.
Se riuscite a recuperarne una copia vi consiglio di vederlo, se naturalmente siete appassionati del genere.
…E la notte si tinse di sangue
Un film di Denis Héroux. Con Ely Galleani, Mathieu Carrière, Christine Boisson, Carole Laure, Leonora Fani Titolo originale Born for Hell. Drammatico, durata 93 min. – Italia, Francia, Germania, Canada 1976.
Mathieu Carrière … Cain Adamson
Debra Berger … Bridget
Christine Boisson … Christine
Myriam Boyer … Leila
Leonora Fani … Jenny
Ely Galleani … Pam (come Ely de Galleani)
Carole Laure … Amy
Eva Mattes … Catherine
Andrée Pelletier … Eileen
Regia di Denis Héroux
Scritto da Fred Denger,Denis Héroux
Sceneggiatura di Géza von Radványi
Prodotto da Peter Fink e Georg M. Reuther
Musiche originali di Voggenreiter Verlag
Fotografia di Heinz Hölscher
Montaggio di Yves Langlois
Il sorriso del grande tentatore
Allo scrittore italiano Roberto Solina arriva una richiesta di aiuto abbastanza inusuale; si tratta dell’invito del prelato polacco Monsignor Badenski che gli chiede di scrivere una memoria difensiva che gli permetta di spiegare le sue attività e il suo pensiero alle autorità ecclesiastiche che lo stanno giudicando.
Monsignor Badenski è ospite di un istituto religioso retto con dura disciplina da Suor Geraldine, alle prese da un lato con altri ospiti dell’istituto (tutti da prendere con le molle), dall’altro con dure esigenze di bilancio e di obbedienza ai suoi superiori.
Solina conosce così i vari ospiti, tutti molto differenti tra loro ma accomunati dalla necessità da parte delle autorità religiose di tenere separati gli stessi dalla comunità civile.
Conosciamo così Marcos, anziano prelato confinato nell’istituto per aver sposato la causa dei patrioti cubani e di Fidel Castro, il leader comunista e ateo; il professor Villa considerato un eretico per le sue idee ortodosse, Ottavio Ranieri di Aragona nobile e principe messo da parte e nascosto alla vita sociale per essersi innamorato di sua sorella, Emilia Contreras (che amministra l’istituto stesso) accusata di aver fatto uccidere suo marito da un guerrigliero del suo paese del quale si era innamorata.
E ancora Monsignor Badenski stesso, accusato di aver collaborato con il partito nazista.
Gabriele Lavia è Ottavio, Adolfo Celi padre Morelli
Il gruppo si ritrova sotto la guida spirituale della rigida suor Geraldine, che li tratta come peccatori da ravvedere usando gli strumenti più rigidi della religione, come il digiuno e la mortificazione del corpo in aggiunta ad una sorta di terapia di gruppo nella quale è aiutata da un altro prelato, Monsignor Morelli.
L’universo dei rinchiusi, come potremmo definirli, visto che non sono arbitri delle proprie vite nonostante suor Geraldine si affanni a dichiarare la loro assoluta libertà allo scrittore Solina, vive quindi un’esistenza monotona scandita dalle regole dell’istituto stesso.
Ma gli ospiti convivono con i loro sensi di colpa, che sono presenti in essi in maniera più o meno evidente: la presenza di Solina altera l’equilibrio precario degli stessi, perchè l’uomo ha una coscienza critica sviluppatissima, da laico che guarda con fredda oggettività alla situazione del gruppo eterogeneo con cui è venuto a contatto.
Le contraddizioni delle varie personalità esplodono in maniera differente; il principe Ottavio, consumato dal senso del peccato che non gli appartiene, perchè lui sente amore vero per sua sorella, l’amore terreno e carnale, romantico e passionale ma condannato dalle leggi della morale alla fine sceglie di risolvere i suoi problemi con l’unica via di fuga che gli resta, il suicidio.
Poco alla volta i vari “pensionanti” scelgono di allontanarsi da quel luogo, quasi siano riusciti a prendere coscienza del loro stato.
Va via Marcos, l’uomo che credeva davvero nella rivoluzione dei barbudos e va via anche Badenski che in realtà non è colpevole ma che ha cercato in ogni modo di salvare delle vite.
Emilia si lega morbosamente a Solina, ma alla fine lo abbandona.
E quando Solina torna nell’istituto per chiedere spiegazioni alla donna, ha l’amara sorpresa di ritrovare tutti i vecchi ospiti ritornati all’ovile.
L’istituto è per loro ormai l’unica casa rimasta e fuori da esso si sentono persi.
La società civile sembra a loro aliena e senza le ali protettrici della chiesa, delle sue regole, di suor Geraldine non sanno ormai più vivere, quasi fossero degli uccelli in gabbia rinchiusi da tanto di quel tempo da non saper più volare all’esterno.
Il condizionamento morale e psicologico delle regole ecclesiali ha quindi vinto anche sul senso di libertà, sul libero arbitrio di ognuno di loro.
Così Roberto Solina capisce che i suoi tentativi di risvegliare un minimo di coscienza individuale in loro è perfettamente inutile e dopo aver rifiutato ovviamente di entrare a far parte del gruppo, lascia quel posto angoscioso e appena all’aperto si reca ad una fontana per dissetarsi lungamente, quasi a simboleggiare il bisogno di pulizia che si è impadronito di lui.
Glenda Jackson
Il sorriso del grande tentatore, opera di Damiano Damiani datata 1973 è un coraggioso anche se imperfetto tentativo di denunciare l’abbraccio mortale della chiesa e della sua morale verso chi tenta solamente di provare a vivere e ragionare con la propria testa.
Coraggioso perchè denuncia con forza, attraverso i dialoghi e le immagini dei poveri reclusi dell’istituto usando un linguaggio espressivo ben dosato e calibrato, imperfetto perchè realizzato attraverso l’introduzione di troppi personaggi che finiscono per appesantire il tutto e renderli meno concreti e più indistinti. Le varie psicologie sono per forza di cose affrontate con troppa superficialità, essendo i vari protagonisti portatori di storie dolorose e meritevoli di maggior approfondimento.
Ma se questo è un limite, non inficia di certo il risultato finale, che è robusto e interessante, di grande vigoria e ben calibrato.
Ely Galleani
Damiano Damiani, uno dei registi più coraggiosi e impegnati del cinema italiano, affronta dopo lo scottante tema della mafia (Il giorno della civetta, Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica), quello della giustizia imperfetta (L’istruttoria è chiusa: dimentichi), quello della giustizia fascista ipocrita e perbenista che condanna l’innocente Girolimoni solo perchè il regime non può mostrarsi fallace, affronta dicevo un tema scomodo come quello della libertà di coscienza di fronte alle leggi ferree della dottrina religiosa.
Lo fa attraverso un linguaggio non velleitario, che lascia il segno pur nei limiti sopra evidenziati.
Lo fa con un film robusto e ben congegnato nel quale si mette in mostra un sorprendente Claudio Cassinelli che riveste i panni dello scrittore Roberto Solina laico e illuminista contrapposto alla logica spietata, tutta di parte di suor Geraldine interpretata splendidamente da Glenda Jackson. E Damiani deve ringraziare anche gli attori co protagonisti del film, come l’ottimo Gabriele Lavia che tratteggia splendidamente la dolente e drammatica figura del principe Ottavio Ranieri d’Aragona che sceglierà coscientemente di porre termine alla sua vita consumato dai sensi di colpa per l’amore provato nei confronti della sorella Alessandra, la brava Sara Sperati.
Ancora, da citare le ottime prove di Arnoldo Foa (il dolente monsignor Badensky), di Adolfo Celi nei panni dell’aiutante di suor Geraldine padre Borelli, e infine la presenza garbata di Ely Galleani nel ruolo della fidanzata di Roberto.
Citazione e menzione per Lisa Harrow, la dolente Emilia Contreras, donna incapace di sfuggire al suo passato e che più di tutti sembra aver bisogno dell’abbraccio mortale di Santa Madre Chiesa.
Glenda Jackson è Suor Geraldine, Lisa Harrow è Emilia Contreras
Il sorriso del grande tentatore è un film presso che invisibile sui circuiti televisivi per cui se riuscite a trovarne copia sul web godrete della visione di una pellicola che sicuramente non vi deluderà.
In ultimo cito l’imbarazzante recensione dell’ineffabile Morandini : il giudizio che riporto la dice tutta sul modo in cui l’enciclopedia cinematografica ahimè più diffusa vede (in maniera parziale e preoccupante) molte opere degne di ben altro rilievo da parte dei suo recensori.
Recita il Morandini: “Scontro simbolico – con finale alla pari – tra la superiora di un convento e il diavolo nei panni di un giovane scrittore. Rapporti tra Chiesa e nazismo, psicanalisi di gruppo, incesto, affarismo ecclesiastico e chi più ne ha più ne metta. Film ambizioso pieno di motivi non sempre approfonditi. Curiosa incursione di D. Damiani nella tematica spiritualista: un tentativo di volo con molto piombo nelle ali.”
A voi la sentenza, come giusto sia.
Il sorriso del grande tentatore, un film di Damiano Damiani. Con Adolfo Celi, Glenda Jackson, Claudio Cassinelli, Lisa Harrow, Arnoldo Foà, Francisco Rabal, Rolf Tasna, Eduardo Ciannelli, Eleonora Morana, Fabrizio Jovine, Gabriele Lavia, Nazzareno Natale, Carla Mancini,Ely Galleani
Drammatico, durata 120 min. – Italia 1974.
Claudio Cassinelli: Roberto Solina
Glenda Jackson: suor Geraldine
Lisa Harrow: Emilia Contreras
Arnoldo Foà: monsignor Badensky
Adolfo Celi: padre Borelli
Gabriele Lavia: principe Ottavio Ranieri d’Aragona
Francisco Rabal: vescovo Marquez
Duilio Del Prete: monsignor Salvi
Ely Galleani: fidanzata di Roberto
Rolf Tasna: monsignor Meitner
Sara Sperati: Principessa Alessandra Ranieri d’Aragona
Margherita Horowitz: Madre del principe Ottavio
Regia Damiano Damiani
Soggetto Damiano Damiani
Sceneggiatura Damiano Damiani, Audrey Nohra, Fabrizio Onofri
Produttore Anis Nohra
Casa di produzione Euro International Film
Fotografia Mario Vulpiani
Montaggio Peter Taylor
Musiche Ennio Morricone
Le recensioni appartengono al sito http://www.davinotti.com
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
Notevole, con grandi presenze (Jackson, Harrow, Foà e Celi fanno sparire un Rabal di maniera), al punto che forse lo fanno sembrare ancor meglio di quello che è, con grande, originale colonna di Morricone. Regia sicura (ricca di pietà verso tutti) nel narrare il conflitto fra una non funzionante e moderna tolleranza ed una fideistica, ortogonale religiosità, che si rivela vincente (con tanto di “Inno alla gioia”) in un modo che lascia stupefatto Cassinelli, che qua e là sia atteggia a belloccio. Lisa Harrow, opima e lattea, è di raro fascino.
Lo scrittore Rodolfo Solina (Claudio Cassinelli) viene -quasi a forza- ingaggiato da Monsignor Badensky (Arnoldo Foà) per redigere un memoriale contro il comunismo a vantaggio della posizione cattolica pro-fascista. Ospitato in un istituto liturgico, l’uomo viene in contatto con personalità dissociate, sovente al limite tra solennità e peccato. L’espiazione, la sofferenza, la privazione: sono elementi radicati e imposti dalla severa rettrice del sacro luogo. Doloroso viaggio, tra chiaro-scuri (le scenografie con predilizione di grigio non sono casuali) lungo binari di umana povertà spirituale.
Conventuale e tortuoso, dominato da un incombente senso di peccato e di colpa e dalla ricerca di una falsa redezione all’interno delle mura ecclesiastiche. Scenografie claustrofobiche (solo nel finale c’è uno spiraglio d’aria fresca, conferito anche dal volto radioso della Galleani), eccellente score sincopato di Morricone e validissime prove di tutti gli attori: dalla severa Jackson al “Grande tentatore” Cassinelli, dall’ortodossia di Celi e Ribulsi alle eresie di Foà e Rabal, passando per il teatrale Lavia.
Insolito, curioso, magnetico, imperfetto ma interessantissimo film di Damiani, che mette sul tavolo tantissimo temi (forse troppi) e che, pur non essendo perfettamente riuscito, ha il pregio di catturare non poco l’attenzione dello spettatore, grazie ad un alone di mistero che si mantiene costante per tutta la pellicola, fino ad arrivare al ribaltamento finale che è degno di nota. “Ricco” il cast che fornisce una bella prova. Strepitosa la colonna sonora di Morricone. Immeritatamente sconosciuto, è una tappa intrigante di un bravo regista nostrano.
Molto interessante. Una storia sicuramente non banale che affronta, anche se non sempre in maniera adeguata, molti temi senza dubbio intriganti. Alcuni passaggi potrebbero lasciare insoddisfatti, ma il film è coraggioso e originale. Ottima la confezione, con una buona fotografia, un’ottima regia e una notevole colonna sonora di Morricone, che ancora una volta utilizza il coro in maniera geniale. Cast eccellente
Ambiguo ma (o forse proprio per questo) molto interessante, anzi direi perfino sconvolgente, assolutamente inusuale. La presenza di uno scrittore in un convitto religioso porta a galla e fa esplodere le contraddizioni e i tormenti dei vari personaggi, tutte persone dalla religiosità sofferta e con un passato pesantissimo. Anticlericale? Forse solo ad una lettura superficiale. Grande cast, ottima, al solito, la regia di Damiani. Da riscoprire e analizzare a fondo.
Nero veneziano
Mark, un ragazzo di quattordici anni, cieco e sua sorella Christine rimangono orfani dei genitori, e vanno a vivere con gli zii che gestiscono una pensione nell’isola della Giudecca a Venezia.
Mark è un ragazzo molto sensibile, dotato di particolari poteri; spesso ha delle visioni in cui anticipa il futuro, nelle quali vede chiaramente un uomo che lui è convinto essere il demonio.
All’interno della pensione infatti alcuni sinistri presagi di Mark si avverano; muore impiccato lo zio, poi è la volta della zia, poi ancora di un amico di Mark.
Il ragazzo ha una sola persona che in qualche modo crede in lui; è Giorgio, il fidanzato di sua sorella, l’unico che gli mostra amicizia e che sembra prestar fede ai racconti del ragazzo.
Sua sorella intanto inizia a diventare sempre più strana, ma si avvia comunque all’altare con il suo fidanzato.
La morte improvvisa di Giorgio lascia Mark completamente solo, mentre Christine, che ha ereditato la pensione inizia a circondarsi di strani personaggi, fra i quali spicca un pensionante fascinoso, Dan, che altri non è che l’uomo visto nelle visioni da Mark.
Ely Galleani, una delle adepte di Christine
Nella pensione arrivano anche alcune ragazze equivoche, che sembrano girare attorno a Christine con gran devozione; la ragazza intanto ha scoperto di essere incinta, pur non avendo avuto rapporti con nessuno se non in una sorta di dormiveglia, in cui appare al suo fianco il sinistro Dan.
Mark trova consolazione e credito presso padre Stefani, l’unico che sembra avvertire l’aria sinistra che gira attorno a Christine; ma anche il religioso morirà, subito dopo aver tentato di battezzare il figlio di Christine, Alex.
In un drammatico finale, Mark ha il sopravvento sul neonato, e mentre è nel cimitero dove è sepolto il cognato Giorgio, vede proprio l’amico scomparso che gli racconta e conferma la natura diabolica di Alex.
Le ultime immagini che Mark vede, dopo che ha riacquistato miracolosamente la vista bagnandosi gli occhi con l’acqua del pozzo che è nella pensione, è quella di Alex tra le braccia di Christine.
Il demonio non può morire……
Ultimo film diretto da Ugo Liberatore nel 1978, Nero veneziano è un anomalo horror con venature thriller, massacrato all’epoca della sua uscita sia dalla critica che da buona parte del pubblico.
In realtà il film non è affatto malvagio, pur essendo evidenti i tributi ai caposaldo del genere, con più di un occhio strizzato al celebre film di Roeg “A Venezia un dicembre rosso shocking”; il tributo è assolutamente chiaro, sopratutto nella scelta di ambientare il film a Venezia, nella particolare esposizione fotografica usata e nell’aria di sovra naturale che pervade la pellicola.
Un film troppo sottovalutato, che ha delle pecche solo in fase di sceneggiatura: il soggetto di Ottavio Alessi è spesso confuso, lasciando troppa libertà di immaginazione allo spettatore.
Va aggiunta anche la scellerata decisione di Liberatore di affidare il ruolo del demonio all’insulso Yorho Voyagis, che sembra un bamboccione in vacanza premio nella sua città preferita.
Il volto dell’attore rimane quasi sempre impenetrabile, con un sorrisino che vorrebbe sembrare enigmatico e invece assomiglia ad uno spocchioso sorriso di sufficienza.
Però il film ha una sua dignità, sopratutto grazie all’ambientazione, con una Venezia misteriosa e cupa, come raccontata nel titolo; il nero veneziano è rappresentato dalla vicenda, dai luoghi misteriosi come il cimitero della Giudecca, dalla pensione in cui si svolgono i fatti.
Un film a tratti blasfemo, come nella sequenza in cui le prostitute che circondano Christine inscenano una parodia dell’Ultima cena che è una delle cose da dimenticare del film.
Se Renato Cestiè se la cava egregiamente, anzi, bene nel ruolo di Mark, il giovane veggente cieco, molto algida e fredda appare Rena Niehaus nel ruolo dell’ambigua Christine, che sin dall’inizio appare visceralmente antipatica allo spettatore, mentre bravo è Fabio Gamma ad interpretare Giorgio, lo sfortunato fidanzato/marito della diabolica Christine.
Tra le co-protagoniste vanno citate tre attrici comprimarie come Ely Galleani, l’ex diva dei fotoromanzi Angela Covello e Lorraine De Selle, tutte interpreti di ruoli di prostitute, le stesse che diverranno la corte dei miracoli di Christine.
La migliore interpretazione di questi ruoli secondari è quella di Olga Karlatos, che interpreta Madeleine Winters.
Come già detto, la segnalazione più importante va alla fotografia e alla direzione artistica di Canevari, Ugo Liberatore dirige bene il film, che risulta alla fine il migliore dei sette girati fino al 1978, di gran lunga superiore ai mediocri Incontro d’amore e Noa Noa.
Angela Covello
Nero veneziano, un film di Ugo Liberatore. Con Renato Cestié, José Quaglio, Rena Niehaus, Yorgo Voyagis, Fabio Gamma, Olga Karlatos, Ely Galleani, Angela Covello,Lorraine De Selle
Horror, durata 93 min. – Italia 1978
Renato Cestiè … Mark
Rena Niehaus … Christine
Yorgo Voyagis … Dan
Fabio Gamma … Giorgio
José Quaglio … Padre Stefani
Ely Galleani … Christine
Angela Covello … Christine’s Friend
Lorraine De Selle … Christine’s Friend
Florence Barnes … Christine’s Friend
Olga Karlatos … Madeleine Winters / Vicky’s Mother / The Midwife on the ferry
Bettine Milne … Grandmother
Tom Felleghy … Martin Winters
Una lucertola con la pelle di donna
Il sogno si mescola alla realtà, creando un groviglio inestricabile in cui è praticamente impossibile capire cosa sia veramente accaduto in casa Durer, sopratutto che ruolo abbia avuto Carol Hammond nella vicenda, una donna elegante, bella e sensuale. Lo scenario è una Londra inusuale, così come sono inusuali i personaggi di questo film: atmosfera di sospetto, pazzia, perversione, sembrano avvolgere i personaggi, rendendoli più simili a casi psichiatrici che a persone normali, quelle persone con una vita normale, con una famiglia normale e con un lavoro che li attende la mattina.
Florinda Bolkan è Carol, Anita Strindberg è Julie
Ma Carol, Julia, Jean e gli altri non sembrano affatto normali: o forse lo sono, ma in una dimensione diversa da quella che noi conosciamo.
Carol Hammond, bella e affascinante, si reca da uno psichiatra, il dottor Kerr e gli racconta delle sue strani visioni; la notte è tormentata da sogni onirici, i cui vede la vicina di casa, la bellissima e disinibita Julie Durer, impegnata con lei in strani giochi erotici, che culminano con un rituale assassinio finale, in cui Carol, armata di coltello, uccide la donna.
Frammenti di sogno?
Per lo psichiatra la soluzione è nel complesso rapporto di invidia/gelosia che Carol prova verso la donna, e liquida il tutto come un normalissimo e banale gesto liberatorio, in cui Carol sfoga solo virtualmente con la violenza il suo istinto latente.
Ma le cose non sono affatto così semplici, e difatti qualche giorno dopo la bella Julie viene trovata uccisa proprio con le modalità indicate da Carol nel sogno. E’ lei l’assassina?
Per l’ispettore Corvin non ci sono dubbi: la presenza sullo scenario del delitto di una pelliccia e di un fermacarte che appartengono a Carol sono elementi sufficienti per indicare nella donna l’autrice del delitto. Ma durante le indagini, subito dopo l’incriminazione di Carol, ecco comparire vari personaggi che in qualche modo potrebbero essere coinvolti nell’omicidio e che potrebbero aver avuto un valido movente per compiere il delitto accusando Carol del crimine.
C’è suo marito, Frank, che ha una relazione adulterina, c’è Deborah, l’amante di Frank, c’è Joan la figlia di Frank quindi la figliastra di Carol, che ha uno strano legame con degli hippy che sembrano essere stati testimoni dell’omicidio, c’è il padre di Carol…..
Tutti, in qualche modo, sembrano avere delle motivazioni che potrebbero aver portato uno di loro a compiere l’omicidio.
Per quanto poco persuaso dal racconto di Carol, l’ispettore Corvin prosegue le sue indagini, non tralasciando alcuna pista.
Pazientemente, Corvin ricostruisce tutti i tasselli della vicenda, e alla fine conferma l’ipotesi iniziale: a uccidere Julie è stata proprio Carol, legata da un morboso e torbido rapporto alla donna.
La stessa Carol ha costruito abilmente il sogno, le varie combinazioni che si susseguono nel film, anticipando una difesa difficilmente smontabile, non fosse stato per l’arguzia dell’ispettore.
Il film di Fulci, girato nel 1971, mette tanta carne al fuoco, probabilmente troppa.Però va detto subito che l’impianto narrativo è di prim’ordine, anche se si fa fatica a capire il simbolismo di molte scene, in cui la realtà finisce per assomigliare al sogno, in cui verità e menzogna si mescolano in un groviglio in cui appare impossibile orientarsi.
Il fascino del film è sostanzialmente questo: sappiamo come avviene l’omicidio, vediamo Carol commetterlo, ma prendiamo per buono il racconto della donna allo psichiatra e iniziamo a sospettare di tutti.
Anita Strindberg
Invece, alla fine,la verità è banale, ed era sotto gli occhi di tutti.
Nessun intuito paranormale, nessuna visione premonitrice, ma la banalità assoluta di una mente deviata che organizza diabolicamente un omicidio che ha un solo punto debole, che alla fine farà crollare miseramente tutto il piano
Se il film ha dei punti deboli strutturali, Fulci, con il suo grande mestiere, riesce a mascherarli, unendo alcune situazioni presenti nei nuovi canoni del thriller all’italiana ( sesso morboso, scene splatter come quella dei cani) alla potenza delle immagini sia reali che sognate, rendendo in pratica impossibile il distinguere una strada vera e univoca della storia.
Scena memorabile quella del laboratorio con i cani squartati e legati, con il cuore in prima vista, scoperti da Carol; un trucco magnifico che costò a Fulci la denuncia per maltrattamenti su animali.
Pubblicità gratuita per l’inventore delle scene, il grande Rambaldi, che iniziò così a diventare famoso come creatore di particolari effetti speciali.
Il cast se la cava con diligenza; bene la Bolkan nel ruolo dell’imperscrutabile Carol, bene Anita Strindberg in quello di Julie.
Il quadro delle presenze femminili è completato da altre due splendide donne, l’altera Silvia Monti nel ruolo di Deborah e l’esile e acerba Ely Galleani in quello di Joan
Cast maschile di secondo piano, sia rispetto alla storia narrata sia all’effettivo valore della recitazione;asciutto e compassato Stanley Baker nel ruolo dell’ispettore Corvin, inapuuntabile Jean Sorel nel rulo di Frank.
Una lucertola con la pelle di donna. Un film di Lucio Fulci. Con Florinda Bolkan, Leo Genn, Jean Sorel, Stanley Baker, Franco Balducci.Georges Rigaud, Gaetano Imbrò, Ezio Marano, Silvia Monti, Anita Strindberg,Ely Galleani
Titolo inglese; Lizard in a woman’s skin Giallo, durata 91 min. – Italia 1971.
Florinda Bolkan … Carol Hammond
Stanley Baker … Ispettore Corvin
Jean Sorel … Frank Hammond
Silvia Monti … Deborah
Alberto de Mendoza … Sergente . Brandon
Penny Brown … Jenny (ragazza hippy)
Mike Kennedy … Hubert (ragazzo hippy)
Ely Galleani … Joan Hammond
George Rigaud … Dr. Kerr
Ezio Marano … Lowell (Uomo della scientifica)
Franco Balducci … McKenna
Luigi Antonio Guerra … Poliziotto
Erzsi Paál … Signora Gordon
Gaetano Imbró … Poliziotto
Leo Genn … Edmond Brighton
Regia: Lucio Fulci
Soggetto: Lucio Fulci, Roberto Gianviti
Sceneggiatura: Lucio Fulci, Roberto Gianviti, José Luis Martinez Molla, André Tranché
Produttore: Edmondo Amati
Produttore esecutivo: Renato Jaboni
Casa di produzione: Apollo Films, Atlantida Films, Les Films Corona
Fotografia: Luigi Kuveiller
Montaggio: Jorge Serralonga, Vincenzo Tomassi (supervisione)
Effetti speciali: Carlo Rambaldi, Eugenio Ascani
Musiche: Ennio Morricone
Scenografia: Román Calatayud, Nedo Azzini, Maurizio Chiari
Costumi: Maurizio Chiari
Trucco: Franco Di Girolamo, Gloria Fava
5 bambole per la luna d’agosto
Nell’isola privata dell’ingegner George Stark convergono alcuni uomini d’affari e un inventore che ha ideato una speciale resina resina sintetica, in grado di rivoluzionare l’industria. Il professor Fritz Farrell, il geniale inventore, è accompagnato da sua moglie Trudy, mentre sono presenti anche i probabili acquirenti della formula, Nick Chaney, accompagnato dalla moglie Marie e Jack Davidscon, anche lui in compagnia della moglie Peggy; sull’isola l’unica altra abitante è una ragazza enigmatica e sfuggente, Isabel. Nonostante le offerte degli industriali raggiungano cifre da capogiro,
Ira Furstenberg è Trudy
Fritz Farrell rifiuta ostinatamente di cedere il brevetto. In un aria di reciproca diffidenza, in cui ogni uomo d’affari guarda con sospetto il rivale, immaginando un’offerta più alta che convinca l’idealista inventore a cedere il brevetto, si arriva al primo colpo di scena: Trudy recatasi sulla spiaggia, rinviene il corpo di Stark,, ucciso. Da quel momento l’atmosfera della villa e tra gli ospiti si riempie di sospetti:
ognuno guarda l’altro con diffidenza, mentre diventa impossibile andar via dall’isola perchè scompare l’unica imbarcazione esistente. Muore anche Frick, ma il suo cadavere misteriosamente scompare. E’ l’inizio di una serie di omicidi, che coinvolgono Nick, Marie, Peggy, che via via che muoiono ammazzati vengono deposti dai sempre di meno superstiti nella cella frigorifera della villa. Alla fine restano in vita solo Trudy e Jack, che in realtà sono stati i veri organizzatori degli omicidi; ma i conti tra i due non tornano, perchè nessuno di loro è responsabile della morte di Frick.
Offuscati dalla bramosia di soldi ( gli industriali morti hanno lasciato 3 assegni da un milione di dollari ognuno, al portatore, con i quali volevano comprare la formula) Jack e Trudy si eliminano a vicenda. A quel punto compare dal nulla il vero ispiratore della vicenda, il presunto scomparso Frick, che aveva finto di essere stato ammazzato con la complicità di Isabel. In realtà Frick è semplicemente un impostore, che aveva fatto leva sulla bramosia degli uomini per vendere al miglior offerente la formula. Ma anche Frick non riuscirà godersi i frutti del piano, perchè verrà arrestato e condannato a morte; alla fine l’unica ad aver guadagnato sia i soldi che la formula è la diabolica Isabel.
Diretto da Mario Bava nel 1970, 5 bambole per la luna di agosto è un discreto thriller, ben studiato anche se lacunoso in alcuni passaggi; lento, ma abbastanza ben congegnato, si avvale di un cast di sicuro interesse, con la presenza di attori come Helmut Berger, Edwige Fenech, Ira Furstemberg,Howard Ross e Maurice Poli. Vera sorpresa del film è la giovane Ely Galleani, volto angelico e animo diabolico, l’unica che uscirà viva ( e ricca) dalla vicenda.
Non è certamente il miglior Bava, in primis perchè la trama ad un certo punto si avviluppa, poi per la lentezza studiata della regia. Ma non mancano i colpi di genio, come la sequenza delle morti e dei corpi conservati uno alla volta nel congelatore.
5 bambole per la luna d’agosto, un film di Mario Bava, con Teodoro Agrimi, Maurice Poli, Mauro Bosco, Edy Galleani, Renato Rossini, William Berger, Ira Furstenberg, Edwige Fenech, Edith Meloni, Hélène Ronée , Thriller Italia 1970
William Berger: professor Fritz Farrel
Ira von Furstenberg: Trudy Farrel
Edwige Fenech: Marie Chaney
Howard Ross: Jack Davidson
Helena Ronee: Peggy Davidson
Teodoro Corrà: George Stark
Ely Galleani: Isabel
Edith Meloni: Jill Stark
Mauro Bosco: Jacques
Maurice Poli: Nick Chaney
Regia Mario Bava
Soggetto Mario Di Nardo
Sceneggiatura Mario Di Nardo
Fotografia Antonio Rinaldi
Montaggio Mario Bava
Musiche Piero Umiliani
Scenografia Giulia Mafai
Costumi Giulia Mafai
Emanuelle nera Orient reportage
Il successo riscosso da Emanuelle nera di Adalberto Albertini, uscito nel 1975, convinse il nostro Aroìistide Massacesi, in arte Joe D’Amato, a puntare decisamente sul personaggio, ampliandone in qualche modo la psicologia e creando ad arte il personaggio di Emanuelle nera, interpretata da Laura Gemser, come eroina di una saga che vedrà numerosi sequel, ben 13, che usciranno in varie parti del mondo con titoli differenti, creando una confusione totale attorno alla serie, per l’abitudine dei vari distributori a cambiare il titolo del film.
Cosa che accadde anche alla seconda puntata di Emanuelle, anche se è sicuramente riduttivo parlare di seguito, in quanto il prodotto lanciato da D’Amato introduce numerose alternative a quello originale. Emanuelle nera Orient reportage, uscito in America come Emanuelle in Bangcock, in Germania come Emanuelle nera 2, che diverrà poi il titolo di un’altra produzione italiana, diretta nuovamente da Albertini,
Laura Gemser
riprende il personaggio di Emanuelle, giovane ed affascinante reporter nonchè disinibita e spregiudicata donna alla ricerca di emozioni forti, ne amplia il raggio d’azione e ne amplifica le doti di gran seduttrice, sensibile al fascino maschile ma anche a quello femminile, diventando, con il passare del tempo, un personaggio assolutamente spregiudicato, libero e senza vincoli.
Ely Galleani
Il film è ambientato inizialmente a Venezia, dove Emanuelle incontra un vecchio amico, Robert, che la invita ad un viaggio in oriente. L’uomo, un archeologo, arriva in Oriente con l’intenzione di dedicarsi ai suoi scavi, mentre Emanuelle rimane ospite del principe Sanit; mentre Emanuelle spera di realizzare un servizio fotografico sul re, il principe ne approfitta per tentare un’opera di seduzione della reporter, convincendola ad assistere a complessi rituali erotici, atti a insegnarle la padronanza perfetta dell’ orgasmo.
Le cose cambiano quando il principe, accusato di aver tramato contro la vita del re viene arrestato, mentre ad Emanuelle viene rubato tutto, dl passaporto ai soldi fino all’attrezzatura fotografica. La donna conosce così l’ambasciatore americano e sua figlia, con la quale intreccia una relazione saffica. recuperato quanto le serviva, Emanuelle riparte per l’Europa, piantando anche Robert, come aveva già fatto con principe, figlia del console, tuareg vari e amanti occasionali incontrati nel corso del suo viaggio, in fuga verso nuove avventure.
Joe D’Amato, il regista, vira notevolmente verso l’erotico più spinto la storia di Emanuelle, rendendola più libera e disinibita; il tutto si traduce, naturalmente, nel classico cinema di Massacesi, fatto di un erotismo spinto, ammiccante, con grande cura dei particolari e delle scenografie, oltre che delle bellezze sedotte dalla libertina reporter. In questo caso le due donne sono Ely Galleani che interpreta Frances e Debra Berger, che interpreta Deborah, figlia dell’ambasciatore in Thailandia.
Avventura, sesso, esotismo; questa la ricetta di D’Amato per il suo film, una ricetta che trasporterò nel lavoro successivo, quando utilizzerà ancora la Gemser e Tinti come attori principali, aggiungendo un tocco di sfrenato erotismo rappresentato da Paola Senatore,Marina Hedman e Lorraine De Selle.
Emanuelle nera Orient reportage, regia Joe d’Amato (Aristide Massaccesi)
Con Laure Gemser, Gabriele Tinti, Ely Galleani, Cris Avram, Ivan Rassimov, Venantino Venantini, Giacomo Rossi Stuart, Gaby Bourgois, Koike Mahoco, Fausto Di Bella, Attilio Duse, Debra Berger
Laura Gemser: Mae Jordan, detta Emanuelle
Gabriele Tinti: Robert
Ely Galleani: Frances
Ivan Rassimov: principe Sanit
Venantino Venantini: console
Giacomo Rossi Stuart: Jimmy
Koike Mahoco: Gee
Chris Avram: Thomas Quizet
Debra Berger: Debora
Regia Joe D’Amato
Soggetto Maria Pia Fusco, Piero Vivarelli, Ottavio Alessi
Sceneggiatura Maria Pia Fusco
Produttore Oscar Santaniello
Fotografia Aristide Massaccesi
Montaggio Vincenzo Tomassi
Musiche Nico Fidenco
Scenografia Franco Gaudenzi
Baba Yaga
Valentina, una affermata fotografa di moda, mentre sta camminando viene investita da un auto, alla guida della quale c’è una misteriosa donna, Baba Yaga, che la soccorre e la invita a casa sua. Valentina si reca nella casa della donna, una casa vecchia e piena di anticaglie. La misteriosa donna regala alla fotografa una bambola, Annette, che magicamente sembra in grado di prendere vita; la bambola si trasforma in una donna bella e sensuale, subito dopo aver lanciato dei dardi dalla macchina fotografica,con i quali uccide o colpisce gravemente le sue vittime.
La bella ex bambola coinvolgerà Valentina in uno strano rapporto sado maso, e sarà il fidanzato di Valentina a salvarla all’ultimo momento, mentre Baba Yaga, che in realtà era una strega, precipiterà in una voragine che si spalancherà sotto di lei, con Annette che si ritrasformerà in bambola frantumandosi in mille pezzi
Mi rendo conto che il riassunto della trama è alquanto confuso, ma francamente è il film stesso ad essere confuso, pasticciato e a tratti delirante.
Girato da Corrado Farina nel 1973, ispirato alla figura di Valentina, il personaggio creato da Guido Crepax, Baba Yaga non può essere definito nemmeno un’occasione perduta, in quanto, sin dall’inizio, appare di difficile comprensione, sospeso com’è tra magia, thriller e horror. Ma a ben guardare il film, proprio per il tentativo di coniugare i vari generi, legandoli ad un’aura di erotismo, peraltro molto ma molto soft, finisce per diventare una macchia confusa, in cui l’unica cosa che alla fine si riesce a salvare è la recitazione di due delle protagoniste, Carroll Baker nei panni della strega Baba Yaga e di Ely Galleani in quelli della bambola demoniaca.
Valentina è interpretata da una mediocre attrice, Isabelle De Funes, lontana anni luce dalla figura sexy e inquietante creata da Crepax. Il prodotto finale è un film in cui a salvarsi paradossalmente è solo la fotografia, cupa al punto giusto. Il resto è davvero poca cosa, forse in virtù dei rimaneggiamenti a cui venne sottoposta la pellicola, che infatti uscì in Italia in una versione di meno di novanta minuti.Assolutamente deprecabile, tra l’altro, il tentativo mal riuscito di accostare le tavole del fumetto al film, creando delle zone che mescolano il fantastico del mondo delle nuvole parlanti al reale, che però reale non è. Il tutto diventa un incubo onirico, come del resto testimoniato dal finale, in cui sembra che sia il sogno l’esatta dimensione dell’avventura di Valentina. Insomma, chi volesse vedere questo film lo faccia pure, aspettandosi però di ricavarne la sensazione di una cosa totalmente incompiuta.
Baba Yaga,un film di Corrado Farina. Con George Eastman, Carroll Baker, Isabelle De Funès, Ely Galleani, Daniela Balzaretti, Lorenzo Piani, Carla Mancini
Fantastico, durata 85 min. – Italia 1973.
Carroll Baker: Baba Yaga
George Eastman: Arno Treves
Isabelle De Funès: Valentina
Ely Galleani: Annette
Franco Battiato (non accreditato)
Michele Mirabella (non accreditato)
Regia Corrado Farina
Soggetto Guido Crepax
Sceneggiatura Corrado Farina
Fotografia Aiace Parolin
Montaggio Giulio Berruti
Musiche Piero Umiliani
Scenografia Giulia Mafai (assistente: Renato Moretti)
Costumi Giulia Mafai
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