Giochi erotici di una famiglia perbene
Titolo idiota per un film che di erotico non ha praticamente nulla e che andrebbe inquadrato nel filone dei gialli/thriller, non fosse per alcuni particolari, come una sceneggiatura da brividi (in senso negativo) e l’interpretazione da prima recita in un asilo infantile del protagonista Donald O’Brien che pure nel corso della sua carriera qualcosa di buono l’ha fatta.
Purtroppo quando si è costretti a recitare con un soggetto sceneggiato in maniera molto approssimativa e sopratutto quando si è diretti da un regista come Francesco Degli Espinosa che nel corso della sua carriera ha diretto (per fortuna) solo due film( l’altro dei quali è C’era una volta questo pazzo pazzo west) si corre questo rischio.
A completare il fosco quadro ci pensa Renato Polselli, autore sia della sceneggiatura sia in buona parte dell’allestimento della pellicola.
La trama, ridotta all’osso, anche perchè c’è ben poco da spiegare, racconta delle vicende del professor Rossi, stimato e irreprensibile difensore della moralità (tanto da essere anche un alto esponente della lega che vuole eliminare il divorzio dall’ordinamento sociale) che, rientrando in casa, scopre di essere becco.
La moglie ha infatti una relazione adulterina con quello che il miope professore crede essere un uomo, mentre in realtà è una donna, la bellissima Eva che è truccata con parrucca e baffi per ingannarlo.
Infatti Eva ed Elisa (la moglie di Rossi), sono in combutta; ma questo Rossi non lo sa ed avvelena la moglie per poi portarla in stato di semi incoscienza in riva ad un lago, dove la getta convinto di essersi liberato della moglie fedifraga.
In realtà Elisa non è affatto morta e ha simulato il tutto proprio con l’aiuto di Eva, che in seguito aggancia Rossi e ne diviene l’amante.
A complicare la situazione ci si mette anche la bella e un tantino sporcacciona nipote di Rossi, Barbara, che allaccia con l’uomo una relazione incestuosa.
Nel frattempo Elisa prende a tormentare Rossi fingendosi un fantasma, portando l’uomo quasi sulla soglia della pazzia.
Ma con il classico colpo di scena Riccardo Rossi scopre che la moglie è viva e che se la intende proprio con Eva e le uccide entrambe, questa volta con una pistola.
Ma l’uomo ha fatto i conti senza l’oste, la bella e perversa Barbara, che uccide lo zio e dopo aver caricato i corpi dei tre in un auto fa esplodere la stessa facendola precipitare giù per un dirupo.
Ma il castigo è in agguato…

Elisa e Eva le due complici/amanti
Come già detto Giochi erotici di una famiglia perbene già in partenza ha tutto per scoraggiare la visione del film stesso: una brutta sceneggiatura, improbabile e comunque scontata con in aggiunta la presenza in fase recitativa del rozzo e inespressivo Donald O’Brien, adattissimo a ruoli di duro nei western e inadattissimo a ruoli drammatici.
In aggiunta c’è la difficoltà di reggere il film con lo scarso cast a disposizione, che presuppone dietro la macchina da presa la presenza di un regista del calibro di Argento, Fulci o Bava.
Poichè Francesco Degli Espinosa non è nessuno dei tre, ecco il fallimento totale della pellicola in agguato, non fosse per la presenza delle due bellissime e valide protagoniste del film, Erika Blanc e Malisa Longo.
Inespressiva, nonostante la caratterizzazione da porcellina del personaggio di Barbara la recitazione di Maria D’Incoronato.
Film barboso e palloso oltre il limite di guardia, quindi; non fosse per i fugaci nudi della Blanc e della Longo che appagano almeno a livello visivo il voyeur che è in ognuno di noi, di questo film non ci sarebbe nemmeno da fare menzione.
Giochi erotici di una famiglia perbene, un film di Francesco Degli Espinosa, con Erika Blanc, Malisa Longo, Maria D’Incoronato, Donald O’ Brien Giallo Italia 1975

Donald O’Brien … Professor Riccardo Rossi
Erika Blanc … Eva
Malisa Longo … Elisa Rossi
Maria D’Incoronato … Barbara
Regia : Francesco Degli Espinosa
Sceneggiatura: Renato Polselli
Soggetto: Renato Polselli
Musiche: Felice Di Stefano,Gianfranco Di Stefano
Editing: Roberto Colangeli
La polizia chiede aiuto
Una telefonata anonima avverte la polizia della presenza del cadavere di una ragazza in un appartamento.
L’ispettore Valentini, giunto sul posto trova il corpo di una ragazzina di 15 anni nudo e appeso ad una trave con una corda al collo.
Si tratta di Silvia Polvesi, apparentemente suicida, in realtà uccisa abilmente in maniera tale da simulare una morte autoindotta.

Il macabro rinvenimento del corpo
Delle indagini è incaricato l’ispettore Silvestri, affiancato dal procuratore distrettuale Vittoria Stori: i due ben presto scoprono che dietro la morte della ragazza si nasconde un turpe giro di prostituzione minorile al quale non è estranea nemmeno la figlia di Valentini.
In mezzo a mille difficoltà la coppia da la caccia al misterioso assassino che intanto semina la morte accanto a se: Silvestri e la Stori dopo varie vicissitudini ricostruiranno il puzzle identificando sia gli intoccabili clienti delle ragazzine, sia fermando il misterioso killer.
Diretto da Massimo Dallamano nel 1974, La polizia chiede aiuto ad onta del titolo fuorviante che sembra echeggiare e rimandare ad un poliziottesco è in realtà un robusto thriller contaminato da elementi polizieschi e con qualche velleità di denuncia sociale.
Un film molto ben congegnato e ottimamente recitato, per altro, con qualche ingenuità ma che si rivela strutturato e diretto con mano sicura dal regista milanese prematuramente scomparso nel 19756 a 59 anni, autore di una dozzina di film di buon livello fra i quali spicca Cosa avete fatto a Solange? dell’anno precedente e che in qualche modo fa da base a questo lavoro, visto che parla comunque di ragazzine e di loschi giri attorno a loro.
Dallamano era un buon professionista, attento ai ritmi e alla sceneggiatura cosa che si nota dal primo momento nel film, che scorre con ritmo verso un finale un tantino frettoloso ma coerente con la narrazione.
Fermo immagine che rivela il trucco dell’impiccagione di Silvia
Fa specie quindi leggere critiche come questa che riporto, presa dal sito più frequentato di cinema e purtroppo riportata da altri siti in fase di commento del film stesso: “Indagando sull’impiccagione di una ragazzina, la polizia arriva a una organizzazione di giovanissime squillo con molti clienti d’alto rango. Gli italiani non brillano nel poliziesco, ma è grave, come in questo caso, quando per parlare di violenza si fa violenza, per criticare gli orrori si mostrano orrori senza il filtro di un linguaggio, di uno stile, dunque di un’etica.”
Il che mostra miopia assoluta e sopratutto mancanza di buona fede.
Nel film di orrori non ce ne sono se non la descrizione ( a distanza) della visita di una delle protagoniste nell’obitorio per il riconoscimento del cadavere di un detective privato.
La stessa scena iniziale dell’impiccagione della ragazzina è uno dei nei del film; in un fotogramma che allego alla recensione è possibile vedere l’ingenuità del fotografo che riprende l’immagine del volto mostrando chiaramente che si tratta di una bambola scenica.
Questo tipo di recensioni, tratte da un commentario critico famoso e vendutissimo mostra come la disinformazione dilaghi quando si parla del cosidetto cinema minore.
Fellini o Antonioni sono il cinema (secondo i soloni), gli altri se devono essere menzionati è meglio stroncarli.
Un atteggiamento spocchioso che nel caso di questo film non ha alcuna giustificazione.
I tanto adorati registi coreani, cinesi o degli improbabili paesi dell’est possono solo prendere esempio da registi come Dallamano, capaci di creare suspence con la sapienza di chi il cinema lo fa per lo spettatore e non per il solone cinematografico affetto da intellettualismo fanatico e un tantinello idiota.
Detto questo, torniamo alla pellicola e ai suoi protagonisti, per citare il buon Cassinelli nel ruolo di Silvestri, la bella e afafscinante Ralli rigorosa nel ruolo della procuratrice Stori, l’ottimo Adorf questa volta un tantino sacrificato nel ruolo di Valentini e il duo Marina Berti-Claudio Gora in ruoli secondari.
Un film vitale e interessante, che si segue con piacere senza rivoltarsi lo stomaco con immagini slasher.
In ultimo, segnalo la preziosa fotografia di Delli Colli e la bella soundtrack di Stelvio Cipriani.
La polizia chiede aiuto,un film di Massimo Dallamano. Con Claudio Cassinelli, Giovanna Ralli, Attilio Dottesio, Farley Granger Mario Adorf, Franco Fabrizi, Marina Berti, Corrado Gaipa, Micaela Pignatelli, Steffen Zacharias, Lorenzo Piani, Paolo Turco, Giancarlo Badessi, Ferdinando Murolo, Roberta Paladini, Salvatore Puntillo
Poliziesco, durata 90 min. – Italia 1974
Giovanna Ralli: sostituto procuratore della Repubblica Vittoria Stori
Claudio Cassinelli: commissario Silvestri
Mario Adorf: Ispettore Valentini
Corrado Gaipa: procuratore della Repubblica
Paolo Turco: Marcello Tosti
Micaela Pignatelli: Rosa
Farley Granger: Polvesi
Franco Fabrizi: Bruno Paglia
Marina Berti: sig.ra Polvesi
Sherry Buchanan :Silvia Polvesi
Roberta Paladini :Patrizia Valentini
Renata Moar : Laura
Clara Zovianoff :Talenti
Regia Massimo Dallamano
Soggetto Ettore Sanzò
Sceneggiatura Ettore Sanzò, Massimo Dallamano
Casa di produzione Primex Italiana
Distribuzione (Italia) PAC
Fotografia Franco Delli Colli
Montaggio Antonio Siciliano
Musiche Stelvio Cipriani
Bresciano e lolitesco. A metà fra poliziottesco e argentiano, è un ibrido interessante, che ha snodi assai casuali e qualche umorismo involontario (l’assassino che gira per la clinica con l’ascia in bella vista!). C’è qualche morbosità verbale gratuita, compiaciuta, fastidiosa. Inferiore a Solange. Regìa sicura, Ralli gran donna, Cassinelli un po’ caricato, Adorf corretto. Grande, come sempre, Franco Fabrizi. La Paladini (figlia di Adorf) è la figlia del Paladini che conduceva il telegiornale.
Quello che si dice un buon film, che attraversa vari generi (poliziesco, giallo e thriller) e che ripropone un soggetto -lo sfruttamento della prostituzione minorile- strettamente collegato al regista (Cosa Avete fatto a Solange?). Il killer incaricato di uccidere ha influenzato, per via del look (agisce con casco da motociclista) anche Nude per l’Assassino (1975), mentre l’ottima colonna sonora, realizzata dal bravo Stelvio Cipriani, è ripescata dal precedente La Polizia sta a Guardare (1973). Prodotto da Paolo Infascelli.
Buono (ma non direi ottimo, preferisco Solange) questo thriller di Dallamano, che ibrida felicemente poliziesco e giallo, con decisa prevalenza del secondo, orchestrando con la consueta perizia una sceneggiatura non ineccepibile ma di efficace coralità, e regalando alcune sequenze notevoli. Fabrizi come sempre eccellente in uno dei suoi ineluttabili ruoli di viscido. Da vedere sicuramente: si piazza a pieno titolo nella prestigiosa zona fra i tre e i quattro pallini.
La descrizione iniziale di Adorf alla Ralli (il sostituto procuratore) nello studio fa già capire che non verrà risparmiato nulla allo spettatore; e così è. Film crudo, spietato, senza speranza. Nessun cedimento, ritmo costante. Non si perde mai interesse. Segnalo un bel puzzle umano, il motociclista con casco e ascia in ospedale, un’amputazione, il commissario in ambulanza, i nastri…. Un po’ troppo manichino l’impiccata. Brava e convincente Giovanna Ralli, ma anche Cassinelli (il nervoso commissario Silvestri). Grande cinema.
Interessante film che mescola abilmente due generi (il thriller ed il poliziesco) che hanno poco da spartire. Merito della bella regia di Dallamano, che riesce a dar vita a splendide scene di tensione, oltre che a inseguimenti ottimamente girati. Peccato però che la sceneggiatura non sia all’altezza della situazione (propinando allo spettatore situazioni assolutamente inverosimili), oltre ad avere qualche caduta di gusto, consistente soprattutto in alcuni eccessi verbali. Indimenticabile lo score di Cipriani.
Niente male. La regia di Dallamano è sicura (anche se ha fatto di meglio), bravi Giovanna Ralli (da citare la scena nel garage), Adorf e Fabrizi. Vi sono anche insistiti particolari sanguinolenti (la mano mozzata, le pugnalate) funzionali e non esagerati. Spiegazione finale sufficientemente convincente. Non uno dei migliori del genere, ma merita un buon punteggio (***) per la professionalità.
Grande cinema di genere. Ritmo elevatissimo e una sceneggiatura morbosa e violenta che non risparmia nessun colpo basso. Ottima come sempre la regia di Dallamano, molto sopra la media anche la fotografia, davvero trascinanti le musiche di Cipriani. Grande il cast, con un perfetto trio di attori (Claudio Cassinelli, Mario Adorf, Giovanna Ralli). Un po’ sbrigativo il finale, ma è difetto su cui si può sorvolare. Spettacolare il look dell’assassino. Il tipo di film di cui si sente la mancanza.
Dallamano si conferma regista solido e immune da farseschi colpi di testa. Con questo notevole film riesce a spaziare tra generi diversi con bravura, aggiungendo venature horror e un che di morboso senza strafare. Complessivamente discreti gli attori e memorabili i motivi musicali di Stelvio Cipriani (altro esperto del mestiere) che si fondono ad arte con le immagini come, ad esempio, nelle magistrali sequenze finali del motociclista nella piazzetta.
Eccellente mix di giallo e poliziesco, con forti tinte drammatiche e una decisa aria di denuncia sociale. Il film, basato su un soggetto e su una sceneggiatura ben studiati, è supportato dalle ottime interpretazioni del cast, su tutti Cassinelli e la Ralli. Non mancano alcune sequenze splatter, la tensione è costante e si respira un’aria cupa e pesante, pregna di una drammaticità livida e senza speranza, specialmente nel finale. Ben coreografate e girate anche le sequenze d’azione. Un gioiellino di Dallamano che va rivalutato assolutamente.
Splendido film che mixa giallo, poliziesco e un tocco di orrore (si vedano i numerosi cadaveri fatti a pezzi). La trama è banale (il solito giro di ragazzine che si prostituiscono per una clientela facoltosa e importante) ma il film non lo è per niente. Attori ottimi, sia i principali Cassinelli, Fabrizi, Gaipa sia i vari caratteristi (vedi il grande Dottesio).
Sicuramente un buon prodotto di genere, realizzato con mestiere e con tanta passione. La pellicola si avvicina più al giallo che al poliziottesco. Se togliamo le scene degli inseguimenti, del secondo non rimane praticamente traccia. Belle prove attoriali, anche se spicca su tutti il grande Mario Adorf, qui dosato nella parte, ma intenso come solo lui sa fare. Alta tensione e ottimi effetti visivi arigianali. Sicuramente da vedere.
Ottimo incrocio di poliziesco e thriller. Il bravo Dallamano resta fedele alla tematica degli abusi e delle violenze sulle giovani donne, ma questa volta il tutto si mescola con una storia poliziesca dalle tinte forti. Tra omicidi-suicidi, insabbiamenti e mezze verità, sprofondiamo in un thriller dall’alto tasso di tensione. Il motociclista killer non ha nulla da invidiare al classico assassino argentiano. Memorabile, fenomeno unico del genere.
L’omicidio di una ragazzina porterà gli investigatori ad indagare, ma solo fino ad un certo punto, nel mondo della prostituzione di giovanissime borghesi, annoiate ed in cerca di ulteriore denaro facile. Gran bel film, che riesce a riprodurre efficacemente vizi e virtù della società italiana degli Anni Settanta, scellerata e corrotta, ma tenuta comunque a galla da un pugno di eroi “equilibrati”. Eccellente colonna sonora del mitico Cipriani e grande regia del povero Dallamano. Attori in gran forma e atmosfera giusta per una bel dopocena!
Più che poliziottesco è un giallo con elementi tipici dei thriller argentiani, dai quali tuttavia è bene mantenere le distanze: la narrazione è un po’ ingenua e semplicistica e la tensione non è mai molto alta. Il film è comunque dotato di un buon ritmo che lo rende piacevole e coinvolgente, grazie anche alla sapiente regia di Dallamano che, tra le altre cose, ci regala delle soggettive decisamente efficaci. Belle le musiche di Stelvio Cipriani.
Reazione a catena (Bay of blood)
Una villa situata all’interno di una baia deserta e semi-selvaggia è teatro di una serie di tragici avvenimenti.
La struttura è di proprietà della contessa Federica Donati, che vi vive in completo ritiro in compagnia del marito.
Una sera l’anziana contessa viene uccisa da una mano misteriosa; la donna è costretta a infilare la testa in un cappio, morendo così strangolata.
L’assassino ( lo sappiamo subito) è stato il marito, ma ben presto il quadro muta direzione, perchè anche l’uomo viene ucciso, colpito da un killer che lo accoltella.
Un nuovo cambio di scena introduce un altro personaggio; si tratta di Franco Ventura, un architetto speculatore che altro non attendeva che la morte della contessa Donati per poter avviare un processo di cementificazione a scopo turistico della baia, cosa alla quale la vecchia contessa si era sempre opposta.
Claudine Auger interpreta Renata Donati
Ventura, dopo aver salutato la sua amante Laura, si avvia verso la baia, forte anche della mancanza di sospetti della polizia, che ha archiviato il caso come suicidio, avendo ritrovato un biglietto in cui la contessa annunciava il suicidio (evidentemente falso) e non avendo trovato traccia del marito.
Nel frattempo nella baia arrivano quattro ragazzi, due maschi e due ragazze straniere, venuti a passare una giornata di relax; una di queste giovani, mentre fa il bagno rimane incastrata in una corda alla sommità della quale è legato il corpo del marito della contessa Donati.
La ragazza, spaventata a morte, fugge nuda per l’imbarcadero e poi verso la boscaglia, ma qui viene raggiunta dal misterioso assassino e uccisa brutalmente a colpi di falce.
Stessa sorte tocca i restanti ragazzi; l’assassino dopo essersi liberato uccidendolo di uno dei giovani, uccide gli altri due ragazzi con un tremendo colpo di lancia mentre i due sono impegnati in un rapporto sessuale.
Sulla tragica baia arrivano altri personaggi; sono Renata Donati, figlia dei due morti assassinati e suo marito Alberto con i due figli, un bambino e una bambina.

Alla donna viene immediatamente riservato uno choc.
Nella barca del pescatore Simone infatti trova il corpo del padre, coperto da un grosso polipo; il pescatore si giustifica dicendo di averlo appena pescato, ma le cose sono destinate a complicarsi ulteriormente.
Nella villa dell’architetto Ventura la giovane Renata scopre con orrore la presenza dei corpi dei quattro ragazzi massacrati, e riesce a sfuggire all’uomo che la assale con un’accetta.

I due figli di Alberto e Renata, interpretati dai bravissimi Renato Cestiè e Nicoletta Elmi
Dopo averlo ferito con un paio di forbici, Renata fugge verso suo marito.
Ancora un arrivo imprevisto; è quello di Anna, moglie di Paolo Fossati (entomologo) una coppia che vive nella baia.
Per pura casualità Anna scopre i cadaveri nella villa di Ventura, ma finisce orrendamente decapitata, mentre suo marito Paolo viene ucciso dal marito di Renata per timore che chiami la polizia e riferisca ciò che ha visto.
Ad uccidere Anna infatti è stata Renata.
Perchè?
Lo apprendiamo da due brevi flashback.
Prima però assistiamo all’arrivo sulla scena del delitto di Laura, l’amante di Ventura, che la invita ad andare da Simone.
Simone in realtà è il figlio naturale della contessa Federica Donati; è stato lui ad uccidere la madre e il patrigno simulando il suicidio della contessa e occultando il cadavere del patrigno stesso, uccidendo in seguito i quattro sventurati ragazzi che avevano scoperto il corpo dell’uomo.
Il tutto per poter vendere la licenza edilizia della baia a Ventura; ma Simone capisce che Laura e Ventura lo hanno manipolato.

L’ormai celebre fotogramma della morte dei due ragazzi
Uccide così la donna, ma viene a sua volta abbattuto da Alberto.
I due diabolici complici sembrerebbero averla fatta franca, ma c’è l’ennesimo colpo di scena in arrivo….
Reazione a catena di Mario Bava (girato nel 1971) è un film complesso con una struttura a mosaico e una trama ampia e purtroppo a tratti anche farraginosa e confusa.
Se da un lato vanno esaltati quelli che sono i pregi del film, ovvero la sua crudezza nel mostrare i dettagli più efferati dei vari delitti che si susseguono, la solita accurata ricercatezza tipica di Bava nella fotografia, l’impeccabile recitazione del cast molto ben assortito, dall’altro non si può non notare una certa approssimazione nello svelare i retroscena che portano i vari protagonisti (tutti in qualche modo indissolubilmente legati fra loro) a scannarsi per il solito vil denaro.
Ma a Bava probabilmente la cosa interessava poco; il film mostra una misoginia, un’amarezza e una visione cinica della realtà che a ben vedere sono l’asse portante della pellicola.
nessuno dei personaggi che incontriamo nel film merita una lacrima o un banale “peccato” man mano che assistiamo all’orgia di sangue scatenata dalla morte della vecchia contessa.
Sono tutti personaggi negativi, il marito della contessa e l’avido Ventura, l’assassino Simone e i due terrificanti coniugi Renata e Alberto e in ultimo anche i due figli della coppia, che assicureranno una giustizia sommaria chiudendo il cerchio, con quei due sorrisi luciferini che spuntano sui loro volti infantili quando sparano ai genitori.
Un’umanità malata, quindi, vittima del desiderio di possesso e di ricchezza, un’umanità che paga però con la vita le proprie debolezze.
Sono tutte morti slasher, violentissime, con primi piani che in fondo hanno fatto la storia del cinema thriller/giallo, stabilendo dei canoni che saranno replicati all’infinito dai tantissimi epigoni che il film vanterà.
Bava gioca con gli effettacci, distribuisce morti ammazzati a tutto spiano ;alla fine di tutti i protagonisti restano vivi solo i bambini che innocenti non sono, perchè ammazzano i loro genitori non sappiamo quanto per gioco e quanto per crudele e innata malvagità.
Memorabili le sequenze dell’impiccagione della vecchia contessa, della morte della ragazza uccisa da una falce (Brigitte Skay) con i particolari in primo piano e poi l’apoteosi dei due morti trafitti in un colpo solo mentre fanno l’amore. Da citare anche il rinvenimento del corpo del vecchio conte in una barca, con il volto coperto da un polpo.
Il finale mostra un Bava amarissimo, come amaro era stato nello svolgimento del film stesso; per capire la rivoluzione copernicana del Bava di questo film basta pensare a quello che era stato il suo film precedente, 5 bambole per la luna d’agosto (1970) da lui poco amato e va detto, anche dal suo pubblico.
Brigitte Skay
E’ un Bava ormai maturo, cinico e disincantato, che all’età di 56 anni ha ormai la possibilità di esprimersi come crede.
Ed è anche fortunato, il regista ligure perchè per una volta viene lasciato libero di comporre e scomporre, di adattare e riadattare senza il solito fiato sul collo del produttore che premeva per il lavoro finito.
In condizioni ideali, il regista produce uno dei primi 5 film thriller italiani di sempre, che ispirerà altri registi e che farà da caposcuola a tanti prodotti successivi.
Qualche nota sul cast: tutti decisamente bravi dalla Auger a Pistilli, passando per Laura Belli e Leopoldo Trieste.
Da segnalare la giovanissima Nicoletta Elmi, che interpreterà diversi film del genere giallo.
Reazione a catena,un film di Mario Bava. Con Luigi Pistilli, Claudine Auger, Isa Miranda, Claudio Volonté, Anna Maria Rosati, Leopoldo Trieste,Chris Avram, Brigitte Skay
Horror, durata 81 min. – Italia 1971
Claudine Auger: Renata Donati
Luigi Pistilli: Alberto
Laura Betti: Anna Fossati
Claudio Volonté: Simone
Leopoldo Trieste: Paolo Fossati
Isa Miranda: Federica Donati
Chris Avram: Franco Ventura
Anna Maria Rosati: Laura
Brigitte Skay: ragazza che si tuffa
Paola Rubens: ragazza trafitta
Roberto Bonanni: Roberto
Guido Boccaccini: Luca
Giovanni Nuvoletti: conte Filippo Donati
Nicoletta Elmi: figlia di Alberto
Renato Cestiè: figlio di Alberto
Regia Mario Bava
Soggetto Franco Barberi, Dardano Sacchetti
Sceneggiatura Mario Bava, Filippo Ottoni, Joseph McLee, Sergio Canevari (non accreditato), Francesco Vanorio (non accreditato)
Produttore Giuseppe Zaccariello, Fernando Franchi
Fotografia Mario Bava
Montaggio Carlo Reali
Effetti speciali Carlo Rambaldi
Musiche Stelvio Cipriani
Scenografia Sergio Canevari
Costumi Enrico Sabbatini
Trucco Franco Freda
Le recensioni qui sotto appartengono al sito http://www.davinotti.com
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Ci sono cose notevoli (fotografia da urlo, musica godibile, inquadrature eccezionali, immagini indimenticabili), ma i passaggi della trama sono svolti in maniera talora confusa, o frettolosa, problema che una seconda visione non risolve più di tanto. Il celebrato finale mi sembra incollato (e pure male) col nastro adesivo. Cast godibile, con qualche presenza non proprio centrata (Brigitte Skay che fa la ragazzina…), ma col grande Leopoldo Trieste (doppiato da Amendola!). Certo è che entomologi e oggetti acuminati ricordano qualcosa di antico…
La “Reazione a Catena” è quella innescata dal desiderio di ereditare, che spinge un gruppo di loschi personaggi a compiere azioni inimmaginabili. Nessuno è quello che appare e soprattutto nessuno è meritevole di vivere. È un Bava nerissimo, quello che firma il primo splatter italiano, dietro suggerimento di Dardano Sacchetti (qua al suo primo vero lavoro -dopo Il gatto a nove code – in sede di sceneggiatura); dove non c’è scampo, dove l’economia della storia (“Ecologia del Delitto” ed “Antefatto” sono i titoli alternativi) porta inevitabilmente alla morte.
Bava scatenato in uno dei suoi capolavori. La trama è solo un pretesto per un efferato commentario sociale e, soprattutto, per un saggio di virtuosismo. Con nonchalance da gran signore il Maestro butta là una citazione di Borges (!) affidata a Chris Avram (!!), risolvendo in trenta secondi e due inquadrature un corto circuito fra cultura alta e popolare su cui altri hanno scritto tomi pallosissimi. Grandi Trieste e la Betti, peccato (si fa per dire) per il doppiaggio, tanto più che nella versione inglese Trieste si doppiò da sè.
Discreto thriller piuttosto splatter, girato con mestiere ma con qualche ingenuità, che fa dell’ambientazione e proprio delle scene più violente e sanguinarie i suoi punti di forza. La sceneggiatura invece, abbastanza sconclusionata, non aiuta lo spettatore, che può però contare su alcune caratterizzazioni interessanti e riuscite, come quelle dei coniugi, lui appassionato d’insetti e lei di occulto, che nonostante rasentino la macchietta, danno colore e carburante alla pellicola. Il finale lascia parecchio di stucco (una sorta di tragica burla). Un’occhiata, comunque, la merita di certo.
Misantropo e splatter, il vertice dell’arte più delirante di Bava, nonché prototipo del fortunato filone slasher. Zoom onnipresente, soggettive e primi piani a iosa e splendida fotografia. Omicidi efferatissimi e fantasiosi, poi ripresi pari pari in altri film, come Venerdì 13 e Tenebre. Finale spiazzante e cinico, all’insegna dello humour più nero. I personaggi sono insetti insignificanti e senz’anima, in balia della Morte, ma le caratterizzazioni dei rispettivi attori, comunque, molto buone.
Strepitoso thriller di Bava in cui il regista romano è al suo meglio. Un vero e proprio capolavoro del genere slasher, amato, imitato e straimitato da tantissimi registi americani e non. Basti vedere come la serie “Venerdi 13” (un esempio su tutti: l’assassinio della coppia che copula) saccheggi a piene mani da questo gioellino della nostra cinematografia del brivido. Per l’epoca fu un notevole choc visivo: il sangue, infatti, scorre a fiumi. In più, rispetto ai suoi epigoni, Bava colora il suo film con note di ironica e corrosiva cattiveria.
Faide familiar-commerciali attorno alla proprietà di un ameno laghetto, con morti a go-go, preferibilmente tramite accettate. Come spesso accade in film di questo tipo, i personaggi principali sono quasi tutti più o meno ambigui e/o antipatici, tanto da alimentare i sospetti nei loro confronti, mentre i comprimari/carne da macello assicurano la dose di tette nude e sesso facile. Alcuni omicidi sono piuttosto truculenti, ma la trama è inutilmente complicata, il livello della recitazione scarso (si salvano Betti e Trieste, coppia stramba)
Film fondamentale, ma non per questo riuscito al 100%. Fondamentale perché rappresenta il primo esempio di quello che negli anni a venire sarà un filone di grande successo di pubblico: il cosiddetto “slasher”. Una serie di omicidi legati uno all’altro da un esile sviluppo narrativo. Non riuscito al 100% perché proprio la trama è la parte debole del film, anche se indubbiamente, in pellicole di questo genere, non è la cosa fondamentale. Forse visto all’epoca della sua uscita poteva essere maggiormente apprezzato. Comunque da vedere.
Fondamentale. Il film che ha ispirato decine di successivi slasher movie americani, diretto dal nostro genio Mario Bava, che dirige un film sanguinosissimo con delitti feroci per l’epoca e che funzionano ancora (memorabile la testa tagliata alla Betti), ma che soprattutto gode della particolarissima costruzione della storia: una vera e propria reazione a catena. Ineccepibile anche il cast e lo score di Stelvio Cipriani. Essenziale.
Il più bel film di Bava e uno dei migliori thriller italiani. Regia e fotografia sono di livelli altissimi: non c’è un’inquadratura fuori posto e ogni singola scena riesce in qualche modo a dire qualcosa di interessante. La sceneggiatura, crudele ma innovativa, procede in un crescendo di cattiverie che culmina in un finale tanto ironico quanto cinico (e sicuramente imprevedibile). Perfetto il cast e bellissima la colonna sonora di Cipriani, ricca di temi e incredibilmente adatta al film.
Quanto a varietà di omicidi e componente visionaria siamo dalle parti di Argento. Bava ci aggiunge una guida degli attori degna di questo nome (vedi Pistilli e Trieste), location e musiche di sicuro effetto, un filo logico tirato ma che non si spezza. Difetta piuttosto nel montaggio e nella cura dei dettagli, tipo la Skay che muore e respira ancora (il pancino la tradisce). Diciamo che gestire tredici omicidi così poliedrici porta a trascurare cose più banali..
Film seminale, ma per una mala razza come Venerdì 13. Ciò non toglie che sia un film genialoide, con degli ammazzamenti magistrali e per l’epoca inediti (il polpo sulla faccia del defunto Nuvoletti…). Un tocco di ironia finale mette pace a tanti adulti cattivi e bramosi; può sembrare ridicolo ma in realtà è la strizzata d’occhio amara di un piccolo genio del cinema che, senza accorgersene, sarà padre di tanti altri autori (da Argento – il peggiore – fino ad Almodovar e Tarantino – il migliore).
Un Bava scatenato se ne infischia della logicità e nessi narrativi, per offrirci una sarabanda infernale di omicidi. È un film molto divertente e molto splatter, con effetti speciali (curati da Carlo Rambaldi) che ancora oggi lasciano stupiti per il loro realismo. Dalla sua ha anche un cast di tutto rispetto, impensabile per una produzione italiana di oggi. Ma dove è veramente magnifico è nella resa fotografica: carrelli e zoomate creano delle soluzioni quasi optical. È soprattutto un film da guardare, da “percepire” sulla pelle. È nato lo slasher.
Molto bello. Ha ispirato (si nota sopratutto la scena dell’amplesso finito… male) molti film d’oltreoceano ma come al solito ingiustamente ha avuto meno successo. Ottimo il cast, bella fotografia, ottime le scene degli omicidi… Unica pecca? Il finale.
Galeotta fu la baia. Delitto su delitto, per uomini e donne senza scupoli. Così tanto, da indurmi a rifiutare qualsivoglia verosimiglianza. Reazione a catena, una catena intricata, ma che conduce allo stesso lucchetto. Un destino beffardo, che premia l’inconsapevolezza e l’ingenuità, l’anti premeditazione a scopo di lucro. Ecologia di un delitto, l’interazione poco amichevole tra uomini e ambiente, ma soprattutto tra uomini e uomini, col danaro terzo incomodo. Delitti, mutilazioni e fendenti vari ammirevoli per fantasia. **1/2
Primo slasher della storia del cinema: banale nella trama, efferato e seriale nei delitti. Bava tiene a cuore l’aspetto moralistico. Sin dall’inizio crea analogie tra uomini e insetti, così che anche il secondo titolo del film (Ecologia del delitto) acquisti un senso. La pellicola presenta un forte utilizzo dello zoom, abbinato ad un continuo fuoco/fuori fuoco. In tal modo, Bava mostra e non mostra, afferma e poi nega, come nell’inquietante finale ribaltato. Film che dà la spinta a Venerdì 13 di Sean Cunningham e allo slasher in genere.
Cattivo e a tratti ironico; non si può per questo film non riconoscere a Bava di aver dato un contributo fondamentale ad un genere (o filone che sia) che col tempo ha mostrato sempre meno cose e che già qui ha messo in evidenza i punti deboli. Non si può non riconoscere un ottimo impianto visivo ma anche concettuale, in questa festa di omicidi dove il delitto brutale assume un aspetto raffinato ed elegante, tutto materiale che assorbirà Argento. Ma troppi sofismi e troppo pensiero rendono pesante e poco interessante una trama debole di suo.


7 scialli di seta gialla
Un pianista cieco, il professor Peter Oliver, un ispettore di polizia, Iansen e una serie di oscuri omicidi che hanno per teatro il laboratorio sartoriale e di mode di Françoise Ballais.
Questi gli ingredienti di questo giallo, che vede l’ispettore Iansen alle prese con un assassino insospettabile e inafferrabile.
Quando nell’atelier di Francoise muore la bella indossatrice Paula, l’ispettore incaricato delle indagini dirige i suoi sospetti sul pianista cieco, Peter, che aveva una relazione con la modella.
Ma i suoi sospetti si incentrano anche sul marito di Francoise,Victor Morgan, che aveva una relazione con la donna e che veniva ricattato da un uomo che aveva scattato delle foto compromettenti della loro relazione.
Un nuovo omicidio scombussola tutto; a morire è il misterioso ricattatore, e subito dopo toccherà ad altre persone cadere vittime della follia omicida della misteriosa mano.
Sarà proprio Peter a indirizzare Iansen sulla pista giusta…

La sequenza dell’omicidio sotto la doccia
Diretto da Sergio Pastore nel 1972, Sette scialli di seta gialla si inserisce nel florido filone delle pellicole cloni del grande successo di Argento L’uccello dalle piume di cristallo; tuttavia il maggior tributo il film lo paga al film del 1971 di Argento Il gatto a nove code, dal quale riprende il personaggio del cieco investigatore.
Non è certo l’unico elemento di somiglianza con i film di Argento; a ben guardare Pastore saccheggia tutto ciò che può dalla cinematografia del brivido.
C’è la scena dell’omicidio sotto la doccia, ripresa da Psycho, c’è l’ambientazione alla Bava di Sei donne per l’assassino…. c’è solo da divertirsi a cercare le similitudini che sono tante e anche abbastanza chiare.
Il film in se non è nemmeno malvagio, anche se alcuni colpi di teatro sono davvero tirati per i capelli; tuttavia la trama ha una sua ragione d’essere e si mostra abbastanza intricata.
Sergio Pastore, regista di opere abbastanza anonime come Crisantemi per un branco di carogne ,Il diario proibito di Fanny, girati sul finire degli anni sessanta, ha qui la grande occasione, grazie sopratutto al buon cast assemblato per questo film. Dirige con mano scaltra ma è evidente che si tratta di un onesto artigiano e nulla più; eppure gli strumenti c’erano, a cominciare dal parterre degli attori, che include Anthony Steffen, che interpreta con sufficiente bravura il ruolo del pianista cieco, proseguendo poi con Sylva Koscina, nel ruolo di Francoise, con Annabella Incontrera, sempre algia e bellissima, con Giacomo Rossi-Stuart, che interpreta Victor ovvero il marito di Francoise…
Il film va contestualizzato anche nel periodo storico; siamo agli inizi degli anni settanta, il cinema tira come una locomotiva lanciata a folle corsa e si moltiplicano le produzioni di ogni genere.
Il thriller è uno dei generi più saccheggiati, e alla luce di questo si può capire come le produzioni offrissero regie anche ad onesti mestieranti come Pastore.
C’è qualche spruzzatina di eros, qualche delitto efferato, insomma ci sono tutti gli ingredienti del genere, mentre va segnalata la scena dell’omicidio sotto la doccia, una delle più efferate viste nei film italiani, con tanto di rasoio che taglia nella carne attorno ai seni e al corpo nudo della vittima.
Leggendo quà e là in rete le recensioni al film, mi è capitato di trovare giudizi durissimi e sprezzanti su questo prodotto: critiche troppo severe, perchè come già detto pur non essendo un prodotto riuscito, Sette scialli di seta gialla può essere visto senza gridare allo scandalo.
A patto di sorvolare su alcune incongruenze, su qualche pecca recitativa e su una regia abbastanza piatta.
Sette scialli di seta gialla, un film di Sergio Pastore. Con Annabella Incontrera, Sylva Koscina, Anthony Steffen, Renato De Carmine,Giacomo Rossi Stuart, Umberto Raho, Lorenzo Piani, Shirley Corrigan
Thriller/Giallo, durata 108 min. – Italia 1972.

Anthony Steffen – Peter Oliver
Sylva Koscina – Françoise Ballais
Giovanna Lenzi – Susan Leclerc
Renato De Carmine – Ispettore Jansen
Giacomo Rossi-Stuart – Victor Morgan
Umberto Raho – Burton
Annabella Incontrera – Helga Schurn
Romano Malaspina – Harry
Isabelle Marchall – Paola Whitney
Imelde Marani – La ragazza di Harry
Liliana Pavlo – Wendy Marshall
Shirley Corrigan – Margot Thornhill
Regia: Sergio Pastore
Sceneggiatura: Sandro Continenza, Sergio Pastore e Giovanni Simonelli
Prodotto da Edmondo Amati, Maurizio Amati
Musiche::Manuel De Sica
Costumi:Vincenzo Tomassi
Doppiatori:
Sergio Graziani: Anthony Steffen
Rita Savagnone: Sylva Koscina
Sergio Tedesco: Umberto Raho
Pino Colizzi: Giacomo Rossi Stuart
Maria Pia Di Meo: Shirley Corrigan
Flaminia Jandolo: Annabella Incontrera
Vittoria Febbi: Lilliana Pavlo
Le recensioni appartengono al sito http://www.davinotti.com
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Accettabile giallo con pesanti richiami argentiani. La storia non fila via logica (perché scappare dall’ospedale? perché lasciare l’indirizzo della vetreria?) ed ha uno spieghino finale oscuro, oltre ad infrangere una regola del giallo. Il film però si lascia guardare, con molto debito verso i bei colori e gli interni fotografati da Mancori, talora con effetti optical e quadri di Mondrian. La Incontrera, volto lungo, altero, incavato, è perfetta icona lesbica. C’è Imelde Marani che puttaneggia.
Premesso che resta – tutt’oggi – da chiarire se Pastore ha diretto o meno questo contorto (e poco efficace) giallo, quello che più rimane impresso è un finale al cardiopalma, che nasce come emulativo di Psycho (delitto nel bagno), ma è di una ferocia (considerato il periodo) davvero estrema. Per il resto crolla l’impianto narrativo per l’insolito (ed impossibile) modus operandi del killer, che si avvale di scialli avvelenati e gatti! Il Sette del titolo va in coda alla “miniserie” di gialli con titolo numerico stile Sette Cadaveri per Scotland Yard (che sono poi 9!)
La caccia alla smagliatura nel copione dei thriller all’italiana (ma non solo, anche celebrati pseudo-campioncini alla Seven non sono da meno) è uno sport in fin dei conti un po’ sterile: il giallo tricolore è questione di look, e da questo punto di vista il film di Pastore tutto sommato tiene botta, specie nella parte finale, dal rendez-vous nel cantiere in avanti. Certo non tutto fila liscio. Bravo Steffen (ma molto merito va a Sergio Graziani che lo doppia), improponibile la pettinatura di Rossi Stuart. Non male, dopotutto.
Remake non dichiarato di 23 passi dal delitto, con l’aggiunta di contrafforti argentiani (il meccanismo de L’uccello dalle piume di cristallo) e baviani (l’ambientazione nel corrotto mondo della moda di Sei donne per l’assassino). La sceneggiatura, grossolana e con non poche incongruenze, vanta qualche sequenza thrilling ben riuscita (la vetreria, la doccia di Psyco, il cieco Steffen braccato in casa sua dall’assassino) e la trovata degli scialli è originale benché improbabile. Gradevoli musiche di De Sica.
Una delle perle del trash all’italiana (soprattutto per la parte finale), che proprio per questo ha uno stuolo di fan “urlanti”, che lo considerano un film di culto. In realtà non si capisce il perché, visto che come giallo è davvero mediocre. La regia, infatti, è a dir poco claudicante (ma anche a questo proposito c’è chi pensa che Pastore sia un vero regista e per giunta bravo!) e sulla sceneggiatura meglio tacere. Un po’ meglio la situazione sul versante attori e colonna sonora, ma non basta.
Thrillerone bigio e monotono, la cui inesorabile seriosità spinge a rivalutare il brio di cose che ci parvero di insuperabile bruttezza. Pastore cita a spromba tutto ma non produce un’idea buona e originale che sia una: l’atelier è baviano, il canto dell’uccello argentiano, la cecità anche, l’unico guizzo di truculenza splatter è hitchcockiano (però che fegato!), il gatto ha una coda e tanto basta. Il movente dell’assassino è più imperscrutabile di quello di Pastore. Atmos-fear ce n’è pochina. Soporifero.
Ennesimo giallo che si rifà, in modo più che abbondante, alla celebre trilogia degli animali di Dario Argento. Il film non riesce ad emergere dalla massa di prodotti analoghi del periodo e risulta potabile solo per gli ultra-appassionati del genere. Particolarmente fantasioso, e per questo anche molto improbabile, il modus operandi dell’assassino. Come spesso in pellicole di questo tipo la logica è molto traballante.
Buon appartenente al giallo argentiano, con un ottimo cast su cui spiccano decisamente Anthony Steffen nel ruolo del pianista cieco che indaga e la bella Sylva Koscina superba, ma le bellezze femminili (Annabella Incontrera, Shirley Corrigan) non mancano così come i bravi attori (Rossi Stuart). Il tema musicale di Manuel De Sica è accattivante, l’omicidio finale della Corrigan è davvero inusuale per l’epoca. Non un capolavoro (con spiegone finale molto tirato per i capelli) ma piace.
Giallo italiano piuttosto mediocre. Il ritmo è lento, gli attori poco memorabili e le musiche non troppo entusiasmanti. Si salvano solo la buona fotografia e un omicidio (alla Psycho) piuttosto violento. Per il resto un film decisamente evitabile, solo per appassionati.
Onesto giallo italico di ambientazione nordeuropea. I richiami ad altri film ed in special modo ai primi gialli di Argento sono evidenti, tuttavia Pastore riesce a confezionare un prodotto decoroso e a mio avviso avvincente. La vicenda è concettualmente inverosimile, ma scandita da un’ottima ritmica degli eventi e da un’interpretazione degli attori più che dignitosa. Prodotto destinato a “cinemini” di periferia; ecco un buon motivo per amarlo!
Tra la miriade di imitazioni argentiane degli Anni Settanta, si inserisce questo film di Pastore. A parte l’accumulo di citazioni da altre pellicole del genere (a partire dal protagonista cieco e curiosone, preso di peso da Il gatto di Argento), il film scade spesso nella noia e non è riscattato neanche dalla violenza, visto il basso tasso di splatter. Si salva giusto l’omicidio sotto la doccia (unica scena veramente truce) e qualche buon momento di tensione negli ultimi venti minuti. Interpreti accettabili, sceneggiatura claudicante. Improbabile.
Personaggi bidimensionali come quelli dei fumetti cui parrebbe tratto, che fingono di suonare il piano e cenano all’Hilton, posseggono case con splendidi armamentari vintage e frequentano lisergici atelier. Ecco un motivo valido per guardare questo film: farsi un’idea dell’immaginario lounge-chic che impazzava nelle fantasie italiche, fra sigarette accese in ogni dove e pruriginosi scandali sessuali. La storia è striminzita (il mantello? il gatto?), ma il film ha una sua soporifera fragranza che sa d’innocenza e di cinema con le sedie in legno.
Bistrattato da molti e esaltato da altri. Si tratta di un giallo comunque guardabile, interpretato bene da un gradevole cast. A parte il ridicolo finale (che in parte ricorda quello di Sotto il vestito niente) il film si lascia guardare. Un po’ improbabile la storia del gatto, ma tant’è. Ottime le musiche. Diverse scopiazzature dai film di Argento. Quasi tre pallini.
Film noioso, che si perde più volte nel tentativo di richiamare classici argentiani, facendolo in maniera sconclusionata e poco efficace. La trama è artificiosa e priva di tensione, i delitti (a parte un po’ di gore finale) sono piatti ed architettati in maniera poco credibile. Tra i thriller dell’epoca certamente uno dei più scadenti, rischiarato da una scena finale da deja-vu, ma efficace.
Pastore si butta sul giallo argentiano, con tutti i crismi del genere, attingendo non poco dal Maestro stesso, così come da altri (il film nel film è “Una lucertola dalla pelle di donna” di zio Lucio). Ma, a parte un po’ di confusione nell’esposizione, va detto che non confeziona un affatto un brutto film. Certo, nulla di trascendentale, ma l’omicidio cruento nella parte finale, con accanimento sul corpo indifeso della vittima alza la media… Rossi Stuart meglio di un monoespressivo Steffen. Molti i nudi. VM 14
Discreto thriller dalle incontrovertibili derivazioni, ma onestamente palesate, senza dissimulazioni di sorta. Quello che personalmente ho trovato fuori luogo, è la modalità principale con la quale vengono uccise le malcapitate: troppo improbabile. La storia è carina, con lo svolgimento regolare frutto di una tecnica sobria, senza troppe pretese (saggia decisione evitare di strafare). Particolare la location in Copenaghen, ma forse Milano o Roma avrebbero caricato meglio la natura di genere. Attori bellissimi e musiche adeguate, con un finalone inaspettato.
Thrillerino che si basa su presupposti abbastanza improbabili e attinge senza ritegno dai successi argentiani del periodo (L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code…). Violenza e tensione latitano. Film non proprio noioso ma che ristagna nella mediocrità fino all’intenso, violento (finalmente) finale. Non brutto, ma decisamente evitabile.
Tra i vari gialli, giallacci e giallini Anni Settanta, mi sembra il peggiore che ho visto. A parte l’affastellamento, senza nessuna ironia, di citazioni da altri film del periodo, a parte il movente dei delitti, che proprio non sta né in cielo né in terra… ma è proprio noioso, non c’è un momento di vera tensione. E poi, ci vuole coraggio per trattare così l’unico personaggio al quale ci eravamo veramente affezionati. E ci vuole coraggio per far spogliare la Koscina per farle mostrare un lato B da massaia sedentaria…
Veramente inguardabile. Nonostante sia un patito dei gialli italiani Anni Settanta, questo è proprio brutto. Copia e incolla spunti e trama da destra e da sinistra, non intriga, non scorre, con attori incapaci e personaggi senza alcun interesse. Un disastro. Starsene alla larga!
Culto a causa di diversi record: il maggior numero di citazioni da altri gialli, la “scena della doccia” più gore, il modus operandi più contorto e improbabile, il fermo-immagine finale più ridicolo (eppure…). Però oltre questo è anche un giallo onestissimo, che non si limita a seminare false piste per confondere lo spettatore ma gli offre anche la possibilità di indovinare il colpevole con un particolare rivelatore (occhio all’automobile). Regìa assai meno sciatta di quanto sembri, buona prova anche per Steffen (altrove spesso cane).
Sembra davvero un fumettone per via di costumi, design, tecnica di omicidio indiretta e solo in apparenza avveniristica, per il fatto che un’attrice la faccian tanto bella per accopparla in seguito così crudelmente… per il bianco e nero della doccia che qui centuplica la suggestione, stessi due colori che contraddistinguono i mantelli. Davvero un caso? Interessante, ma non grintoso al punto da far decollare l’entusiasmo di chi lo vede.
Inutile far notare quanto l’influenza del Darione nazionale contamini ogni passaggio di questo ennesimo titolo “numerologico”. Un buon giallo comunque, in cui spadroneggiano primi piani fuorvianti e disonesti zoom sugli sguardi torvi e sospettosi di alcuni degli interpreti. Differentemente dal solito, Anthony Steffen mostra davvero un raro stato di grazia con la sua perfetta immedesimazione nei panni del compositore cieco. A tratti allucinato, il film di Pastore presenta inoltre la sequenza forse più splatter mai vista sino ad allora su schermo.
Una volta fatta l’abitudine “visiva” ai fantastici abiti e pettinature dell’epoca, di questo film resta ben poco di godibile. La trama è abbastanza piatta e banale e il cosiddetto colpo di scena finale sembra creato più per dare la colpa al personaggio meno sospettabile di tutti che per seguire un vero filo logico. Imbarazzanti e rigidi i due protagonisti maschili.
Derivativo, eccessivamente derivativo questo giallo a tinte forti dove non si sa dove finisca la citazione e inizi la scopiazzatura spudorata. Inizialmente sembra partire bene, con un misterioso metodo di uccisione, ma quando inizia a delinearsi il quadro si scade nell’assurdo e nel ridicolo. Menzione speciale all’omicidio nella doccia preso da Psyco ma più sanguinoso (in bene) e alla pietosa sequenza finale assieme a quella dell’attentato nella fabbrica (in male).
Giallo che più derivativo non potrebbe essere: in effetti se ci mettiamo ad elencare i riferimenti ad altre pellicole rischiamo di non finirla più. Ttuttavia Pastore propone anche un paio di idee originali: l’ambientazione danese e il complesso modus operandi dell’assassino, che qui si serve, appunto, degli scialli del titolo intrisi di una sostanza che attira e scatena un gatto dagli artigli avvelenati. Buon ritmo, qualche momento di tensione e un omicidio sotto la doccia di inaudita violenza, ma la soluzione convince poco. Non male il cast.
Prende da Argento, da Bava, da 23 passi da un delitto e finisce con una splendida uccisione sotto la doccia degna di Psyco. Siamo nel ’72, siamo nel bel mezzo del giallo all’italiana e del successo di Darione; Pastore si permette di emulare e rubare senza vergogna. E tutto sommato gli si perdona tutto. Il giallo non è poi pessimo, soffre delle classiche ingenuità e carenze sia di budget sia di sceneggiature. Offre la solita fotografia di quegli anni e costumi e scenografie disgustosamente pacchiane. Steffen è una garanzia, il Fonda italiano
Indagine su un delitto perfetto
Un misterioso sabotatore manomette l’aereo del presidente di una importante compagnia; l’uomo muore senza lasciare testamento e neppure disposizioni su chi dovrà succedergli alla guida della società.
La stessa multinazionale ha tre vicepresidenti, Harold Boyd, Sir Arthur Dundee e il giovane Paul de Révère, che sono quindi in lizza per la successione.
Harold Boyd ha sposato una donna ricchissima, Gloria, alle spalle della quale vive disprezzato dalla moglie, alla quale riserba lo stesso sentimento, tradendola con la giovane Polly, che in realtà è manovrata da Arthur Dundee.
Il quale, a sua volta, mira ovviamente alla successione a a capo della multinazionale.
Paul De Revere, il più giovane del gruppo, esce di scena immediatamente; l’auto sulla quale viaggia mentre torna a casa dalla anziana madre Lady Clementine De Revere finisce contro un camion e precipita giù da una scogliera.
Anche in questo caso tutto sembra essere frutto di una tragica casualità, come testimoniano i due guidatori del camion contro il quale si è schiantata l’auto di Paul.

Joseph Cotten è Sir Arthur Dundee
Ma l’auto è stata sabotata, e ad accorgersene è il Soprintendente Jeff Hawks che decide quindi di indagare.
Ma la occulta regia che sembra manovrare dietro le quinte colpisce ancora: a morire questa volta è Arthur Dundee.
La mano misteriosa lo uccide in maniera molto ingegnosa, facendogli andare in corto circuito il pacemaker durante una notte di tempesta.
Anche in questo caso Hawks ha forti sospetti che indicano un omicidio, ma nessuna prova, così come si ritroverà davanti ai cadaveri di Boyd e Gloria che apparentemente si sono uccisi fra di loro, con il suicidio finale di uno dei due.
Ma ecco il colpo di scena.
Paul riappare raccontando una storia credibile; riuscirà a farla franca perchè nonostante i sospetti di Hawks ha un alibi di ferro fornitogli da Polly, sua complice sin dall’inizio.

Anthony Steel è il Soprintendente Jeff Hawks
Una trama ingarbugliata, con colpo di scena finale, per un giallo non sempre convincente, anzi a tratti forzato e poco credibile.
Indagine su un delitto perfetto, regia di Giuseppe Rosati, film girato nel 1978 ebbe diverse traversie di lavorazione, tanto che venne dapprima sospeso e poi ripreso (pare per mancanza di fondi), il che giustificherebbe alcune discrepanze temporali e alcune sequenze apparentemente senza molta logica.
Siamo di fronte ad un giallo ambientato in Inghilterra, di tipica derivazione dai gialli di Agatha Christie, ma con attori internazionali ad interpretare personaggi inglesi.
Un cast ad alto livello, tra l’altro, che include Adolfo Celi, Joseph Cotten, Alida Valli, Janet Agren, Leonard Mann, Anthony Steel, Paul Muller e Gloria Guida, che fanno il loro lavoro con inappuntabile professionalità.
Peccato per la farraginosità della trama, per le incongruenze e per il finale davvero tirato per i capelli, perchè per larghi tratti il film avvince, anche se è girato con tempi e sequenze molto blande.
Le location sono davvero molto belle, come quella della casa/tenuta dei coniugi Boyd, in cui viene girata una scena di caccia alla volpe molto ben fatta, sicuramente costosa e sfarzosa.
La regia è di maniera, senza grossi fronzoli, buone le musiche di Savina.

L’inatteso ritorno di Paul De Revere
Indagine su un delitto perfetto, un film di Giuseppe Rosati. Con Joseph Cotten, Adolfo Celi, Leonard Mann, Alida Valli,Claudio Gora, Franco Ressel, Anthony Steel, Janet Agren, Gloria Guida
Giallo/Thriller, durata 90 min. – Italia 1978.
Gloria Guida – Polly
Leonard Mann – Paul De Revere
Joseph Cotten – Sir Arthur Dundee
Adolfo Celi – Sir Harold Boyd
Anthony Steel -Soprintendente Jeff Hawks
Janet Agren – Lady Gloria Boyd
Alida Valli – Lady Clementine De Revere
Franco Ressel – Sergente Phillips
Paul Muller – Gibson
Mario Novelli – Sabotatore
Regia Aaron Leviathan (Giuseppe Rosati)
Soggetto Aaron Leviathan
Sceneggiatura Aaron Leviathan
Produttore Ferry Flay
Casa di produzione C.L.C.
Distribuzione (Italia) Ciat Martino
Fotografia Jerry Delawaree
Montaggio Frank Robertson
Musiche Carlo Savina
Scenografia Robert Frogs

“Colpo di coda di un certo filone thrilling italiano con qualche ambizione (il cast internazionale) e d’impostazione classica, ma rabberciato alla meglio e infatti pieno di tempi morti e smagliature. Sprecato il grande Celi, Cotten ormai fuso, la Gloria invece è sempre un bel vedere. Leonard Mann/Manzella ora fa il medico, e diciamo che il cinema non ha perso poi tanto. Inconsistente.
Discreto giallo ereditario con meccanismo à la Agatha Christie, da cui si riprende uno dei suoi classici trucchi per nascondere l’identità dell’assassino (in realtà facilmente intuibile, anche ricordando la disposizione dei nomi nei titoli di testa). Non mancano alcuni stilemi argentiani e omicidi brutali e ingegnosi, come quello di con il pacemaker di Cotten. Apprezzabile soprattutto per il nutrito cast internazionale, che affianca la Guida al sullodato Cotten.
Cast grandioso per questo film che -com’è noto- venne interrotto e ripreso solo molto tempo dopo e senza poter disporre di tutti gli attori che sarebbero serviti. Lo sviluppo narrativo è comunque piuttosto lineare nonostante le traversie produttive, peccato solo che il film giunga ad un finale davvero inverosimile. Qualche esterno cartolinesco londinese e le solite ville romane, ovviamente. La Guida mostra il pelo, il che non è un dettaglio.
Afflitto da disavventure produttive, il film si regge su un colpo di scena finale (per altro non del tutto imprevedibile agli spettatori più scafati) assolutamente inverosimile per non dire truffaldino. Fino a quel momento la pellicola non regge malissimo (nonostante la tensione non sia certo alle stelle), ma l’epilogo rovina tutto. Curioso e ricchissimo il cast.
Film interrotto per mancanza di soldi, poi ripreso e completato (ma pare senza pagare nessuno) e in qualche modo comunque fatto uscire in sala (in alcune sequenze si usò una controfigura della Guida perchè l’attrice non era disponibile a riprendere la lavorazione). Tenta di fare il giallo all’inglese e in Inghilterra è infatti ambientato, ma si aggroviglia in una miriade di colpi di scena degni della peggior telenovela brasiliana. Per non parlare dell’evento chiave, su cui si snoda tutto il mistero: improponibile. Però il cast è eccezionale.
Giallo con un cast davvero fenomenale. Non manca nessuno: la Guida, la Agren, la Valli… e funziona anche sul versante maschile con gli ottimi Celi, Cotten (degno di nota il suo omicidio molto violento), Gora, Ressell, Tom Felleghy! C’è pure Paul Muller! La storia ha qualche punto morto e vero e il finale non convince troppo (decisamente aperto a mio avviso), ma si fa vedere. Sufficiente. Ottime musiche di Carlo Savina.
Ambientazione inglese per questo film che ricorda i gialli del passato a causa delle sue atmosfere plumbee e i guanti neri spesso in evidenza. Un intreccio industriale tra faide e morti accidentali con lo scontato sorpresone finale. Cast di buon livello ma regolato in maniera aziendale. La Guida si concede a destra e pure a manca.
Non male. Si trasporta il killer argentiano coi guanti di pelle nel giallo inglese raffinato e ne esce un discreto film stile Agatha Christie (scordatevi quindi il sangue e la violenza). Ha qualche motivo d’interesse in un’ottima fotografia e in belle scenografie, nelle piacevoli musiche di Savina e, soprattutto, nello strepitoso cast: Celi, la bella Guida (fa il sicario!), Cotten (vittima dell’unica morte un po’ violenta e sadica), Manzella, la Valli… Anche la sceneggiatura fila bene, peccato per il finale. Raffinato: Due pallini e mezzo.
Interessante giallo con commistioni in stile Agatha Christie e pseudo/argentiane (guanti di pelle neri e cappello), si fa vedere con gusto grazie ad un ottimo montaggio in grado di supplire alle traversie produttive e ai buchi di sceneggiatura sparsi qua e là. I giallisti più smaliziati scopriranno dopo un quarto d’ora chi è l’assassino e non si lasceranno certo sorprendere dal colpo di scena finale… però il risultato finale è più che dignitoso. Ottimo cast e sempre audace la Guida con un paio di nudi integrali decisamente gratuiti.”
Passi di morte perduti nel buio
Alcune persone sono sedute nello scompartimento di un treno che porta da Salonicco ad Atene.
All’improvviso, durante l’attraversamento di una galleria, una ragazza viene pugnalata a morte con uno stiletto di proprietà di un fotoreporter italiano, Luciano Morelli.
Quando il treno arriva in stazione, tutti gli occupanti vengono interrogati dalla polizia, mentre i sospetti si accentrano proprio su Luciano.
Poco dopo però ad essere ucciso è un giovane, Raul, che ha tentato un ricatto al misterioso assassino del treno, che evidentemente conosce. Raul, in possesso di un guanto del killer, viene però ucciso proprio durante la consegna del denaro chiesto come contropartita. Poi è la volta di una ragazza, amante di Ulla, una splendida ballerina di colore che era anche l’amante di Raul, poi è la volta della stessa Ulla, che viene sbudellata dal killer.
Mentre le morti si susseguono, Luciano tenta dapprima di travestirsi da donna, poi, con l’aiuto di una fotomodella tanto bella quanto svampita, che è la sua amante, Ingrid e con l’aiuto di una coppia di svitati personaggi tenta di investigare da solo. Sarà una sua brillante intuizione a far cadere in trappola il misterioso killer, dopo che quest’ultimo ha assassinato anche un antiquario.
Dopo un inizio abbastanza interessante (la ragazza pugnala nel treno, in stile Assassinio sull’Orient Express), Passi di morte perduti nel buio, diretto da Maurizio Pradeaux nel 1976 si perde clamorosamente non tanto nella trama del giallo, che mescola confusamente una storia di droga (l’assassino ama la bella vita e uccide per denaro e per droga) con battute comiche assolutamente risibili e fuori contesto.
Se Leonard Mann (Luciano Morelli) mostra da subito pecche recitative notevoli, culminate nel travestimento da donna che lo rende ancora più inverosimile, Vera Krouska, che interpreta la fotomodella Ingrid è assolutamente insopportabile con una voce stridula, affetta da idiozia allo stato puro e svampita in maniera semplicemente totale.
Si aggiunga poi che il ruolo dell’ispettore è affidato ad un Robert Webber supponente e antipatico, affetto da problemi di stomaco e assurdamente cocciuto e che il resto del cast sembra raccattato più per evidenti problemi di budget che per necessità narrative e si avrà il quadro completo di questo sciagurato film di Pradeaux,
che pure veniva dalla lusinghiera prova di Passi di danza su una lama di rasoio (1973), dove aveva avuto a disposizione una coppia di ben altro spessore, ovvero Nieves Navarro (Susan Scott) e Robert Hoffmann.
A irritare ancor più è il maldestro tentativo di allegerire la tensione con sprazzi di comicità demenziale: basti pensare all’ultimissima battuta del film, una parolaccia (il celebre vaffa) rivolta da Morelli all’altra svampita ragazza che collabora alle indagini.
Il film, girato ad Atene, ha almeno il pregio di mostrare il Partenone e qualche altro monumento, che a ben vedere sono l’unica cosa guardabile del film. Le bellezze discinte che costellano il film, dall’attrice di colore Susy Jennings che interpreta Ulla, passando per Vera Krouska, Albertina Capuani, Imelde Marani e Barbara Seidel, oltre a mostrare parti anatomiche come seni e glutei altro non fanno.
E poichè va anche detto che non sono nemmeno fisicamente attraenti, il quadro si compie con somma costernazione degli spettatori.
Qualche scena splatter, un primo piano quasi totale del pube della Jennings, che viene sbudellata in primo piano.
Passi di morte perduti nel buio, di Maurizio Pradeaux, con Vera Krouska, Antonio Maimone, Leonard Mann, Barbara Seidel, Robert Webber,Albertina Capuani,Susy Jennings Imelde Marani e Barbara Seidel Thriller, Italia 1976


Leonard Mann … Luciano Morelli
Robert Webber … Ispettore
Vera Krouska … Ingrid Stelmosson
Antonio Maimone Omar Effendi
Susy Jennings… Ulla

Regia: Maurizio Pradeaux
Sceneggiatura: Arpad De Riso, Maurizio Pradeaux
Prodotto dalla Salaria film ….
Produttore associato: Dimitri Dimitriadis
Musiche: Riz Ortolani
Editing: Eugenio Alabiso
Costumi: Duilia Travenzoli
Art Direction:Giovanni Fratalocchi

Sulla linea ferroviaria Istanbul-Atene, qualcuno manomette l’impianto elettrico. Nei pressi d’una galleria, al buio, su una carrozza avviene un delitto: una giovane donna è accoltellata a morte. I sospetti ricadono tra i 5 compagni dello scompartimento, ma ci sono due testimoni, in possesso di prove schiaccianti: inizia, così, una catena, inarrestabile di delitti. Pradeaux torna al giallo dopo 5 anni, e stavolta predilige un impianto “leggero” e quasi da commedia (la scena conclusiva della cassaforte) vanificando l’intera (interessante) sceneggiatura. Poco thriller e parecchia ironia, insomma.
Terribile giallaccio di Pradeaux distrutto (deliberatamente?) dallo stesso regista, che fin dall’inizio infarcisce il copione di desolanti battute che avrebbero provocato linciaggi all’Ambra Jovinelli, per di più recitate in romanesco posticcio (con l’ebete Manzella doppiato da Claudio Capone), oltre tutto completamente fuori contesto dato che dovremmo essere ad Atene, non a Trastevere. Peccato, perchè quando decide di fare sul serio (vedi il bellissimo omicidio sul tetto) Pradeaux dimostra di non essere totalmente digiuno del mestiere.
Dopo il già piuttosto modesto Passi di danza su una lama di rasoio, Pradeaux torna al thriller con risultati ancor più deludenti. Eh sì, perché stavolta, oltre ad un plot narrativo piuttosto debole, si aggiungono incredibili inserti ironici che c’entrano come il cavolo a merenda e che danno il colpo di grazia alle pretese di creare tensione (qualora ve ne fosse una). Le scene erotiche sono molto spinte (più della media) e certamente gustose. Ma questo non basta per “sbarcare il lunario” della critica.
L’idea di Pradeaux è agghiacciante: cucire la parte thriller degli omicidi (nulla di che, ma discretamente realizzate) con scene che vorrebbero essere comiche ma che tali non riescono ad essere. Il risultato finale è imbarazzante, ben al di sotto del già non eccelso esordio del regista nel giallo all’italiana. La cosa migliore del film risulta essere l’interpretazione di Webber (l’ispettore) mentre è meglio tacere su quella di tutti gli altri. Gli amanti del genere possono anche provare a buttarci un occhio, gli altri ne rimangano alla larga.
Uno dei peggiori gialli italiani da me mai visti: in confronto La sorella di Ursula è un capolavoro! Si alternano suggestivi momenti gialli (con ottimi e sanguinosi delitti) a scadenti siparietti comici dei protagonisti che cercano di scovare l’assassino. E pensare che il regista aveva sfornato l’ottimo Passi di danza… peccato. Cast al di sotto della media, soluzione finale frettolosa e che fa acqua da tutte le parti.
Un guazzabuglio giallesco e comico allo stesso tempo, girato curiosamente ad Atene e in cui il regista Pradeaux ci mostra di conoscere il mestiere (le scene di omicidio sono efficaci): purtroppo si tira la zappa sui piedi infarcendo la pellicola di inutili siparietti comici che tolgono suspance allo spettatore; insomma, un film riuscito a metà, anche se non disprezzabile. Forse questo “fritto misto” di generi potrebbe essere sdoganato come cult-trash… io l’ho già fatto!
Pradeaux resta fedele ai suoi “passi” e, dopo quelli di danza qui si concentra su ben altri, smarriti nel buio. Chi ha ucciso la donna del treno Istanbul-Atene? L’ingegno registico resta modesto come nell’altro suo film di cui in premessa e le commistioni con toni da commedia di second’ordine non aiutano di certo. Gli omicidi sono abbastanza cruenti ma si annusa sempre l’ombra di tagli censori, più o meno grandi a seconda delle versioni visionate.
Tolto l’omicidio sul tetto (e la conseguente scena della vasca) assistiamo ad una palese presa in giro di Pradeaux nei nostri confronti. Non càpita tutti i giorni di avere una coppia di protagonisti che si spera muoiano dolorosamente sotto le mani dell’assassino per la quantità di cazzate che sparano a getto continuo (la voce della modella potrebbe turbare i nostri sonni). Se era un esperimento atto a fondere il thriller con il comico, possiamo dire che è perfettamente fallito. Sconsigliato.
Raschiando il fondo del barile, Pradeaux osa ciò che nessuno aveva (fortunatamente) mai osato prima: contaminare un giallo abbastanza tradizionale (neppure malvagio, come trama) con una comicità pecoreccia greve come le cotiche, e di allarmante squallore. Aggiunge (ma qui, niente di nuovo), siparietti di sesso (lesbico e non), di inaudita tristezza. Gettati a caso nell’impasto, alcuni interessanti omicidi, come chicchi d’uvetta che non ingentiliscono un rozzo (pan) giallo!
Che dire di un giallo misto commediaccia anni 70 che tenta sia di trasmettere tensione che di far occasionalmente ridere? Niente, se non che ha fallito in entrambi i campi. Le riprese degli omicidi non sono malaccio, ma è l’unica cosa un minimo decente in un film pieno di incongruenze e facilonerie miste a patetici siparietti che vorrebbero far ridere (specie con la figura di Vera Krouska) e a personaggi che più stereotipati non si può. Peccato, perché l’idea di base non era nemmeno male.
L’assassino ha riservato nove poltrone
Nove persone e una decima che si nasconde nell’ombra di un teatro, all’apparenza vuoto, di proprietà di uno dei 9.
Patrick Devenant invita otto suoi amici (ma il termine è decisamente eccessivo) a trascorrere una serata in un suo teatro, completamente vuoto.
Così i 9 arrivano a destinazione; immediatamente ci si rende conto che tra di essi non regna l’armonia, anzi.
Sembrano esserci antipatie e anche odio, oltre ad asti dovuti a svariati motivi.
Cè’ Patrick che ha una relazione con Vivian, Rebecca Davenant che ha una relazione lesbica con Doris, Lynn Davenant con Duncan Foster, c’è Kim che ha una relazione con Russell e infine c’è Albert; un gruppo assolutamente eterogeneo di persone, che ben presto però verrà coinvolto in una spirale di morte.
La prima a cadere è la giovane Kim, uccisa mentre recita davanti al gruppo; subito dopo tocca a Doris, schiacciata tra due pesanti porte.
Paola Senatore
E’ poi la volta di Rebecca, straziata a pugnalate e corcefissa, poi toccherà a Russell, impiccato…..
Uno dopo l’altro gli sventurati ospiti di Davenant cadono vittime del misterioso assassino; dal teatro non è possibile uscire in alcun modo, perchè l’assassino ha inchiodato le porte.
Riuscirà qualcuno a sopravvivere?
L’assassino ha riservato nove poltrone , film del 1974 diretto da Giuseppe Bennati su sceneggiatura dello stesso unitamente a Paolo Levi è un thriller con connotazioni soprannaturali.
Un film decisamente in tono minore, sopratutto per lo stanco espediente di ricalcare per l’ennesima volta la trama di 10 piccoli indiani della Christie e sopratutto penalizzato da una sceneggiatura assolutamente ostica, in cui è difficile districarsi nonostante il finale in qualche modo cerchi di spiegare ciò a cui abbiamo assistito.
La lunga teoria di morti non da tensione al film, che appare molto slegato; tuttavia l’efferatezza delle scene rende quanto meno poco soporifero il film, afflitto da ua cronica mancanza di tensione.
Tra un morto ammazzato e l’altro troppe pause, che il regista cerca di colorare di sexy mostrando le varie protagoniste in abiti succinti, risparmiando solo la Schiaffino.
Eros e tanatos, quindi, presenti in ogni buon thriller anni settanta ma in un amalgama davvero imperfetto.
Poca colpa va attribuita agli attori, che appaiono spaesati più dal dover recitare in un luogo vuoto in cui non è presente una minaccia visibile (l’assassino sembra un’ombra dell’aldilà, cosa che rende ancor più increibile il film) che per colpe specifiche o mancanze proprie.
Nel cast c’è Eva Czemerys, che interpreta Rebecca, alle prese con una relazione lesbica con Dorys, interpretata da Lucrezia Love; se la prima mostra qualche imperfezione recitativa, la seconda appare davvero svagata e fuori parte.
C’è ancora la bella Janet Agren, nei panni di Kim, la prima a morire ammazzata quindi poco giudicabile nel complesso; cè la bella Rosanna Schiaffino, che interpreta Vivian, l’unica delle protagoniste femminili a restare abbottonata e con i vestiti ben calzati addosso.
C’è Paola Senatore, che quanto meno si fa perdonare per la sua bellezza esplosiva e generosamente mostrata, che intepreta una stravagante Lynn, donna dagli ambigui costumi; tra gli uomini vanno segnalati Howard Ross (Russell) e Cris Avram (Patrick), che fanno la loro parte con relativa sufficienza.
Lucretia Love
Janet Agren
Quello che disturba principalmente, nel film, è l’isterismo di cui sembra preda il cast femminile, costretto a usare grida e espressioni di paura per sopperire alla assoluta mancanza di tensione nel film, che alla fine risulta essere l’arma in meno dello stesso.
Un thriller decisamente mediocre, mal diretto e poco attraente.
L’assassino ha riservato nove poltrone ,un film di Giuseppe Bennati. Con Rosanna Schiaffino, Lucretia Love, Howard Ross, Andrea Scotti, Chris Avram, Janet Agren, Paola Senatore, Eva Czemerys,Gaetano Russo
Giallo, durata 92 min. – Italia 1974.
Janet Agren e Lucretia Love
Howard Ross e Rosanna Schiaffino
Eva Czemerys
Rosanna Schiaffino … Vivian
Chris Avram … Patrick Davenant
Eva Czemerys … Rebecca Davenant
Lucretia Love … Doris
Paola Senatore … Lynn Davenant
Gaetano Russo … Duncan Foster
Andrea Scotti … Albert
Eduardo Filipone … L’assassino misterioso
Luigi Antonio Guerra … Caretaker (credit only)
Renato Rossini … Russell (come Howard Ross)
Janet Agren … Kim
Regia di Giuseppe Bennati
Prodotto da Dario Rossini
Sceneggiato da Giuseppe Bennati,Paolo Levi
Musiche di Carlo Savina
Editing di Luciano Anconetani
“L’intreccio narrativo è poca cosa, trattandosi dell’ennesima versione di “Dieci piccoli indiani” adagiata all’interno di un teatro frequentato da gente non proprio esemplare e – come morale “horror” vuole – passabile pertanto di punizione. Ma il folto gineceo femminile attira l’attenzione e dona un plus all’estetica del film: dei gialli questo è forse l’unico esemplare che raduna siffatte bellezze. Né è parco di delitti, prospettati in maniera assai feroce ed intervallati a sequenze d’erotismo (per l’epoca) spinto. Thrillerotico
Interessante pellicola, che incomincia come un classico giallo gotico, incrociato con “Dieci Piccoli Indiani”, ma che presto vira verso il fantastico e il mystery-tale, con risulati originali e border-line. Memorabili gli omicidi, tutti efferati, e il finale nei sotterranei del lugubre teatro.
Partendo da una situazione trita e ritrita (alcune persone che restano intrappolate in luogo chiuso e cominciamo a morire una dopo l’altra sotto i colpi di una mano misteriosa), il regista Bennati è incerto su quale strada prendere e dà così vita ad un film debolissimo e noioso, che si trascina avanti tra situazione viste e riviste, fino ad arrivare ad uno sconcertante finale, che lascia più che interdetti per la sua inconcludenza.
Spesso sottovalutato, è invece uno dei migliori gialli ambientati in luoghi chiusi che io abbia mai visto, che può contare su un nutrito cast di buoni attori (Avram, Ross) e alcune delle migliori bellezze femminili del nostro cinema (Agren, Senatore, Czemerys, Love), che però si spogliano moderatamente. L’atmosfera è assicurata dall’ambientazione nel vecchio teatro e dalle musiche di Carlo Savina (parzialmente riprese da Contronatura). Coraggioso e riuscito lo svolgimento finale.
Buon giallo di vecchio stampo. Lento quanto basta, come deve essere un giallo doc, gode dell’ottima ambientazione teatrale, decisamente efficace e a tratti claustrofobica. L’effetto “siamo in trappola e non ci sono vie di uscita” è formidabile e funzionale al racconto. Rivisto oggi è un film piuttosto invecchiato, forse destinato solo agli aficionados del cinema settantiano italico, ma d’altronde chi altri può avere il desiderio di rivedere questo film?
Grande, grandissimo giallone anomalo e suggestivo. Unica pecca: il ritmo non altissimo e qualche momento di noia (caratteristica quasi insita nel genere!). Per il resto solo cose positive: l’atmosfera malsana, il riuscito incipit di cui avevo letto su Nocturno, l’inquietante maschera dell’assassino, la brutalità degli omicidi. Eppoi il finale, che proprio nel suo crossover di generi (dal thriller al gotico nel breve volgere di una sequenza, come se gli attori, scendendo nei sotteranei, entrassero in un altro film) riesce a spiazzare lo spettatore. Sorprendente.
Interessante anche se molto tardivo rispetto al suo genere, molto più in voga nel decennio precedente. La presenza di Janet Agren e il duo lesbico Czemerys-Love giustificano appieno il ritardo. Non mancano la suspense e neppure le disinibizioni erotiche, almeno a livello concettuale. Una claustrofobia poetica, non fastidiosa e ossessiva. Siamo lontani dai thriller più lugubri di altri registi contemporanei, ma merita di essere visto.
Curiosa ambientazione teatrale, che ispirerà altri registi in seguito. Il film mescola il giallo classico (alla Dieci piccoli indiani) con i toni più maliziosi e violenti del thrilling all’italiana. Come spesso accade in questo tipo di cinema, la regia interrompe la narrazione per indugiare (piacevolmente) sulle grazie femminili, raffreddando però il phatos del racconto. Gli attori se la cavano e l’assassino è molto fantasma del palcoscenico”
Inferno
Rose Elliot, una graziosa scrittrice di poesie, acquista un libro da un antiquario ,Kazanian; il libro, scritto da un italiano, Emilio Varelli, parla delle Tre madri dell’inferno, Mater Suspiriorum, la madre dei sospiri, Mater Lacrimarum, la madre delle Lacrime e Mater Tenebrarum, la madre delle Tenebre, che l’uomo racconta di aver conosciuto personalmente.
Per loro Varelli ha costruito tre dimore, situate in tre punti geografici differenti: la prima casa è a Friburgo, la seconda a New York e la terza a Roma.
Rose leggendo il libro inizia a collegare alcuni oscuri presagi alla casa in cui abita, e alla fine si convince di abitare proprio nella casa della seconda madre, Mater Tenebrarum, casa costruita a New York, dove la ragazza vive.
Così la giovane donna inizia una pericolosa quanto movimentata esplorazione del sottosuolo; qui la donna scopre che le fondamenta dell’edificio sono completamente sommerse dall’acqua, oltre a rinvenire un cadavere ormai decomposto.

La bottega antiquaria di Kazanian

Rose nei sotterranei della casa
Sconvolta dall’esperienza, la ragazza scrive una lettera angosciata a suo fratello Mark, scongiurandolo di venire a trovarla; contemporaneamente chiede lumi a Kazanian, l’antiquario zoppo e ambiguo, che però la rassicura dicendole che ha costruito troppo con la fantasia.
Ma la ragazza sta per andare incontro a una terribile morte; dopo essere riuscita miracolosamente a scampare ad un agguato nel suo appartamento, la donna si rifugia nei sotterranei, entrando così in una stanza addobbata con strani oggetti. Mentre si guarda intorno, impaurita e stupefatta, viene afferrata da una mano con delle dita scheletriche e gettata sul pavimento, dove un istante dopo una pesante lastra la decapita orrendamente.

La misteriosa ragazza dell’università (l’attrice Ania Pieroni)
Mentre accadono questi tragici fatti, Mark riceve la lettera della sorella; durante una lezione di musica, il giovane prova a leggerla, ma non ci riesce, soggiogato dallo sguardo di una bellissima e inquietante ragazza che stringe tra le braccia un gatto.
Il giovane la insegue, dimenticando la lettera, che viene presa da Sara; la ragazza, incuriosita dalla storia raccontata nella missiva, si reca in biblioteca per cercare una copia del libro di Varelli, ma quà viene aggredita da un misterioso individuo.

Morte dell’incolpevole Sara (Eleonora Giorgi)….
Sara riesce a scappare e a tornare a casa; nell’ascensore incontra Carlo, un suo vicino, al quale la donna chiede di farle compagnia.
Sulla città si è scatenato un furibondo temporale, così l’uomo accetta di passare qualche ora in compagnia della ragazza.
Decisione fatale, perchè entrambi verranno orrendamente assassinati.
Quando Mark arriva è troppo tardi; c’è la polizia e i due giovani sono morti.
Della lettera giacciono per terra solo frammenti.
Così il giovane si reca a New York per indagare di persona, e giunge nell’ultimo domicilio di sua sorella Rose.
Nel palazzo abita gente molto ambigua, a cominciare dalla portiera Carol, passando per il professor George Arnold , un uomo che è costretto a vivere su una sedia a rotelle, che comunica con un piccolo amplificatore di suoni e che è portato in giro da un’infermiera assolutamente sinistra, la contessa Elise Stallone Van Adler, una donna dall’equilibrio fragile accompagnata da un maggiordomo equivoco.

La casa della Mater Tenebrarum di giorno
Elise è la prima a trovare la morte; assalita da un gruppo di gatti inferociti, viene pugnalata dalla solita figura nera.
Tocca poi all’antiquario Kazanian, straziato orrendamente dai topi a Central Park mentre tenta di liberarsi di un sacco contenente gatti da lui catturati all’interno della propria casa.
Le morti proseguono: muore il maggiordomo John, che vorrebbe impadronirsi dei gioielli della sua defunta padrona, muore la custode Carol, bruciata viva mentre scopre il cadavere del maggiordomo.
La donna, avvolta dalle fiamme, precipita da una delle finestre della casa maledetta.
Mentre avvengono questi fatti, Mark scopre casualmente una serie di cunicoli che portano all’appartamento del professor Arnold.
Qui il giovane apprende la vera identità dell’uomo: si tratta di Varelli, l’uomo schiavo delle tre madri che ha costruito per loro le tre case, inclusa ovviamente quella in cui si svolge l’azione.
Varelli tenta di uccidere Mark iniettandogli del veleno, ma muore strangolato dal filo del microfono che gli serve per parlare.

Mark incontra il professor Arnold
Mark fugge, per ritrovarsi nella famosa stanza in cui sua sorella ha perso la vita.
Qui trova la sinistra infermiera di Varelli e scopre la sua vera identità: si tratta di Mater Tenebrarum, la madre delle tenebre.
Ma è destino che il giovane debba salvarsi: il palazzo prende fuoco, e Mark riesce ad allontanarsi miracolosamente.
Mater Tenebrarum resta intrappolata nel sottosuolo della casa, che crolla seppellendola.

Inferno arriva dopo il buon successo di Suspiria, film decisamente innovatore del regista del brivido Dario Argento, che era passato dal giallo/thriller tradizionale ad una cinematografia in cui l’elemento thriller si amalgama indissolubilmente all’horror gotico.
Riprendendo gli elementi che avevano caratterizzato Suspiria, ovvero una trama in cui il sopranaturale è predominante rispetto al resto, Argento passa a raccontare la storia della seconda delle tre madri degli inferi, dopo che la prima ,Mater Suspiriorum, ha trovato la sua fine a Friburgo nell’incendio della prima delle tre case costruite da Varelli.

Daria Nicolodi, la contessa Elise Stallone Van Adler
Inferno quindi riprende la tematica del primo film, che Dario Argento amplifica e spiega meglio in questa seconda parte.
Lo fa con un linguaggio visivo molto forte, in cui predominano i colori accesi, quasi tutti saturati sul rosso, sul porpora e sul viola, tanto che le parti diurne, davvero poche, appaiono come delle isole remote in un linguaggio visivo forte e frastornante.
L’azione non è predominante, nel senso che il ritmo non incalza, quasi che Argento voglia seguire più un nesso descrittivo per tensione che affidato alla potenza del colpo di scena o allo splatter.
All’atto pratico il film regge, anche se con fatica.
Per lo spettatore che non ha visto Suspiria, i riferimenti alle vicende delle tre madri, di Varelli ecc. appaiono decisamente ostici.
Ma Inferno può reggere una trama a se stante, sopratutto dopo che il finale ha rivelato i retroscena del film stesso e del precedente.

Mark incontra l’antiquario Kazanian
Tant’è vero che tra Inferno, girato nel 1980 e La Terza madre, opera conclusiva della trilogia, passeranno ben 27 anni, a simboleggiare la difficoltà del regista di riproporre un thriller gotico fuori tempo massimo, ovvero dopo che il cinema si è evoluto su binari ben distinti.
Inferno lascia parecchi dubbi, legati in primis alla scellerata decisione di Argento di affidare la parte di Mark all’incredibile Leigh McCloskey, che massacra il personaggio di Mark Elliot, con un’interpretazione degna delle Pernacchie d’oro americane, riservate al peggior attore dell’anno.
Legnoso, inespressivo, monocorde, McCloskey rovina gran parte del film arrancando penosamente tra una scena e l’altra, togliendo tensione e forza al suo personaggio.
Viceversa Irene Miracle ovvero Rose Elliot nel film, mantiene alta la tensione mostrando espressività, come del resto fa la bella e brava Eleonora Giorgi (Sara), l’ottimo Sacha Pitoeff (Kazanian) e il resto del cast.
Due camei vanno segnalati su tutto: quello della bella e misteriosa Ania Pieroni, la ragazza dell’università, inquadtrata solo per poche sequenze, ma capace di bucare lo schermo con la sua bellezza e quello di Gabriele Lavia, che interpreta lo sventurato Carlo (una reminescienza di Profondo rosso, in cui l’attore aveva interpretato un personaggio con lo stesso nome).
Come in Suspiria, c’è la brava Alida Valli, mentre va segnalato Leopoldo Mastelloni nel ruolo dell’ambiguo maggiordomo John.
Sempre brava la Nicolodi, musa di Argento, questa volta destinata ad una orribile fine.
Per la colonna sonora Argento, orfano questa volta dei suoi Goblin, ci si affida a Keith Emerson, che compie un prodigio con il tema centrale del film, Mater Tenebrarum, assolutamente perfetto nella più bella sequenza del film.
Spazio anche a Verdi e al suo Nabucco, che ascoltiamo dalle cuffie del giovane Mark impegnato nelle lezioni all’università.
Se Inferno non può essere definita opera completamente riuscita, va tuttavia riabilitata rispetto alle critiche feroci di parte della critica.
Argento ha il coraggio di uscire dal clichè del “regista del brivido” capace di far sobbalzare lo spettatore sulla sedia con gli effettacci splatter o con il classico colpo a sorpresa.
Lo fa con un film diverso, coraggioso come era stato coraggioso Suspiria, con uso del colore innovativo anche se rischioso.
Una scommessa vinta con sufficienza, a mio giudizio.
Quando quasi 30 anni dopo il regista metterà mano al capitolo conclusivo della saga, lo farà realizzando davvero un’opera discutibile, in cui ritornerà a piene mani l’effetto splatter, senza più le cupe e livide atmosfere dei primi due capitoli.
Inferno è una buona opera, come Suspiria, del resto.
Sopratutto tenendo conto che siamo nel primo dei famigerati anni ottanta, anni in cui la crisi del cinema italiano appare davvero di portata colossale.
Inferno, un film di Dario Argento. Con Eleonora Giorgi, Alida Valli, Leopoldo Mastelloni, Gabriele Lavia, Feodor Chaliapin jr, Daria Nicolodi, Fulvio Mingozzi, Paolo Paoloni, Veronica Lazar, Irene Miracle, Sacha Pitoëff, Ania Pieroni
Horror, durata 107 min. – Italia 1980.
Leigh McCloskey: Mark Elliot
Eleonora Giorgi: Sara
Daria Nicolodi: Elise
Irene Miracle: Rose Elliot
Sacha Pitoeff: Kazanian
Alida Valli: Carol, la portinaia
Veronica Lazar: Infermiera/Mater Tenebrarum
Gabriele Lavia: Carlo
Feodor Chaliapin Jr.: Professor George Arnold /Dr. Varelli
Leopoldo Mastelloni: John, il Maggiordomo
Ania Pieroni: Studentessa di musica/Mater Lacrimarum
James Fleetwood: Cuoco
Rosario Rigutini: Uomo
Ryan Hilliard: Ombra
Paolo Paoloni: Insegnante di musica
Fulvio Mingozzi: Tassista
Luigi Lodoli: Rilegatore
Rodolfo Lodi: Uomo anziano
Dario Argento: Narratore
Soggetto Dario Argento
Sceneggiatura Dario Argento
Produttore Claudio Argento
Produttore esecutivo Salvatore Argento, William Garroni
Casa di produzione Produzioni Intersound
Fotografia Romano Albani
Montaggio Franco Fraticelli
Effetti speciali Germano Natali, Mario Bava (effetti visivi)
Musiche Keith Emerson, Giuseppe Verdi
Scenografia Giuseppe Bassan
Costumi Massimo Lentini
Trucco Pierantonio Mecacci

“Noto, celebrato, imperfetto, con un protagonista che riesce nell’impresa di essere presto scordato. Lo si può adorare “in toto”, ma mi pare logico ritenerlo un film dotato di momenti vigorosissimi (fantastico, pure in senso etimologico, il finale) alternati a momenti un po’ così, con il pur minimo barlume di logica che ricopre il ruolo del grande assente. Grande l’uso di note e di voci verdiane, ottime pure nella creazione di Keith Emerson, che qualcuno ha paragonato ai tonanti “Carmina Burana”.
Tra i vertici della filmografia di Dario Argento, Inferno va visto come un magnifico esercizio di stile. Il regista tralascia ogni pretesa di verosimiglianza e la sceneggiatura risulta in realtà piuttosto ingarbugliata (e a tratti francamente incoerente). Colpisce invece il sapiente gioco di luci e colori e l’efficacia di sequenze iperviolente che si sposano bene con le belle musiche di Emerson.

In questo grande horror gli attori passano quasi in secondo piano, rispetto alle scenografie, alle fantastiche riprese e all’utilizzo delle luci. Sono queste le tre forze dirompenti del film. Visivamente, è tutto da gustare (colori pazzeschi: predominano il rosso e il blu). Dà l’idea di un esercizio di stile (c’è un certo compiacimento nel colpire lo spettattore con bellezza e efferata violenza: la coltellata al collo). Unici nei: una sceneggiatura un po’ incasinata e un finale, piuttosto grossolano, non all’altezza di una simile pellicola.
Personalmente, dopo lo stupendo Suspiria, giudico questo film l’inizio della fine di Dario Argento. Di positivo rimane una fotografia splendida con colori superbi e la buona orchestrazione delle singole scene, manca però la coesione del tutto e la trama è praticamente inesistente. Alla fine rimane un po’ di amaro in bocca per quella che sembrava un’occasione sprecata ma che poi si rivelerà come il primo passo verso prodotti sempre meno pregiati
Un buon horror (secondo capitolo della trilogia cominciata con Suspiria), che però non raggiunge la bellezza del primo capitolo. Certo, nel cast vi sono bravi attori (anche se quasi tutti fanno brevi partecipazioni): Alida Valli, Daria Nicolodi, la Giorgi, Michele Soavi (!) e un discreto McCloskey. Belli i giochi di luce e le scenografie; inquadratura finale evitabile. Buono, ma non un capolavoro.
Capolavoro visionario, più radicale e irrazionale del precedente Suspiria. Lontano dagli stereotipi dell’horror, un’insieme di sensazioni visive e sonore, potente e fascinoso, dove trama e recitazione passano volutamente in secondo piano. Regia, fotografia e musiche spesso al limite del sublime. Peccato per qualche evitabile difetttuccio (l’effetto speciale del teschio ad esempio) ma il livello rimane altissimo. Imprescindibile.”
Rivelazioni di un maniaco sessuale al capo della squadra mobile
Una serie di assassini, un ispettore chiamato a risolvere l’enigma.
Un plot classico, che più classico non si può; si inizia con la morte di alcune belle donne, sposate ai notabili della città, accanto ai cadaveri delle quali vengono rinvenute delle foto.
Sono immagini ovviamente di amanti delle donne, ma presentano una particolarità: i volti degli uomini sono stati rimossi, ovviamente per nascondere la loro identità.
L’ispettore Capuano è incaricato delle indagini, che si presentano subito difficili per i nomi coinvolti; a lui si affianca l’anatomo patologo Casali , che si rivela una preziosa fonte di informazioni per capire come sono morte le donne e la maniera in cui ha operato l’assassino.
Cercando di non pestare i piedi a nessuno, Capuano indaga, prendendo anche delle cantonate, come quella che lo vede sospettare dell’addetto alla ricucitura dei cadaveri.
Ma poco alla volta il caso si sbroglia, fino ad un finale assolutamente a sorpresa.
Rivelazioni di un maniaco sessuale al capo della squadra mobile, film del 1972 diretto da Roberto Bianchi Montero rivela da subito la scarsa attitudine del regista per il genere thriller;
Sylva Koscina è Barbara Capuana
la trama è abbastanza intricata ma anche maldestramente svolta, tanto che in alcuni punti si fa fatica a seguire i guizzi del regista, che sembra privilegiare più l’aspetto prettamente estetico che quello cinematografico.
Si assiste, difatti, ad una parata di morte assassinate generalmente in desabillè, cosa che la dice lunga sulle intenzioni del regista.
La trama resta abbastanza nell’oscurità, spiazzando lo spettatore, che si riavrà solo sul finale, quando il tutto giungerà alla conclusione, in maniera peraltro ben congegnata.

Susan Scott (Nieves Navarro) è Lilly
Debitore as usual del solito Argento, Bianchi Montero punta tutto su una certa latente tensione, sul cast di starlette che popola il film e su un robusto contributo sonoro del grande Gaslini; se la ricetta non funziona appieno è perchè manca uno degli ingredienti fondamentali, ovvero una suspence tirata, di quelle che inchiodano lo spettatore alla poltrona.
Manca anche nerbo nella recitazione, sopratutto da parte di Farley Granger, imperturbabile e azzimato nei panni dell’ispettore Capuano; Chris Avram se la cava meglio, così come una sicurezza è Luciano rossi, questa volta delegato nella parte decisamente antipatica di un becchino addetto all’estetica dei cadaveri, che ovviamente diventa il sospettato numero uno.
Ma lo spettatore scafato, quello che ama il genere thriller, non si lascia depistare da un si facile indizio, e cerca ovviamente altre soluzioni; la troverà in un finale un tantino tirato per i capelli, ma tutto sommato abbastanza originale.
Se il modus operandi dell’assassino sembra schematicamente compresso, con le morti che avvengono tutte nello stesso modo e che sembrano ricalcare il clichè della punizione delle adultere, la solita immancabile eliminazione del vizio, a salvare la braca pericolosamente inclinata arriva proprio il finale e sopratutto la curiosità di vedere la parata di belle attrici alle prese con il misterioso maniaco.
Il cast, come accennatto, presenta una parata di bellezze di primo piano; Annabella Incontrera, Sylva Koscina, Krista Nell, Femi Benussi, Susan Scott, Angela Covello sono decisamente tutte belle, sexy e affascinanti.
E sono anche abbastanza spogliate, il che induce a qualche malizioso pensierino sulle finalità del film di Montero.
Ma, in definitiva, è un film che può essere visto senza annoiarsi troppo, con qualche bel colpo a patto però di non aspettarsi un thriller mozzafiato
Rivelazioni di un maniaco sessuale al capo della squadra mobile, un film di Roberto Bianchi Montero. Con Annabella Incontrera, Sylva Koscina, Silvano Tranquilli, Farley Granger, Susan Scott, Philippe Hersent, Andrea Scotti, Ivano Staccioli, Sandro Pizzorro, Benito Stefanelli, Krista Nell, Femi Benussi, Bruno Boschetti, Jessica Dublin, Chris Avram, Fabrizio Moresco, Angela Covello, Luciano Rossi
Poliziesco/Thriller, durata 91 min. – Italia 1972.
Farley Granger … Ispettore Capuana
Sylva Koscina … Barbara Capuana
Silvano Tranquilli … Paolo Santangeli
Annabella Incontrera … Franca Santangeli
Chris Avram … Professor Casali
Femi Benussi … Serena
Krista Nell … Renata
Angela Covello … Bettina Santangeli
Fabrizio Moresco … Piero
Irene Pollmer … Giannina
Luciano Rossi … Gastone
Jessica Dublin … Rossella
Philippe Hersent … Questore
Nieves Navarro … Lilly
Bruno Boschetti … Poliziotto
Regia: Roberto Bianchi Montero
Sceneggiatura: Luigi Angelo
Produzione: Angelo Faccenna, Eugenio Florimonte,Mario Pellegrino
Musiche: Giorgio Gaslini
Costumi: Oscar Capponi
Editing: Rolando Salvatori
Effetti: Vitantonio Ricci
Costumi: Lidia Maniero
“Giallino italico con trama quasi inesistente e qualche trovatina (mega-citazione dal baviano Sei donne…, il sangue dalla scala a chiocciola, l’inanità del testimone del delitto finale…). Povero il contorno (risibili l’omicidio della Benussi e la lentezza del commissario nel far partire il registratore) e recitazioni appena sufficienti (il regista amava il “buona la prima”). L’amore per il genere, per il decennio e per il superbo gineceo spingerebbero almeno verso la risicata sufficienza: la razionalità, invece, dice uno e mezzo.
La trama è scritta un tanto al chilo, ma quello che rende interessante il film di Montero è – oltre all’impatto scenico cagionato dalla presenza (inusuale) di un elevato numero di fascinose attrici (in ruolo di apòstate) – la solida mano di un regista abituato a realizzare, con professionalità (ed accortezza scenica, con riguardo per la buona fotografia) pellicole di svariati generi. Se l’influenza di Argento si fa sentire, bisogna però segnalare che Montero anticipa l’utilizzo di un grande compositore musicale (Giorgio Gaslini) indòtto a comporre un tema à la Morricone.
Tipico giallo anni Settanta, unisce l’estetica di Bava e la meccanica di Argento (modalità degli omicidi e particolare rivelatore) a un sottotesto maschilista e moralista. La suspense scarseggia, essendo schiacciata dall’incontenibile pressione erotica delle attrici più in voga del momento nel cinema di genere (Koscina, Benussi, Scott, Nell, Incontrera), tutte artisticamente spogliate; c’è anche la giovanissima Covello, unica donna dal ruolo innocente e pudico. Reminescenze hitchcokiane nel beffardo finale.
Giallo girato in economia ma non disprezzabile. Si accumulano omicidi ed ovviamente si pensa bene di fornire al pubblico qualche facile sospettato su un piatto d’argento (un cinico avvocato, un medico pazzo col ghigno del grande Luciano Rossi…) solo per arrivare alla sorpresa finale. Da gustarsi più con la pancia che non col cervello, in ogni caso. Notevole il cast femminile, con nudi a ripetizione.
Risibile thrillerino all’italiana in cui un feroce assassino si diverte ad uccidere donne fedifraghe. Perché? Pare che neanche gli sceneggiatori avessero le idee chiare in proposito, tanto che hanno dato vita ad un plot piuttosto confuso e farraginoso che non coinvolge quasi mai lo spettatore e che si fa notare solo per il finale beffardo ed intriso di umorismo. Per il resto c’è davvero poco da stare allegri.
Ottimo giallo italiano con un cast femminile strepitoso. In quale film possiamo trovare la Koscina, la Scott, la Neill, la Benussi, la Incontrera… Anche il cast maschile è ottimo: Granger, Avram e soci (una gioia per gli occhi del fan degli Anni Settanta). Buone le musiche, i delitti molto sanguinosi, il finale beffardo (un pochino traballante nella soluzione, ma ottimo). Irresistibile, almeno dal mio punto di vista.
Piacevole thriller argentiano con qualche venatura poliziesca. Discreta la regia e curiosamente insistiti i dettagli gore (mai splatter però) e le scene di nudo (integrale quello di Susan Scott). La storia non è nulla di eccezionale, con qualche lentezza e un po’ troppi riferimenti ad Argento, ma bene o male regge fino alla fine. Ottimo il protagonista Farley Granger, bravo Silvano Tranquilli, notevole il cast femminile. Nulla di eccezionale le musiche di Gaslini. Sorprendente l’omicidio sulla spiaggia.
Tra i vari spin-off italici dell’Argento prima maniera, spicca questo giallo dal titolo assai bizzarro (e logorroico). In realtà, a parte un cast rispettabile che mette insieme molte starlette dell’epoca, il film non presenta grandi motivi d’interesse: la sceneggiatura è appena sufficiente, il ritmo latita, la tensione è pari a zero, le scene cruente sono poche e mal realizzate. Tra i pro invece segnalo le belle musiche di Gaslini e il finale spietato, che mette sullo stesso piano buoni e cattivi. Si denota un fondo misogino e anti-borghese.
Il commissario col baffetto azzimato che risolve il caso senza scomporsi: c’è. Alcune sequenze importanti come l’omicidio sulla spiaggia o il finale con fotogrammi sovraimposti: ci sono. Bellezze discinte: non mancano, anzi abbondano. Il sospettato numero uno, un platinatissimo necrofilo che alla fine è innocente: presente. La colonna sonora evocativa e stucchevole: non poteva mancare. Insomma, gli ingredienti che hanno fatto grande il giallo italiano ci sono tutti, ma da metà pellicola causa inedia diffusa, è la voglia di arrivare alla fine, che mi mancava.”
La coda dello scorpione
Kurt Baumer, un uomo d’affari, muore in un incidente aereo; il velivolo su cui viaggia esplode mentre è in volo.
Sua moglie Lisa, mentre tutto ciò accade, è a letto con con il suo amante Philip; riceve una telefonata che la informa della triste notizia, così, qualche giorno dopo, viene convocata dalla compagnia di assicurazioni con la quale Kurt Baumer ha stipulato un’assicurazione sulla vita, con un premio di 1.000.000 di dollari.
La donna quindi si reca ad Atene, presso l’agenzia della capitale greca, nella quale è disponibile la somma che le spetta, tallonata da Peter Lync, un agente della compagnia incaricato di verificare l’estraneità della donna nella morte del marito.
Ad Atene, Lisa viene contattata da Lara Florakis, un’amante di suo marito, che le chiede di dividere la somma che la donna ha riscosso, ricevendone in cambio un fermo diniego.
Inspiegabilmente, Lisa chiede di riscuotere l’intera cifra in contanti, ma la cosa le diventerà fatale, perchè mentre è in albergo, viene barbaramente uccisa, mentre il denaro scompare.
Anita Strindberg
Janine Reynaud
Da quel momento gli avvenimenti prendono un ritmo incalzante: Peter viene avvicinato da Cleo Dupont, una bella e affascinante giornalista alla ricerca di scoop, e ben presto i due diventano amanti.
Nel frattempo muore assassinata Lara Florakis, mentre la polizia insegue il fantomatico assassino, che sembra un’ombra inafferrabile.
Anche l’Interpool si muove, e mette sulle tracce di Peter e più in generale, su quelle dell’assassino di Lisa un suo agente, che ben presto si convince che in realtà Baumer non è morto, ma ha simulato l’incidente per riscuotere l’assicurazione.
George Hilton
L’agente Interpool e il commissario greco Stavros, però, seguono anche Peter, che a loro giudizio è coinvolto in qualche modo nei vari omicidi; così tra vari colpi di scena si arriva alla soluzione finale.
La coda dello scorpione, diretto da Sergio Martino nel 1971, è un buon thriller, caratterizzato da una trama ben congegnata e arricchita da colpi di scena, sopratutto nel finale quando la matassa si dipana.
Se la storia non è propriamente originale, Martino supplisce a questa mancanza con tanto mestiere, avvalendosi anche di un buon cast, nel quale figurano George Hilton, l’investigatore della compagnia di assicurazioni ambiguo e dongiovanni, Evelyn Stewart, che interpreta Lisa Baumer con sufficiente bravura, la bella e affascinante Anita Strindberg,
che interpreta Cleo, che alla fine sarà l’unica a salvarsi giustamente la pelle; bene anche gli attori di contorno, con la solita sicurezza di Luigi Pistilli, il commissario Stavros e di Janine Reynaud nella parte di Lara Florakis.
Ottimo anche Alberto de Mendoza nel ruolo di John Stanley.
Film scorrevole, nel quale Martino sceglie non a caso di puntare più sulla trama e sul suo sviluppo piuttosto che sui soliti elementi di contorno, come gli effetti splatter o le solite scene gratuite di sesso.
Difatti nel film mancano sia i primi che le seconde; di sangue non se ne vede, se non nei vari omicidi, e di sesso non c’è nemmeno l’ombra, fatti salvi due momenti in cui la Stewart e la Strindberg sono in intimità con i rispettivi compagni.
Ma sono davvero scene da educande.
Segnalo la bella sequenza in cui Janine Reynaud viene inseguita in casa e uccisa davanti alla finestra,carica di tensione; ricorda moltissimo quella successiva girata da Dario Argento nel suo Profondo rosso, in cui la sensitiva viene uccisa dal suo assassino e muore con la gola tagliata dai vetri della finestra.
Qui manca l’elemento dei vetri in frantumi, ma in pratica la scena è presso che uguale.
Impeccabile il commento sonoro di Bruno Nicolai, impeccabile la fotografia, impreziosita dalla location greca.
Il finale, a sorpresa ma non più di tanto, è forse l’unica nota stonata del film; l’inseguimento tra le rocce appare poco coinvolgente, così come la soluzione dell’enigma.
Ma davvero era pretendere troppo da un prodotto senza ambizioni particolari e che invece si traduce in una lieta sorpresa.
Il film è disponibile in una splendida riduzione divx all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=wkT8WIEZnBw
La coda dello scorpione, un film di Sergio Martino. Con Luigi Pistilli, George Hilton, Evelyn Stewart, Anita Strindberg Giallo, durata 92 min. – Italia 1971.
George Hilton … Peter Lynch
Anita Strindberg … Cléo Dupont
Alberto de Mendoza … John Stanley
Ida Galli … Lisa Baumer (come Evelyn Stewart)
Janine Reynaud … Lara Florakis
Luigi Pistilli … Commissario Stavros
Tom Felleghy … Mr. Brenton
Luis Barboo … Sharif
Lisa Leonardi … Hostess (come Annalisa Nardi)
Tomás Picó … George Barnet
Piccolo gioiello del “giallo” italiano, girato con eleganza e stile, caratteristiche -queste- riscontrabili nel Martino “touch”. Il film, pur subendo l’influenza del giallo (come titolo allude) alla “Dario Argento”, si distingue per una narrazione ibrida: c’è il noir, c’è l’erotismo tipico del Lenzi “paranoico” e ci sono interpreti che offrono, con rara intensità, performance indimenticabili (Hilton, Strindberg, Pistilli e la Stewart). Né mancano una buona dose di cinema estremo (l’omicidio con bottiglia) e una bella soundtrack.
Altro buonissimo lavoro di Sergio Martino, che compensa l’incolmabile lacuna della defezione di Edwige (ma le signore presenti sono di gran classe) con la consueta accuratezza della messa in scena. L’ambientazione greca fa scattare nei veterani sceneggiatori (in anticipo sul Davinotti) il gioco delle associazioni, in particolare con i nostri thriller spionistici degli anni ’60 spesso ivi ambientati (tout se tient). La trama si incasina un po’, ma poco male. Ottimo Hilton. Eccellente riuscita
Discreto cast, discreta sceneggiatura, risultato, un discreto giallo, senza particolari pretese, con un considerevole numero di ammazzamenti (praticamente, una strage per un malloppo, giustificata solo in parte con la classica frase della vittima “Sei pazzo!”). Le uccisioni sono piuttosto cruente e anche realistiche (taglio della gola, coltellata nello stomaco, coccio di bottiglia nell’occhio…) e la colonna sonora è decente (la cosa più interessante e riuscita è la credo corda di violino pizzicata prima dell’uccisione). Un’occhiata la merita, ma non va al di là del prodotto ben presentato.
L’intricato plot gastaldiano si dispiega su una struttura narrativa simile a Psyco, nella quale l’abile mano registica di Martino inscena feroci omicidi di derivazione argentiana non estranei pure all’estetica di Bava; ad Argento si allude, quasi ironicamente, anche con il riferimento al famoso “particolare rivelatore”. Il cast è buono e Hilton, specie nel finale, riserva una delle sue prove migliori; Pistilli è un commissario amante dei puzzle e la Strindberg occupa degnamente il trono lasciato vacante della Fenech.
Martino dirige un ottimo giallo di stampo argentiano, con bravura innata. La confezione è ottima (basta citare solo la musica di Bruno Nicolai) e il regista può contare su un cast di eccelenti attori specialisti del genere (Strindberg, Hilton, De Mendoza, Pistilli, ma anche i bravi Janine Reynaud, Ida Galli e Luis Barboo). Una volta tanto la soluzione finale funziona alla perfezione con un movente solido (i soldi). Una vera e propria prova di regia l’omicidio della Reynaud. Tom Felleghy è un notaio.
Martino è forse colui che ha sfornato i gialli migliori negli Anni Settanta: storie semplici, comprensibili, girate divinamente, con un estremo gusto per l’inquadratura e sottili omaggi-citazioni. Prova ne è questo giallo esotico a metà strada tra Bava e Argento, ma che passa anche attraverso snodi narrativi colti, come l’ingrandimento fotografico preso da Blow Up di Antonioni. È un giallo quasi spionistico (con echi di 007!) che pare un’avventura di Diabolik, iconicamente evocato nella figura dell’assassino.
Buonissimo giallo che parte leggermente in sordina per poi salire sempre più di ritmo, con una notevole mezz’ora finale. Interpretato piuttosto bene, vede la presenza di un cast di tutto riguardo, con un George Hilton veramente strepitoso. Locations suggestive.








































































































































































































































































