Il poliziotto è marcio
Conclusa la trilogia del “milieu” nel 1973 con Il boss, che aveva preceduto La mala ordina e Milano calibro 9,
Fernando Di Leo gira nel 1974 Il poliziotto è marcio.
Anche questa volta lo stampo è nettamente più noir che poliziesco,con un titolo che anticipa un altro anti eroe,
il commissario Domenico Malacarne, il quale già nel cognome indica un personaggio agli antipodi del poliziotto senza macchia e
senza paura che generalmente era il protagonista della infinita serie dei poliziotteschi, genere cinematografico
di stampo tutto italiano nato all’ombra dei grandi polizieschi americani.
Malacarne è un corrotto, un poliziotto che intasca tangenti facendo finta di non vedere il traffico di caffè o di sigarette
che avviene praticamente sotto i suoi occhi.
Non accetta la droga, le armi, ma resta un personaggio negativo,diametralmente opposto alla figura nobile di suo padre, un maresciallo adamantino, onesto, vero contraltare alla morale abietta di suo figlio.

Di Leo rovescia in qualche modo lo stereotipo del poliziotto buono e bravo,spesso vittima del suo dovere o osteggiato dai superiori,colpito negli affetti dalla malavita. Malacarne non è un eroe. Anzi, è un esponente della legge che intasca pure 50 milioni all’anno per non fare il suo dovere.
Il poliziotto è marcio è un’opera ancora più cinica e nera di quelle che il regista pugliese ci ha abituato a vedere.
Certo non la sua opera migliore,ma un altro tassello in una cinematografia da primo della classe che include non solo la trilogia del milieu,ma opere di ottima fattura come I ragazzi del massacro,La seduzione,I padroni della città o Avere vent’anni.
Pellicola cinica e lucida,dicevo.
Un inizio teso,secco.
In un capannone alcune persone parlano di un traffico di sigarette di contrabbando;gli uomini di Pascal,boss dei traffici illeciti,irrompono e massacrano di botte i rivali,sparando alla fine nelle gambe dei malcapitati.
Entra in scena il commissario Malacarne che sventa una rapina,nella quale resta ucciso un orefice e che dopo un inseguimento mozzafiato riesce ad arrestare il bandito fuggiasco.

Sono passati poco più di 15 minuti,il film sembra lanciato verso un’escalation di violenza senza precedenti;in realtà Di leo da quel momento punta direttamente su Malacarne,mostrandolo alle prese con la sua equivoca doppia vita di poliziotto marcio.
In un sussulto di dignità,Malacarne rifiuta ancora una volta di chiudere gli occhi su un traffico di armi ed è l’inizio della sua fine;
il primo degli innocenti a pagare è l’anziano Serafino,testimone inconsapevole delle attività losche della banda,seguito poi
dall’integerrimo padre del commissario e infine dalla sventurata Sandra,la donna di Malacarne.
Domenico scatena una guerra senza quartiere contro la banda e giunge ad uccidere Pascal,il capo prima di cadere a sua volta
sotto i colpi dei superstiti,guidati dal suo ex amico e collega Pietro Garrito…
Finale drammatico,come del resto tutto il film,sceneggiato da Sergio Donati che in precedenza aveva lavorato a film del calibro di C’era una volta il West e Giù la testa.
Di Leo tratteggia un film tutto teso ad un nero assoluto;non ci sono personaggi positivi,fatta eccezione per il papà di Domenico e di Sandra,la sua donna, mentre i cattivi lo sono in modo assoluto.
Spietati,cinici e ovviamente assassini.
Uno alla volta i buoni periscono.

Moriranno anche i “cattivi”,in un olocausto finale dal quale però esce vittorioso un altro corrotto,che sarà evidentemente
un trait d’union con Malacarne.
Pietro Garritto,poliziotto colluso come Domenico con la malavita,sarà il vero vincitore,perchè si libererà da un pericoloso rivale e al tempo stesso potrà così continuare i suoi loschi traffici.
Prodotto di ottimo livello,come del resto la quasi totale produzione di Di Leo;che utilizza anche un cast di assoluto valore,fra i quali spiccano nomi come quello di Salvo Randone,che nobilita in modo impareggiabile una figura dolente e dignitosa come quella dell’onesto maresciallo alle soglie della pensione che adora e stima il proprio figlio, il quale in realtà è un’anima dannata.
Ancora,ottima la Boccardo,deliziosa e candida nella parte di Sandra,dell’appena sufficiente Luc Merenda,del solito Vittorio Caprioli,un’autentica sicurezza,di Raymond Pellegrin e di Richard Conte.

Le musiche sono di Luis Enriquez Bacalov che arrangerà molti lavori di Di Leo fino a Vacanze per un massacro.
Un film di sicuro effetto,godibile per tutta la sua durata,disponibile su You tube all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=3jgXhZWtnvY
Il poliziotto è marcio
Un film di Fernando Di Leo. Con Luc Merenda, Vittorio Caprioli, Richard Conte, Raymond Pellegrin, Delia Boccardo, Gianni Santuccio, Salvo Randone, Loris Bazzocchi, Rosario Borelli, Marisa Traversi, Salvatore Billa, Massimo Sarchielli, Elio Zamuto, Mario Garriba, Gino Milli, Monica Monet, Sergio Ammirata
Drammatico, durata 91 min. – Italia 1974
Luc Merenda: commissario Domenico Malacarne
Richard Conte: dott. Mazzarri
Delia Boccardo: gallerista Sandra
Raymond Pellegrin: Pascal
Gianni Santuccio: questore
Vittorio Caprioli: cav. Serafino Esposito
Salvo Randone: maresciallo Malacarne
Rosario Borelli: agente Pietro Garrito
Monica Monet: cronista Barbara
Elio Zamuto: Rio il Portoghese
Italo Milli: sgherro di Pascal
Sergio Ammirata: vice commissario Mario Corcetti
Loris Bazoki (Loris Bazzocchi): travestito Gianmaria
Marcello Di Falco: sgherro di Pascal
Luigi Antonio Guerra:
Marisa Traversi: contessa Nevio
Sergio Graziani: commissario Domenico Malacarne
Pino Locchi: Pascal
Giorgio Piazza: Mazzanti
Arturo Dominici: maresciallo Malacarne
Vittoria Febbi: cronista Barbara
Luciano De Ambrosis: Garrito
Regia Fernando Di Leo
Soggetto Sergio Donati
Sceneggiatura Fernando Di Leo
Produttore Galliano Juso,
Ettore Rosboch
Casa di produzione Cinemaster,
Mount Street Films S.r.l. (Roma),
Mara Film (Parigi)
Distribuzione (Italia) Titanus
Fotografia Franco Villa
Montaggio Amedeo Giovini
Musiche Luis Enriquez Bacalov
Scenografia Francesco Cuppini
Costumi Giorgio Gamma
Trucco Antonio Mura
“Sissignore, sono corrotto! Sono un infame, un traditore! Ho 60 milioni da parte, un amante di lusso e quando alzo la voce tutti si schiaffano sull’attenti!”
“Quanti soprusi hai compiuto per un panettone a natale? Anche la tua è corruzione, ma da fessi!”.
“Uhè pirla… ma dove casso vai!”
“Io facevo i miei film,si facevano i poliziotteschi all’italiana e due tre grossi registi,non voglio fare i nomi,si facevano l’aureola con Sciascia.
Pero’,chi ha avuto i picciotti sotto casa,i film sequestrati e le querele dei ministri, sono stato io,non quelli che si facevano l’aureola con Sciascia.-genio al quale mi prostro.Quando io faccio il “Poliziotto è marcio”,non faccio “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”.
Che puo’ essere un film migliore del mio,non dico di no,ma li abbiamo a che fare con un nevrotico,chiaro?mentre nel mio film abbiamo a che fare con un poliziotto che si fotteva i soldi: ed è questo che è rivoluzionario,non quello” da un’intervista di Fernando Di Leo
L’opinione di Francesco dal sito http://www.mymovies.com
Film con un intreccio molto particolare e originale, fa immergere lo spettatore in una dimensione nichilista, violenta, cruda, anche se spezzata da episodi e personaggi comici-macchiettistici.
Molto forte il confronto tra padre (Randone) maresciallo dei carabinieri integro e sottomesso ai superiori, e figlio (Merenda) commissario corrotto e insofferente all’autorità. Grandissimo Vittorio Caprioli nel ruolo di Esposito.
Le interpretazioni e la regia sono ad alti livelli, ne risulta un film originale, ben costruito e dalla notevole forza espressiva. Purtroppo questo, come altri film noir e polizieschi (come poi western, ecc.) è stato ingiustamente sottovalutato dalla critica italiana,
spesso e volentieri piena di pregiudizi e omologata, pronta a svalutare le opere italiane, salvo poi inneggiare a registi come Quentin Tarantino, che da tali opere italiane trae ispirazione e modelli.
L’opinione di Gimon 82 dal sito http://www.filmtv.it
(…) Ma il marciume è ovunque e ci viene sbattuto in faccia,crudelmente e senza accenni retorici.La societa’ narrata dal Di Leo si nutre di romanzi noir,di cui l’autore del film era avido lettore.Letteratura anni 50 dell’autore William P McGivern di citta’
sporche e pruriginose di sangue e malavita.Di Leo accoglie scampoli di lettura compiaciuta,la forma a suo modo,nell'”artigianalita’” del suo cinema.Organizza cosi’ un film serrato,su sfondi sociali negativi.Critica apertamente l’organo di potere, facendolo ad alta voce,
portando con se ampie materie riflessive.Il “Poliziotto è marcio” si veste come anatema politico,travestito da noir e action movie.Di Leo offre una superba opera,nuda e dura,senza sconti,si basa su grandi prove attoriali.Luc Merenda come Malacarne jr è ottimo,fascinoso e ridondante
d’insensibile cinismo.Ma è Salvo Randone a fare la differenza,superlativo nel dar voce ad un maresciallo dei carabinieri,incorrotto e deluso da un figlio “malacarne”.Da menzionare l’ottimo spunto caratterista di Vittorio Caprioli nei panni d’un pittoresco emigrante napoletano.
E infine Milano,ancora una volta lei,la citta’ lombarda come teatro di malavita e sbirri sottobraccio.La meneghina citta’ è sporca e tetra come in un fumetto criminale,un ritratto “settantiano” visto innumerevoli volte,che a distanza di quarant’anni è immortale nelle pellicole “bis”,
dure,sporche e cattive ma irrimediabilmente dal fascino sinistro e marcio,molto marcio………
L’opinione del sito http://www.caniarrabbiati.it
(…) Un film crudo, fatto di personaggi spietati e squallidi stemperato a tratti dal personaggio del cavaliere Esposito interpretato dal sempre simpatico Vittorio Caprioli (il nazariota di Avere ventanni). Per il resto solo splendide facce noir con Luc Merenda nei panni del commissario, Gianni Santuccio nei panni del questore come in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, un superlativo Salvo Randone nel ruolo del padre del commissario e facce da delinquenti come quelle di Richard Conte e Raymond Pellegrin. Classica regia di alto livello di Fernando Di Leo che ci delizia in un paio di inseguimenti fra i migliori in assoluto del panorama poliziesco italiano.
Per il tema trattato il film ebbe molti problemi. Lo stesso regista ha dichiarato in un’intervista che i poliziotti strappavano i manifesti del suo film e di aver ricevuto anche una telefonata in cui lo invitavano a smettere di fare certi film. Probabilmente la sua odierna irreperibilità è dovuta allo stesso motivo.
Le musiche sono ancora di Luis Bacalov e primeggiano due brani, uno funkeggiante e l’altro per orchestra d’archi e sintetizzatore. Ma c’è anche una curiosità: viene qui usato il brano There will be time scritto per gli Osanna per l album di Milano Calibro 9 che non fu incluso nel precedente.
Comparsata abituale di Fernando Di Leo qui come cassiere in un bar.
L’uomo senza memoria
Con L’uomo senza memoria inizia la collaborazione di Filmscoop con John Trent,webmaster del sito http://www.ilmiovizioeunastanzachiusa.wordpress.com
Ho conosciuto John Trent circa 13 anni fa,durante la frequentazione comune di uno dei più bei siti del web,l’ormai scomparso Pagine 70.
Ci siamo poi conosciuti personalmente durante alcuni raduni organizzati dal forum del sito;di lui mi ha colpito,da subito,la grande competenza in materia cinematografica sopratutto sugli anni settanta.
Competenza tra l’altro acquisita su un decennio che lo ha visto bambino,vista la sua giovane età.
Oggi il suo sito è una fonte inesauribile di chicche cinematografiche che vi consiglio caldamente di visitare.
Ho così deciso,dopo averlo contattato,di proporvi alcune delle sue recensioni alle quali ho aggiunto,personalmente una gallery fotografica e le consuete recensioni prese da altri siti.
John è un grande conoscitore di cinema,le sue recensioni saranno di sicuro molto visitate su Filmscoop e la sua collaborazione
integra quella di shewolf,che cura alcune delle rubriche più seguite del sito e quelle,prossime,di altre penne prestigiose.
Buona lettura.
Interessante e misconosciuto thriller/noir firmato da Duccio Tessari (e scritto e co-sceneggiato, tra gli altri, dallo stesso Tessari e dall’ onnipresente Ernesto Gastaldi). In un intreccio nel quale si mescolano abilmente affari di droga, intrighi e trame sommerse spiccano l’ eleganza di Tessari nel girare la storia (alcune sequenze sono assolutamente magistrali) e la bravura interpretativa di un grande Umberto Orsini che ruba la scena a tutti, a cominciare dal protagonista Luc Merenda (che è lo svagato smemorato del titolo). C’ è anche la bellezza dirompente della sempre affascinante Senta Berger e un piccolo ruolo se lo ritaglia anche la svedesina Anita Strindberg, stellina nascente del nostro cinema di genere targato anni ’70. Interessante anche la partecipazione del piccolo Duilio Cruciani, bimbo già visto in “Non si sevizia un paperino” che avrà un ruolo fondamentale, mentre invece il cattivo di turno è Bruno Corazzari, faccia “di genere” che non ha bisogno di presentazioni. La mano alla sceneggiatura di Gastaldi si vede soprattutto in quella lieve punta di giallo che fa capolino di tanto in tanto, con rasoi scintillanti nell’ aria e addirittura una motosega che finirà con lo sventrare un malcapitato personaggio. Un ottimo film che va sicuramente recuperato e che in Italia ancora latita in dvd mentre all’ estero (Francia, Germania e Spagna) è da tempo uscito, anche con l’ italico idioma. Assurdo.
Peter Smith (Luc Merenda), reduce da un incidente d’ auto in seguito al quale ha completamente perso la memoria, vive a Londra e da circa 6 mesi lavora come commesso in un negozio di antiquariato. E’ in cura presso uno psichiatra ed è continuamente impegnato nella ricerca di risalire al suo passato e alla sua identità. Un giorno riceve un telegramma dall’ Italia e un biglietto del treno per Portofino, dove lo aspetterebbe una fantomatica Sara. Sara (Senta Berger) è un’ istruttrice di nuoto che ora si è stabilita a Portofino ed è la moglie di Peter, che in realtà si chiama Ted.
Corteggiata spietatamente dal medico sportivo della piscina, Daniel (Umberto Orsini), è tuttavia ancora innamorata del marito e non riesce a capacitarsi del fatto che egli sia sparito nel nulla da circa un anno; la donna lo aspettava a New York dopo un viaggio di lavoro ma Ted non era più tornato. Ora la vita di Sara è calma e monotona ma qualcuno, in piena notte, penetra in casa sua alla ricerca di qualcosa; dopo averla aggredita e narcotizzata mette l’ appartamento sottosopra ma senza rubare nulla. Il mistero si infittisce ancora di più allorquando anche Sara riceve un telegramma che le preannuncia il ritorno di Ted. Non è lei, dunque, ad averlo invitato a Portofino… Inoltre non sa nulla dell’ incidente e della conseguente amnesia: credeva soltanto che il marito l’ avesse abbandonata. Ma allora chi è che vuole farli incontrare di nuovo? Ted parla con Sara e cerca di spiegarsi, confermandole di non ricordare nulla. Va a vivere da lei e un misterioso individuo (Bruno Corazzari) inizia a perseguitarlo: i due si scontrano e l’ uomo chiede a Ted di restituirgli il milione di dollari che egli gli avrebbe sottratto. Il passato di Ted, dunque, è tutt’ altro che limpido e una partita di 5 kg di eroina pura (del valore sul mercato di un milione di dollari, appunto) è il motivo del contendere; 8 mesi prima egli aveva fregato i suoi soci rubando la droga e nascondendola in un posto che ora nessuno riesce a trovare. Ted giura ancora di non sapere niente e la situazione si mette male per lui e per l’ ignara Sara. Il socio misterioso gli concede una settimana di tempo per rinsavire e intanto il cane di Sara viene ritrovato sgozzato… Il macabro avvertimento spinge Ted e Sara a prendere la decisione di scappare a New York (dove tutto era iniziato) ma, prima che ciò avvenga, Sara viene investita da un’ auto alla cui guida c’è una donna misteriosa (Anita Strindberg) che qualche sera prima aveva avvicinato Ted baciandolo. I due erano stati amanti? L’ incidente stradale, ovviamente non è casuale, e serve a rallentare la partenza di Ted e Sara (cui viene ingessata una gamba). Il tempo stringe…
La colonna sonora è firmata dal maestro Gianni Ferrio (presente spesso nei film di Duccio Tessari) che si produce in un tema principale e in atmosfere che richiamano in qualche maniera la soundtrack del giallo “La morte accarezza a mezzanotte”. Se lì avevamo Mina che si esibiva in svolazzi vocali stavolta abbiamo un main theme con testo scritto da Giorgio Calabrese ed interpretazione di Rossella, cantante poco nota presente nel circuito della RCA. Come quasi sempre ci capita in queste occasioni ci piace riportare il testo di cotanti misconosciuti capolavori. Ecco a voi “Labyrinthus”:
Come parti che si muovono
un enigma per immagini
prima, dopo
si confondono…
Schemi che si sovrappongono
suoni vaghi che ritornano
oggi, ieri
non sai dirtelo…
Si affollano nella tua mente
passato, presente
e tu non sai più distinguere
in un labirinto di specchi e parole
ti insegui perdendoti e vai, vai…
Il dubbio è un’ ipotesi assurda
in uno che guarda
quello che tu fai
guidandoti un gioco di parti in cui rappresenti
la prossima vittima e vai, vai…
Visi nuovi e posti insoliti
che ti sembra di conoscere
gente, voci
ti confondono…
Hai fantasmi che ti seguono…
Un film di Duccio Tessari. Con Umberto Orsini, Luc Merenda, Senta Berger, Rosario Borelli, Bruno Corazzari, Anita Strindberg, Duilio Cruciani Giallo, durata 91 min. – Italia 1974
Senta Berger: Sara Grimaldi
Luc Merenda: Edward
Umberto Orsini: Daniel
Anita Strindberg: Mary Caine
Bruno Corazzari: George
Rosario Borelli: Poliziotto
Manfred Freyberger: Philip
Tom Felleghy: Dr. Archibald T. Wildgate
Carla Mancini: Giovanna
Vittorio Fanfoni: medico
Duilio Cruciani: Luca
Regia Duccio Tessari
Sceneggiatura Ernesto Gastaldi
Casa di produzione Dania Film
Fotografia Giulio Albonico
Montaggio Mario Morra
Musiche Gianni Ferrio
Costumi Danda Ortona
Trucco Mario Van Riel
Ada Maria Serra Zanetti: Sara Grimaldi
Luigi La Monica: Edward
Luciano Melani: George
Roberto Villa: Poliziotto
Giancarlo Maestri: Philip
Vittorio Congia: Dr. Archibald T. Wildgate
Fabio Boccanera: Luca
Opinioni tratte dal sito http://www.davinotti.com
B. Legnani
Gradevole opera di Tessari (forse ci concede un cameo, nel ruolo del vigile urbano), che vivacizza la prima ora, un po’ statica, con inquadrature originali, talora pure virtuosistiche. Più interessante la parte finale. Girato con non grandi mezzi, ma piacevole. Una buona testimonianza del cinema italiano che fu. Berger stupenda e brava, Merenda e Strindberg ingessati, Orsini e Corazzari intriganti.
Undying
Mitica pellicola sdoganata da Nocturno, che lo ha proposto (alcuni anni orsono) come allegato (formato VHS) alla rivista. Il ritmo è lento, ma la storia è ben scritta, interpretata (Orsini si mangia Merenda in due e due quattro) e diretta. La parte affascinante spetta alle splendide presenze femminili, che rispondono al nome di Senta Berger ed Anita Strindberg. Più drammatico, che giallo in senso stretto, anche se permeato da un forte alone di tensione cagionato dal vuoto di memoria indotto nel protagonista…
Il Gobbo
Luc Merenda ha perso la memoria dopo un incidente d’auto. La ricerca del rimosso lo conduce da una donna che risulta essere sua moglie, a Portofino (poteva andargli peggio); lì però trova anche un losco figuro che lo ricatta… Tessari ribadisce che la sua traiettoria gialla è diversa da quella argentiana, e con l’aiuto di Gastaldi confeziona un film non originalissimo ma molto elegante e curato, con un cast apprezzabile (grande Corazzari, e com’era bella la Berger). Piacevole. La Musa di Buono Legnani prende la presenza.
Homesick
Anche Tessari dà il suo contributo al giallo di casa nostra prendendo spunto dai lavori di Argento (il suo famoso e sfuggente “particolare rivelatore” viene ingigantito in amnesia) e contaminandolo con le atmosfere tipiche dei noir. La storia ha invero poco mordente – tranne che verso il finale – e conquista più che altro per la limpida fotografia di una Portofino fuori stagione e per alcune buone trovate (Corazzari affetto da rinite cronica, lo “scherzetto” della motosega). Rossella canta la bella canzone dei titoli di testa.
L’opinione di Ezio dal sito http://www.filmtv.it
In preda a un’amnesia dopo un incidente Ted (Merenda) torna dalla moglie (Berger) e viene perseguitato da un losco individuo.Ma altri sono in agguato.Girato in una Liguria (Portofino) piovosa e’ un tipico thiller anni settanta ,meno ambizioso di altri gialli girati dal regista e sceneggiato dal bravo Ernesto Gastaldi,certo e’ un po’ ingenuo ma fa sempre piacere trovare bravi attori di quell’epoca e un cinema che oggi non c’e’ piu’.Nulla di trascendentale,ma si vede davvero con piacere.
Le monache di Sant Arcangelo
Nel Convento di Sant’Arcangelo di Baiano l’anziana badessa è ormai in fin di vita; Giulia di Mondragone, una giovane e bella suora è candidata con Carmela e Lavinia alla successione per la guida del convento.
Giulia è ambiziosa ed è sessualmente lesbica; ha una relazione, infatti, con Suor Chiara ma accetta per interesse la corte di don Carlos Ribera, un nobiluomo senza scrupoli e senza principi morali.
Suor Giulia sa infatti che la protezione del potente nobile può esserle utile nel sogno di dirigere il monastero.
Accetta così, pur contro voglia e contro le proprie tendenze sessuali di appagare il nobile; che però ha anche delle mire sulla giovane novizia Isabella, una bellissima suorina della quale don Carlos è incapricciato.
La morte della badessa superiora provoca l’avvio di una crisi drammatica all’interno del convento: le tre rivali brigano in tutti i modi per assicurarsi la successione e Suor Giulia alla fine è costretta ad accettare la richiesta di Don Carlos, volta ad ottenere una notte d’amore nella cella della novizia Isabella.
Mentre infuria la guerra intestina al convento, giocata sul campo dell’ignominia più completa, l’eco degli avvenimenti giunge a Roma.
Siamo nel 1577, il Regno di Napoli è soggetto anche alle leggi della Santa Inquisizione: dalla città campana viene inviato dall’Arcivescovo il vicario Carafa, uomo integerrimo ma anche brutale ed inflessibile.
Le sue indagini interne portano alla scoperta degli intrighi che le rivali al ruolo di badessa tessono instancabilmente l’una alle spalle delle altre; con la tortura Carafa estorce la confessione di Giulia di Mondragone, che viene condannata a morte mediante l’ingestione di cicuta.
La suora muore tra atroci dolori mentre Suor Isabella, con un astuto e provvidenziale ricatto, riesce a mettere freno alle ambizioni di Don Carlos.
Per evitare ulteriori scandali, la suorina viene “condannata” ad essere dispensata dai voti…
Le monache di Sant’Arcangelo, film tipico del filone nunsploitation ( filone erotico/conventuale) esce nelle sale nel 1973, diretto da Domenico Paolella, su un soggetto ispirato molto liberamente ad un libricino scritto forse da Stendhal,Cronaca del convento di Sant’Arcangelo a Bajano, probabilmente però opera di un anonimo francese.
Alla riduzione cinematografica viene chiamato Tonino Cervi, che ne ricava un soggetto tutto sommato equilibrato, che Paolella, veterano del cinema di genere, dirige con buona mano senza calcare troppo sul versante erotico della storia.
Il film ha un’ambientazione, ovviamente, prettamente conventuale e si inserisce nel genere di nicchia che raccontava storie abbastanza pruriginose di suore poco avvezze ai loro voti, senza però sconfinare nello scollacciato fine a se stesso tipico di un’altra branca del cinema erotico con sfondo conventuale, il classico decamerotico.
Grazie ad un ottimo cast, Paolella gira una pellicola di discreto valore, nella quale spicca principalmente la buona ricostruzione storica;assolutamente in linea il cast che vede nel ruolo principale, quello di Suor Giulia da Mondragone l’attrice inglese Anne Heywood, non nuova al cinema conventuale; nel 1969 infatti aveva lavorato in La monaca di Monza (regia di Eriprando Visconti) nel ruolo della sventurata Virginia De Leyla e chiamata ancora una volta a interpretare una parte scabrosa, quella di Giulia di Mondragone, assetata di potere a tal punto da sacrificare le proprie idee, la propria dignità e in fondo anche il suo amore per Suor Chiara in nome della sua ambizione.
Nel cast figura anche una giovane e bella Ornella Muti, l’unico personaggio davvero positivo del film ed anche l’unica a scansare la furia dell’Inquisizione, rappresentata dal torvo Carafa, uomo implacabile e infervorato dalla sua missione, convinto di dover estirpare il male con tutti i mezzi possibili, incluso l’uso abominevole della tortura.
Il ruolo di Carafa è svolto in modo inappuntabile da Luc Merenda,mentre l’Arcivescovo di Napoli è Claudio Gora.
Spazio anche a Martine Brochard, bravissima nel ruolo di Suor Chiara, amante di Suor Giulia.
Discrete sia le musiche che le scenografie, mentre ottima è la fotografia.
Le monache di Sant’Arcangelo è un film di discreta reperibilità, oggi disponibile anche in digitale, mentre un suo passaggio televisivo è abbastanza improbabile anche per la tematica trattata.
Le monache di Sant’Arcangelo
Un film di Domenico Paolella. Con Luc Merenda, Ornella Muti, Martine Brochard, Anne Heywood, Claudio Gora Drammatico, durata 103′ min. – Italia 1973.
Ornella Muti: suor Isabella
Pier Paolo Capponi: don Carlos Ribera
Anne Heywood: badessa Giulia di Mondragone
Claudia Gravi: badessa Carmela
Maria Cumani Quasimodo: badessa Lavinia
Martine Brochard: suor Chiara
Luc Merenda: vicario Carafa
Claudio Gora: emin. cardinal d’Arezzo
Duilio Del Prete: Pietro
Muriel Catalá: Agnese
Gianluigi Chirizzi: Fernando
Regia Domenico Paolella
Soggetto Domenico Paolella
Sceneggiatura Tonino Cervi
Produttore Tonino Cervi
Montaggio Nino Baragli
Musiche Piero Piccioni
Scenografia Claudio Cinini, Giovanni Fratalocchi
Costumi Osanna Guardini
L’opinione dell’utente sasso 67, dal sito http://www.filmtv.it
La trama del film deriva da un fatto di cronaca verificatosi nei pressi di Napoli nel 1577 e sfociato in un processo inquisitoriale. La materia non è nuovissima nemmeno per il cinema, basti pensare ad opere come Made Giovanna degli Angeli di Kawalerowicz o a I diavoli di Ken Russell, che aveva lanciato alla grande il filone “conventuale”. Ovviamente, l’aspetto pruriginoso della vicenda ha un ruolo preponderante, come del resto ebbe nella realtà, ma questa volta il regista cerca di non insistere eccessivamente sulle immagini piccanti e di aggiungere un elemento “politico” a condizionare la conduzione della faccenda da parte delle autorità ecclesiastiche. Tra le quali emerge la forte personalità di Monsignor Carafa, vicario dell’Arcivescovo di Napoli. Mentre quest’ultimo si dimostra prudente, ma anche titubante e pilatesco, il giovane Carafa (probabilmente quel Decio Carafa che sarà poi a sua volta arcivescovo di Napoli e cardinale) è deciso a combattere la corruzione e gli intrighi, sebbene abbia delle remore morali di fronte alla tortura e alla pena di morte.
Bisogna dire che il compito è svolto da Paolella con il professionismo di cui era dotato e, a parte un finale da tragedia greca, con tanto di cicuta, che stona con altri momenti di buona ricostruzione storica, si tratta di uno spettacolo, in certi limiti, dignitoso.
L’opinione dell’utente Homesick, dal sito http://www.davinotti.com
Rievocazione di un fatto di cronaca claustrale del XVI secolo – lo scandalo del convento di Sant’Arcangelo a Bajano – varca i limiti del voyeurismo e dei sadomasochismi da bancarella imposti dal filone nunsploitation allora in voga per soffermarsi sulla cura di fotografia, costumi e suppellettili e sul rilevamento dell’aspetto psicologico e politico, massimo nell’invettiva anticlericale pronunciata dalla moritura Heywood. Impegnato a rispecchiare risolutezza moralizzatrice e dubbi del vicario Carafa, Merenda acquisisce un inedito carisma, anche in virtù del doppiaggio di Sergio Graziani.
La città gioca d’azzardo
Un giocatore professionista di poker, nonchè abile baro di nome Luca Altieri sbanca un tavolo al Club 72 di proprietà di un boss soprannominato Il Presidente.
Quest’ ultimo, pur consapevole del fatto che Luca ha vinto usando trucchi, decide di tirarselo dalla sua parte e di ingaggiarlo per spennare gli incauti giocatori che frequentano il suo club.
Luca accetta, ma dopo poco finisce per entrare in contrasto con il crudele figlio del Presidente, Corrado, per la sua donna ovvero la bella Maria Luisa che ha accettato la corte di Corrado per paura e sopratutto perchè quest’ultimo le fa fare la bella vita.
Tra i due ben presto inizia una relazione che finisce per arrivare sotto gli occhi di Corrado, che decide di punire in maniera esemplare Luca; dopo averlo fatto pestare a sangue, gli fa rompere le mani.
Nel frattempo Corrado ha provveduto a sbarazzarsi del padre, simulando un incidente domestico in cui l’uomo, che viveva su una sedia a rotelle, precipitando dalla lunga scala di casa per un presunto guasto al meccanismo di sollevamento della sedia finisce per rompersi il collo.
Corrado però non ha la stoffa del padre e gli altri boss che controllano sia il gioco d’azzardo che il traffico di droga decidono di allontanarlo dal loro giro, sopratutto quando Corrado attira su di se gli occhi della polizia.
Il giovane imprudentemente ha fatto uccidere un commissario di polizia corrotto per non dovergli pagare la tangente; nel frattempo Luca, che si è nascosto con Maria Luisa, riprende faticosamente l’uso delle mani ma è costretto a fuggire in Francia per evitare di essere raggiunto dagli sgherri di Corrado.
Qui riprende la vita di un tempo, sognando il colpo grosso che gli permetta di cambiare vita.
La lunga mano di Corrado però lo insegue e grazie al tradimento del nuovo socio di Luca anche il nascondiglio francese viene individuato.
Duante un rocambolesco inseguimento sulla costa francese, Luca riesce a far precipitare l’auto con a bordo Corrado e i suoi uomini giù per una scarpata.
Ma è una vittoria che pagherà a duro prezzo, perchè Maria Luisa che era con lui sulla moto viene colpita a morte.
La corsa in ospedale non serve e la donna muore assieme al bambino che portava in grembo.
La città gioca d’azzardo è un rarissimo caso di noir italiano, genere molto più diffuso nella sua patria d’origine, la Francia.
Visto l’esito finale, è davvero un peccato che altri registi non abbiano seguito la strada intrapresa da Sergio Martino, regista del film girato nel 1975, ultimo degli anni d’oro del cinema italiano.
Il film ha una trama scorrevole, sorretta da una sceneggiatura non particolarmente originale ma ben equilibrata; lo stasso Martino, con la collaborazione di Ernesto Gastaldi bada al sodo, prediligendo la scorrevolezza della pellicola alla complessità dei temi che potevano essere ampliati in fase di trattazione.
Nel film infatti si fa accenno al traffico di droga nelle metropoli, accostandolo al gioco d’azzardo, ovvero due dei problemi più gravi che incombevano sulla società italiana degli anni settanta e che contribuivano a rendere ancor più opprimente l’atmosfera che si respirava, vista anche la concomitante ascesa del fenomeno del terrorismo politico.
La punizione di Maria Luisa (Dayle Haddon)
Inevitabilmente Martino è costretto a scegliere un raggio d’azione che non appesantisca il film e il regista decide così di puntare più sulla dinamicità che sulla profondità dei temi trattati; vien fuori alla fine un film non particolarmente violento, come invece stigmatizzato incredibilmente da molti recensori in cui la storia d’amore tra Luca e Maria Luisa assume preponderanza specifica sullo sfondo di una città violenta e preda di bande contrapposte tese al controllo delle attività criminali.
“Non lo devi toccare, è un ordine”, intima il Presidente e Corrado
La cosa appare però, come già detto, più in sfondo che in primo piano; il vero fulcro diventa la lotta all’ultimo sangue tra il crudele Corrado e Luca, una lotta originata un po dalla rivalità tra i due e sopratutto per il “possesso” dell’affascinante Maria Luisa.
Nella prima mezz’ora giganteggia la figura del Presidente, un vero capo d’organizzazione astuto e intelligente, che predilige l’uso del cervello in luogo della forza bruta caratteristica viceversa dell’inetto Corrado.
Che infatti verrà allontanato dall’organizzazione criminale che faceva capo al padre, vera mente degli affari loschi che gravitavano nella città.
Le temtiche del film quindi diventano molteplici e ci fanno seguire questo contrasto tra padre e figlio e contmporaneamente lo sviluppo della storia d’amore tra Luca e Maria Luisa, prima del cruento finale e della resa dei conti tra i due rivali in affari e in amore.
Luca e Maria Luisa sfuggono ai sicari di Corrado
Come dicevo prima, il film non è particolarmente violento come altri che più o meno raccontavano di fatti di sangue o gesta criminali a sfondo sociale, come lo splendido Cani arrabbiati di Bava in cu davvero si assiste ad un’esplosione di violenza sporca e sudata, ad una violenza psicologica intollerabile o come a tanti altri film inquadrabili nel genere poliziottesco.
La città gioca d’azzardo finisce per ritagliarsi un ruolo specifico che alla fine risulta vincente.
Scorrendo il cast, troviamo i due interpreti migliori in Corrado Pani, quasi diabolico nella sua caratterizzazione di Corrado, il figlio del boss tenuto da questi in disparte perchè considerato troppo violento e comunque inadatto alla gestione del complesso equilibrio del crimine, che richiede intelligenza e astuzia in par dose.
La morte del commissario corrotto
L’altro grande è Enrico Maria Salerno, Il Presidente, che dirige l’organizzazione con sagacia, pagando tangenti e usando l’intelligenza invece delle armi; l’attore milanese è protagonista di una recitazione asciutta e convincente che da dignità ad un personaggio che nel film, ad onta del ruolo criminale che riveste, alla fine suscita anche simpatia.
Luc Merenda è Luca, un simpatico gaglioffo che vorrebbe vivere ai margini di quella società del crimine che in fondo disprezza e che frequenta solo perchè, come dice nel film, “ha imparato a usare le carte fin dalla culla”; l’ex fotomodello Merenda fa il suo, pur nei limiti delle sue capacità artistiche, limitate fortemente in carriera dalla scarsa flessibilità facciale e mimica.
La fine di Corrado e dei suoi uomini
Decisamente opaca la pur bella Dayle Haddon, che ebbe una carriera sicuramente agevolata dalla gran bellezza posseduta non sorretta però da altrettanto spiccate doti di recitazione.
Menzioni infine per Vittorio Fantoni , Fulvio Mingozzi e Lino Troisi.
Buona la fotografia e buone le musiche di Michelini.
La città gioca d’azzardo
Un film di Sergio Martino. Con Enrico Maria Salerno, Luc Merenda, Corrado Pani, Piero Palermini, Carlo Gaddi, Dayle Haddon, Lino Troisi, Giovanni Javarone, Salvatore Puntillo- Drammatico, durata 98 min. – Italia 1974
Corrado Pani è il crudele Corrado
L’abilità di Luca con le carte
La drammatica morte del Presidente
Colpita a morte durante l’inseguimento
Maria Luisa in sala operatoria
Luc Merenda: Luca Altieri
Dayle Haddon: Maria Luisa
Corrado Pani: Corrado
Lino Troisi: baro complice di Corrado
Giovanni Javarone: Lisander
Salvatore Puntillo: cameriere della bisca
Carlo Alighiero: commissario di polizia
Enrico Maria Salerno: il Presidente
Piero Palermini: direttore della bisca
Carlo Gaddi: boss
Vittorio Fanfoni: scagnozzo di Corrado
Riccardo Petrazzi: scagnozzo di Corrado (non accreditato)
Loris Perera Lopez: medico
Giuseppe Terranova:
Bruno Arié: guardia del corpo del Presidente
Artemio Antonini: Guardia del corpo del Presidente (non accreditato)
Regia Sergio Martino
Soggetto Ernesto Gastaldi
Sceneggiatura Ernesto Gastaldi, Sergio Martino
Produttore Luciano Martino
Casa di produzione Dania Film, Medusa Distribuzione
Fotografia Giancarlo Ferrando
Montaggio Eugenio Alabiso
Musiche Luciano Michelini
Scenografia Giorgio Bertolini
Costumi Renato Ventura
Trucco Stefano Trani
Cattivi pensieri
Un banale contrattempo costringe l’avvocato milanese Mario Marani a rientrare a casa; sull’aeroporto nel quale attende il suo volo si è addensata una fittissima nebbia e come conseguenza il volo sul quale Mario doveva imbarcarsi viene cancellato.
Rientrato in casa, trova sua moglie, la bellissima Francesca, che dorme il sonno del giusto.
Mario si dirige verso uno stanzino e al suo interno ha la disgrazia di vedere un paio di piedi nudi.
Convinto che nel piccolo ripostiglio si nasconda l’amante di sua moglie, Mario porta con se Francesca in un lungo giro di lavoro durante il quale spera di scoprire chi sia in realtà la figura da lui vista nello stanzino.
I vari indiziati sono, di volta in volta, le persone della cerchia frequentate dalla coppia, ma la verità è che nello stanzino era rimasto chiuso il figlio del portinaio che si era nascosto nella casa per ammirare i fucili da caccia di Mario.
Quest’ultimo ha un’amante, ma nonostante tutto rimarrà con il dubbio che anche Francesca gli restituisca la pariglia.
Ugo Tognazzi è stato indiscutibilmente un grande attore; molto differente invece il discorso sulla sua capacità di mettersi dietro la macchina da presa.
E Cattivi pensieri, il penultimo film da lui diretto prima della eccellente prova offerta con I viaggiatori della notte, mostra proprio queste sue vistose lacune, ovvero mancanza di ritmo e mancanza del guizzo che distingue il purosangue dal cavallo normale.
Siamo nel 1976, Ugo Tognazzi è ormai considerato uno dei quattro grandi del cinema italiano ed è contemporaneamente impegnato nella direzione di questo film come regista mentre come attore compare in Al piacere di rivederla, in Telefoni bianchi, in Signore e signori, buonanotte e infine come attore anche in Cattivi pensieri.
La storia è abbastanza banale, una storia di corna come tante altre ne abbiamo visto sullo schermo; l’unica variazione di rilievo al clichè classico del marito geloso che alla fine sembra ossessionato dal fatto di essere becco (mentre a lui è concesso avere un’amante, come da italico copione) è l’introduzione di sequenze abbastanza osè anche per un’attrice come la Fenech, generalmente ben disposta nel mostrare abbondantemente il suo magnifico corpo.
Ma a Tognazzi non riesce nessuna delle intenzioni iniziali; il film non solo si dimostra lentissimo e banale, ma alla fine riesce nella difficile impresa di trasformarsi in un letale sonnifero e contemporaneamente in una palude melmosa dalla quale si riemerge con l’impressione di aver sprecato davvero male il proprio tempo.
Imbarazzante anche la recitazione dei protagonisti, quasi fossero consapevoli di partecipare ad un film di bassa lega.
Il che se vogliamo è il naturale sbocco di cento e passa minuti di tedio assoluto, infarcito di inutili volgarità e sopratutto con la spocchiosa pretesa di girare un film con non nascoste velleità di satira di costume.
La realtà è diversa in maniera desolante.
La storia è un deja vu continuo; lo stereotipo dell’italiano infedele ma intransigente quando si tratta di corna personali e sopratutto dialoghi rozzi e tagliati con l’accetta sono un calcestruzzo impossibile da digerire.
Un peccato per Tognazzi, che qualche cosa di buono (come regista, of course) riuscì a mostrarla nel film successivo, quel già citato I viaggiatori della sera che rimane opera di gran valore ampiamente sottovalutata.
Il che, alla luce dell’opacissima prestazione fornita con Cattivi pensieri, rimane dilemma amletico da sciogliere, ovvero: Tognazzi avrebbe potuto fare di meglio perchè aveva finalmente imparato a stare dietro la MDP oppure il tutto fu casuale, un po come il concerto perfetto che riesce una volta sola?
Poichè l’Ugo nazionale non girò più nulla, questo è davvero un dilemma insolubile.
Va detto che se il film è davvero poca, pochissima roba, lo si può ricordare per alcune chicche rappresentate dal curioso cast; la presenza per esempio della cosidetta signora della tv Mara Venier, della top model Veruschka, del bravo e sfortunato giornalista sportivo Beppe Viola (che aveva lavorato già con Tognazzi in Romanzo popolare) e dal nudo di Luc Merenda (bissato poi in Action di Tinto Brass) oltre che dalle eleganti presenze di Massimo Serato e Orazio Orlando.
Cattivi pensieri,un film di Ugo Tognazzi. Con Ugo Tognazzi, Massimo Serato, Luc Merenda, Orazio Orlando,Edwige Fenech, Veruschka, Mario Bernardi, Piero Mazzarella, Paolo Bonacelli, Mara Venier, Mircha Carven, Yanti Somer, Pietro Brambilla, Angelo Pellegrino
Commedia, durata 105 min. – Italia 1976
Ugo Tognazzi: Mario Marani
Edwige Fenech: Francesca Marani
Paolo Bonacelli: Antonio Marani
Piero Mazzarella: Concierge
Yanti Somer: Paola
Mara Venier: signora Bocconi
Laura Bonaparte: signora Retrosi
Mircha Carven: Lorenzo Macchi
Pietro Brambilla: Duccio
Veruschka: amante di Mario
Orazio Orlando: Avvocato Borderò, socio di Mario
Massimo Serato: Carlo Bocconi
Luc Merenda: Jean-Luc Retrosi
Guido Nicheli: ospite
Beppe Viola: commissario di polizia
Angelo Pellegrino: assistente di Confindustria
Riccardo Tognazzi: Gino
Regia Ugo Tognazzi
Soggetto Ugo Tognazzi, Antonio Leonviola
Sceneggiatura Ugo Tognazzi, Antonio Leonviola, Enzo Jannacci, Beppe Viola
Produttore Edmondo Amati
Fotografia Alfio Contini
Montaggio Nino Baragli
Musiche Armando Trovajoli
Pensione paura
Siamo sul finire della Seconda guerra mondiale, la località è un luogo imprecisato in riva ad un lago.
Marta gestisce una pensione con l’aiuto della figlia adolescente Rosa in attesa che torni suo marito dalla guerra; l’uomo è un pilota, ma da tempo non risponde più alle lettere d’affetto che la figlia continua ostinatamente a spedirgli.
Per le due donne la vita nella pensione è dura e non priva di rischi; da una parte c’è la solitudine e l’impresa proibitiva di portare avanti il lavoro pur con la penuria di cibo che c’è, dall’altra vi è la presenza inquietante di alcuni loschi pensionanti che alloggiano da loro.
Marta si consola con un soldato amico del marito che nasconde nella soffitta mentre Rosa ha un’amicizia pulita con il nipote del parroco del villaggio.
Le cose sono ben diverse all’interno della pensione, dove alloggiano persone equivoche, come un pazzoide che insidia Rosa è che è rimasto vedovo dopo aver perso la moglie per un “incidente domestico”, ovvero una provvidenziale caduta per le scale, per passare al tenebroso e violento Rodolfo che vive alle spalle della matura amante spillandole denaro.
Luc Merenda è Rodolfo
Proprio Rodolfo si incapriccia di Rosa, ma è tenuto alla larga sia da Marta che da sua figlia.
Ma una sera Marta cade per le scale e muore; da quel momento tutta la responsabilità della pensione cade sulle deboli braccia di Rosa che fatica a tener lontani i viscidi individui che la circondano.
Ed è Rodolfo ad approfittare vergognosamente della ragazza, violentandola con l’aiuto della laida amante che asseconda tutti i suoi passi; attirata in camera della donna, Rosa subisce lo stupro di Rodolfo.
Ma i due pagano il fio delle loro colpe e vengono assassinati nel loro letto.
E’ Rosa a trasportare i loro corpi nella lavanderia dove li copre con del fango.
A darle man forte arriva inaspettatamente un misterioso uomo, che uccide tutti i presenti nella pensione, incluso l’amante della defunta Marta che aveva tradito i compagni causando anche la morte del marito di Marta.
Ma la strage da il colpo di grazia al precario equilibrio di Rosa, travolta dagli avvenimenti.
La ragazza, impugnata una pistola, spara al misterioso soccorritore mentre lo bacia e mentre si avvia verso la pensione, truccata e vestita come un’adulta, ascoltiamo una voce fuori campo che legge una struggente lettera della ragazza al padre.
Pensione paura è un film di Francesco Barilli diretto nel 1977, che arriva a tre anni esatti da quel folgorante film che era stato Il profumo della signora in nero, sua opera d’esordio alla regia.
Barilli, artista a tutto campo, capace di essere attore e regista, sceneggiatore nonchè valido pittore mostra ancora una volta il suo straordinario talento che purtroppo non ebbe un altro seguito cinematografico.
La carriera di Barilli infatti proseguì ma in campo televisivo o con i mini short pubblicitari, tutti distinti da una grande eleganza formale.
Pensione paura mostra le stesse caratteristiche di Il profumo della signora in nero, ovvero una tensione latente addirittura opprimente, un’abilità incredibile nell’uso del chiaroscuro cinematografico ma anche la capacità di avvolgere lo spettatore in una cappa di impenetrabile atmosfera fatta di musiche cupe e fotografia in cui l’azzurro scuro si mescola al nero con forti contrasti con la pace e la bellezza del mondo esterno.
E’ questo che colpisce prima di tutto nel film: il mondo esterno sospeso nella pace del lago, in cui gli echi della guerra sembrano davvero abissalmente lontani e l’atmosfera deprimente e insana che si respira all’interno della pensione.
Una pensione abitata da gente viziosa e amorale, tra la quale sboccia la giovane Rosa travolta dagli eventi: la ragazzina che bacia timidamente il nipote del prete e che gioca alle ombre cinesi si trasformerà in una dark lady nel finale rivelatore, quando davanti allo specchio mostrerà il passaggio definitivo all’età adulta con il rossetto sulle labbra e con la sua immagine di ragazzina cresciuta in fretta e furia esaltata proprio dal cosmetico che la trasforma irrimediabilmente.
Grande sorpresa del film è Leonora Fani, assolutamente perfetta nel ruolo della giovane Rosa, aiutata anche da quell’aria di candore innocente che ebbe nel corso della sua carriera, una carriera che avrebbe avuto ben altri sbocchi se avesse trovato registi che credevano nelle sue doti, come Samperi che la diresse in Nenè, l’altra sua grande interpretazione.
Ottimo anche Luc Merenda che disegna il cattivissimo e abietto Rodolfo con abilità, così come da sottolineare è anche la prova di Rabal, l’amico traditore.
Un film che ebbe recensioni non completamente positive perchè con poca oculatezza vennero proposti paralleli tra Pensione paura e Il profumo della signora in nero, che sono opere completamente diverse, unite solo dalla matrice della tensione.
Il film con la Farmer e Scaccia virava sul paranormale la dove Pensione paura si basa tutto sull’atmosfera opprimente e claustrofobica della pensione, aumentata esponenzialmente dalla presenza dei loschi abitanti descritti.
In comune però i due film mostrano la capacità di padroneggiare le situazioni, la capacità descrittiva di Barilli che purtroppo non ebbe ulteriori conferme.
Il che è davvero una delle cose da rimpiangere degli anni settanta.
Il film è disponibile in una buona qualità digitale, in versione completa su You tube,all’indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=CTdrR-dnOu8
Pensione Paura, un film di Francesco Barilli. Con Francisco Rabal, Luc Merenda, Leonora Fani, Jole Fierro Drammatico, durata 100 min. – Italia 1977
Leonora Fani: Rosa
Luc Merenda: Rodolfo
Francisco Rabal: Amante di Marta
Lidia Biondi: Marta
Jole Fierro: Amante di Rodolfo
Regia Francesco Barilli
Sceneggiatura Barbara Alberti, Francesco Barilli, Amedeo Pagani
Produttore Tommaso Dazzi, Paolo Fornasier
Fotografia Gualtiero Manozzi
Montaggio Amedeo Salfa
Musiche Adolfo Waitzman
Le recensioni appartengono al sito http://www.davinotti.com
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È un film bruttino, ma vale certamente la pena di vederlo (ovviamente nell’edizione integrale da poco disponibile, che conferma la pittoricità de Il profumo della signora in nero). Cupo, ibrido, raffazzonato. Intrigante, ma con troppi snodi che non stanno in piedi (il finale, poi…). Peccato, perché varie cose (l’ambientazione alle Terme di Stigliano e sul Lago di Bracciano, la fotografia, la musica al pianoforte) sono indimenticabili. Bella (e brava) la Fani, gustoso Merenda, perfetta la Fierro, insipido Rabal.
Non è ben chiaro il senso finale (e soprattutto il “genere”) che Barilli (regista del piccolo gioiello Il Profumo della Signora in Nero) intende assegnare al film. Qui l’atmosfera sembrerebbe volersi delineare su un plot più “sostanziale” e significativo, quasi sociale. Ma dopo il primo tempo si ha come la sensazione di voltare pagina: si assiste alla tortura (specialmente psicologica) cui è sottoposta la Fani (peraltro brava) ed il film scende ad un livello inferiore. Visione integrale necessaria, per un giudizio più circoscritto…
Giovanissima pensionate alle prese con clienti perlomeno inquietanti, tra assatanati di sesso e figuri loschi: meno male che han scritto “paura” nel titolo, altrimenti non mi accorgevo che era un thriller! Si intuisce uno sforzo da qualche parte, ma il risultato è francamente noioso, con una lentezza sfibrante e una carenza di senso del mistero (più enunciato che rappresentato), che purtroppo la buona cura visiva e l’ottima musica non riescono a bilanciare. Gli ultimi 10 minuti, poi, sono proprio appiccicati male, tanto per chiudere la storia.
Scabroso e malsano, stenta a trovare una sua precisa collocazione a causa di una confusione narrativa che soltanto nello snodo finale si avvicina ai parametri del thriller con uno sguardo a Psyco. L’atmosfera è lugubre e claustrofobica, con suggestive scelte cromatiche e personaggi immondi (stupratori, assassini, pervertiti di ogni gradazione, preti ipocriti). Molto brava la Fani. Bellissima la colonna sonora di Waitzman, maxime l’inquietante motivo d’apertura. A suo modo affascinante, benché non troppo riuscito.
Indeciso su quale strada prendere (dramma della follia? thriller?) il film, dopo una prima parte molto lenta (in cui non succede nulla o quasi), si riprende leggermente nella seconda che è più movimentata. Peccato però che la sceneggiatura sia non poco ingenua oltre che del tutto inverosimile (la Fani è poco più che una bambina ma si destreggia perfettamente tra omicidi e violenze di ogni sorta). Farsesco e, a mio avviso, fuori luogo il finale in salsa “western”. I personaggi poi più che tali spesso sono macchiettistici e già visti. Deludente.
Pellicola senza dubbio particolare e malsana, con un ritmo lentissimo, vari personaggi sgradevoli e un’atmosfera cupa e a tratti quasi disturbante. Molti personaggi non sono sviluppati a dovere, alcune scene potenzialmente notevoli non trovano una realizzazione adeguata e la noia spesso si fa sentire, così come la mancanza di mezzi. La regia di Barilli comunque è buona, la fotografia non delude e le musiche sono discrete. Brava la Fani, discreto Luc Merenda, passabili gli altri. Interessante. Da visionare possibilmente nella versione restaurata.
In un sito di recensioni specializzate sugli alberghi questa “pensione” totalizzerebbe lo zero su tutto: ritmo, recitazione, trama, regia. Basterà il monologo iniziale a sfiancare anche i cultori del brutto involontario: “Ogni giorno mi aspetto di vederti d’improvviso sulla porta, bellissimo”, frase che forse solo gli sceneggiatori di Kiss me, Licia in tempi non sospetti osarono. Poi le caratterizzazioni sono veramente pessime: con attori che necessitano e altri che, fortunatamente, ottengono il doppiaggio. Pensione bruttura.
Cupo, profondamente triste, poco riuscito. Sono parole del regista Francesco Barilli e a questo punto dovrebbero far pensare. Effettivamente non si può dire che “Pensione Paura” sia un gran film, però l’arte di Barilli riesce comunque ad emergere nella delicatezza della messa in scena, nell’uso intelligente della fotografia, nella capacità di raccontare una vicenda cupissima e tragica senza mai sbracare e rimanendo nell’ambito di un cinema raffinato. Peccato per il finale, tirato per i capelli.
Sembra che l’interesse di chi ha scritto la storia fosse arrivare al punto relativo alla violenza sessuale della bella e giovane attrice. Tutto il resto è composto da una trama raffazzonata, noiosa e che nel finale centra addirittura il ridicolo. Belle le location e suggestivi alcuni momenti in notturna, ma Barilli ha fatto ben altro.
Lacustre tenebra della follia, dalla guerra che gli ha portato via il padre alla mente giovane, troppo vulnerabile per non essere sopraffatta. Le anime dannate, ospiti sgraditi ma necessari, volgari ubriaconi violenti, stupratori del corpo e dello spirito. Inesorabile il tripudio alla morbosità per un film condito con senso dalla triste melodia ricorrente, il cui lento e piatto movimento improvvisamente diviene burrasca per le sue brutalità. Il playboy e la sua vecchia, malata fino ad assecondarlo nel crimine, con il finale che riprende la citata pazzia.
Per apprezzare il film in questione bisogna lasciarsi trascinare nell’atmosfera cupa e morbosa che aleggia nelle stanze della Pensione delle Sirene. Sotto questo punto di vista il film è efficace: Barilli riesce a trasmettere un senso di claustrofobia, sfruttando bene la location; inoltre le vicende della protagonista sono squallide quanto basta a conferire un certo disagio nello spettatore. La storia di per sè non è niente di che ed il finale non convince. Merenda e la Fani molto in parte. Non male.
Ne Il profumo della signora in nero la lentezza (iniziale) era una lentezza dinamica, inesorabile, costruttiva della suspence, funzionale alla rappresentazione dell’ambiguità. Qui la lentezza è distruttiva di ogni buona intenzione: Barilli si attarda nel torbido, si crogiola nel malsano. Il dramma della protagonista, che sarebbe potente, trova le espressioni più banali, poi vira al grottesco e scivola in un finale da melodramma. Veramente qualcosa di incompiuto, un’occasione mal sfruttata.
Pellicola inquieta e tendente allo scabroso in cui una ninfetta s’imbatte nei clienti psicolabili della sua pensione. Una confezione patinata ma non eccelsa, anzi alcune situazioni scadono nel farsesco, tuttavia il clima mostra alcuni momenti discreti.
Seconda (e ultima, non a caso) prova di Barilli dopo Il profumo della signora in nero. In un clima torbido e lugubre da fine del mondo, alcuni personaggi sgradevoli si incontrano in una pensione sulle rive di una lago appenninico (nella realtà è quello di Bracciano). Un film strano, stralunato, dominato da un’aria pesante, mefitica e morbosa. Complessivamente triste e di voluta, ma esasperante, lentezza. Nonostante il titolo, nessuna paura e tanta tanta noia.
Bellissimo “noir” con atmosfere Avatiane di uno dei nostri autori più interessanti degli anni ’70. Meno bello del Profumo della signora in nero e comunque notevole. Barilli ci regala anche tracce di cinema argentiano (i cromatismi virati in blu o rossi accesi, gli scarafaggi nel letto della Fani come i vermi di Suspiria) e addirittura fellinian o (l’ incubo della Fani con gli ospiti della pensione in un gazebo sulla spiaggia). Bellissima poi la fotografia di Gualtiero Manozzi, che conferma il talento pittorico di Barilli. Gioiellino.
Visto in versione integrale questo film che con il tempo, vista l’irreperibilità di tale versione e per alcune foto “baviane” tratte dal film, ha avuto la fama di culto. Molto, molto lento soprattutto all’inizio: poi col passare del tempo c’è un miglioramento, grazie a qualche fatto che pare misterioso, ma non è né giallo né horror né thriller: lo definirei drammatico. La Fani è come al solito brava ma, almeno qui, non è al meglio; bravo Merenda in un look insolito. Perdibilissimo, se non addirittura sconsigliato; delusione parziale, perché già se ne parlava male dall’uscita…
Action
Bruno Martel è un attore con grossi problemi; non riesce ad essere assunto per ruoli decenti nel cinema, cosi decide di accettare l’invito di un produttore per lavorare in un porno film.
L’uomo, che ha una relazione con la bella Ann, vive un privato ugualmente problematico, visto che la moglie lo tradisce.
Sul set del film le cose non vanno meglio; Bruno, offeso dal trattamento riservato alla sua partner cinematografica, fugge dal set accompagnato dalla ragazza, non prima di aver devastato il set.
Durante la rocambolesca fuga, dapprima capita in un immondezzaio nel quale vive una tribù di giovani a metà strada tra il punk e l’emarginato per poi finire in un dormitorio, poi ancora in un bagno turco e infine in un manicomio.
Nell’immondezzaio Bruno viene aggredito, mentre la giovane Doris viene violentata; qui l’attore conosce Garibaldi, un vecchio che ha fatto del letamaio la sua abitazione.
Luc Merenda
I tre riprendono il loro viaggio che li vede alla fine arrivare in un ospedale psichiatrico, dal quale usciranno solo Bruno e Garibaldi, mentre Doris deciderà di suicidarsi.
L’ultima tappa del viaggio vede i due approdare ad una stazione di servizio, gestita da Florence, una donna di mezz’età frustrata che vive con un marito confinato su di una sedia a rotelle, un uomo gretto e malevolo che le rimproverà i continui tradimenti che la donna gli riserva.
Bruno e Florence hanno una breve relazione, interrotta dall’arrivo della polizia che insegue l’uomo…
A distanza di 11 anni da Nerosubianco, Tinto Brass prova a giocare la carta della disarticolazione del film, attraverso una vera e propria destrutturazione dell’impianto narrativo.
Il film è girato ad alta velocità, con scene che ricordano i vecchi film muti di Stan Laurel e Oliver Hardy oppure quelli di Ridolini.
Così in alcuni momenti il ritmo diventa fenetico, in altri ci si perde in immagini surreali che ricordano il citato Nerosubianco e il viaggio di Barbara inseguita dall’uomo di colore.
Il tutto mescolato a forti rimandi al cinema felliniano, del quale Brass tenta di riprendere le metafore risultando alla fine galatticamente lontano dai ropositi iniziali.
Un film che con il cinema sembra avere poco a che spartire: un’aria decadente aleggia su tutta la pellicola, mentre assistiamo allo strano viaggio di Bruno che attraversa un universo costellato di personaggi surrali, a cominciare dai due stravaganti compagni di viaggio per finire con la scena dell’uccisione dell’uomo da parte dei poliziotti che conclude il film lasciandoci con un interrogativo: quello che vediamo è reale oppure è frutto di una recita di Bruno?
Action è un film a tratti sgradevole, a tratti affascinante, a tratti noioso e incomprensibile.
E’ un helzapoppin in cui accade di tutto, inclusa la presenza di Brass nel ruolo di un regista che dirige Bruno e che decide di cacciarlo quando quest’ultimo, inseguito dalla polizia, si esibisce in un assurdo balletto in stile Cantando sotto la pioggia, oppure accade di vedere la giovane attrice Doris costretta ad umiliarsi per compiacere il produttore del film hard, accettando di orinare in un gabinetto mentre viene ripresa dal regista.
La ragazza che sogna l’Amleto di Shakespeare è costretta a fare i conti con la realtà, ed è proprio Bruno a strapparla alla degradazione coinvolgendola in una fuga che culminerà nella violenza di gruppo in un paesaggio quasi lunare, in quel campo sommerso dalle immondizie in cui si muove un gruppo di alienati Punk.
Il film prosegue così verso il finale, che probabilmente è la parte migliore, quella più lineare, in cui assistiamo all’incontro tra Bruno e Florence e contemporaneamente vediamo la moglie di Bruno tradirlo volgarmente, mentre l’astioso marito paralitico di Florence avvisa la polizia della presenza di Bruno.
Raccontato così Action sembra avere quasi una logica, un percorso che è possibile seguire senza grossi problemi.
In realtà così non è, perchè le immagini surreali, meta cinematografiche si sovrappongono ad un ritmo che alla fine crea davvero fastidio nello spettatore, inclso l’utilizzo del turpiloquio mai così presente in un film di Brass.
Ad aggravare le cose c’è la voce chioccia di Luc Merenda che non viene doppiato rendendo il film molto più simile ad una commedia sexy che ad un film con qualche pretesa di dignità.
L’attore recita da dilettante, come richiesto dal regista veneziano, così come volutamente oltre le righe sono tutti i personaggi del film; che alla fine va preso o ripudiato in toto, senza altra possibile alternativa.
Brass smonta il cinema stesso, rendendolo una via di mezzo tra una comica e un qualcosa di completamente opposto, attraverso un linguaggio spesso surreale, spesso triviale, attraverso anche l’utilizzo di una serie industriale di nudi, tra i quali anche quelli integrali di Luc Merenda.
Un film anarchico, volutamente senza capo ne coda, che termina quasi nello stesso modo i cui inizia.
Il surreale viaggio di Bruno avviene davvero o è semplicemente frutto di un copione cinematografico?
Alla fine, le raffiche dei poliziotti mettono fine al suo viaggio o abbiamo solo assistito ad una rappresentazione che sbertuccia i nostri valori e i capisaldo della nostra morale?
Poichè non c’è alcuna risposta a questi quesiti, inutile lambiccarsi il cervello.
La sequenza del bagno liberatorio, protagonisti Adriana Asti e Luc Merenda
Certo, vedere Brass che passa da quest’opera a La chiave lascia davvero perplessi.
La cosa più sorprendente è che il regista veneziano veniva da due opere molto controverse, Salon Kitty e Caligola, che sceglie coscientemente di tornare alle opere degli esordi, quando si era segnalato per la sua originalità e visionarietà.
In Action compare un cast molto variegato: si va da Adriana Asti, che da spessore al personaggio della “benzinaia”
Florence ad Alberto Lupo, che recita sulla sedia a rotelle sulla quale era confinato da tempo in seguito ad un ictus che lo aveva colpito, e che riesce a rendere visivamente odioso il personaggio del marito di Florence.
Brave anche Susanna Javicoli, la svampita Doris che sogna di recitare Shakespeare e che invece finisce nel cast di un film porno e brava Paola Senatore, che interpreta Ann moglie di Bruno.
Spazio al surreale Alberto Sorrentino che sembra un clone del grillo parlante nei panni di Garibaldi e a John Steiner, assistente di Brass regista nella pellicola.
Action, un film di Tinto Brass. Con Alberto Lupo, Adriana Asti, Luc Merenda, John Steiner, Paola Senatore, Alberto Sorrentino, Franco Fabrizi, Eolo Capritti, Tinto Brass, Giancarlo Badessi, Luigi D’Ecclesia, Susanna Javicoli
Drammatico, durata 121 min. – Italia 1980.
Luc Merenda … Bruno Martel
Adriana Asti … Florence
Susanna Javicoli … Doris
Paola Senatore … Ann Shimpton
Alberto Sorrentino … Garibaldi
John Steiner … L’assistente del regista
Alberto Lupo … Joe marito di Florence
Franco Fabrizi … Il produttore del film porno
Regia Tinto Brass
Soggetto Tinto Brass
Sceneggiatura Tinto Brass, Vincenzo Maria Siniscalchi
Casa di produzione Ars Cinematografica
Fotografia Silvano Ippoliti
Montaggio Tinto Brass
Musiche Riccardo Giovanini, Blue Malbeix Band
Scenografia Claudio Cinini
Costumi Jost Jakob
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Viaggio allucinante e delirato; meglio: alterato. La visione del mondo filtrata attraverso la pornografia; il sesso come propulsore alle tensioni (a)razionali dell’essere umano; la purezza (data dall’ingenuità) generata da contesti di nudo onirici e -pertanto che tali- genuini. È un Brass libero dalle briglie, che si permette di apparire (poiché si sente, come di fatto è, Autore) e fare metascrittura. Action è la parodia del cinema che si rivolta su se stesso, che come una spirale inghiotte attori bravi (e belli: Senatore, Merenda) nel vuoto.
Anarcoide e delirante. Sconnesso viaggio meta cinemtografico tra realtà e finzione, pornografia e goliardia, che Brass mette in scena con un provocatorio gusto surreale, onirico, grottesco e ricco di citazioni (da una Londra lurida e suburbana popolata da teppistelli punk che ricorda “Jubilee” di Jarman alla coppia della stazione si servizio di Ossessione). Merenda è autoironico e si doppia da sé; la Senatore e la Javicoli splendide nei loro nudi integrali. E poi un Lupo dall’insulto facile, la Asti, Sorrentino, Fabrizi, Capritti e il “bidiano” Bullo.
All’insegna dell’ “I can’t believe it! ” dal primo all’ultimo fotogramma: che aveva bevuto, mangiato e fumato Brass quel giorno? Quanto stava malissimo da 1 a 2? Talmente squinternato, scombiccherato e scocomerato e sopra/sotto/oltre le righe da essere sublime e da rasentare il capolavoro. L’anello mancante tra Zulaswki in acido e il più sbertucciato Lindsay Anderson. Se si sta al gioco, una goduria e uno spasso assoluti. Di certo l’ultimo Brass considerevole prima della china e in assoluto la cosa più folle che mi sia capitata davanti alle iridi.
Anomalo (ma non per l’epoca) pastiche anarchico di Brass, un grande direttore della fotografia promosso a regista. Che dire: è brutto ma di una bruttezza tutta sua tra velleitarismi e sincera trasgressione, nudità naturale e pornografia, con una trama che sembra costruita giorno per giorno (e forse in parte lo è). Siamo alla fine del sogno di libertà coltivato negli anni 60/70 e questo film nei pregi e difetti anticipa di molto il decennio a venire. Da vedere almeno una volta, con un po’ di pazienza. L’anziano Sorrentino fa il vecchio Garibaldi.
Un film del genere può essere accolto in diversi modi che lo possono fare apparire una vaccata o un capolavoro. Per quello che mi riguarda vale la prima opzione. Brass non mi ha mai detto niente che non fosse la sublimazione del corpo della donna e tutto quello che ne può derivare, dalla poesia più pura all’ultima delle depravazioni. In questo “Action” quello che disturba è che Brass ha voluto tentare il contrabbando di innovazioni e creazioni rubando a man bassa da Kubrick, Fellini, Pasolini, Visconti in un pastiche velleitario e deplorevole.
Difficile giudicare un film del genere, dove i personaggi e le situazioni sono talmente surreali da non riuscire a trovare il bandolo della matassa a fine film. Il tutto diventa una sorta di viaggio allucinante dove si mescolano scene kubrickiane ad un vivace erotismo fatto di nudi integrali e sogni deliranti (un Brass d’altri tempi). Ottimo Merenda, straordinaria la Javicoli.
Delirante e visionario al limite del sublime! Un Brass senza freni che si lascia andare ad un’anarchia assoluta. Anarchia del linguaggio, della sceneggiatura, della messa in scena, insomma l’anarchia che ha contraddistinto il regista in molte delle sue opere (come nEROSubianco o L’urlo). Film che andrebbe visto almeno due volte; personalmente, se alla prima visione sono arrivato a fatica alla fine, la seconda volta l’ho trovato delizioso.
Veramente molto interessante questo esperimento di meta-cinema di Tinto Brass in cui l’autore, oltre alle solite scene di nudo, riesce anche a fare un discorso sul cinema e sulla realtà, sulla rappresentazione e sulla percezione. Un film molto sperimentale che mescola cinema di genere (il porno con il gangster-movie) a quello autoriale con echi della New Hollywood anni 70.
Miele di donna
Una giovane donna attraversa la città assolata, sale sulla sua Golf cabriolet e si ferma davanti ad una villa elegante; l’insegna sulla porta ci informa che si tratta della Chirone editrice.
La donna suona e ad aprire arriva un signore elegante, l’editore Chirone. La donna estrae una pistola e obbliga l’uomo ad entrare in casa; poi, dopo aver chiuso ermeticamente tutte le finestre,costringe l’uomo a sedersi e gli porge un manoscritto, costringendo Chirone a leggerlo a voce alta.
Il manoscritto racconta le vicende di Anny, una giovane all’apparenza candida, che giunge nella pensione Desiderio proveniente da un posto non citato.
All’interno della pensione è accolta dalla procace proprietaria, che la mette a suo agio.
Poco alla volta Anny fa conoscenza con le strane, sopratutto stravaganti persone che sono pensionate nella struttura; si parte da Ines, una giovane governante maltrattata dalla proprietaria (scopriremo poi che è sua sorella), per passare ad uno strano e elegante maestro di ballo, passando per un affascinante sconosciuto che abita una stanza perennemente immersa nel buio nella quale non fa altro che esercitarsi nel coltivare la migliore forma fisica, per finire con una strana donna vestita come una dark lady che in seguito si rivelerà essere una donna dominante con velleità sadiche.
La ragazza, alla fine, scoprirà la sessualità grazie al misterioso culturista.
Di colpo tutto si interrompe, e si scopre che quello di Anny era solo un sogno.
Non solo; la scrittrice con la pistola non ha minacciato l’editore casualmente.
Lei è la compagna (o forse la moglie, il film non lo spiega) dell’editore; i due in pratica hanno creato un nuovo gioco delle parti per rivitalizzare il loro rapporto.
Letta così, la sceneggiatura sembra semplice e lineare, anche se un pochino sempliciotta.
In pratica le cose stanno diversamente, perchè dopo abbondanti 15 minuti, passati tra le schermaglie che intercorrono tra l’editore e la scrittrice, ci troviamo proiettati in un film quasi incomprensibile nelle sue vere motivazioni.
Il percorso di Anny, che sembrerebbe un percorso iniziatico, propedeutico a qualcosa di indefinito, si trasforma in un incomprensibile vagabondare tra le stanze della pensione Desiderio, in cui vive gente che si muove come in sogno, senza motivazioni e senza passato. Chi è la proprietaria della pensione, cosa fa effettivamente nella stessa? Perchè maltratta sua sorella, che relazioni ci sono tra i vari avventori? Ma la domanda principale resta una: chi è Anny, da dove viene, qual’è il suo passato?
Domande che potrebbero non avere un senso qualora l’intento del regista, Gianfranco Angelucci sia stato quello di raccontare con l’ausilio di una storia blandamente erotica, che ricorda alla lontana l’iniziazione erotica di O, la protagonista di Histoire d’O, un percorso similare fatto dalla ingenua Anny all’interno della pensione Desiderio.
In questo caso il film non centra nessuno dei suoi obiettivi, trasformandosi in una noiosissima storia senza capo ne coda usata come pretesto per giustificare la storia esistente tra i due veri protagonisti, l’editore e la scrittrice, che forse usano la stessa per tenere sveglio il loro legame.
Qualunque sia l’intento di Gianfranco Angelucci, il film, nonostante un gran cast, si rivela soporifero oltre ogni limite consentito; i personaggi, che sembrano muoversi senza alcuna motivazione di fondo, finiscono per perdere di interesse con conseguente trasformazione in tedio da parte dello spettatore.
Eppure il cast è di prim’ordine; a partire da Fernando Rey, l’editore, per proseguire poi con Catherine Spaak, la scrittrice, con Clio Goldsmith, la bella Anny, con Donatella Damiani, dalle forme sovrabbondanti eppure esposte con insolita sobrietà, da Adriana Russo, che è Ines per finire con la solita bella e affascinante
Susan Scott o Nieves Navarro che si voglia e con Luc Merenda, il misterioso pensionante con la fissa del fisico perfetto.
Un cast assolutamente sprecato, quindi, in un film totalmente inespresso in qualsiasi ottica lo si voglia vedere, fatte salve le belle immagini della Goldsmith nature, che da sole valgono la metà del prezzo del biglietto.
Ma solo la metà, però.
Miele di donna, un film di Gianfranco Angelucci. Con Catherine Spaak, Fernando Rey, Clio Goldsmith, Luc Merenda, Adriana Russo, Lino Troisi, Donatella Damiani
Drammatico, durata 91 min. – Italia 1981.
Clio Goldsmith: Annie
Catherine Spaak: scrittrice
Donatella Damiani: padrona della pensione
Fernando Rey: editore
Luc Merenda: uomo della stanza
Adriana Russo: Ines
Lino Troisi: pensionato
Regia Gianfranco Angelucci
Soggetto Gianfranco Angelucci, Liliana Betti
Sceneggiatura Gianfranco Angelucci, Liliana Betti, Eligio Herrera
Casa di produzione Vogue Film
Fotografia Jaime Deu Casas
Montaggio Roberto Perpignani
Musiche Riz Ortolani